Ha da venì Baffone. Gli occhi e le mani di una scelta editoriale

Se dovessi ridurre ciò che so della storia a quello che ho visto con i miei occhi, allora Sandro Pertini è il nonno che tutti avrebbero voluto avere, il vecchio partigiano che tra i reali di Spagna e il cancellierato tedesco se non fa il gesto dell’ombrello poco ci manca mentre, l’11 luglio del 1982, la nazionale italiana segna tre reti a quella della Germania Ovest e se ne torna a casa con la Coppa del Mondo.

a.PertiniAltro che le «notti magiche» di otto anni dopo, quando l’Italia, ospitando i campionati del mondo di calcio, dovette accontentarsi di decine di operai morti costruendo gli impianti, di una manciata di grandi opere inutili, di una mascotte orribile chiamata «Ciao» dai geni del marketing, di un fiume di tangenti finite nelle tasche dei soliti noti e pure di essere eliminata in semifinale dall’Argentina. Il 1982 resta un momento in cui ha un certo peso poter dire «io c’ero» visto che, titolo mondiale a parte, nel momento in cui Rossi, Tardelli e Altobelli infilavano la porta di Schumacher e Pertini esultava in tribuna, in Italia sarebbe stato difficile misurarsi con la realtà senza lasciarsi sopraffare dallo straniamento. In un lasso di tempo incredibilmente breve, infatti, nell’ideale passaggio di testimone tra decenni, la democristiana «strategia della tensione» sarebbe trasecolata in una non certo meno sanguinosa berlusconiana «strategia della finzione», e così l’eskimo avrebbe lasciato il posto al moncler, la funzione sociale delle piazze sarebbe stata assorbita dai centri commerciali e la massa, più che alle manifestazioni, ci si sarebbe stupiti di meno a vederla in coda davanti a un fast food. Benvenuti negli anni Ottanta, possiamo dire oggi, rievocando il mito della «Milano da bere» e osservando, come se fossimo in un laboratorio, l’ideologia del «lavoro-guadagno, pago-pretendo» andare a occupare spazi dell’immaginario precedentemente riservati a quei progetti collettivi di cambiamento dell’esistente comunemente detti «lotta di classe». Il «Drive in», dunque, e non Stato e Rivoluzione di Lenin. E il disimpegno, piuttosto che un diffuso attivismo politico e sociale, diventano il paradigma con cui misurarsi senza aspettare il 9 novembre del 1989 e la caduta del Muro di Berlino per celebrare la morte del socialismo, la sconfitta delle grandi narrazioni e il trionfo del capitalismo interplanetario: unico dispensatore di valori e sola guida del presente e del futuro… cioè, per restare nella storia e nella familiarità con la quale i vincitori la scrivono, sola guida anche del passato.

D’altro canto, questo fanno i vincitori. Nei momenti di trionfo innalzano verso il cielo archi e obelischi. Ma quando le cose vanno meno bene, quando il calendario segna sotto la data 2014 guerre più o meno sporche diffuse in tutto il pianeta, precarietà generalizzata di masse enormi di persone ovunque, catastrofi ecologiche in corso senza soluzione di continuità e regresso accertato di diritti a lungo dati per scontati (nel 2014, nel cuore dell’Occidente, si torna tranquillamente a morire di fame), ecco che la storia arriva in soccorso degli stessi vincitori, per affermare senza tema di essere smentita come le cose, se non sono andate sempre così, sono andate molto peggio quando non erano loro – i vincitori – a tessere i fili del discorso.

Eppure, nel 1982, il vecchietto che, viaggiando sull’aereo di ritorno dalla Spagna si faceva immortalare nell’atto di giocare a scopone in coppia con Causio contro Zoff e Bearzot, di discorso ne aveva fatto un altro, affermando, al cospetto del Senato della Repubblica: «Egli è un gigante della storia».

Era il 6 marzo del 1953 e Sandro Pertini si riferiva a Giuseppe Stalin.

*

Non saprei dire se assistere alla sconfitta della Germania Ovest avesse avuto per Pertini anche il sapore dell’ennesima rivincita. In fondo era contro le truppe di occupazione di quel paese che il partigiano, chiamando il popolo italiano intero all’insurrezione, aveva urlato: «Ponete i tedeschi di fronte a un dilemma: arrendersi o perire!».

a.ReichstagCerto, nel 1982 ricordare i giorni di fuoco vissuti da Pertini come da moltissimi altri all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale non era più né facile, né politicamente conveniente. Eppure è proprio l’esperienza della guerra partigiana antifascista che, nei decenni, aveva legato persino oltre la politica – considerando che il pertiniano Partito socialista di unità proletaria fu tutto tranne che bolscevico – un uomo come il Presidente della Repubblica italiana alla figura di Giuseppe Stalin e al miracolo compiuto dalla sua Unione Sovietica, capace di trasformarsi da paese sottosviluppato in potenza industriale nel giro di una manciata di anni e, grazie a questo sforzo, senz’altro conseguito a caro prezzo, capace anche di reagire all’esercito più maledetto e potente della storia, aggredendolo con le unghie, i denti e l’acciaio forgiato dai suoi operai fino ad annientarlo definitivamente, arrivando a far sventolare la bandiera rossa sul tetto del Reichstag di Berlino il 2 maggio del 1945.

La canzone degli Stormy Six, in seguito cavallo di battaglia della Banda Bassotti, sarebbe stata scritta soltanto nel 1975 ma sembra già di sentirla cantare nelle piazze di tutta Europa: «Sulla sua strada gelata / la croce uncinata lo sa / d’ora in poi troverà / Stalingrado in ogni città».

