Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte

LA MORTE DI STEFANO CUCCHI E LE ALTRE VITTIME DELLA LEGALITÀ IN ITALIA

Prendiamo un parlamentare come Carlo Giovanardi. Mettiamogli addosso quell’aria tipica di chi ha sempre impugnato il potere dalla parte del manico e riempiamogli la pancia con lo stesso ventre oscuro che, nel governo delle larghe intese di Matteo Renzi e del suo inquietante «Partito della Nazione», già «democratico», continua imperterrito a rappresentare.

Prendiamo un simile individuo e mostriamogli le fotografie di Stefano Cucchi, arrestato a Roma il 15 ottobre del 2009, tradotto in carcere e mai più uscito vivo. Mettiamo davanti ai suoi occhi il corpo di un Cristo-giovinetto, ridotto a uno scheletro di 37 chili. Ebbene, quelle stesse immagini, capaci di accendere di rabbia chiunque possa semplicemente dirsi «umano» in virtù della capacità di provare solidarietà, passando attraverso le lenti deformanti inforcate dall’ex democristiano e forzaitaliota diventano un giudizio senza appello: «Cucchi?», sentenzia Giovanardi, «è morto perché drogato» (cfr. «la Repubblica» del 9 novembre 2009)

Non sono mancate le persone perbene che, ascoltando simili bestemmie, hanno accusato il politico di infamità e sciacallaggio. Eppure il ragionamento di Giovanardi merita un’attenzione diversa, di tipo filosofico e morale. Ciò che Giovanardi opera, infatti, mentre definisce Stefano Cucchi «drogato», non ha soltanto a che fare con l’intorbidamento delle acque in cui la vicenda del giovane geometra nuota a livello processuale, né semplicemente con gli insulti necessari a processare e a condannare la vittima anziché i suoi assassini. Giovanardi, in modo cosciente e reiterato, opera un preciso atto di despecificazione: esclude, cioè, Stefano Cucchi e «quelli come lui» dalla comunità in cui sono inseriti, negando persino ai più elementari diritti umani di avere un qualche valore nei rapporti che la società «civile» intrattiene o è costretta a intrattenere con i soggetti despecificati.

Quando Giovanardi esclama «drogato», in sostanza, smette di parlare di Stefano Cucchi come di un ragazzo di Roma Est, amante del pugilato e con qualche problema di tossicodipendenza alle spalle, smette di pensare a una persona in carne, ossa, passioni e pulsioni, ma inizia a riferirsi a Cucchi quasi fosse un oggetto, un essere non pensante, una semplice cosa giunta chissà come a turbare una certa visione dell’ordine costituito e, per questo, meritevole di essere eliminata alla stregua di spazzatura.

Da qui, ovviamente, discende l’esplicito plauso di Giovanardi agli agenti, ai giudici e agli operatori sanitari responsabili del caso Cucchi, un piccolo esercito istituzionale che, al culmine di cinque anni d’indagini, dibattimenti e processi non può che cogliere i frutti della despecificazione di Stefano grazie a una sentenza che non lascia spazio al dubbio: tutti assolti; la morte del ragazzo di Tor Pignattara non è un omicidio, ma fa semplicemente parte dell’ordine naturale delle cose.

L’«ordine» e le «cose», d’altro canto, sono gli ingredienti immancabili di ogni processo di despecificazione: una sorta di cancro molto più esteso di quanto non faccia immaginare la sola, terrificante storia di Stefano Cucchi. Come si è difeso, per esempio, l’agente ripreso dalle videocamere a scalciare e a calpestare una ragazza inerme, «colpevole» di aver partecipato alla manifestazione indetta a Roma dai movimenti contro la precarietà e l’austerità il 12 aprile del 2014?

Le sue parole, pronunciate con il tono più ingenuo del mondo, saranno ancora nella memoria di tutti: «Credevo fosse uno zainetto» (cfr. «Corriere della sera» del 15 aprile 2014)

Questo affermò l’agente, ennesimo frutto dell’identico processo di despecificazione in grado di colpire un ragazzo di strada come Stefano alla stessa maniera con cui sono colpiti, e talvolta anche uccisi (un esempio per tutti: Carlo Giuliani) i militanti di un’opposizione sociale ormai completamente impossibilitata a riconoscersi, o a maggior ragione a delegare il proprio dissenso, a vecchie strutture politiche e/o sindacali, tutte ormai ricomprese in quel «Partito della Nazione» dove trovano spazio i presunti «democratici» renziani in compagnia dei Giovanardi di turno. Un assetto di potere che ricorre sistematicamente all’arma della despecificazione, costruendo il risultato ultimo della propria propaganda, cioè l’espulsione dei soggetti despecificati dal consesso civile, attraverso la programmazione di una serie di tappe intermedie, e precisamente: 1) individuazione dei folk devil, vale a dire dei «devianti» o presunti tali da utilizzare a mo’ di capro espiatorio a fronte dell’inasprarsi delle tensioni sociali e delle relative contraddizioni del sistema; 2) sistematica campagna diffamatoria ai loro danni; 3) varo di apposite leggi speciali, «utili» a fronteggiare un’emergenza che, alla resa dei conti, non passerà mai; 4) imposizione di una «legalità» utilizzata a mo’ di lista di proscrizione, un invito aperto alla repressione generalizzata del fenomeno preso di mira.

