Ogni volta che mi convocano in Questura

Ogni volta che mi convocano in Questura ne approfitto sempre per fermarmi dal vecchio Garibaldi. Il foglio firmato dall’incaricato di turno in tasca, esorcizzo le brutte parole che gli uomini in divisa dicono di me con la carta ammuffita dei libri vecchi e i ricordi di quando gli editori trattavano direttamente con i bancarellai, visto che ancora non esistevano né i promotori né i distributori. Tra piazza della Repubblica e la stazione Termini, c’è sempre qualche volume di autori che nessuno stampa più, dedicato a temi e soggetti che avrebbero fatto il loro tempo e che ora se ne stanno là, stipati in chioschi come quello di Garibaldi, insieme a pile di vecchie videocassette porno, a vinili improponibili e a un variopinto assortimento di oggetti di antiquariato.

«Lo sai che la Morante pretese che La storia venisse stampato in edizione economica perché voleva che il suo libro fosse accessibile a tutti?», mi chiede Garibaldi.

«Sì…», annuisco. Lo so. E so anche che i processi faranno il loro corso e, nel giro di un certo numero di anni, si tramuteranno in condanne: diffamazione a mezzo stampa, adunata sediziosa, invasione di edificio, resistenza… Io però, ogni volta che mi convoca la Questura, continuo ad approfittarne per passare tra la stazione Termini e piazza della Repubblica e fermarmi una mezz’ora dal vecchio Garibaldi. Lì un’idea per la riedizione di qualche libro scomparso dalla circolazione eppure ancora necessario la trovo sempre. In fondo lavoro nell’editoria. E ne approfitto per festeggiare ogni denuncia mettendo in cantiere la nuova edizione di un vecchio classico della lotta di classe.

PS: ringrazio l’insopprimibile puzza di piscio che, stagnando tra i chioschi, aiuta i vecchi marchettari e i tossici ancora in circolazione a impedire ai fighetti a caccia di luoghi esotici di invadere la zona trasformandola in un posto… di classe. Cioè della loro classe.

8 settembre 1974: Fabrizio Ceruso e la battaglia di San Basilio

È il 5 settembre del 1974 quando per Roma e dintorni inizia a girare una notizia tanto allarmante quanto inaspettata: stanno sgomberando a San Basilio!
Chi, rispondendo all’appello, si precipita nel quartiere trova uno scenario da guerra civile. Come vere truppe d’occupazione, le forze dell’ordine hanno invaso la storica borgata romana ma, dopo aver allontanato una prima volta gli occupanti dalle proprie case, non possono impedire una nuova occupazione degli appartamenti la sera stessa.
Il Comitato di Lotta per la Casa, insieme a un fronte sempre più ampio di sodali, rinforza la difesa, ma il 6 la storia si ripete:

La polizia arriva la mattina in forze per effettuare lo sgombero in via Montecarotto, ma trova una resistenza organizzata all’innesto della via Tiburtina con via del Casale di San Basilio, dove nella notte era stata alzata una barricata. Iniziano gli scontri con lanci di lacrimogeni e ripetute cariche a cui i manifestanti rispondono con un fitto lancio di molotov e sassi. La polizia comunque riesce a transitare da via Nomentana, circonda le case e inizia un fitto lancio di lacrimogeni sparati anche sui balconi e si fa largo a colpi di manganello: una bambina di 12 anni rimane ferita. In alcuni appartamenti si verificano focolai di incendio (Massimo Sestili, “Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974”, in “Historia Magistra” n.1, 2009).

Le case sgomberate, in ogni caso, vengono nuovamente occupate nella stessa giornata. E proprio grazie alla determinazione di chi resiste, il 7, sabato, si respira aria di tregua, con gli avvocati di Movimento che riescono anche a recarsi in Prefettura per cercare di far ritirare l’ordinanza di sgombero. Potrebbe sembrare tutto finito, eppure è proprio la domenica il giorno atteso dalla polizia per sferrare l’attacco più feroce. Alle otto riprendono le operazioni di sgombero, ma non trova persone disponibili ad abbandonare ciò che hanno conquistato senza lottare. Intorno alle 17, addirittura, una donna di 24 anni imbraccia un fucile da caccia e, dalla finestra di casa, spara contro i poliziotti, ferendo un vicequestore. Alle 18, l’assemblea popolare riunita per cercare di capire il da farsi viene attaccata con i lacrimogeni: la reazione della folla è compatta e la celere, lanciata alla carica, perde la testa insieme alle sue posizioni.
È la guerra: il popolo da una parte, le forze dell’ordine dall’altra. Il quartiere è isolato, i pali della luce divelti, qualunque cosa utile a essere lanciata viene utilizzata allo scopo e i mezzi di trasporto, parcheggiati per provvedere alla deportazione degli sgombrati, vengono dati alle fiamme.
Le armi da fuoco, è vero, non sono soltanto appannaggio della polizia. Ma su questo versante, ovviamente, gli occupanti non possono competere con chi indossa la divisa. Si supplisce con il cuore e con la solidarietà. Le barricate chiamano e Roma risponde. La polizia, però, continua a sparare. Proiettili come se piovesse in via Fiuminata dove, a essere colpito al petto da una pallottola calibro 7,65, è un ragazzo con il casco rosso.

Fabrizio CerusoQuel ragazzo ha appena diciannove anni. Vive a Tivoli, dove milita nel Comitato proletario, un organismo di Autonomia Operaia. Suo padre fa il netturbino, la mamma è casalinga. Lui, dopo gli studi alla scuola alberghiera, aveva lavorato in diversi bar e ristoranti prima di provare a trasferirsi in Francia. Tornato in Italia, ci sarebbe stata una buona notizia ad aspettare la sua famiglia. Dopo una lunga attesa, finalmente era arrivata l’assegnazione di una casa popolare a Villa Adriana. Quell’8 settembre, prima di correre a San Basilio per difendere le case occupate, aveva aiutato con il trasloco… alle 19 e 15 circa si ritrova su un taxi, impegnato in una corsa disperato verso il Policlinico. Quando il mezzo arriva a destinazione è troppo tardi. Il ragazzo con il casco rosso è morto: si chiamava Fabrizio Ceruso; «per loro non eri nessuno», dice A Fabrizio Ceruso, una delle canzoni anonimamente dedicate al ragazzo di Tivoli:

Soltanto 19 anni per loro non eri nessuno / soltanto 19 anni e per loro non eri che uno / uno come tanti, un cameriere, un garzone d’officina / un operaio, un disoccupato un emigrante…

Nemmeno la data dell’omicidio di Fabrizio sembra frutto del «caso». L’8 settembre del 1943, con l’esercito italiano allo sbando, era stata la milizia popolare a tentare la resistenza contro i nazisti. A Tiburtino III, non lontano da San Basilio, la memoria del cadavere della popolana Caterina Martinelli, ammazzata dalle SS mentre con altre donne del quartiere assaltava un forno nel vano tentativo di conquistarsi il pane con cui sfamare la famiglia, riallaccia il legame con gli ideali di una Resistenza che, trasformata in lotta per la casa, significa davvero giustizia e libertà. E se Caterina Martinelli era diventata la martire della lotta contro la fame, dopo l’8 settembre del 1974 Fabrizio vive in ogni casa che viene occupata.