*

a.Abdulkhakim-Isakovic-Ismailov-1917-2010
Abdulkhakim Ismailov

L’uomo che il 2 maggio del 1945 issa la bandiera rossa con la falce e il martello sul palazzo del Reichstag non è soltanto un soldato sovietico. Si chiama Abdulkhakim Ismailov e viene dalla remota regione del Daghestan. Già reduce dalla terrificante battaglia di Stalingrado, nel corso della «grande guerra patriottica» viene ferito per ben cinque volte, scegliendo sempre e comunque di tornare al fronte per combattere. E lui, morto nel suo letto il 17 febbraio del 2010 alla bella età di novantatré anni, è soltanto uno dei milioni di volti anonimi per cui scegliere di pubblicare oggi una selezione di opere scelte di Stalin può acquistare un senso forse inaspettato. Si tratta, in effetti, di provare a tracciare un percorso che ha poco a che fare con l’idea di «riabilitare Stalin» o, tantomeno, di esaltare le conclusioni a cui arriva l’autore di Questioni del leninismo. Un percorso che, al contrario, ripartendo dalla sorte dello stalinismo, mostra alcuni dei come e dei perché il patrimonio dell’intero movimento operaio internazionale sia stato aggredito e dilapidato fino al punto di essere ridotto alla stregua di un fossile, una canzone intonata da vecchi nostalgici mentre la nave del capitalismo affonda senza che nessuno trovi la forza necessaria a invertire la rotta. Dove saremo oggi se questa forza, settanta anni fa, non fosse stata nelle braccia di una moltitudine di Abdulkhakim Ismailov? E soprattutto, considerando il punto in cui siamo arrivati, rinunciando di riappropriarci di quella stessa forza, dove rischiamo seriamente di finire domani?

*

Spendiamo due parole per chiarire, oltre l’evidenza di ciò che viene messo nero su bianco, il contesto in cui si manifesta la necessità di curare una selezione di opere scelte di Stalin. Questa antologia, infatti, fa parte della collana «I Libretti Rossi», nata nel 2011 e, dopo una serie di vicissitudini editoriali, felicemente approdata alla Red Star Press. Al suo interno, fino a ora, hanno trovato spazio raccolte di citazioni e testi dedicati alla Resistenza, al risorgimento garibaldino, a Vladimir Lenin, Friedrich Engels, Fidel Castro e Mao Tse-tung. Volendo continuare fino a offrire una visione la più estesa possibile delle teorie e delle lotte nate sul fronte degli ideali di fraternità, giustizia e libertà, sarebbe stato possibile escludere l’Unione Sovietica, la Rivoluzione d’Ottobre e, di conseguenza, anche Giuseppe Stalin?

La domanda è retorica considerando ovviamente negativa la risposta che è stata data in sede di coordinamento redazionale e il relativo libro che stringete tra le mani in questo momento. Ma, a essere negativa, è anche la risposta a una domanda meno scontata, uno dei grimaldelli attraverso i quali negli ultimi settant’anni la demonizzazione di Stalin ha finito per coincidere con la demonizzazione dell’intera cultura rivoluzionaria, in tutte le sue forme e sfaccettature. La domanda sotto accusa, quindi, diventa: è possibile addossare a Stalin l’intero destino dell’Unione Sovietica insieme a tutte le scelte politiche compiute dallo stato socialista per difendere se stesso dall’aggressione fascista quando si è trattato di combattere le truppe tedesche e dal «nemico interno» quando l’attacco ha riguardato chiunque fosse sospettato di deviazionismo?

Qui l’Abdulkhakim Ismailov che pianta la bandiera sovietica sul Reichstag fa un gesto incredibilmente simile a quello compiuto dall’esultante Pertini nella finale Italia – Germania Ovest, scoprendo nei due quei «compagni d’una massa operaia. / Proletari di corpo e di spirito» capaci di schierarsi dalla parte giusta nella buona e nella cattiva sorte, senza sospettare che, nel 1990, il vecchio palazzo del Reichstag perdesse il diabolico portato simbolico che emanava dalle sue pareti fino al punto di tornare a ospitare le sedute del Parlamento della Germania, riunificata all’indomani della caduta del Muro.

L’atto, in quel momento, passò assolutamente inosservato. Un’amnesia collettiva allucinante che, se avesse riguardato la storia italiana, sarebbe stato possibile paragonare alla visione di un uomo politico a cui, dopo Mussolini, fosse stato concesso di arringare la folla parlando dai balconi di Palazzo Venezia a Roma. E questo non per gridare allo scandalo individuando un rapporto di continuità tra la Germania unita di Helmut Kohl e il Terzo Reich di Hitler (anche se l’evento la dice lunga sul cuore nero dell’Unione Europea), ma proprio per parlare della formidabile operazione di lavaggio collettivo dei cervelli e delle coscienze portato avanti immediatamente dopo la fine della guerra mondiale. Che la deriva nazifascista covi costantemente tra la cenere del capitalismo, rappresentando una modalità tipica della periodica ristrutturazione a cui è costretto, infatti, è cosa nota. Ma intanto, isolando e assolutizzando la figura di Stalin, estraendola dal suo contesto come si fa con un dente marcio dalla bocca, è stato possibile astrarre il singolo personaggio dalla massa enorme che ha sostenuto urbi et orbi la politica sovietica, facendo del comunismo in Russia non più il formidabile risultato del protagonismo delle masse diseredate, ma l’esito imprevisto delle azioni di un folle, una specie di satrapo orientale capace di impossessarsi dello sterminato territorio dell’ex Impero degli zar grazie a un’astuta e criminale combinazione di realpolitik e feroce repressione.

La stessa identica cosa, secondo gli autori di questa storia (cioè secondo i «vincitori»), sarebbe accaduta anche in Germania, dove Hitler diventa la controparte di Stalin, una figura altrettanto isolata e altrettanto avulsa dalla realtà sociale in cui si muove, un altro pazzo sanguinario protagonista, al pari del «dittatore» sovietico, di quella stagione drammatica chiamata «Novecento» e caratterizzata dal tentativo di ideologie totalitarie in fondo identiche come nazismo e comunismo di distruggere il sistema di preziose garanzie democratiche donate al popolo dai governi liberali.