Per comprendere meglio questo percorso, si può senz’altro tornare sullo scandaloso caso Cucchi. La categoria di «devianza» utilizzata per giustificare l’omicidio di Stefano è quella di «drogato»; la campagna capace di scatenare la paura sociale non sulla droga in generale, ma sul contatto con la categoria di persone definibili tali al di là di ogni corrispondenza con un dato reale, è incessante; il semplice sospetto di possedere droga autorizza gli ufficiali di polizia giudiziaria a procedere con perquisizioni derogando dalla necessità di richiedere la relativa autorizzazione al magistrato ed eludendo in tutta tranquillità quello che dovrebbe essere un diritto costituzionale garantito a ogni cittadino.

Questa, nella fattispecie, è la legge speciale (cfr. Dpr 309/1990) responsabile della morte violenta di Stefano Cucchi. Ma è anche la strada imboccata sempre più spesso da un governo, quello del «Partito della Nazione», e da un intero sistema di potere, che continua a spacciare l’eccezionalità come norma, sospendendo il Diritto all’interno di ambiti sempre più estesi di vita pubblica e, in ultima analisi, riducendo masse di uomini e donne «a nuda vita», vale a dire, come nei campi di sterminio nazisti, completamente in balia dello sbirro di turno.

L’affermazione è forte?

Bisognerebbe chiederlo a Patrizia Moretti e parlare del barbaro assassinio di suo figlio, Federico Aldrovandi, assassinato a Ferrara da quattro agenti di polizia il 25 settembre 2005. Giovanardi ebbe modo di esprimersi anche sul corpo martoriato di Federico e anche in questo caso difendendo a oltranza gli agenti, coinvolti, secondo lui, una «fatalità» (cfr. «Il fatto quotidiano» del 26 settembre 2013). Mentre il Coisp, sindacato di polizia, ha avvertito in maniera talmente forte il clima di impunità che circonda le vittime della legalità da arrivare a importunare Patrizia Moretti sul suo posto di lavoro, senza che la cosa si concludesse con reali ripercussioni sulla carriera degli indegni capaci di tanto. Una sorta di nuova abitudine, quella inaugurata dal Coisp, subito adottata da altre sigle sindacali di polizia. Come il Sap, immediatamente pronto a festeggiare l’assoluzione degli indagati per l’assassinio di Cucchi come se si trattasse di un gol allo stadio e non della morte di un ragazzo. O come il Sappe, organizzazione degli agenti di polizia penitenziaria, che non appagata dalla sentenza di assoluzione arriva a querelare Ilaria Cucchi, sorella di Stefano.

D’altronde questa è la strada a cui porta la despecificazione. Gli assassini di Aldrovandi, se è per questo, avevano anche provato a giustificarsi sostenendo che Federico «sembrava un albanese» (cfr. «Il fatto quotidiano» del 9 novembre 2009). E quella dei migranti è un’altra, grande categoria di folk devil: demoni talmente spaventosi da generare, in tema di leggi speciali, quell’abominio che sono i moderni campi di concentramento detti CIE, per la prima volta dai tempi della Germania nazista luoghi in cui si può essere imprigionati non a causa di un reato effettivamente commesso, ma in virtù di una problematica burocratica inerente la regolarità dei propri documenti. I giornalisti delle testate più importanti, naturalmente, di fronte a tutto questo non perdono certo l’occasione per accaparrarsi la propria parte di vergogna e puntualmente, in cronaca nera, sottolineano sempre la nazionalità di chi ha commesso un delitto se il colpevole è un migrante. Ma è un effetto della globalizzazione. Prima i giornalisti si affannavano a specificare «calabresi» o «napoletani», ora ci si è allargati a «albanesi», «rumeni» o, magari, «senegalesi», come Chehari Behari Diouf, residente a Civitavecchia e freddato con una fucilata da un ispettore di polizia il 31 gennaio del 2009 al termine di un banale diverbio (cfr. «la Repubblica» del 1 febbraio 2009).

