Poverino

La mattina ho gli occhi chiusi come i gatti appena nati. E ho la barba lunga anche se sono appena stato dal barbiere. Tutt’intorno, i rubinetti gocciolano. E l’aria sembra sia appestata dal cadavere di un cane morto, nascosto da qualche parte, sotto il letto. La prima macchinetta di caffè si risolve in una bestemmia quando, sul fuoco, ci finisce senz’acqua. E per andare al bar è tardi, vicino casa nemmeno in doppia fila c’è posto.
Lo schienale della macchina – qualche ubriaco, di notte, ha urtato lo specchietto che adesso pende sul lato del guidatore come un braccio spezzato – mi fa sentire sulla schiena una chiazza di sudore, sempre più grande, sempre più grande. E la gente che mi circonda è come me, rinchiusa in un rancore che nasce da qualche parte ma che ormai è divento un’abitudine sorda: il bisogno impellente di imprecare, di stringersi dentro uno sguardo torvo, di morire a poco a poco, salutando con il clacson che lacera i timpani la sentenza con cui, tutte le mattine, si monta in macchina per andare a lavorare.
Fantasie di morte per la signora che si piega le ciglia al centro della carreggiata e l’uomo grasso e brutto, con le dita infilate nel naso come per cercare un’illuminazione. Bestemmie per chi tiene alti i giri del motore con la pretesa di infilarsi nel varco lasciato libero da un autobus in manovra. Atroci sofferenza anche per i bambini, incolonnati con la grazia della carne in scatola davanti ai cancelli della scuola. Incubi per l’orologio che, all’incrocio tra via dell’Acqua Fredda e la complanare che porta alla Pisana, sentenzia un ritardo impossibile da recuperare: merda; il sole rimbalza sull’asfalto e mi ferisce. Il desiderio fugge strisciando nelle cunette pur di non sedermi accanto. Le ascelle, irritate, mi bruciano e i sedili in finta pelle della mia macchina non mi consolano: il semaforo è rosso. Mi fermo. E la vedo. Fa caldo ma lei non suda. Solo la sua pelle, scura, sembra diventare più morbida mentre si porta un ragazzino al seno. Le macchine finalmente stanno zitte. Lei, allegra, le accosta tendendo la mano. Io l’aspettavo: mi costa un euro ogni giorno farmi spiegare la vita. Quando arriva il mio turno, Lei mi dice soltanto: «Domani parto».
«E dove vai?»
«A casa, in Bosnia. Mi faccio un po’ di vacanze, ritorno tra due mesi».
Le porgo la mia moneta, adesso anche io sorrido.
«E tu, quand’è che vai in vacanza?», mi chiede.
Io non vado in vacanza. Ad agosto mi chiudo dentro casa, sudo e scrivo: «Io devo lavorare, per me niente vacanze».
Lei si stringe nelle spalle: «Ma dai». Poi mi carezza la guancia e, sulla mia condizione, riflette: «Poverino…».
Il semaforo è verde e qualcuno, da dietro, riprende a suonare. Metto la prima e lei resta lì: avanzo e la saluto con gli occhi.
Affondo il piede sull’acceleratore e ci metto pochi secondi a superare i cento all’ora. Guardo il contachilometri salire mentre mi lancio in un sorpasso a destra. Poi anche io lo penso.
«Poverino…».

Quando l’uomo bianco è perplesso

Lo zenzero, contorto, aspettava affastellato alla rinfusa. Faceva compagnia a porri giganteschi, dal sapore forte e di color verde scuro. Le patate dolci erano impilate dentro cassette di legno, venivano dall’India, il paese di Indira.
Di Indira mi piacevano i vestiti: velluti dorati sulla pelle scura e, sull’ombellico, un anello d’argento e pietre dure. Lei l’avevo conosciuta camminando: la via Appia per piazza San Giovanni, poi su, attraverso Piazza Santa Croce fino a Piazza Vittorio, tra i banchi del mercato, sotto al sole. L’uomo del pesce dava ai gatti quello che gli era rimasto: branchie, fegatelli, squame, tante spine, un carapace vuoto di granchio. Indira stava là, poi mi avrebbe svelato di essere capace di capire il sesso dei gattini dallo sguardo.
Io, Indira, la guardo negli occhi: lei, ferma con le buste della spesa tra le mani; più tardi sarei rimasto incantato nel vederla cucinare. Sono io che le porto le buste della spesa su per le scale del palazzo con i soffitti alti e le finestre spalancate sopra il mercato. L’ascensore è rotto. Indira abita al quinto piano. Quando passa la metropolitana trema tutto il pavimento, intanto faccio come mi dice lei e mi metto seduto. Zenzero, cannella, curry, pepe nero, noce moscata: Indira conosce mille modi per addomesticare il riso basmati. Le polveri si infiammano nella padella rovente, si sciolgono in olio profumato. Indira, da bere, mi ha dato un bicchiere di yogurt bianco pieno di cubetti di ghiaccio. Non bastano alle mie passioni per smettere di sognare più caldo del sole che fuori sta sciogliendo l’asfalto. Il riso basmati arriva in un piatto incorniciato da elefanti azzurri, lo prendiamo con le dita e lo mangiamo. Con la lingua rubiamo i chicchi che ci facciamo scappare dalle labbra. Girando intorno al piccolo tavolo di legno della cucina, Indira viene a prendermi. Una sua mano stringe la mia sulla pelle calda della pancia fermando il gioco che cercavo intorno al cerchio d’argento dell’ombellico. Poi, vicino alle orecchie, Indira sussurra: “Aspetto un bambino”.
Sotto casa di Indira è quasi finito il tempo del mercato. Mille cassette per la frutta sfasciate e torzoli marci di insalata non turbano l’ordine dei sacchi pieni di spezie che vende Alì. Lui se ne sta seduto su una sedia di vimini e aspetta i clienti. Con una premonizione risponde al mio saluto: “Quando l’uomo bianco è perplesso mangia il cous-cous”.