Oltre a essere una bestemmia che grida vendetta di fronte agli uomini, la sovrapposizione di nazismo e comunismo attraverso la sovrapposizione di Hitler e Stalin, personalizzando in maniera ridicola eventi epocali e di massa (con buona pace del rigore della lettura materialista della storia, autentica conquista intellettuale a disposizione dell’umanità), ha reso possibile, per quanto riguarda la stagione dei fascismi europei, di evitare a intere collettività nazionali come quelle italiana e tedesca di fare realmente i conti con se stesse, di procedere come se nulla fosse con le mancate epurazioni dei personaggi chiave del fascismo e del nazismo dai ruoli di potere occupati e, in una manciata di anni, di essere riassorbite e integrate dagli ex nemici della seconda guerra mondiale nell’orbita atlantica, questa sì pronta senza problemi a «perdonare» fascismo e nazismo – che pure ha la responsabilità di aver generato – pur di non concedere nessun tipo di terreno al socialismo reale.

Al contrario, l’operazione di riduzione del comunismo a Stalin, insieme a tutta la retorica da «libro nero» sui crimini commessi sotto l’egida della falce e martello, non offre nessun credito alle differenze sostanziali tra Stalin e Trockij, non si interessa alle polemiche che separarono i bolscevichi dai luxemborghisti, non prende in esame le lacerazioni tra la frazione stalinista e gli esponenti della «nuova opposizione unificata» o le deviazioni tra impostazione leninista e interpretazione stalinista, non parla di anarchici, di spartachisti, di femministe, di comunisti cubani o titini ma, facendo di tutta l’erba un solo fascio, va ben oltre e, urlando «dagli al comunista!» con il fanatismo dei cacciatori di streghe, supera di gran lunga i confini dell’Unione Sovietica stringendo in un abbraccio mortale i movimenti di liberazione dei popoli oppressi, i militanti di base di ogni tempo e di ogni paese, la fondamentale rivoluzione epistemologica di Marx ed Engels fino ad arrivare, con un’azione senza precedenti di «despecificazione politico-morale», ad escludere dalla comunità civile e quindi a screditare, attaccare, imprigionare e, non di rado, anche a uccidere, chiunque mostri idee e stili di vita non omologati. Quale parola, in fondo, viene utilizzata dai benpensanti per radunare in un ideale campo di concentramento minoranze etniche e capelloni, fumatori di marijuana e omosessuali, attivisti dei centri sociali e intellettuali non allineati?

Sotto quale parola la pancia fascista dei regimi democratici e liberali riunisce lo spauracchio impersonificato da «froci, negri, drogati, capelloni ed ebrei»?

La parola è sempre la stessa: «comunisti».

*

Se devo dire come la penso su Stalin, confesso di considerare la vittoria ottenuta sull’esercito nazista con la conseguente affermazione dello stato sovietico come un fatto decisivo, in grado di sopravanzare le mie tendenze libertarie e di mettere in secondo piano le suggestioni trockijste assorbite studiando la vita e le opere dell’ex comandante dell’Armata rossa. Eppure non ho difficoltà ad affermare che tra le pagine de Il libro rosso di Stalin non c’è nessuna volontà di seguire Domenico Losurdo nell’impostazione e nelle conclusioni del suo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008). In questo testo, relativamente celebre (considerando che solo una nicchia legge questo tipo di pubblicazioni, ma questo è precisamente parte del problema), Losurdo prende in esame la figura di Stalin tentando di separare la storia dalla leggenda, ciò che è accaduto realmente in Unione Sovietica da ciò che sarebbe stato raccontato dalla propaganda anticomunista. Le intenzioni, dunque, sono senz’altro condivisibili, eppure, senza entrare nello specifico del lavoro di Losurdo o commentare i suoi esiti, la postura de Il libro rosso di Stalin non è quella assunta da qualcuno che si prepara a una formidabile guerra di cifre e documenti né, a maggior ragione, incarna lo spirito «burocratico» di chi, a colpi di citazioni, intendesse avere la meglio nell’ambito di un confronto dialettico sulla «vera» ortodossia marxista-leninista e su di chi meriti di ricadere un’eredità tanto illustre. Se per questo genere di scontri, infatti, può sempre esserci tempo, molto di meno è il tempo ancora a disposizione, se non per formare un vero «fronte unico» anticapitalista, almeno per provare a impostare un dibattito a partire da informazioni reali e non da notizie recuperate di terza mano e/o dalle stesse fonti di propaganda anticomunista.

Ecco, giunto alla soglia dei quarant’anni, la mia idea di tempo non fa più nessuna difficoltà a identificarsi nella forma di una clessidra. E se ogni singolo granello che, passando attraverso la strozzatura scivola irrimediabilmente nel bulbo inferiore, è prezioso come la vita stessa, diventa faticoso sostenere confronti con chi non ha mai pensato di alimentare le proprie opinioni dedicando alla verifica delle stesse i granelli di sabbia a sua disposizione. Senza scomodare il motto maoista secondo il quale «chi non ha fatto inchiesta non ha diritto di parola», insomma, Il libro rosso di Stalin potrà perlomeno sortire l’effetto di offrire una fonte di prima mano alla riflessione collettiva. E questo mi sembra già un primo, piccolo risultato.

Un secondo risultato, forse più importante, è di natura strettamente polemica e riguarda il diffuso atteggiamento di moltissimi che, pur collocandosi in un campo genericamente di sinistra, scuotono perennemente la testa in tutte le occasioni in cui, vuoi attraverso l’arma dello sciopero, vuoi grazie allo strumento dell’occupazione sociale o abitativa o in virtù del ricorso al conflitto di piazza, un movimento sembra indicare possibili strade al cambiamento dell’esistente. Che fare?

Questo particolare genere di «sinistri» lo sa benissimo. Se soffia il vento di rivolta, il loro compito è quello di scuotere la testa. Dotti come sono, citano il «complesso di Saturno» e, ricorrendo all’immagine mitologica del padre che divora i figli, teorizzano come inevitabile il destino di ogni rivoluzione: quello di essere tradita dall’istituzionalizzazione della stessa avanguardia rivoluzionaria senz’altro, «come Stalin», sempre, irrimediabilmente pronta a varare grandi purghe contro potenziali rivali nella corsa al potere e, per scrupolo, anche a imporre al popolo misure degne del peggior stato di polizia.

Risultato di questo diffuso modo di ragionare?