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Accettare, come effettivamente è avvenuto nelle aule dei tribunali, che la morte di Fabrizio Ceruso resti archiviata con un non luogo a procedere «essendo ignoti gli autori del reato» non significa solo trascurare le numerose testimonianze che individuano in un poliziotto che si inginocchia ed esplode quattro colpi l’autore del gesto. Significa, in una situazione di estrema gravità, provare a dimenticare la situazione repressiva vissuta dall’Italia nel corso del 1974: l’anno della strage di Brescia (28 maggio; 8 morti e 102 feriti) e del treno Italicus (4 agosto; 12 morti e 45 feriti); ma anche l’anno in cui la rivolta scoppiata nel carcere di Alessandria (9 maggio; 5 morti tra detenuti e ostaggi) viene soffocata nel sangue dall’assalto deciso e diretto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il tentativo di sgombero di San Basilio, in un simile clima, è un altro capitolo della strategia della tensione e, inaugurando la futura «linea della fermezza» adottata nella repressione dei fenomeni d’insorgenza sociale, segna la scelta di attaccare deliberatamente un movimento in crescita come quello della lotta per la casa nel tentativo di stroncarlo, impedendo all’autorganizzazione di diffondersi, alle famiglie coinvolte di predisporre una resistenza efficace e alle occupazioni abitative di moltiplicarsi. Analizzato in questi termini, il tentativo fallisce. Al contrario, a San Basilio fu proprio nel momento in cui il quartiere apprese dell’assassinio di Ceruso che la lotta si trasformò in una battaglia autenticamente popolare, senza distinzione alcuna tra occupanti e assegnatari. E, come recita Rivolta di classe, un’altra canzone popolare dedicata alla battaglia di San Basilio, «la casa si prende, la casa si difende» continuerà a essere lo slogan di qualunque episodio di riappropriazione:

La casa compagni si prende / l’abbiam gridato tante volte / e dopo la si difende / da padroni e polizia…

Le case, dunque, saranno occupate ancora, i diritti rivendicati, le conquiste sociali difese: «Sarebbe sbagliato», si scrisse allora, «“mitizzare” lo scontro di S. Basilio in quanto ancora episodio (anche se tra i più belli e i più profondamente radicati nella coscienza di classe) e non già acquisizione permanente di quel comportamento da parte del movimento per la casa».
Un’affermazione, proveniente dall’area dell’Autonomia Operaia, con cui si sottolineava come, partendo dall’abitare, fosse inevitabile arrivare allo scontro con strutture di potere disposte a tutto pur di non cedere un centimetro del proprio interesse alla classe contrapposta. E in effetti, ad appena un giorno di distanza dalla morte di Ceruso e dopo che, inferocita per l’omicidio del ragazzo di Tivoli, tutta San Basilio si era scagliata contro la polizia ingaggiando una guerriglia lotto per lotto, la Regione Lazio si decideva a riconoscere il diritto alla casa popolare a chiunque, vantando i necessari requisiti, avesse occupato un alloggio prima dell’8 settembre del 1974.
Per molti palazzinari simili provvedimenti rappresentavano – e rappresentano – un danno concreto. Il rischio di una perdita economica nel nome della quale si potrebbe tranquillamente tornare ad ammazzare ancora.

(Tratto da “La Scintilla. Dalla Valle alla Metropoli, una storia della lotta per la casa”).

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BIBLIOGRAFIA:

Cristiano Armati, Cuori rossi, Newton Compton, Roma, 2006.
Massimo Carlotto, San Basilio, in In ordine pubblico, a cura di Paola Staccioli, Fahrenheit 451, Roma 2005
Raimondo Catanzaro – Luigi Manconi, Storie di lotta armata, Il Mulino, Bologna 1985.
Gian-Giacomo Fusco, Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie: San Basilio come caso di studio, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2013.
Ubaldo Gervasoni, San Basilio: nascita, lotte e declino di una borgata romana, Edizioni delle Autonomie, Roma, 1986.
Sandro Padula, San Basilio, 8 settembre 1974: Fabbrizio Ceruso e la lotta per il diritto alla casa, in «Baruda.net», 8 settembre 2014.
Massimo Sestili, Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974, in «Historia Magistra», n.1, 2009.
Pierluigi Zavaroni, Caduti e memoria nella lotta politica. Le morti violente della stagione dei movimenti, Carocci, Roma, 2010.
A cura di «Progetto San Basilio – Storie de Roma» è in corso di preparazione un film documentario sui fatti del settembre 1974 intitolato La battaglia – San Basilio 1974

Ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle piazze? Una riflessione dopo la divisione delle curve dell’Olimpico

Il punto di domanda è d’obbligo considerando come sarà soltanto la realtà ad esprimere la misura e la direzione che assumeranno i fermenti sociali, in Italia come altrove. Di certo, di fronte alla feroce repressione da cui è stato attaccato negli ultimi anni, il movimento ultrà, al di là delle difficoltà – o delle possibilità – insite nell’esprimersi nei suoi confronti in termini unitari, ha spesso condensato la sua voglia di rivalsa nello slogan: «Ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle strade».

Si tratterebbe, a ben vedere, di una sorta di “ritorno alle origini”. Non accadde, infatti, nel corso degli anni Settanta, che una fetta di popolo, spesso schierata a sinistra, iniziasse a trasferire nelle curve valori, nomi, cori e colori tratti direttamente dall’esperienza dell’antagonismo di classe?

E allo stesso modo, non è forse vero che con il passare del tempo pezzi importanti di sinistra salottiera e borghese iniziarono a stigmatizzare gli ultrà, delegittimando e isolando le radici popolari del movimento, fino a consegnare alla destra diversi stadi italiani?

Malgrado questo è innegabile come, anche in una stagione di forte disimpegno e deflusso, proprio negli stadi sia sopravvissuta e sia cresciuta una tendenza forte e organizzata, decisa a muoversi in direzione ostinata e contraria rispetto ai valori dominanti, incarnati dall’odiosa paytv e sostenuti attraverso misure sul genere della tessera del tifoso, una delle tappe epocali nel percorso di disarticolazione del movimento ultrà, deciso a tavolino dalla politica parlamentare, espressione di precisi comitati d’affari, e dal suo braccio armato: le forze dell’ordine, la magistratura e gli addetti alla disinformazione in campo ideologico (leggi: giornalisti).

In queste settimane, mentre dalla Spagna arriva la notizia di nuove misure di identificazione, come il riconoscimento biometrico (!!!) per l’accesso allo stadio, a Roma, su iniziativa del prefetto Franco Gabrielli, le Curve dell’Olimpico vengono divise in due e durante la partita Roma-Juve la Sud viene profanata con la presenza diretta nel cuore dell’impianto sportivo di un concentramento di truppe degno della vera natura dell’iniziativa: l’occupazione militare di un territorio straniero.

Restando a Roma, dopo lo sgombero dello studentato occupato Degage, il provvedimento preso allo stadio Olimpico – che nel corso dell’ultimo Roma-Juve ha reagito in modo determinato ma non violento alla provocazione – è l’altra e sola iniziativa presa dalla Prefettura dopo aver promesso chissà che cosa in risposta alle polemiche per lo scandalo del faraonico funerale Casamonica: segno evidente di una priorità che può essere definita in tanti modi, ma non certo “legalitaria”.

Che la divisione delle Curve sia l’antipasto dell’avvento di uno stadio “finalmente” ridotto a salotto buono per un pubblico “bene educato”, educato cioè al pagamento senza fiatare di dazi sempre più alti, e alla sua riduzione a semplice tappezzeria per uno spettacolo teletrasmesso, sembra un dato di fatto. E sembra anche, uno spazio come quello dello stadio, telecamerizzato, scomposto, guardato a vista, trasformato in una prigione videosorvegliata e vigilata da personale armato oltre che riservato al teatro di una disciplina pesantemente contrassegnata da malaffare e corruzione, essere diventato particolarmente favorevole all’esercizio della repressione, all’accanimento contro gli episodi di resistenza al calcio moderno: espressione sinonimo di opposizione al modello economico imposto violentemente dal capitalismo imperante a tutto ciò che si muove, a cominciare dalle strutture autorganizzate dal basso e impegnate sul campo della riappropriazione diretta di reddito, case, sogni.

