Con il titolo originale di Princìpi del comunismo (Grundsätze des Kommunismus), Il libretto rosso dei comunisti venne scritto da Friedrich Engels nel novembre del 1847 nell’ambito di un’occasione molto particolare. Si trattava, alla vigilia di un importante appuntamento congressuale, di esporre in modo chiaro e conciso i punti programmatici che avrebbero animato la neonata Lega dei Comunisti.
Questa organizzazione, fondata grazie al contributo determinante dello stesso Engels, nasceva dalle ceneri e raccoglieva l’eredità di un altro gruppo politico: la Lega dei Giusti; frazione radicale e scissionista della franco-tedesca Lega dei Proscritti – di cui riprendeva l’impronta massonico-cospirativa tipica delle società segrete di matrice carbonara – e attiva fin dal 1836 insieme a un portato ideologico fortemente influenzato dal socialismo utopistico di pensatori come Françoise-Noël Babeuf (1760-1797), Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825), Charles Fourier (1772-1837) e Louis-Auguste Blanqui (1805-1881).
A raccontare le vicende del passaggio di consegne tra la Lega dei Giusti e la Lega dei Comunisti, di fondamentale importanza per il futuro del movimento operaio, ci penserà lo stesso Friedrich Engels nel suo Per la storia della Lega dei Comunisti (1895). In questo contesto sarà sufficiente notare come le differenze tra la nuova e la vecchia Lega siano interamente riassunte dai rispettivi motti. Perché là dove la Lega dei Giusti proclamava «tutti gli uomini sono fratelli», la Lega dei Comunisti avrebbe risposto con «proletari di tutti i paesi unitevi». L’impronta marx-engelsiana in una simile transizione, ancora una volta, è decisiva. Perché la «fratellanza» dei Giusti, pur essendo un sentimento bellissimo, tradisce un’origine paternalista e utopista che Marx ed Engels, nel loro percorso politico e intellettuale, combattono con una forza – quasi con una ferocia – seconda soltanto all’energia che i due studiosi, amici e compagni spirituali riversano contro le storture della società contemporanea prodotte dalla mostruosità del capitale.
Per tornare a Il libretto rosso dei Comunisti alias Princìpi del comunismo, nel 1847, in relativa solitudine dati gli impegni che in quel momento attanagliavano Marx, Engels si trovò a fronteggiare i pericoli del socialismo utopistico in seno alla stessa Lega dei Comunisti. Il nemico, nella fattispecie, era uno scritto preparato per la Lega e firmato da Moses Hess (1812-1875) con il titolo Professione di fede, un lavoro completamente appiattito su posizioni utopistico-radicali, un’impostazione duramente osteggiata da Marx ed Engels.
Dopo aver distrutto, però, arriva il momento di costruire. Ed Engels, incalzato da una fretta tremenda, temendo l’iniziativa di altri membri della Lega e sollecitato dalla sua presidenza, butta giù in una manciata di giorni il sospirato Princìpi del comunismo. A livello formale, la velocità della composizione spiega alcune caratteristiche del testo. Al di là della scelta vincente di organizzare la narrazione attraverso la tecnica della domanda e della risposta, lo stile febbrile e incalzante, la parziale incompiutezza (l’autore non risponde ad alcune domande da lui stesso formulate) e la grande semplicità stilistica hanno senz’altro a che fare con il pochissimo tempo a disposizione. Ma, parafrasando ciò che fu detto a proposito dello sbarco sulla Luna, quello che fu un piccolo passo per l’autore fu un balzo gigante per il movimento operaio. Perché la velocità, il dono della sintesi e la semplicità stilistica sono in realtà i veri punti di forza dei Princìpi del comunismo: un piccolo libro accessibile a tutti e in grado di spiegare a tutti con chiarezza il punto di vista comunista sull’organizzazione sociale, l’evoluzione della lotta di classe e l’economia. E poi perché, impugnando la penna, Engels compie una scelta decisiva, superando l’impostazione esoterico-religiosa delle «professioni di fede» caratteristiche delle società segrete per incanalare il suo testo nell’alveo della nuova tradizione del «manifesto», inteso come documento politico e programmatico dai tempi immediatamente successivi alla rivoluzione francese, quando Françoise-Noël Babeuf e Filippo Buonarroti (1761-1837), nel tentativo di invertire il corso borghese e liberale della stessa, capitanarono la celebre Congiura degli Uguali firmando un atto insurrezionale di rara potenza espressiva, invocando l’abolizione della proprietà privata e raccogliendo, nel futuro, il plauso degli stessi Marx ed Engels.