Meglio non fare mai nulla. Restare con le «mani pulite» anche se nel mondo tutt’altro che rivoluzionario o rivoluzionato in cui viviamo l’oppressione cresce, seconda soltanto alla disoccupazione, alla fame e a una qualità della vita sempre più bassa per tutte e tutti.

Di fronte a questi dati di fatto, personalmente, preferisco rischiare ogni sorta di cambiamento: non è l’opzione individualistica del coraggio, ma il riflesso oggettivo di un interesse di classe a impormelo. In virtù di questo stesso interesse, preferisco rischiare persino di ritrovarmi a portare il nome di Trockij o Bucharin nella Mosca degli anni Trenta, preferendo riconoscermi nel primo piuttosto che nel secondo ma avendo sotto gli occhi la realtà dei tanti proletari che, nell’Europa del 2014, si ritrovano già a fare da bersagli mobili alla guerra contro i poveri che la «crisi» del Capitale ha scatenato contro di loro.

Un altro punto, qui, vale la pena di essere sottolineato. Chiunque sogni un sistema capace di risparmiare all’individuo lo sforzo di esercitare il proprio libero arbitrio al cospetto dell’angoscia insita in ogni scelta, probabilmente, che lo sappia o meno, abita già il loculo di qualche cimitero. Ai vivi resta la responsabilità di scegliere e di schierarsi. E quindi di sporcarsi le mani.

*

Un altro libro, quello dell’ex maoista belga Ludo Martens, affronta Stalin in termini decisamente antitetici rispetto ai soliti, largamente utilizzati da quella formidabile arma del potere che è il luogo comune. Il lavoro di Martens, pubblicato in italiano dalla casa editrice Zambon nel 2004 e intitolato Stalin. Un altro punto di vista, esamina in oltre trecento pagine i temi caldi delle tesi antistaliniste passando in rassegna il testamento di Lenin, la collettivizzazione forzata, la burocrazia imperante, l’eliminazione della vecchia guardia bolscevica, il mito dell’industrializzazione e le presunte collusioni con la Germania. Un particolare estremamente interessante, però, Martens, partito in gioventù da posizioni notoriamente e accesamente antistaliniste, lo rivela già nell’introduzione quando afferma:

Tutte le organizzazioni comuniste e rivoluzionarie in tutto il mondo sentiranno l’obbligo di riesaminare le opinioni e i giudizi che esse hanno formulato sull’opera di Stalin dopo il 1956. Nessuno può sottrarsi a questa evidenza: quando, dopo trentacinque anni di denunce virulente dello «stalinismo», Gorbačëv aveva realmente eliminato tutte le realizzazioni di Stalin, si è constatato che Lenin era diventato di colpo «persona non gradita» in Unione Sovietica. Seppellendo Stalin, anche il leninismo è stato sotterrato. Riscoprire la verità rivoluzionaria sul periodo dei pionieri è un compito collettivo che compete a tutti i comunisti del mondo. Questa verità rivoluzionaria scaturirà dal confronto delle fonti, delle testimonianze e delle analisi. (…) La classe il cui interesse fondamentale consiste nel mantenere il sistema di sfruttamento e di oppressione ci impone quotidianamente il suo punto di vista su Stalin. Adottare un altro punto di vista su Stalin significa guardare il personaggio storico di Stalin con gli occhi della classe opposta, quella degli sfruttati e degli oppressi.

*

Tra tutte le narrazioni conosciute da chi scrive, quella che con più verità ha saputo guardare a Stalin «con gli occhi della classe degli sfruttati e degli oppressi» di cui parla Martens, non è contenuta, a mio parere, negli studi rigorosi di un saggista o nei comizi di un esponente del ceto politico ma appartiene alla voce sommessa di un «poeta contadino», il lucano Rocco Scotellaro. Giovane sindaco socialista di Tricarico, all’indomani della morte di Stalin Scotellaro scrive:

L’uomo che vide suo padre calzare

gli uomini e farli camminare

imparò da quell’arte umile e felice

la meraviglia di servire l’uomo.

L’uomo che crebbe nell’esule villaggio

imparò il coraggio di farsi riconoscere

e di crescere non lontano dai potenti della terra.

L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini

imparò dal fascino della notte

il chiarore del giorno.

Quell’uomo muore. Attorno attorno

alla ceppaia gigantesca che è

agili frullano i vivai che piantò nel mondo.

Ogni uomo che dà agli uomini amore profondo

e il pane e le scarpe e le case e le macchine

può dire chi era Stalin e la ragione del mondo.

Rocco Scotellaro
Rocco Scotellaro

Come il padre di Stalin, anche il padre di Scotellaro faceva il calzolaio. Ma non è questo il punto. Il punto è che credere di trattare Stalin, il comunismo e l’Unione Sovietica come elementi riducibili a un’indagine storica tutta di carta e di inchiostro, di risoluzioni emesse dal Partito e di inoppugnabili documenti, significa tagliare fuori dal discorso l’impatto impalpabile eppure potentissimo che la figura di Stalin ebbe sui lavoratori di tutto il mondo. Questo impatto, misurabile con la forza della suggestione e l’ampiezza dei ricordi che si ha la fortuna di aver vissuto prima che con il rigore delle fonti, ha disegnato una comunità internazionale di donne e uomini con la faccia sporca e le mani di pietra. Sono i lavoratori. Gli stessi che alle nostre latitudini si riconoscevano per gli occhi scintillanti di dignità e per un motto, una specie di grido di guerra, spontaneo e genuino, naturalmente antifascista e assolutamente impermeabile rispetto all’approccio intellettualistico che caratterizza tanta parte del dibattito su Stalin, la sua figura, la sua eredità. Quel motto, quel grido di guerra, quel confine internazionale in cui si raccoglieva una patria completamente alternativa alle mistificazioni nazionaliste, fatta di gente che con orgoglio di appartenenza posso dire «mia», affermava di «volere tutto» quando scandiva le parole «Ha da venì Baffone».