In questo contesto, l’idea di assistere a uno spostamento della lotta “dallo stadio alla strada” è una metafora interessante e tutta da scoprire, un ritorno all’antico che, chissà, verificando l’equazione “no al calcio moderno = no al capitalismo”, potrà realizzare quella che fu l’ultima profezia/invito di un osservatore-protagonista come il compianto Valerio Marchi. Perché, affermava Valerio nella sua Lettera agli ultrà, «dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe».

(Articolo scritto per Sportpopolare.it – 31 agosto 2015)

Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?

Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?

Qualcuno ha iniziato a parlare di riot porn per descrivere l’attrazione del “pubblico” nei confronti delle immagini dedicate agli scontri di piazza e ai tafferugli con le forze dell’ordine. Le cariche indiscriminate, le manganellate a persone inermi, le istantanee di poliziotti che calpestano o schiaffeggiano i fermati credendo, magari, di non essere visti, in realtà si sprecano e sono abbondantemente disponibili in rete e altrove, insieme alle riprese, molto più rare, di reparti costretti alla ritirata grazie a una controcarica o a un fitto lancio di oggetti.

Merito dell’imperante economia dei click: una caratteristica dell’informazione ai tempi di Internet, capace di attirare i giornalisti sui luoghi del conflitto sociale come le mosce sul miele. Perché in fondo la fotografia di una testa spaccata o l’istantanea di manifestanti presi a calci è una delle poche cose che, sulla colonna destra dei quotidiani on-line, riesce a reggere il confronto con le gallery dedicate ai gattini o alle donne nude. E anche perché, sovraesponendolo, il dolore finisce per decontestualizzarsi: il manifestante colpito dal lacrimogeno, i cadaveri di decine di migranti stipati in un camion, il gol in rovesciata di un campione dello sport, il lato B di una famosa attrice di Hollywood, l’arte di impiattare i dessert, sono soltanto tessere di un palinsesto e, in questo schema, rispondono alla necessità di andare incontro agli sfaccettati gusti degli spettatori, non certo alla reale esigenza di riflettere su ciò che accade e su perché accade.

Per questa ragione, dopo lo sgombero di un’occupazione abitativa, a scomparire non sono le immagini dell’eventuale resistenza offerta dalle famiglie buttate in mezzo alla strada. Nei corpi scomposti di chi oppone resistenza a un nemico tanto più forte, numeroso e meglio armato come quello rappresentato da interi battaglioni di polizia, infatti, si cerca di cristallizzare ciò che, grazie all’esposizione, palesa una sconfitta presentata come inevitabile. Piuttosto, dopo lo sgombero di un’occupazione abitativa, a scomparire sono le immagini che parlano di ciò che fanno le forze dell’ordine, lasciate sole con se stesse, degli averi degli occupanti e degli spazi che questi hanno faticosamente strappato al degrado, recuperandoli alle proprie umanissime esigenze.

Ebbene, lasciate sole con se stesse, negli spazzi appena sgomberati, per prima cosa le forze dell’ordine si accaniscono contro i bagni. È un grande classico, ma sulla scia di una psichiatria insondabile gli uomini in divisa sembrano godere nel distruggere gabinetti e docce, quasi a voler implicitamente affermare che la loro controparte – uomini, donne, bambini… – non può davvero avere utilizzato un water o una vasca da bagno. Accade perché, se pensasse di fare tutto ciò che fa a uomini, donne e bambini, il personale in divisa finirebbe per abbandonare in massa il proprio servizio, da qui il bisogno di presentare il “nemico”, cioè il comune cittadino, come una sorta di animale, operare su di lui un’operazione di despecificazione fisica e morale utile al suo annientamento. Per questa ragione, le tazze del cesso degli spazi occupati, trasudando umanità, vengono immediatamente spaccate e divelte: la polizia afferma con quel gesto ricorrente che tutto ciò che ha fatto non lo ha fatto contro esseri umani e, considerando come né le cose né gli animali hanno mai usato i bagni, quei bagni non esistono, non devono esistere, quindi vengono distrutti.

Immancabile, dopo la devastazione dei servizi igienici, segue il bisogno da parte della polizia di marcare il territorio conquistato. Tradizionalmente tutto questo avviene pisciando sui vestiti degli sconfitti e sui loro letti. Cacare sui materassi, da parte della polizia, è un simbolo di vittoria e una modalità tipica di festeggiamento.

Una volta avvenuto tutto questo si può procedere alla spartizione del bottino: televisioni, macchine fotografiche e videocamere i beni più ambiti. Ma anche un bel paio di scarpe sparisce spesso e volentieri: avete mai visto degli animali girare provvisti di calzature?

E soprattutto, da che mondo e mondo, il saccheggio è il primo diritto concesso dalle stesse gerarchie di comando ai soldati dell’esercito invasore. Il tutto accade al di fuori e oltre ogni razionalità tecnica legata all’occupazione militare. Il furto è solo una piccola parte di ciò che accade in questi casi, considerando che lo stupro e la tortura vengono largamente praticati, segni indelebili della sopraffazione e punizione supplementare inflitta ai vinti.

Anche gli sgomberi delle occupazioni abitative parlano di guerra. In modo particolare parlano della guerra contro i poveri e della sopraffazione degli oppressori ai danni degli oppressi. E infatti immagini come quelle riprese dalla scena dello sgombero dello studentato occupato Degage non finiranno mai in una delle tante gallery dei quotidiani on-line. Perché mostrarle significherebbe ammettere l’odio brutale provato dalle forze dell’ordine nei confronti degli stessi cittadini che avrebbero il compito di tutelare (altro che “ripristino della legalità”!), riconoscendo in ultima istanza il corso – e l’aumento di intensità – di quella che è la nuova guerra civile italiana.

Dal sindaco al podestà: le nuove misure fasciste imposte dal Partito della Nazione di Matteo Renzi

Ieri a Bologna la Procura ci è andata giù pesante, notificando a Gianmarco De Pieri del centro sociale TPO il divieto di dimora nel capoluogo emiliano (è poco, ma a Gianmarco va tutta la nostra solidarietà).

All’attivista sono state concesse soltanto un pugno di ore per abbandonare la città dove vive e dove lavora, utilizzando un provvedimento (come il ricorrente reato di “devastazione e saccheggio”) preso di peso dal Codice Rocco, elaborato durante il regime mussoliniano per reprimere qualunque forma di dissenso, accostando le pratiche squadriste delle purghe e del manganello all’azione giudiziaria, grazie alla pratica del confino, subita da generazioni di antifascisti italiani.

La misura imposta a De Pieri è gravissima, ma purtroppo non è certo la prima volta che viene utilizzata. E se a Bologna ha già preso di mira chi non intende allinearsi con le compatibilità imposte dal renzismo in tema di casa, scuola e lavoro, a Teramo il divieto di dimora è stato utilizzato per punire gli antifascisti decisi a rispettare e a far rispettare l’eredità morale della Resistenza.

