Sono gli ultimi giorni d’agosto e se non sono le vacanze (c’è la crisi, chi è che va più in vacanza?) è il caldo che ci pensa. In ogni caso per Roma è una tregua. O almeno sembra…
Cammino per i marciapiedi vuoti cercando un punto di riferimento diverso dalle cicche spiaccicate, uniche testimoni di qualcosa che pure deve esserci stato, qualcosa che abbiamo sempre chiamato “vita”.
Faccio il giro dell’isolato – i bar sono chiusi, i parcheggi vuoti – e lo penso sul serio: “E se fossero tutti morti?”.
Il tempo di svoltare l’angolo. Poi, con le gambe larghe, la bocca spalancata e un paio di occhiali con le lenti scure, un vecchio se ne sta immobile in mezzo alla strada. Forse vuole attraversare e il silenzio assoluto che si respira nel quartiere gli ha portato via qualunque punto di riferimento, rendendolo incapace di agire e di pensare. Sui pantaloni marroni, una chiazza scura gli si arrampica sulle gambe per andare a formare un lago all’altezza dell’inguine. Non saprei come aiutarlo e vado avanti: “No, non sono tutti morti. Non ancora…”.
In realtà, proprio come il vecchio, neppure io so bene cosa fare: l’edicola – dice un cartello giallo – riaprirà il primo di settembre; inutile pensare di arrivare al parco per leggere il giornale: “Nel mare di Sicilia”, ci avrei trovato scritto, “quattromila persone stipate su tre barconi alla deriva sono state tratte in salvo dalla guardia costiera. Mentre i profughi saranno ospitati in strutture di prima accoglienza, si procede con la schedatura…”.
Immagino l’inchiostro sui polpastrelli di uomini, donne, bambini. Gli stessi che alla frontiera con la Macedonia, intanto, vengono manganellati a sangue, inseguiti per i campi, respinti a forza di gas lacrimogeni…
Con le mani in tasca, assorto in simili pensieri, torno alla realtà per colpa di un cicalino: un suono inconfondibile che mi allerta e mi scuote, nemmeno fossi una cazzo di gazzella che nella savana sente la puzza del leone sottovento.
Il cicalino suona ancora, mi volto e la vedo. La volante della polizia che procede a passo d’uomo, i finestrini aperti e la radio sintonizzata sulle frequenze riservate. Dentro, come è d’uso, ci sono due agenti, impegnati a scrutare i muri in cerca evidentemente di qualche indizio. Ma certo. La targa con il nome della via: impressa nero su marmo ed esposta in bella vista. Via chissenefrega numero qualchecosa. Gli uomini in divisa la vedono, quindi accostano, parcheggiano e scendono. Evidentemente sono arrivati dove volevano essere: in via chissenefrega, appunto. Dove ci sarà chi hanno ricevuto l’ordine di controllare mentre, con le mani distese lungo i fianchi, molto vicino al posto in cui portano appesa la pistola, ancheggiano nel caldo che, rimbombando sull’asfalto, alle guardie non deve fargli per niente bene dentro la testa.
Le caserme, gli ospedali, i tribunali e tutti quelli che ci girano intorno, si sa, non hanno mai promesso niente di buono… ma sperando sempre di averci a che fare il meno possibile nella vita, per quale motivo simili individui hanno pure il mio indirizzo?
Via chissenefrega numero qualchecosa… ma io già lo so dove abito, perché allora dovrebbe essere così facile rintracciarmi?
Nervoso, aumento l’andatura. Incerto se tornare a casa o continuare a camminare finché la strada non sia costretta a lasciare un po’ di spazio ai campi. Come accade sul confine tra Grecia e Macedonia, dove il potere di lasciare vivere o fare morire è affidato a uomini in divisa uguali a quelli che ho appena incontrato. Certamente rispetto alla città in cui vivo da quelle parti le cose sono molto più pericolose e quindi giù botte. La polizia è sempre più nervosa se ha a che fare con gente che non è stata ancora costretta a subire la pratica della schedatura di massa. Per tutti gli altri c’è sempre un indirizzo e magari persino un nome sulla cassetta delle lettere, quindi perché preoccuparsi? Non abitate anche voi in via chissenefrega numero qualchecosa?
Quando lo vorranno sapranno benissimo dove venirvi a cercare.