Ed essendo che personalmente non nutro alcuna ambizione nell’esercitare rispetto a questa comunità (tutt’altro che «immaginaria» vista la sua capacità di incidere sul reale) un’opzione politica capace di distinguermi dalla massa a cui sono sempre appartenuto, è per gli occhi e le mani di chi ha voluto e continua a «volere tutto» che Il libretto rosso di Stalin ha trovato una buona ragione di essere editato.

a.stalinPostfazione al volume Il libro rosso di Stalin. Storia, politica, rivoluzione: opere scelte del padre del socialismo sovietico, a cura di Cristiano Armati, Red Star Press

DISPONIBILE SU REDSTARPRESS.IT

Prima vivere, poi scrivere. L’insurrezione messicana e il giornalismo rivoluzionario di John Reed

«Sì, il Messico è in preda al caos e alla disgregazione. Ma la responsabilità non è dei peones senza terra; la responsabilità è di coloro che seminano odio e disgregazione inviando armi e denaro, vale a dire delle Compagnie petrolifere americane e inglesi in lotta tra loro».
John Reed

Quando, sul finire del 1913, John Silas “Jack” Reed supera l’esile confine che divide ilMessico dagli Stati Uniti, il paesaggio politico che si staglia di fronte al suo taccuino da cronista è mutevole come i mulinelli di sabbia che il vento sparpaglia nel deserto. È dal 1876, infatti, che la presidenza di Porfirio Díaz provoca in tutto il Paese ondate di furioso malcontento. Ma ciò che era cominciato con tutte le caratteristiche dei classici pronunciamientos – vale a dire lotta maturata in ambienti militari per questioni inerenti la pura e semplice presa del potere – era sfociato in una lotta di lunga durata, capace di raccogliere, oltre all’indignazione dei clubs liberali, genuine energie popolari, e di gettare sul piatto della contesa questioni sociali di fondamentale importanza, a partire dagli eterni e mai risolti problemi della terra e della libertà.

a.emilianozapata
Emiliano Zapata

La storia, in una girandola di omicidi politici e di precipitose fughe all’estero alla ricerca di esili dorati, racconta che alla dittatura di Díaz, dopo la parentesi della presidenza di Francisco Madero, accusato di tradimento dai rivoluzionari per la sua incapacità di varare un programma radicale di ridistribuzione della proprietà fondiaria, sarebbe seguita la tirannia di Victoriano Huerta, destinato alla sconfitta malgrado l’appoggio degli Stati Uniti e degli interessi di una nazione già a quei tempi abituata a considerare l’intero continente americano come una propria pertinenza economica e amministrativa. Sarebbe giunto, quindi, il 1917 di Venustiano Carranza, con la prima costituzione al mondo a riconoscere precisi diritti ai lavoratori, ma anche, nel 1919, con l’omicidio – di cui Carranza fu mandante – del glorioso Emiliano Zapata: colui che pronunciò la memorabile frase «è meglio morire in piedi che vivere in ginocchio»; ispiratore dell’odierno Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (cfr. Alessandro Ammetto, Siamo ancora qui. Storia indigena del Chiapas e dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, Red Star Press, 2014); un leader contadino portatore di un’idea precisa di rivoluzione. La stessa idea che lo spinse a rifiutare la poltrona presidenziale dichiarando «non combatto per questo, combatto per le terre, perché le restituiscano» e, con lo stesso spirito, ad animare quella straordinaria esperienza di democrazia diretta che fu la Comune di Morelos, capace di tradurre il futuro «tutto il potere ai soviet» con l’indigeno «tutto il potere ai pueblos».

La tensione messicana alla giustizia sociale, in realtà, venne puntualmente stemperata nel sangue dei complotti e diluita attraverso riforme come quelle varate nel 1920 da Alvaro Obregón, puntuale artefice dell’omicidio del suo predecessore.

Se dopo l’assassinio dello stesso Obregón, datato 1928, e la salita al potere di Plutarco Elías Calles e del suo Partito rivoluzionario istituzionale, ilMessico avrebbe guadagnato la fisionomia riconoscibile ancora oggi (il Pri governerà il Paese latinoamericano per oltre settant’anni), quella stessa fisionomia avrebbe consentito una relativa tranquillità soltanto a patto di rinunciare a risolvere una volta per tutte le atroci contraddizioni tra capitale e lavoro (tra grandi latifondisti, multinazionali straniere e contadini senza terra) e di giustificare i sacrifici imposti dalla modernizzazione con una gestione a dir poco autoritaria delle problematiche sociali, in genere dipinte come questioni di puro e semplice ordine pubblico.

Francisco "Pancho" Villa
Francisco “Pancho” Villa

Dove non arrivala realtà storica, però, è la leggenda che continua a prendere parola. E questa parola, nel caso del Messico, assume nomi dai contorni mitici e un grande cantore. Nomi come quello di Francisco “Pancho” Villa, tra i principali artefici dell’insurrezione messicana, raccontata come nessun altro da un cronista capace di rivoluzionare il mestiere del giornalista per dare alla cronaca un «vero» spessore letterario: John Reed.

Per le azioni di Francisco “Pancho” Villa, uno dei massimi esponenti dell’arte della guerra partigiana, il soldato del popolo che costrinse gli Stati Uniti a impiegare, oltre a nutrite truppe regolari, dirigibili e aerei da guerra nel vano tentativo di stanarlo, lasciamo che sia il libro di Reed a parlare. L’immagine dell’eroe nazionale e la figura del «bandito sociale», allora, si stempereranno all’avventurosa realtà di un combattente «amico dei peones» per una ragione semplice e fondamentale; addirittura in virtù di ciò che continua a rappresentare uno dei principali agenti di cambiamento mai presi in considerazione dagli storici di ogni tempo e Paese: l’istinto di classe.

A partire da questo punto, però, e al di là della formidabile narrazione contenuta in Messico in fiamme, è la biografia di John Reed a parlare per quello che è stato l’incredibile lavoro – e l’ancor più incredibile vita – di un uomo capace di essere contemporaneamente un grande intellettuale e un militante di rara generosità. Un uomo, come racconta l’amico e collega Albert Khys Williams, che il destino aveva scelto di far nascere il 22 ottobre del 1887 a Portland; vale a dire nella «prima città americana dove gli operai si rifiutarono di caricare munizioni per l’esercito di Kolciàk, durante l’intervento occidentale contro la giovane Unione Sovietica» (A. K. Williams, John Reed in J. Reed, America in fiamme, Editori Riuniti, 1970).