Quelli citati, purtroppo, sono solo alcuni esempi, niente affatto isolati. Ma dopo questa nuova svolta repressiva a Bologna è diventato naturale commentare come la città sia di fatto governata, più che da un’amministrazione eletta dai cittadini, da un organismo di polizia, nemico delle istanze sociali in quanto direttamente legato a un altro centro decisionale, vale a dire il comitato d’affari retto da Matteo Renzi a livello nazionale.

Questa osservazione, se applicata a Roma, sembra addirittura banale. In città, infatti, non ci si vergogna neppure – alla faccia del goffo Ignazio Marino – a sostenere che il vero sindaco si chiama Franco Gabrielli, un poliziotto passato per la Digos di Roma e Firenze, la prefettura de L’Aquila e la direzione del SISDE prima di essere nominato rappresentante del governo nella Capitale. Lo stesso ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha sottolineato come a Gabrielli vada riconosciuta una delega speciale per quanto riguarda l’imminente Giubileo, una nomina che il «superprefetto» ha immediatamente festeggiato procedendo allo sgombero dello studentato occupato Degage.

Anche il divieto di dimora subito da De Pieri ha a che fare con uno sgombero: quello di Villa Adelante, una palazzina in viale Aldini che se condivide con la romana Degage lo stile liberty dell’immobile, più in generale ha a che fare con il pugno duro preteso dal Partito della Nazione di Renzi nei confronti di tutte le pratiche di riappropriazione. Case, studentati, centri sociali e, su questa falsariga, movimenti nati a tutela del territorio (ricordiamo quello che è successo a L’Aquila durante la recente visita di Renzi ai danni di chi rifiuta le trivellazioni dell’Adriatico?), ostacoli eliminabili, in ultima istanza, soltanto con la brutale violenza della polizia, in ossequio sia alle privatizzazioni imposte dall’Unione Europea, sia ai dettami del micidiale TTIP (Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti), la cui devastante portata antipopolare non viene ancora percepita a livello di massa.

Quello che sta succedendo è che con il perdurare e l’avanzare di quel processo di ristrutturazione del Capitale a cui è stato dato il nome fin troppo tranquillizzante di “crisi” (vedi la buffonata dei finti dati sull’occupazione dopo il Jobs Act…), lo Stato non può affidare alle sue articolazioni periferiche, già completamente private di risorse e quindi rese appositamente inutili, né la gestione degli interessi padronali, né, tantomeno, l’ordine pubblico. Da qui l’esigenza di affidare direttamente alle prefetture il governo cittadino e regionale e la scelta di utilizzare la “legalità” come cavallo di Troia della persecuzione dell’attivismo e “l’efficienza” per ignorare norme, delibere e trattative strappati dai movimenti impegnati sul territorio. La misura decisa dal governo Renzi è scoperchiatamente antidemocratica, ma non è certo nuova. Durante il fascismo, per esempio, non ci si vergognava di comportarsi nell’identica maniera e una carica come quella di Gabrielli aveva un nome preciso: il podestà.

Podestà

Per capire di cosa si tratta, basta lasciare la parola a wikipedia. Ognuno, poi, sarà libero di trarre le proprie conclusioni:

In Italia il regime fascista introdusse la figura del podestà con la legge 4 febbraio 1926, n. 237, una delle cosiddette leggi fascistissime. Dal 21 aprile 1927 al 1945 gli organi democratici dei comuni furono soppressi e tutte le funzioni in precedenza svolte dal sindaco, dalla giunta e dal consiglio comunale furono trasferite al podestà, nominato con regio decreto per cinque anni e in ogni momento revocabile. Nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti il podestà poteva essere affiancato da uno o due vice-podestà (a seconda che la popolazione fosse inferiore o superiore a 100.000 abitanti), nominati dal Ministero dell’Interno. Il podestà era inoltre assistito da una consulta municipale, con funzioni consultive, composta da almeno 6 consultori, nominati dal prefetto o, nelle grandi città, dal Ministro dell’Interno.

Un’ultima considerazione. Ancora nei giorni scorsi, a Follonica, una signora è morta dopo aver mangiato (probabilmente la classica salamella) alla locale festa del Partito Democratico. La notizia è straziante. Ma se scegliere di andare alla festa del Partito Democratico è già un dramma, consentire che il Partito Democratico faccia la festa all’Italia sarà un’ecatombe.

E a proposito. Follonica è in provincia di Grosseto, la stessa città dove è nato il podes… scusate, il prefetto Gabrielli.

Lo sgombero di Degage: il funerale dei (nostri) diritti

Negli ultimi giorni la scansione dei principali fatti di cronaca, a Roma, si è avvitata su un percorso particolare. Come a quest’ora sanno anche in Alaska, è successo che Don Vittorio ha stirato le zampe (dice che alla morte non gliene freghi un cazzo a come fai di cognome…) e che, per accompagnare la sua dipartita dal pianeta terra, la sua zadruga(*) gli abbia fatto venire da Napoli un cocchio con dodici cavalli, scortato lungo il raccordo anulare da un corteo di duecentocinquanta macchine fino alla chiesa di Don Bosco, dove un elicottero ha sorvolato il corteo funebre inondando la Tuscolana di petali di rose.
Mentre la banda intonava le note dolci-amare de “Il Padrino” e grandi striscioni rendevano omaggio al “re di Roma”, la pomposa scenografia barocca dell’evento funebre iniziava a disturbare i teofori della platonica compostezza occidentale, quella stessa fobia nei confronti dei corpi che, se già nella Grecia antica portava i filosofi a stigmatizzare il pianto straziante delle prefiche, oggi riserva il termine “dignitoso” soltanto per una classe altoborghese che, più che vivere e/o esternare le proprie emozioni, sembra impegnata a infilarsi su per il culo manici di scopa sempre più grossi.
Il discorso è complesso, quello che è sicuro, in ogni caso, è che non importa se sei negro, zingaro od occupante di case: potresti rischiare persino di essere tollerato purché tu viva nella più completa indigenza, portando la tua scodella davanti alla Caritas e interiorizzando il ruolo del poverino, dell’accattone o del “negro da cortile” (così definiva la situazione Malcom X) che i signori abituati a baciare in bocca i boss mafiosi, coloro che gestiscono la cosa pubblica (cioè la cosa loro) e/o i grandi centri per l’emergenza abitativa per conto degli appositi comitati d’affari (quelli a cui appartiene tutto), hanno previsto per te.
Rispetto a simile gentaglia, quelli a cui, come accade all’ex ministro Maurizio Lupi, facoltosi imprenditori non vedono l’ora di regalare massicci orologi d’oro… di fronte a questa piccola massa di fedeli pronti a genuflettersi davanti all’altare della Compagnia delle Opere di Comunione e Liberazione e capace persino di mettere le mani al portafoglio se si tratta di foraggiare, comprando una pagina del Corriere della Sera, l’andazzo del governo Renzi insieme alle sue privatizzazioni (leggi: espropri ai danni del popolo)… ecco, rispetto alla faccia (da culo) di simili personaggi i funerali di Don Vittorio – succede quando il livello di partenza è affine alla disperazione – sono paragonabili a un piacevole refolo di aria fresca, sprigionata dall’ennesima contraddizione in seno alla gestione del potere, questa volta emersa proprio grazie al gusto chiassoso del clan Casamonica, colpito dal lutto per la perdita di Don Vittorio.
A disagio di fronte all’inchino organizzato a Don Bosco, in una chiesa che non manca mai di trasformarsi in comoda garçonnière per chi davvero conta qualcosa, la stessa gestione politico-amministrativa romana e nazionale che ha prodotto, tra le tante altre belle (si fa per dire) cose, il sistema noto come “Mafia Capitale”, ha reagito con feroce durezza: l’elicotterista che ha lanciato i petali sul feretro è stato privato della licenza di volo, al cocchiere hanno sequestrato la livrea mentre i cavalli venivano torchiati per bene, per capire fino a che punto fossero complici dello scandalo…
L’osservazione della realtà dimostra che chi ha la faccia come il culo paga questa sovrabbondanza anatomica con la perdita del senso del ridicolo, niente di più naturale dunque che l’affaire Casamonica andasse avanti… come?
Prima di tutto, naturalmente, iniziando a gridare come ossessi il mantra “legalità! legalità!”… e le urla dovevano avere un tono forzatamente alto, considerando che se di legalità di vuole parlare è difficile farlo avendo negli occhi una famosa fotografia, quella in cui, comodamente seduti al tavolo di un bel ristoranti, pronti a farsi una panza come una capanna, sono accomodati proprio insieme a un illustre esponente del clan Casamonica nell’ordine (e tra gli altri): il ministro del lavoro Giuliano Poletti (quello che con il suo Jobs Act ha deciso che da oggi in poi si lavora gratis), l’ex assessore alla casa del comune di Roma Daniele Ozzimo (indagato per corruzione), l’ex ad di Ama, la compagnia municipale della raccolta dei rifiuti, Franco Panzironi (condannato a cinque anni per la vicenda clientelare di “parentopoli).