Gli esempi potrebbero sprecarsi e riempire un intero libro nero della polizia italiana. A tessere le fila insanguinate di questo discorso, da qualche tempo a questa parte, ci prova l’Associazione Contro gli Abusi in Divisa (Acad): una onlus organizzata dal basso e completamente indipendente forte di un numero verde (800 588605) a cui rivolgersi per trovare un sostegno legale e una possibilità di ascolto in caso di incontri troppo ravvicinati con appartenenti alle forze dell’ordine. Sono moltissimi i casi di vittime di abusi in divisa denunciati e sostenuti da Acad nel nome della verità e della giustizia. Ma il problema, come sempre, è politico, non certo di «ordine pubblico». Prendiamo il caso della persecuzione ai danni degli ultrà per esempio, una delle ultime forme resistenti e non omologate di aggregazione di massa. L’«ordine pubblico», in questo caso, ha consentito il varo, nell’indifferenza generale, di provvedimenti liberticidi come la «tessera del tifoso» o come l’estensione della flagranza di reato fino a quarantotto ore (!!!) dopo aver commesso i fatti contestati. Resta poco da stupirsi, allora, se quando ci scappa il morto questo sia proprio un tifoso di calcio, come Gabriele Sandri, assassinato lungo l’autostrada l’11 novembre del 2007. Chi prenderà mai le parti di un tifoso di calcio? Chi, di fronte alla diffamazione sistematica che colpisce la «teppa» dello stadio, non penserà che uno come Sandri, in fondo, non se la sia cercata?

I giudici, questo è evidente, non fanno parte delle eccezioni. Così quando i casi di vittime della legalità arrivano in tribunale i loro assassini o se la cavano o, comunque, finiscono per incassare condanne ai limiti del simbolico. Viceversa, le categorie demonizzate risultano permeabili e, con la loro indeterminatezza, hanno la tendenza a investire il corpo sociale nel suo complesso. Per questa ragione un ragazzo come Federico Aldrovandi ha potuto trovare la morte incrociando contemporaneamente la categoria di «drogato» e quella di «migrante»: perché i folk devil non finiscono mai negli archivi della storia, ma continuano a subire gli effetti della demonizzazione a cui sono sottoposti sovrapponendosi gli uni agli altri e, allo stesso modo, le leggi speciali che il loro allarme ha generato non finiscono mai per essere abrogate. La famigerata «Legge Reale», per esempio, in vigore dal 1975, continua a giustificare uno stato di eccezionalità risalente agli anni di piombo, colpendo indistintamente tutti i cittadini: basti pensare che, fino al 1989, sono stati conteggiati in 625 i casi di ferimenti e uccisioni direttamente connessi con la normativa in questione (cfr. 625. Libro bianco sulla Legge Reale, a cura del Centro di iniziativa Luca Rossi). Non che questo sia servito a invertire la rotta. Diventa materia di questi giorni l’accanimento con cui il governo Renzi continua a colpire l’opposizione sociale. Il caso più eclatante riguarda la persecuzione dei movimenti per il diritto all’abitare, investiti da un’apposita «Legge Lupi» che, tra le altre cose, con l’articolo 5, intima il divieto non soltanto di allacciare utenze vitali come luce e acqua, ma anche di prendere la residenza in stabili occupati. Sulla stampa, anche in questo caso, non trovano spazio le violazioni dei diritti umani insite nella normativa (migliaia di famiglie esposte alla possibilità di ritrovarsi senza acqua e luce) o i dubbi d’incostituzionalità del provvedimento (senza residenza diventa complesso o impossibile usufruire di cure mediche o iscrivere i bambini a scuola) né, ci mancherebbe altro, si fa mai cenno ai limiti che pure lo stesso diritto italiano pone alla proprietà privata nel momento in cui questa si oppone agli interessi generali (cfr. Art. 42 della Costituzione). Sui media mainstream, al contrario, trova spazio una serrata campagna contro le occupazioni abitative, e poco importa se si tratta di stabili abbandonati, vuoti, sottratti al degrado e alla speculazione: chi si mette in gioco in una prospettiva di cambiamento dell’esistente viene criminalizzato e trattato di conseguenza, incassando manganellate alla stregua di uno «zainetto» e/o condanne esemplari in sede processuale. La situazione, se non fosse drammatica, potrebbe anche essere considerata ironica. Se infatti si volesse rispondere con i fatti alla domanda su quale è stato, dagli anni Novanta fino ai giorni nostri, il gruppo responsabile dei delitti più gravi in Italia sarebbe molto difficile tirare in ballo drogati, militanti politici, migranti o tifosi di calcio ma si sarebbe costretti a parlare della «Uno Bianca», una banda completamente composta da poliziotti. Ai tempi, girava anche uno slogan: «La polizia italiana / non è mai stanca», recitava, «il giorno manganelli / la notte Uno Bianca». Sarebbe il caso di ricordarlo più spesso, questo slogan. Per iniziare a denunciare tutti i limiti e i pericoli insiti nel concetto di «legalità» e per capire come, quando la polizia è dappertutto, la giustizia finisca per non essere più da nessuna parte.

a.cucchi-cover_defCristiano Armati, Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte. La morte di Stefano Cucchi e le altre vittime della legalità in Italia, in Luca Moretti – Toni Bruno, Non mi uccise la morte. La storia di Stefano Cucchi, assassinato due volte dallo Stato italiano, Castelvecchi, 2014 (nuova edizione)