Si trattava,evidentemente, di un segno premonitore rispetto a ciò che sarebbe stata la personalità dello scrittore, fatto sta che, prosegue Williams: «[John Reed] odiava la furbizia e l’ipocrisia. Invece di mettersi dalla parte dei ricchi e dei potenti preferì esserne avversario […]. Fu perseguitato, battuto a morte,cacciato dall’impiego. Ma i suoi nemici non ebbero mai la soddisfazione di vederlo capitolare».

Chi meglio di un«partigiano della parola» (che quando è animata da fame e sete di giustizia accompagna l’azione, non vive al di fuori di questa), insomma, poteva calarsi in una situazione come quella Messicana per restituire ai lettori di allora e di oggi il senso di una guerra di classe che arrivò a sfiorare il milione di morti e che davvero, per utilizzare un’espressione di Fidel Castro (vedi Il libretto rosso di Cuba, Red Star Press, 2013), grazie all’eroismo dei battaglioni di contadini  capitanati da Villa o da Zapata arrivò a dimostrare che «così lottano i popoli quando vogliono conquistare la loro libertà: lanciano pietre contro gli aerei e capovolgono i carri armati»?

Nessuno, in effetti, avrebbe potuto scrivere i libri di John Reed, né ricalcare le sue orme. Come ricorda ancora Williams, Reed fu:

«Un pellegrino delle grandi strade del globo.[…] Come l’uccello della tempesta egli era presente dovunque accadesse qualcosa di importante.
A Patterson, uno sciopero di operai tessili si trasforma in un uragano rivoluzionario: John Reed è nel cuore della tormenta.
Nel Colorado, gli schiavi di Rockefeller escono dalle loro fosse e si rifiutano di farvi ritorno malgrado i manganelli e le mitragliatrici delle guardie armate: John Reed è al fianco dei rivoltosi.
Nel Messico, i peones oppressi levano la bandiera dell’insurrezione e, al comando di Villa, marciano sulla capitale: John Reed, a cavallo, avanza tra le loro file.
[…] Scoppia la guerra imperialista. Dovunque tuona il cannone John Reed accorre: in Francia, in Germania, in Italia, in Turchia, nei Balcani, in Russia».

a.idiecigiorni.1220092Questa succinta lista di luoghi ed avvenimenti significativi si riflette, naturalmente, nella bibliografia dell’autore, dove – senza che questo elenco sia completo – trovano spazio opere come Messico in fiamme, pubblicato per la prima volta sulla rivista «Metropolitan» nel 1914, La guerra nell’Europa Orientale (Pantarei, 1997; ed. or. 1915), i tanti racconti (Avventura e Rivoluzione, Red Star Press, 2014), gli scritti politici (Red America, Nova Delphi, 2012) e quel grande capolavoro che è I dieci giorni che sconvolsero il mondo, una cronaca in presa diretta della rivoluzione sovietica che Lenin in persona, nell’introduzione alla prima edizione americana (1919), raccomandò di leggere «ai lavoratori di tutti i paesi».

In Patria, mentre gli Stati Uniti venivano pervasi da sempre più massicce ondate di nazionalismo fascistoide e anticomunismo, John Reed si ritrovò spesso a pagare la colpa delle proprie idee. D’altro canto lo stesso Communist Labor Party, che Reed aveva contribuito a fondare rompendo con l’ala moderata del Partito socialista, era stato costretto alla clandestinità dalle autorità statunitensi. Le stesse che, processando Reed per I dieci giorni che sconvolsero il mondo, si sentirono rispondere «non desidero altro» alla domanda sulla possibilità di un «accadimento» paragonabile a quello sovietico sul territorio americano.

Il rumore di una simile affermazione suonò come un sasso scagliato nell’oscuro cuore di cristallo dello scintillante american dream. Perché a parlare era il figlio ribelle della buona borghesia americana: un giornalista affermato e ormai noto in tutto il mondo, una firma corteggiata dei giornali più prestigiosi, un autore di successo che, in ogni caso, non aveva nessuna intenzione di essere tranquillizzato dal benessere e di chiudere gli occhi di fronte alla «guerra» (Reed usava proprio questo termine) che il capitale conduceva contro i lavoratori statunitensi e di ogni parte del mondo. Non è dunque un caso se, nel settembre del 1919, John Reed è nuovamente in viaggio. La sua destinazione è l’Unione Sovietica, la patria della Rivoluzione che lui stesso ha contribuito a raccontare ai russi con I dieci giorni che sconvolsero il mondo, ma anche il luogo dove valeva la pena di ritornare con l’idea di scrivere un nuovo libro dedicato a quelli che sarebbero stati i successi del socialismo e, in qualità di membro del comitato esecutivo, per partecipare, a Mosca, ai lavori del secondo congresso dell’Internazionale comunista, e, a Baku, nel Caucaso, al primo congresso dei popoli orientali.

Tra i due appuntamenti c’è un nuovo arresto, dopo i ben venti (!) fermi subiti negli Usa, ora è la polizia finlandese a trattenerlo, mentre gli Stati Uniti, terrorizzati da ciò che Reed avrebbe potuto dire e fare sul suolo patrio, gli negano il visto necessario a rimettere piede… a casa sua!

a.Reed_1913Un paradosso per chi, come John Reed, doveva una parte importante del suo talento letterario proprio alla capacità di essere «a casa sua» ovunque si trovasse. E di essere in grado, ovunque si trovasse, di scoprire e di affratellarsi alle sofferenze dell’umanità ribelle, e di immedesimare se stesso e la sua scrittura alle lotte in corso. Una carica di immenso valore umano, artistico e politico che, il 17ottobre del 1920, sarà costretta a chiudere gli occhi nell’adorata Mosca, dopo aver contratto il tifo nel corso del viaggio a Baku e aver spossato il proprio fisico nel corso dei continui e faticosissimi spostamenti. John Reed aveva appena trentatré anni. E naturalmente non aveva mai dato credito a chi gli consigliava il riposo dopo che, nel 1917, una delicata operazione lo aveva costretto all’asportazione di un rene. Gli Stati Uniti erano appena entrati nel primo conflitto mondiale e John Reed, ancora in ospedale, commentava il suo esonero dal servizio militare dichiarando: «La perdita di un rene può dispensarmi dal servire la guerra tra due popoli. Ma non mi dispensa dal servire la guerra tra le classi».