A cena con i boss

Tra i commensali, insieme al buon Salvatore Buzzi, uno dei vertici di Mafia Capitale, non poteva mancare un altro indagato eccellente, l’ex sindaco Gianni Alemanno, il numero due di un partito, “Fratelli d’Italia”, la cui leader, Giorgia Meloni, afferma senza problema alcuno: “Il funerale sceneggiata andava semplicemente impedito. Invece fonti del Campidoglio hanno fatto sapere che il Comune “non era al corrente”. Che strano… Nessun cedimento, da parte nostra, contro questa gente ma anche contro chi la spalleggia nelle Istituzioni. Di qualunque colore politico sia”.

Salvatore Buzzi, Luciano Casamonica, Gianni Alemanno

La faccia come il culo, si potrebbe chiosare parafrasando il don Abbondio de “I promessi sposi”, se uno non ce l’ha non se la può dare… allora tanto vale continuare a gridare ancora più forte: “Legalità! Legalità!”.
Lo fa, per esempio, il preposto assessore Alfonso Sabella, dichiarando che il funerale: “Certamente si poteva e si doveva evitare. Se non si è evitato è perché Roma non ha ancora gli anticorpi necessari per comprendere e prevenire cose di questo tipo: l’esistenza della mafia è stata negata fino a pochissimo tempo fa”.


Bolzaneto: Genova non è finitaAlla stessa maniera, si potrebbe far notare a Sabella, che anche le pareti insanguinate di Bolzaneto, dove i suoi uomini, nel corso del G8 genovese del 2001, si abbandonarono, parola di Amnesty International, “alla più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” (e quindi dopo i campi di concentramento di Hitler…), vengono ancora tranquillamente negate. E, strana ironia della sorte, lui è stato nominato addirittura “assessore alla legalità”, mentre altre persone stanno scontando condanne a dieci anni, colpite dalla mirabolante accusa di avere rotto una vetrina…

Il tweet a favore dei molestatori in divisaMiracoli della faccia come il culo unita alla forza del grido di battaglia “legalità! legalità!”, fatto immediatamente proprio anche dal neo assessore ai trasporti Stefano Esposito, uno talmente legalitario da avere difeso a spada tratta le molestie sessuali subite da una ragazza in Val di Susa, un vero e proprio campione, capace di trasformare le connivenze tra amministrazione e il clan Casamonica in un problema di case popolari occupate “abusivamente”: “Entro 15 giorni controlli sugli affitti dati a tutti gli appartenenti alla famiglia”, promette Esposito. Ma non dice affatto chi è che avrebbe concesso queste case: forse per paura di tornare a mostrare gli stessi personaggi (e chissà quali altri nelle stanze dei bottoni…) a cena con Casamonica e immortalati nella foto già citata?
In verità, “del maiale non si butta via niente”, deve aver pensato il legalitario Esposito. A patto di considerate che in tutta questa vicenda il famigerato maiale non rappresenta affatto il tradizionale volto dei governanti, al contrario, il maiale è il corpo vivo del disagio sociale romano: una macchia d’olio sempre più vasta, in grado di avvolgere studenti, disoccupati, precari e sottocupati in una totale assenza di futuro e di costringerli a una vita sempre meno degna in una città come Roma, il luogo dove perfino la speranza di prendere un autobus si trasforma in lotta per il potere, nel senso che davvero soltanto a provare a prendere la metropolitana diventa evidente che dopo mezzo secolo di furti, ritardi e cazzate varie, in questa città o si va a piedi o si fa la rivoluzione…
Del maiale, dunque, non si butta via niente. E allora perché non approfittare dello scandaletto Casamonica per regolare i conti con chi, a Roma come altrove, non ha mai accettato di piegarsi alla rassegnazione di una vita da sfollati e ha reagito con spettacolari prove di riappropriazione collettiva di beni pubblici, occupazioni abitative e organizzazione dal basso di un fermento sociale deciso a continuare a essere quel movimento reale che cambia lo stato di cose presenti?
Infatti, rispetto alla promesso di Esposito, dalle sue dichiarazioni (23 agosto) di giorni ne sono passati solamente due e cosa succede?
Succede che l’indignazione nei confronti dei funerali hollywoodiani di Vittorio Casamonica diventa indignazione contro gli “abusivi” e che, soffiando sulla brace della “legalità”, la prefettura ha finito per muoversi: forse contro qualche politico responsabile degli inciuci con gli stessi Casamonica o di altre peggiori efferatezze?
Certo che no!
Altrimenti a cosa serve la faccia come il culo?


Degage - studentato occupatoLa realtà infatti è proprio questa. Sono stati minacciati il fuoco e le fiamme ma il primo e unico provvedimento preso a Roma dalla Prefettura dopo lo scandalo di quel funerale è stato, questa mattina, all’alba del 25 agosto, lo sgombero dello studentato occupato in via Musa da Degage – Casa per Tutti: quaranta studenti-lavoratori presi di peso insieme alle loro poche cose e buttati in mezzo alla strada, dove sono tutt’ora. Sempre nel nome della “legalità” (c’è nessuno al comune di Roma che si sia speso per il diritto alla studio alla casa? Ovvio che no!).
Ovviamente, per la fregola dello sgombero che ha assalito la Prefettura romana, braccio armato della guerra contro i poveri combattuta con alacrità da Renzi (il prefetto è un suo uomo, non va dimenticato), non è contato assolutamente nulla che: 1) lo stabile di via Musa sia stato inserito alla fine del 2013 in una delibera regionale che si impegnava ad arginare l’emergenza trovando soluzioni – cioè case popolari! – per tutte le occupazioni abitative romane; 2) lo stabile di via Musa sia al centro di una poco chiara operazione di compravendita che ha riguardato la defunta provincia di Roma e il fondo Upside della Paribas (sull’argomento inutile dire che è in corso un’inchiesta della magistratura…).
Seppellita ogni idea di giustizia, dunque (altro che “legalità”), di questa triste mattinata di sgombero, insieme alla convocazione per le 17 di un’assemblea pubblica presso lo spazio “Tre Serrande”, nella città universitaria, a cui spetta il compito di rilanciare la lotta, restano alcune scene memorabili. Un milite che urla “c’è una ragazza nuda! c’è una ragazza nuda!” quando fa irruzione alle sei del mattino in una stanza dello studentato occupato (lui dorme forse con il cappotto ad agosto?); un ambulanza che arriva per ricoverare al policlinico un ragazzo collassato per lo shock dello sgombero; alcuni giovani classificati come “extracomunitari” e attualmente a rischio CIE per irregolarità nel permesso di soggiorno; la paura di chi a Roma è espulso da qualunque idea di mercato in rapporto al diritto alla casa e ora ha davanti agli occhi immagini di celerini armati di tutto punto che pisciano nei lettini dove fanno dormire i figli e distruggono ogni cosa.