Una volta compiuta, da Engels, una simile scelta stilistica, i Princìpi del comunismo erano pronti a soddisfare le esigenze della Lega, ma, soprattutto, a costituire la piattaforma sulla quale la prosa di Marx si sarebbe potuta fondere con quella dell’amico per dare vita, nel 1848, a Il manifesto del Partito comunista: con ogni probabilità il pamphlet più letto di tutti i tempi, senz’altro il libro che più di ogni altro ha saputo imprimere una svolta al mondo contemporaneo, arrivando a sconvolgerne la geopolitica, ma anche copia – arricchita nei contenuti e nell’espressività – di quanto già forgiato da Engels nei pur meno noti Princìpi. Per questa ragione, se non c’è dubbio che al Manifesto di Marx ed Engels spetti di diritto il titolo di capolavoro, le parole con le quali Engels per primo ha invitato a considerare il suo apporto teorico come quello di un «secondo violino» all’interno della grande orchestra marxiana, vanno quanto meno rivisitate. E il ruolo di Engels – la sua figura, i suoi libri, le sue intuizioni e la sua personalità di studioso e di militante politico – ampiamente rivalutato. È da questa considerazione, in fondo, che nasce la scelta di ribattezzare Il libretto rosso dei Comunisti ciò che, nato con il nome di Princìpi del Comunismo, è andato incontro, se non all’oblio, a una sorte comunque paradossale. La sorte di essere un testo disponibile al giorno d’oggi soltanto nell’ambito di particolari «cittadelle» non troppo diverse da quelle «società segrete» che Engels aveva provveduto a scardinare. Torri d’avorio di tipo accademico in grado di discettare sui Princìpi del Comunismo solo nell’ambito di voluminosi tomi con la copertina seria e grigia, trasudanti noia e pedanteria. Edizioni che, dall’alto dei loro dottissimi apparti bibliografici e introduttivi, a tutto invitano tranne che a riscoprire Friedrich Engels insieme alla carica umana e rivoluzionaria di un pensiero dedicato a una nuova consapevolezza: quella che porta a concludere come nulla, né le ideologie dominanti, né i rapporti sociali vigenti, sia talmente forte da non poter mai essere cambiato.
Engels è stato un instancabile apostolo del cambiamento possibile. E dietro le idee, sue e di Marx, sull’abolizione della proprietà privata e sulla socializzazione dei mezzi di produzione, non c’è mai il peso dell’astratta speculazione intellettuale, ma sempre la materia, viva e pulsante, di una ricerca condotta in prima persona.
Engels, in modo particolare, aveva esplorato a fondo quel «lato oscuro della storia» in cui la prima rivoluzione industriale aveva relegato la nuova classe operaia. Un viaggio doloroso e spietatamente sincero raccontato in due libri di rara bellezza come Lettere dal Wuppertal (1839) e La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845): opere che, anticipando il lavoro di ricerca degli antropologi urbani, fanno di Engels il padre nobile del genere adesso in voga del reportage narrativo.
Ma Engels era anche tante altre cose. Studioso rigoroso, sapeva anche badare agli affari, ricavandone ciò che servì a supportare Karl Marx e la sua famiglia in anni di persecuzioni e difficoltà. Poeta per inclinazione naturale, fu un egregio conoscitore dell’arte militare, guadagnandosi sul campo delle sommosse europee il sopranome di «Generale». Grande giornalista, riuscì a estendere i suoi interessi ad ambiti del sapere estremamente variegati, passando dall’economia politica all’etnologia con un’attitudine che non sarebbe esagerato definire «rinascimentale». Amico esemplare, si dimostrò anche in grado di godersi la vita nei momenti giusti… che non sia stato proprio lui il modello per quella figura di «uomo nuovo» su cui il comunismo – annunciando un’era di generale emancipazione – ha insistito tanto?
Per cercare di rispondere a questa domanda, il format de Il libretto rosso si rivela ideale. Ispirandosi a quanto, editorialmente parlando, fece Lin Biao (1907-1971), leader militare e politico del Partito comunista cinese, compilando quella raccolta di citazioni del presidente divenuta celeberrima in occidente grazie al titolo Il libretto rosso di Mao (1966), i titoli pubblicati nella collana “I libretti rossi” intendono offrire uno strumento di avvicinamento alle grandi personalità e/o avvenimenti legati alla storia della sinistra, affinché questa storia non resti appannaggio degli intellettuali ma, con un atteggiamento che è il contrario della supina accettazione di testi un tempo considerati «sacri», torni alla memoria collettiva insieme ai suoi grandi spunti di riflessione, il suo incessante invito all’azione e insieme alla sua bellezza.
Nel tentativo di rispettare questo orientamento, Il libretto rosso dei Comunisti si chiude lasciando la parola a Vladimir Lenin, l’artefice della rivoluzione d’Ottobre, ma anche estensore – tra le mille altre cose – di un appassionante profilo biografico dedicato alla vita e all’opera di Friedrich Engels scritto, all’indomani della morte del filosofo (1895), per una pubblicazione destinata ai lavoratori sovietici. Un’altra ragione per cui, alla resa dei conti, vale la pena di mettere le mani sul vecchio ma attualissimo Engels, scegliendo di intitolare Il libretto rosso dei Comunisti proprio così.