Per questo sarebbe semplice e oltremodo giusto ricordare John Reed attraverso la sua sepoltura, sulla Piazza Rossa, nelle mura del Cremlino. Dove su un blocco di granito sono state incise le parole «John Reed, delegato alla III Internazionale, 1920». Eppure il senso del modo in cui Reed intese la sua esistenza può essere recuperato proprio tra le pagine di Messico in fiamme. In un passaggio brevissimo dove, dopo essersela vista brutta, John Reed si rende conto di come l’unica scrittura per cui vale la pena di impegnarsi sia quella che implichi un vissuto partecipato e reale. Prima vivere, poi scrivere, dunque. Magari con i fischi delle pallottole ancora nelle orecchie. E un quaderno stropicciato nelle tasche sul quale appuntare: «Bene, questa è certamente una esperienza. Ho qualcosa da raccontare».

a.messicoinfiammePostfazione al volume Messico in fiamme di John Reed, a cura di Cristiano Armati, Red Star Press, 2013

DISPONIBILE SU REDSTARPRESS.IT

Continuare a disobbedire agli ordini. L’eredità morale degli Arditi del Popolo

a.arditi2Capita, incontrando alcuni libri, di rendersi conto che leggerli (o magari, come in questo caso, scrivere per loro conto un’introduzione) non significa avere a che fare con la carta e l’inchiostro, ma con delle realtà in grado di assumere una consistenza addirittura fisica: presenze che sarebbe più giusto assimilare a dei vecchi amici piuttosto che a delle voci bibliografiche da mettere al sicuro in qualche schedario.

Naturalmente è più facile che una simile identificazioni scatti quando il libro in questione, anziché discendere da un programma accademico, venga direttamente dalla strada, proprio come Dal nulla sorgemmo. La legione romana degli Arditi del Popolo, scritto da Valerio Gentili.

«Venire dalla strada», in questo caso, è un’espressione che non ha nulla di metaforico. E oggi, a oltre tre anni di distanza dalla pubblicazione della prima edizione del volume (2009), posso tranquillamente raccontare che io stesso ebbi modo di conoscere questo testo, prima che attraverso la sua lettura, grazie a una serie di manifesti che a un certo punto – ostentando il simbolo del teschio con il coltello tra i denti in campo nero – invasero diversi quartieri romani, a partire da San Lorenzo.

Incuriosito da sempre da tutto ciò che dicono i muri, risalii al progetto implicito in quell’attacchinaggio – riproporre all’attenzione della sinistra italiana il patrimonio rimosso del combattentismo progressista – e arrivai a conoscere Valerio Gentili: giovane storico «d’area» con il quale, in qualità di editor, iniziai una collaborazione che avrebbe prodotto, oltre a Dal nulla sorgemmo, anche Roma combattente (Castelvecchi, 2010), Bastardi senza storia (Castelvecchi, 2011) e Antifa. Storia contemporanea dell’antifascismo militante europeo (Red Star Press, 2013).

Nulla di strano, dunque, se tornare a scrivere di quello che fu l’esordio letterario di Valerio Gentili possa significare – sovrapponendo parole vecchie e nuove – rievocare quel malcelato senso di appartenenza già provato di fronte alla visione del teschio con il coltello. In modo particolare, la lettura di Dal nulla sorgemmo ha sempre richiamato alla mia memoria un’immagine difficile da mettere a fuoco. Catturato dalla prosa asciutta e dal rigore mostrato dall’autore di questo libro bello e necessario, approfondivo la conoscenza di uomini e simboli dai contorni leggendari ma, seppur rapito dalle tante informazioni inedite contenute nel volume, continuavo a pensare al luogo e al tempo in cui questa immagine, evidentemente ridotta a un ricordo seppellito nell’inconscio, doveva essersi materializzata forte e chiara davanti ai miei occhi.

a.2arditipopolo1Avvincente come un romanzo in cui il lettore capace di rispettare il patto narrativo non può fare a meno di immedesimarsi nelle situazioni descritte dall’autore, Dal nulla sorgemmo, vale a dire la storia delle prime formazioni armate che strenuamente si opposero al fascismo, lega in un discorso coerente l’avventura fiumana di Gabriele D’Annunzio e dei suoi legionari insieme al freddo intenso delle trincee della prima guerra mondiale, il clima di povertà e disperazione precedente il periodo di scioperi e repressione noto come «il biennio rosso» e l’avvento della violenza delle camice nere di Mussolini, finanziate dagli industriali, sottovalutate dai partiti della sinistra istituzionale e appoggiate dal grosso delle forze di polizia. Talmente è vivido il racconto di Valerio Gentili che, tra le pagine del suo libro, sembra di sentire crepitare le mitragliatrici utilizzate dai fascisti per assaltare le case del popolo, le leghe contadine e le sedi dei giornali dissidenti. Un’aggressione brutale e indiscriminata contro ogni luogo o persona decisi a opporsi all’ordine voluto dal Duce che, oggi, sarebbe più facilmente scivolata nel dimenticatoio se, a ostacolarla con più coraggio che mezzi, non ci fosse stata l’abnegazione e spesso il sacrificio estremo di una strana razza di soldati anarchici, repubblicani e comunisti – gli Arditi del Popolo – capaci di non confondere la necessità di obbedire agli ordini propria di qualunque sistema gerarchico con il pericolo di trasformarsi in servi di un potere volgare e assassino: un regime capace, tra le altre cose e al pari del complice nazista, di rinchiudere uomini, donne e bambini in vagoni piombati diretti ai campi di sterminio (ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici… le loro grida continuano a pesare come macigni sulla coscienza di chi ancora oggi si propone come erede di quella stagione sanguinaria) annullando qualunque «garanzia democratica» con la forza e il terrore.