Ma è proprio da questa paura, in realtà, che è necessario ripartire: con chi ha la faccia come il culo, infatti, non c’è logica che tenga mentre la rabbia liberata nei loro confronti è senz’altro più efficace. Questa è la materia prima con la quale ricostruire rapporti di forza favorevoli all’insorgenza popolare, altrimenti il celerino è già lì che aspetta agitando il manganello in attesa di nuove albe e, inevitabilmente, di altre famiglie da sgomberare. Ma questo non è certo tutto, e non è soltanto di lotta per la casa che si sta parlando, anzi. Perché sarebbe ingenuo pensare che il funerale più spettacolare a cui stiamo assistendo sia quello tributato a Don Vittorio, pace all’anima sua. Il funerale che ci tocca, cioè il nostro funerale!, è quello a cui la cricca piddina sta sottoponendo tutto ciò che possa puzzare di bene comune, di welfare e di diritti sociali. E voi, ora che la scuola è stata azzerata, la sanità resa di fatto a pagamento, l’acqua ceduta ai privati, la possibilità di avere un tetto sulla testa affidata alla sola possibilità economica delle famiglie, il territorio sventrato da ogni genere di opere inutili e dannose (a chi le trivelle, a chi le discariche, a chi le radiazioni dei ripetitori, a chi i gasdotti, a chi le linee ad alta velocità)… non vi siete accorti di essere stati invitati?

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(*) Zadruga: Istituzione di carattere gentilizio che si incontra presso gli Slavi meridionali fin dall’epoca anteriore al loro stanziamento nei Balcani (sec. 6° e 7°). Può definirsi come una comunità rurale di vita, di beni e di lavoro tra famiglie e persone legate da un vincolo di parentela, che riconoscono l’autorità di un unico capo (kućegospodar, starješina, domaćin). Persona morale di diritto privato, questa comunità ha costituito la base del diritto di famiglia degli Slavi meridionali; sul finire del 19° sec. le z. erano composte da 20 a 30 membri. Stretta dagli sviluppi economici e sociali contemporanei (rapporti capitalistici nelle campagne, economia monetaria, specializzazione agricola), l’istituto della z. si è formalmente esaurito all’inizio del 20° sec., anche se alcuni studi antropologici contemporanei (R. Hammel, Alternative social structure in the Balkans, 1969) ne hanno dimostrato la vitalità ancora a metà degli anni 1960.

Non dimentichiamo, non perdoniamo. L’omicidio di Renato Biagetti

Quando, alla fine di agosto del 2006, i giornali romani aprirono le pagine di cronaca dando la notizia dell’arresto dei due “balordi” che, la notte tra il 26 e il 27, avevano ucciso a coltellate un ragazzo sul lungomare di Focene, il lettore distratto sarebbe passato oltre credendo di avere a che fare con la solita rissa tra ubriachi: un gruppo di giovani sovraeccitati dalla droga e dall’alcol che litigano nel parcheggio di una discoteca arrivando prima a riempirsi di botte e poi ad ammazzarsi tra di loro. Dei fatali esiti di una «rissa tra balordi», parlavano anche i commenti forniti a corredo della notizia: articoli scritti in punta di penna ma terribilmente preoccupati di specificare come la politica, con quel fattaccio, non avesse nulla a che fare: essendo la conflittualità sociale soltanto un brutto sogno vissuto negli anni Settanta e, oggi come oggi, completamente dimenticato.

Renato Biagetti

La precisazione di un fatto da considerare (a priori) “assolutamente estraneo alla politica”, evidentemente, si rendeva necessaria non appena, tra le righe dei quotidiani impegnati ad analizzare l’accaduto, emergeva la biografia della vittima: Renato Biagetti, ventisei anni, fresco di laurea in ingegneria, tecnico del suono e grande appassionato di musica reggae. La notte tra il 26 e 27 agosto del 2006, era stato proprio l’amore per i ritmi afrogiamaicani a spingere Renato a mettersi in macchina insieme a Laura, la fidanzata, e a Paolo, il suo migliore amico, per spostarsi da Grotta Perfetta, dove viveva ed era nato, per arrivare fino al «Buena Onda» di Focene: una dance hall sulla sabbia ricavata all’interno di uno stabilimento che, di notte, dà spazio ai seguaci delle good vibrations come, di giorno, ospita i romani dediti al surf.

Con il caldo torrido che affligge una Roma ancora semideserta, è naturale spingersi sul litorale per trovare un po’ di refrigerio: Renato, Laura e Paolo, al Buena Onda, restano finché, intorno alle cinque del mattino, la luce tremolante delle stelle annuncia la fine della tregua concessa dal sole prima di un nuovo giorno. È in questo momento, mentre Renato e Paolo si siedono su un muretto e Laura recupera la macchina dal parcheggio, che un’automobile si affianca ai ragazzi. A bordo, il volto di due completi sconosciuti. Persone anonime che, abbassando i finestrini, si mettono a gridare: «E finita la festa? Sì? Allora ritornatevene a Roma, merde!».

Più che di un insulto, si tratta di una vera e propria dichiarazione di guerra. Nell’abitacolo della vettura degli aggressori, insieme ai lampi sinistri degli occhi, scintillano le lame. È a colpi di coltelli, infatti, che una volta scesi dalla macchina gli aggressori si avventano sui ragazzi. Paolo viene colpito e anche Laura è presa a pugni. Renato Biagetti, in modo particolare, è raggiunto al corpo da otto fendenti micidiali. Chi lo ha ridotto in quello stato scappa tentando di dileguarsi mentre, a soccorrere Renato, restano Laura e Paolo, ancora insieme al fidanzato e all’amico quando, d’urgenza, il ragazzo viene ricoverato in ospedale. Qui Renato riesce ancora a fornire a un carabiniere, giunto al suo capezzale, la sua ricostruzione dei fatti ma, purtroppo, sono proprio queste le sue ultime parole. Le profonde lesioni che ha subito fuori dal Buena Onda risultano fatali e, intorno a mezzogiorno, provocano la morte di Renato.

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Mentre Renato veniva accoltellato sulla spiaggia, diversi testimoni vedono i ragazzi che infieriscono con i coltelli e, quando gli aggressori scappano con la macchina, annotano il numero di targa e il modello della vettura. Stranamente questi riferimenti non consentono affatto ai carabinieri di mettere immediatamente le mani sugli assassini così gli aggressori riescono a far perdere le loro tracce risultando irreperibili per almeno tre giorni.

