La verità – che parolone! – è che il calcio mainstream fa talmente schifo che quando sulla scena si presenta un personaggio come il sor Sarri: un signore di mezza età con lo stile dell’abitué del bar dello sport e non un fotomodello mancato olezzante lacca e silicone; quando a poggiare il culo sulla panchina è uno che non ha fatto differenza tra campi di terra malamente battuta e grandi platee televisive e che ha affrontato un percorso estraneo al riprodursi incestuoso tipico delle elite (sportive, economiche e politiche non fa nessuna differenza); quando a impossessarsi del prime time, delle pagine dei giornali e, magari, anche del campionato è un tipo che, addirittura, è in odore di comunismo… beh, ci mancava soltanto che Sarri avesse scelto di tenere corsi di antisessismo all’università per conferirgli il premio Lenin e a questo punto, riconciliati con l’orrore della mercificazione imperante, ci saremmo potuti rimettere le ciabatte in tutta tranquillità e continuare a passare i pomeriggi della nostra breve vita davanti a Sky.
I fatti sono andati diversamente. Sarri ha avuto a che ridire con Mancini e ha apostrofato l’ex golden boy doriano al grido di «frocio», «finocchio» e/o cose simili.
Troppo perfetto per essere vero, l’uscita di Sarri, per altro resa pubblica dallo stesso Mancini in differita, ha deflagrato come un sampietrino scagliato contro la vetrina di un negozio del centro. Ad alzare la voce contro l’allenatore del Napoli ci ha immediatamente pensato «la Repubblica», che quando non parla di Renzi ha la coscienza limpida di un neonato, auspicando in ordine crescente il licenziamento, la radiazione, la crocefissione di Sarri, che va bene tutto – dal jobs act alla buona scuola, dalla trivellazioni all’Alta Velocità – ma se si parla di omofobia allora è uno scandalo perché siamo un paese civile bla, bla, bla…
A dire il vero, e stendendo un velo pietoso su una certa dose di razzismo implicita in tanti discorsi sull’Italia Meridionale, Sarri ha trovato altrettanto presto validi argomenti di difesa e, a suo favore, si è schierato un fronte allargato, ed ecco che le bandiere del «Mancini spia» hanno cominciato a sventolare insieme a quelle di un insospettabile movimento «omosessuali pro Sarri», armato dell’immancabile «non sono d’accordo con la tua opinione ma darei la vita affinché tu possa esprimerla», che evidentemente fenomeni tipo l’ascesa di Hitler non sono bastati a dimostrare come esistano “opinioni” (e l’omofobia è tra queste) rispetto alle quali la vita è il caso di metterla in gioco affinché non si esprimano più e non il contrario.
Tralasciamo i commenti di chi è disposto a vendere l’anima al diavolo pur di festeggiare lo scudetto della sua squadra, ma, per no fare la figura dei bambini che si difendono dalle sculacciate della mamma additando le marachelle dei fratellini, evitiamo anche i paragoni con altri episodi impuniti: tipo la disinvolta esibizione di celtiche e boia chi molla da parte del portierone nazionale Gigi Buffon o la naturalezza con cui il famigerato Tavecchio, sempre saldo sul trono presidenziale, ha dato fiato alle sue trombe razziste e omofobe. Moltissimi articoli dedicati all’affaire Sarri, praticamente tutti, si addentrano nei loro distinguo dopo stucchevoli preamboli costruiti a colpi di «fermo restando la condanna dell’omofobia» e «pur riconoscendo la gravità delle espressioni utilizzate dal tecnico napoletano». Articoli che, in alcuni casi, i migliori, proseguono con argomentazioni tipo «però quando Salvini afferma le stesse cose gli riconoscete massima agibilità politica, mica vi indignate, eh!»; tutte cose vere e sacrosante, come però a essere vera e sacrosanta è anche la chiosa necessaria ad arginare ciò che rischia di essere banale. Una chiosa chiara e concisa tipo: «Grazie al cazzo!».
Se tra le colonne dei nostri giornali esistesse davvero la coerenza, affacciandoci alla finestra avremmo l’occasione di vedere un mondo assolutamente diverso da quello che abitiamo: un mondo dove, ma solo per fare un esempio al volo, si discuterebbe delle onorificenze assegnate a certi ragazzi di Cremona per il loro antifascismo, valore sacro della Costituzione italiana, e non certo della repressione di cui sono vittime…
Continuare su questa strada è inutile, l’evidenza dell’ipocrisia imperante parla da sola. Eppure se un Salvini qualunque viene invitato ovunque proprio per inneggiare al sessismo più becero (come al razzismo più becero e al fascismo), mentre l’espressione di Sarri provoca simili bordate di indignazione una ragione deve pur esserci. E a ben vedere questa ragione c’è: il Sarri omofobo, infatti, diventa immediatamente e anche suo malgrado un ostacolo sulla via dell’avanzato stato di trasformazione del calcio, da sport a spettacolo, e degli impianti sportivi, da territori tendenti a esprimere valori antagonisti rispetto alle logiche di dominio a teatri in cui si paga il biglietto per comprare il proprio seggiolino numerato. Il finocchio di Sarri, in questo percorso, è un bel bestemmione smoccolato in cattedrale durante l’omelia del vescovo e, magari a livello inconscio, è proprio in questa rottura che il ruvido tecnico toscano trova difensori che nulla hanno a che spartire con sessismo e omofobia. Anche noi, da questo punto di vista, non facciamo fatica alcuna a iscriverci al club. E non per la comprensibile ma infantile simpatia nei confronti del politicamente scorretto a cui pure non siamo immuni, ma perché crediamo che «l’odierna società dello spettacolo col babau del sessismo e dell’omofobia riuscirebbe non solo a difendersi, a vivere più tranquilla, ma anche a convincere una parte degli spettatori a collaborare con lui, a schierarsi dalla sua parte. Combattere il sessismo e l’omofobia lasciando indisturbato il suo perenne generatore, e anzi illudersi di trovare in questo un difensore contro quello, significa continuare ad avere sulle spalle l’uno e l’altro».
Chiudiamo questa riflessione riconoscendo la paternità del virgolettato finale a Luigi Fabbri e al suo La controrivoluzione preventiva. Scritto nel 1926, il libro di Fabri parlava di «fascismo» e non di «sessismo e di omofobia» e scriveva «Stato capitalista» e non, come abbiamo fatto noi prendendo in prestito le sue parole, «società dello spettacolo». Il senso di simili affermazioni, però, resta perfettamente sovrapponibile. E a questo punto il caso-Sarri può tranquillamente essere archiviato.
(Pubblicato in versione ridotta su Sportpopolare.it il 21 gennaio 2016)