Malgrado il tremendo potenziale offensivo a disposizione, le «forze del male» in camicia nera avrebbero conosciuto una clamorosa sconfitta quando, serrati i ranghi, l’esercito popolare dei Partigiani sarebbe stato in grado di rispondere alla violenza colpo su colpo e persino a sostenere vittoriosamente scontri in campo aperto. Grazie a questo, nella «Repubblica democratica fondata sul lavoro» non ci sarebbe dovuto più essere nessuno spazio né per il fascismo né per i fascisti: relitti sociali con i quali si è troppo a lungo creduto di aver chiuso i conti per sempre.

a.arditiLa realtà, purtroppo, è molto diversa dalla buone intenzioni. E se le affermazioni elettorali dell’estrema destra europea – Francia, Grecia, Inghilterra, Ungheria… – sono sotto gli occhi di tutti, la nuova edizione del libro di Valerio Gentili non si limita a osservare il fenomeno del cosiddetto «neofascismo», ma, scavando tra le pieghe di ciò che accade stabilisce un inquietante parallelismo. Perché se gli Arditi del Popolo, sulla scia del proprio valore morale e militare, non ebbero particolari problemi nel rompere il monopolio fascista della violenza, furono comunque costretti a incassare il disprezzo e la mancata collaborazione di tutti i partiti della sinistra istituzionale che, con la lodevole ma isolata eccezione di Gramsci, contribuì in modo decisivo al tramonto di quell’esperienza. Allo stesso modo, dopo la seconda guerra mondiale e dopo un periodo di relativa tenuta del fronte antifascista, l’opposizione di piazza agli eredi di Mussolini ha conosciuto un progressivo isolamento, fino a diventare appannaggio quasi esclusivo di una nuova generazione di ribelli di strada – i militanti dell’Antifa – armati di passione e coraggio, ma sistematicamente accusati di teppismo, balordaggine e superficialità delle formazioni istituzionali. Anche in Italia, da questo punto di vista, fanno storia i titoli «rissa tra ubriachi» con cui i mezzi di informazione – e i più importanti rappresentanti dell’«arco costituzionale» con loro – si sono affrettati a bollare gli omicidi di antifascisti come Davide Cesare «Dax» (Milano, 16 marzo 2003) o Renato Biagetti (Roma, 27 agosto 2006): volgari testimonianze di come, entrando nel nuovo millennio e affrontando, insieme a una crisi economica epocale anche il ritorno di fiamma delle ideologie più reazionarie, la pratica antifascista si ritrovi a vivere una nuova stagione di isolamento e marginalità, consumata nel nome diell’inesistente pace sociale necessaria a chi si è fatto alfiere dell’imperante ideologia dei «sacrifici».

Contro una simile prospettiva, non resta che tornare ai capitoli finali di Dal nulla sorgemmo. Tra gli stessi passaggi in cui – mentre l’epopea degli Arditi volge al termine e i boia in camicia nera, nelle loro prigioni, innalzano i cavalletti per estorcere con le pinze arroventate e i fili elettrici impossibili confessioni ai loro fieri oppositori – l’immagine a cui affidare il ruolo di introdurre un libro così importante, assume finalmente una consistenza concreta. All’improvviso, infatti, mi sono ricordato di un sentiero arrampicato tra le montagne della provincia di Cuneo: un tratturo ammorbidito dall’erba, come se la Natura stessa volesse ancora aiutare il suo segreto a sfuggire alla vista del passante occasionale o della spia. In questa località, amena soltanto all’apparenza, la consistenza della terra battuta cede d’un tratto il passo alla solidità della pietra viva, infilzando uno scalino dopo l’altro fino alla sommità di un monte. Qui, dove l’aria è rarefatta dall’alta quota e il cielo perennemente terso, la sacralità del luogo è affidata a un circolo di croci di legno, tese sulla serenità della valle sottostante come sentinelle. Si tratta delle tombe di un gruppo di partigiani caduti nel corso della guerra di Resistenza, come direbbe Piero Calamandrei, uomini «che volontari si adunarono per dignità e non per odio. Decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo». Tra di loro, ugualmente segnalato da una croce ma a differenza degli altri privo persino del conforto di un nome, c’è un partigiano ricordato da una targa che si limita a dire «tedesco anonimo»: un soldato dell’esercito del male che, evidentemente, non ebbe paura di gettare alle ortiche la sua uniforme per continuare a combattere dalla parte giusta. La sua lezione, affidata a quel sacrario della provincia di Cuneo, andrebbe trasferita nei tribunali di guerra in cui i tanti aguzzini fascisti e nazisti insistono a scrollare le spalle di fronte alle loro responsabilità, continuando a ripetere di avere solo «obbedito agli ordini»; quasi pretendendo, con simili scuse, non soltanto il perdono, ma anche il riconoscimento di un’inesistente dignità.

A pensarci bene gli Arditi del Popolo di cui parla Valerio Gentili sono simili al soldato tedesco senza nome venuto a morire tra montagne tanto lontane da casa sua: combattenti che ebbero la capacità e la forza di disobbedire agli ordini rifiutandosi di diventare la manodopera del terrore al servizio di forze antipopolari ma che, malgrado tutto, faticarono a trovare posto in quella tradizione di giustizia e libertà a cui dovrebbe continuare a ispirarsi la Repubblica italiana. Le ragioni del sostanziale silenzio su una simile esperienza, mai valorizzata come avrebbe meritato, sono tante. A Valerio Gentili e al suo Dal nulla sorgemmo va il plauso di averle ripercorse insieme alle vite e alle avventure degli eroici protagonisti di quell’esperienza. Una storia da conoscere e da fare propria. Affinché nessuno possa ancora pensare di giustificare l’abominio. E affinché molti possano continuare a disobbedire agli ordini.

a.dalnullaIntroduzione al volume Dal nulla sorgemmo. La Legione Romana degli Arditi del Popolo di Valerio Gentili, Red Star Press

DISPONIBILE SU REDSTARPRESS.IT

a.arditipopolo

DISPONIBILE ANCHE IN EBOOK