In questo lasso di tempo, ad ascoltare le testimonianze di Paolo e Laura, più che i giornalisti ci sono i compagni del centro sociale Acrobax: uno spazio pubblico autogestito ricavato all’interno delle pertinenze dell’ex cinodromo di Ponte Marconi; in questo momento, forse l’unico punto di riferimento per chi, alla resa dei conti, capisce come la morte di Renato Biagetti non sia certo frutto di una rissa ma, al contrario, l’esito di una crudele aggressione. È proprio un comunicato emesso dall’Acrobax a quarantotto ore dalla morte di Renato, infatti, a cui si deve il primo tentativo di arginare la disinformazione che sta piovendo sul cadavere del ragazzo assassinato:

“Non si è trattato di una rissa tra balordi all’uscita di una delle discoteche del litorale ma di uno dei tanti episodi che si iscrive dentro un clima sociale, politico e culturale determinato dalle destre in Italia. Non sappiamo chi sono questi delinquenti ma queste pratiche ci ricordano da vicino le tante aggressioni agli spazi sociali e alle persone che li attraversano che si sono ripetute a Roma e altrove”.

Parole che trovano una triste conferma nel momento in cui chi ha colpito Renato viene finalmente arrestato. Si tratta di due ragazzi di diciannove e sedici anni: Vittorio Emiliani, nativo di Focene, e G.A., ancora minorenne, originario di Nola. E se non bastassero le modalità squadristiche con cui i due hanno consumato la loro aggressione; se non fosse sufficiente sottolineare il pregiudizio che grava sullo stabilimento dove Renato ha trovato la morte, considerato a Focene un «ritrovo di zecche»; se non servisse parlare dell’impegno profuso da Renato in tutte le iniziative in cui la musica veicolava messaggi antirazzisti, antifascisti e antisessisti; se tutto questo non consente ancora di accedere alla dimensione politica da cui è scaturito l’omicidio di Biagetti, allora non resta che sollevare la maglietta di Vittorio Emiliani per mostrare a tutti la croce celtica che il ragazzo esibisce sul braccio, tatuata.

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Emiliani ha ucciso, eppure avere un morto sulla coscienza non basta a fargli ammettere le colpe di cui si è macchiato: «C’è stata la lite, questo lo ricordiamo – ammette di fronte ai carabinieri – ci siamo anche picchiati, ma non ricordiamo della coltellata che ha ucciso il ragazzo».

Gli inquirenti non insistono e mettono a verbale le dichiarazioni di Emiliani. Effettivamente la sua memoria deve funzionare davvero male visto che la «coltellata che ha ucciso il ragazzo» di cui parla non è stata soltanto una ma addirittura otto. Un aggravante di assoluto rilievo che non tarda ad emergere quando sul cadavere di Renato viene disposta una regolare autopsia. Osservando le ferite sul corpo di Biagetti, il patologo descrive bene l’efferatezza con cui sono state usate le lame:

“Due coltellate ebbero a raggiungere il bersaglio tangenzialmente alla superficie cutanea; due penetrarono a livello del gomito e dell’avambraccio di sinistra e, pertanto, possono essere interpretati come colpi limitati dall’azione di difesa, perché altrimenti diretti al cuore; due vibrate in rapida successione penetrarono la regione sovra iliaca sinistra; due attinsero l’emitorace sinistro e penetrarono profondamente nel torace producendo lesioni viscerali”.

L’arma del delitto, su indicazione dello stesso Vittorio Emiliani, viene ritrovata seppellita nei giardinetti di Focene. Secondo Paolo e Laura, anche il ragazzo minorenne che era con Emiliani ha partecipato all’aggressione armato di coltello: d’altronde come avrebbe potuto, il solo Emiliano, vedersela con Paolo e Laura riuscendo, nello stesso tempo, a vibrare otto fendenti contro Renato?

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Il caso di Renato Biagetti è particolarmente tragico ma tutt’altro che isolato. Un dossiercompilato dopo la morte del giovane tecnico del suono, non a caso, raccoglie informazioni riguardanti ben 134 aggressioni a sfondo razzista, omofobo e fascista compiute a Roma e nel Lazio tra il 2004 e l’estate del 2006. Una lettura assolutamente sconsolante, anche se limitata a una piccola scelta di episodi avvenuti nei primi mesi dell’anno in cui è stato ucciso Renato:

8 gennaio (Indymedia). Compagno aggredito da tre naziskin alle quattro del pomeriggio vicino San Giovanni in Laterano. Davanti alla fermata della metropolitana viene notato e uno di loro gli tira una testata in pieno volto che gli rompe il setto nasale, poi lo prende a calci.
[…] 13 gennaio (Indymedia). Intorno alle 3 e 30, dopo aver partecipato a un’iniziativa, tre ragazzi e una ragazza usciti dal centro sociale La Torre vengono aggrediti da parte di una decina di fascisti armati di bastoni e a volto coperto. Le ferite riportate dai quattro ragazzi hanno richiesto cure ospedaliere.
21 gennaio (Lazio.net). Dopo palesi intimidazioni, in un’imboscata viene aggredito e picchiato sotto casa da quattro fascisti con i caschi sul volto un redattore di Lazio.net, voce antirazzista e antifascista del tifo laziale.
22 gennaio (Indymedia). Due skin antirazzisti vengono accoltellati (alla gamba e al gluteo) alle 3 e 30 all’uscita del c.s. Ricomincio dal Faro dopo un concerto. I due o tre accoltellatori fanno parte di una banda di venti fascisti che scappano all’arrivo dei compagni attirati dalle urla.
28 gennaio (Indymedia). A Casal Bertone, nella notte, un gruppo di sette-otto fascisti armati di mazze aggredisce due giovani compagni del circolo prc. I due compagni, seriamente feriti, vengono soccorsi da alcuni cittadini. […]
14 marzo («la Repubblica»). Alle 19 e 30, alla sezione Aurelio dei Democratici di sinistra, viene trovata sullo zerbino una busta contenente cinque proiettili inesplosi e un foglio con il seguente testo: «Non fermerete le nostre idee. Adesso dovete tremare. Voi la stella a cinque punte, noi cinque proiettili. 10, 100, 1000 livornesi bruciati. Roma non è Milano. Fini boia, Rutelli infame, Veltroni boia».
[…] 7 aprile («l’Unità»). Fascisti, con la vernice nera e con una “z” sola, imbrattano la bacheca della sezione ds dell’Alberone: «Vi ammaziamo – firmato – Forza nuova». Poi attaccano i manifesti «Vota Alessandra Mussolini»”.

Dal momento che non riguardano persone morte, simili notizie fanno fatica ad essere divulgate e, se finiscono sui giornali, molto difficilmente superano la dimensione del classico trafiletto. Diluite negli spazi in genere riservati a reati come furti e rapine, le informazioni sulla violenza politica diventano difficilmente distinguibili da quelle sulla criminalità comune, generando lo stesso tipo di attitudine che, all’ennesima potenza, esplode nel corso del processo agli assassini di Renato: l’attitudine a negare, insieme alle idee, anche la dignità della vittima. Perché morire nel corso di una rissa tra balordi non è assolutamente uguale a essere uccisi in virtù di un’aggressione subita a causa della propria differenza morale ed esistenziale.

Eppure, da questo punto di vista, neppure il processo ha reso giustizia alla dinamica dei fatti di Focene. Vittorio Emiliani è stato riconosciuto colpevole di omicidio volontario e condannato a scontare quindici anni di reclusione. Una pena simile a quella inflitta al suo complice minorenne, condannato a quattordici anni e otto mesi. Nella motivazioni della sentenza, però, riaffiora lo spettro della «rissa tra balordi» senza alcuna allusione alla matrice politica dell’agguato: degno corollario di un dibattimento in cui gli osservatori non hanno potuto fare a meno di sottolineare alcune circostanze a dir poco strane. La deposizione che, poco prima di morire, Renato rende al carabiniere arrivato a sentirlo all’ospedale Grassi, per esempio, non venne verbalizzata dal militare: come mai?

Si tratta ancora di una dimenticanza o questa singolare perdita di memoria può essere ricollegata alle decisioni con cui i giudici impediscono sia all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia sia al comune di Roma di costituirsi parte civile nel corso del processo?

Renato Biagetti, come affermano gli avvocati della famiglia: «È stato colpito barbaramente con otto coltellate in un’aggressione caratterizzata da inaudita ferocia, conseguenza di un violento sentimento di avversione verso il comportamento, le scelte e lo stile di vita di Renato e dei suoi amici».

Ed è proprio in questo «violento sentimento di avversione verso il comportamento, le scelte e lo stile di vita» che si iscrivono i modi della violenza politica contemporanea. Nascondere la testa sotto la sabbia e negare l’insorgenza di una simile questione, da questo punto di vista, impedisce la nascita di un dibattito collettivo in grado di arginare un problema tutt’altro che superato. Succede così, nel secondo anniversario della morte di Renato, che il concerto indetto al Parco Schuster per commemorare il ragazzo, venga «festeggiato» da una nuova aggressione condotta a colpi di coltello. Ancora una volta, alle quattro del mattino, un piccolo gruppo di ragazzi che avevano aderito all’iniziativa viene circondato da dieci estremisti di destra mentre torna alla propria automobile. L’agguato, per fortuna, non provoca nuovi morti ma lascia sull’asfalto un ragazzo di ventisette anni con profonde lacerazioni alle coscia e altri due giovani con ferite causate da armi da taglio e da catene. Questa volta nessuno ha il coraggio di dire che «la politica non c’entra» eppure, confinata in qualche trafiletto, la notizia finisce soffocata nel marasma della cronaca, una ferita aperta nel cuore di una città tutt’altro che pacificata.

 

Via chissenefrega numero qualchecosa

Sono gli ultimi giorni d’agosto e se non sono le vacanze (c’è la crisi, chi è che va più in vacanza?) è il caldo che ci pensa. In ogni caso per Roma è una tregua. O almeno sembra…
Cammino per i marciapiedi vuoti cercando un punto di riferimento diverso dalle cicche spiaccicate, uniche testimoni di qualcosa che pure deve esserci stato, qualcosa che abbiamo sempre chiamato “vita”.
Faccio il giro dell’isolato – i bar sono chiusi, i parcheggi vuoti – e lo penso sul serio: “E se fossero tutti morti?”.
Il tempo di svoltare l’angolo. Poi, con le gambe larghe, la bocca spalancata e un paio di occhiali con le lenti scure, un vecchio se ne sta immobile in mezzo alla strada. Forse vuole attraversare e il silenzio assoluto che si respira nel quartiere gli ha portato via qualunque punto di riferimento, rendendolo incapace di agire e di pensare. Sui pantaloni marroni, una chiazza scura gli si arrampica sulle gambe per andare a formare un lago all’altezza dell’inguine. Non saprei come aiutarlo e vado avanti: “No, non sono tutti morti. Non ancora…”.
In realtà, proprio come il vecchio, neppure io so bene cosa fare: l’edicola – dice un cartello giallo – riaprirà il primo di settembre; inutile pensare di arrivare al parco per leggere il giornale: “Nel mare di Sicilia”, ci avrei trovato scritto, “quattromila persone stipate su tre barconi alla deriva sono state tratte in salvo dalla guardia costiera. Mentre i profughi saranno ospitati in strutture di prima accoglienza, si procede con la schedatura…”.
Immagino l’inchiostro sui polpastrelli di uomini, donne, bambini. Gli stessi che alla frontiera con la Macedonia, intanto, vengono manganellati a sangue, inseguiti per i campi, respinti a forza di gas lacrimogeni…
Con le mani in tasca, assorto in simili pensieri, torno alla realtà per colpa di un cicalino: un suono inconfondibile che mi allerta e mi scuote, nemmeno fossi una cazzo di gazzella che nella savana sente la puzza del leone sottovento.
Il cicalino suona ancora, mi volto e la vedo. La volante della polizia che procede a passo d’uomo, i finestrini aperti e la radio sintonizzata sulle frequenze riservate. Dentro, come è d’uso, ci sono due agenti, impegnati a scrutare i muri in cerca evidentemente di qualche indizio. Ma certo. La targa con il nome della via: impressa nero su marmo ed esposta in bella vista. Via chissenefrega numero qualchecosa. Gli uomini in divisa la vedono, quindi accostano, parcheggiano e scendono. Evidentemente sono arrivati dove volevano essere: in via chissenefrega, appunto. Dove ci sarà chi hanno ricevuto l’ordine di controllare mentre, con le mani distese lungo i fianchi, molto vicino al posto in cui portano appesa la pistola, ancheggiano nel caldo che, rimbombando sull’asfalto, alle guardie non deve fargli per niente bene dentro la testa.
Le caserme, gli ospedali, i tribunali e tutti quelli che ci girano intorno, si sa, non hanno mai promesso niente di buono… ma sperando sempre di averci a che fare il meno possibile nella vita, per quale motivo simili individui hanno pure il mio indirizzo?
Via chissenefrega numero qualchecosa… ma io già lo so dove abito, perché allora dovrebbe essere così facile rintracciarmi?
Nervoso, aumento l’andatura. Incerto se tornare a casa o continuare a camminare finché la strada non sia costretta a lasciare un po’ di spazio ai campi. Come accade sul confine tra Grecia e Macedonia, dove il potere di lasciare vivere o fare morire è affidato a uomini in divisa uguali a quelli che ho appena incontrato. Certamente rispetto alla città in cui vivo da quelle parti le cose sono molto più pericolose e quindi giù botte. La polizia è sempre più nervosa se ha a che fare con gente che non è stata ancora costretta a subire la pratica della schedatura di massa. Per tutti gli altri c’è sempre un indirizzo e magari persino un nome sulla cassetta delle lettere, quindi perché preoccuparsi? Non abitate anche voi in via chissenefrega numero qualchecosa?
Quando lo vorranno sapranno benissimo dove venirvi a cercare.

E fu così che mi ritrovai laureato

Sono passato dalle parti della città universitaria oggi. E mi sono imbattuto in stormi di persone con l’alloro dietro le recchie come usava ai tempi di Dante e Virgilio, vestiti eleganti (devo essermi perso qualcosa: quando è iniziata la moda del farfallino?) e bei tomi rilegati in similpelle sotto il braccio. Tutti ridevano, qualcuno era ubriaco. Nel cervello mi si è accesa una fotografia datata 2002. Ci sono io in maniche di camicia color verde militare e praticamente nessun altro a parte la commissione: la discussione della mia tesi, in effetti, era fissata per le otto e mezza, a chi poteva reggere la pompa di svegliarsi per ascoltare una relazione su Ogotemmeli, un vecchio cacciatore Dogon? Venne un mio amico che entrò in aula un po’ in ritardo perché non riusciva a trovare parcheggio e una signora maliana in abito tradizionale a cui avevo parlato del mio lavoro. Altre persone le incontrai nell’atrio quando era tutto finito, intorno alle 9 più o meno. Così pagai ai convenuti cornetto e cappuccino nel bar di piazzale Aldo Moro, quindi mi presentai regolarmente al lavoro. “Quanto hai preso?”, mi domandò il capoccia di allora. “110 e lode”, risposi io. “Bravo, mo’ sposta ‘sto bancale”, ordinò lui. E fu così che mi ritrovai laureato.