Il discorso della Montagna e la parabola del sassolino: lo sgombero della Ex Telecom di Bologna nel contesto della nuova guerra civile italiana.

Lo conoscono tutti il discorso della Montagna. Se ne sta lì da duemila anni, conservato tra le pagine dei Vangeli, uno dei best seller della letteratura religiosa di ogni tempo e paese.

Non che sia tanto più giovane, ma, affidato a una storia orale conosciuta prevalentemente da chi subisce il problema, il tema dell’emergenza abitativa, insieme alla sua sorella prediletta, la lotta per la casa, non ha mai goduto della stessa popolarità accordata agli evangelisti; né, nel nome dell’emergenza abitativa o della lotta per la casa, c’è mai stato qualcuno che, protetto dalla sicurezza di un tetto sopra la testa, si sia mai segnato il petto o mormorato parole di buona volontà.

Come mai?

La risposta è tra le ultime parole dei passi evangelici, quando, dopo aver promesso ai protagonisti del discorso – cioè ai poveri – la consolazione degli afflitti, la riparazione dei torti e il ristoro dalla fame e dalla sete di giustizia, s’indica con fare estatico l’orizzonte, per affermare che devono starsene tranquilli questi benedetti poveri, considerando che tanto finiranno per ereditare il regno dei cieli.

Ora, la pazienza sarà anche la virtù dei forti, ma mentre i forti continueranno a fare tutte le prove utili a capire se davvero sia più facile far passare un cammello per la cruna di un ago piuttosto che mandare un ricco in paradiso, accade che i poveri il regno dei cieli lo mettano un attimo da parte, per risolvere QUI e ORA i loro problemi, a cominciare proprio dal quello della casa.

Cos’altro dire su questo argomento? Che i prezzi degli affitti sono ormai ovunque superiori a quelli di un salario medio?Che, costretti a sopportare il peso di una crisi economica senza precedenti, il problema del reddito è diventato questione di pura sopravvivenza per numeri enormi di persone? O, piuttosto, serve dimostrare per l’ennesima volta come il meccanismo in grado di produrre tante case senza gente insieme a tanta gente senza casa sia il frutto di una precisa volontà speculativa e criminale organica al concetto stesso di “libero mercato”?

Toccando il problema delle abitazioni, c’è chi si appella ai diritti umani, ricordando come nei relativi documenti si parli esplicitamente di diritto alla casa, e chi, Costituzione alla mano, sottolinea il passaggio (già, è incredibile ma esiste…) in cui la stessa proprietà privata potrebbe e dovrebbe essere messa in discussione quando la sua concentrazione nuoce ai diritti della collettività.

Le parole, però, per quanto possano essere belle, suggestive, emozionanti, restano parole. E quando si parla di casa, invece, c’è bisogno di fatti. Proprio per questa ragione i Movimenti per il Diritto all’Abitare hanno sempre affrontato la questione del problema-casa dal punto di vista della sua SOLUZIONE. E l’unica, vera soluzione per le famiglia che stanno dormendo in macchine abbandonate, sulle panchine dei parchi o in ricoveri fortuna è quella dell’occupazione abitativa. In altre parole: la requisizione immediata di qualunque stabile lasciato in stato di abbandono per questioni meramente speculative o, sul fronte della proprietà pubblica, per favorire progetti di privatizzazione spinti dai comitati d’affari grazie all’uso disinvolto e normale dello strumento della corruzione.

Grazie a una massiccia ondata di occupazioni abitative, in questi ultimi anni, neppure si contano le famiglie messe in grado non soltanto di uscire da uno stato di assoluta indigenza, ma anche di articolare – attraverso i fatti e per mezzo di spettacolari azioni di protesta – un progetto politico alternativo rispetto all’esistente e, per questo, implicitamente ed esplicitamente schierato lungo la linea di un fronte su cui si stanno combattendo le prime, cruente battaglie di ciò che scegliamo di chiamare la nuova guerra civile italiana.

Blindati in via Fioravanti

Citando il vecchio Philip K. Dick, facciamo notare che scegliamo di chiamare realtà «quella cosa che se smetti di crederci non svanisce» e, liquidando come superflue le possibili obiezioni sulla scelta di una definizione come quella di «guerra civile», eventualmente troppo dura, torniamo a dare la parola ai fatti, iniziando dall’alba del 20 ottobre, quando uno squadrone di blindati ha scariolato davanti a uno stabile di via Fioravanti, a Bologna, un esercito di celerini con il casco, il manganello e la divisa blu.

Cosa si nascondeva dentro il palazzo velocemente circondato? Forse una terribile banda di rapinatori? Una congrega di mafiosi? O, magari, uno dei tanti raduni di politici corrotti?

Naturalmente niente di tutto questo. In via Fioravanti, nei vecchi uffici della Ex Telecom, vivevano semplicemente 280 persone: donne, uomini, vecchi e bambini; persone comuni e, proprio per questo, straordinarie nel momento in cui, di fronte alle difficoltà, avevano scelto di non considerare la propria condizione di indigenza come una «colpa», ma come la conseguenza di precisi rapporti sociali: un dramma collettivo da trasformare in opportunità grazie all’occupazione.

Grazie a questo, la Ex Telecom si è trasformato in una casa. Anzi, in un esempio nuovo e migliore di come sia possibile abitare un luogo: con la capacità di amalgamare 17 diverse nazionalità in un unico popolo di complici e di solidali, protagonisti della propria vita così come della politica cittadina e italiana, sempre pronti a mettersi in viaggio per le strade di Bologna come per le piazze di tutta Italia nell’ambito di un disegno condiviso a ogni latitudine della Penisola: il disegno di una casa e di un reddito per tutte e tutti.

La polizia, da questo punto di vista, non ha sentito né poteva sentire ragioni. Ha colto il dato eminentemente politico della lotta per la casa e, sostituendosi alla politica propriamente detta, ha proceduto violentemente allo sgombero. O almeno ci ha provato. Perché mentre il sindaco di Bologna scaricava sulla Questura la responsabilità di una simile scelta e mentre, dallo stesso palazzo comunale, diviso dalla Ex Telecom soltanto da un lato di strada, l’assessora Frascaroli dava spettacolo della sua inutilità osservando inerme, inetta e dunque complice le operazioni in corsa, insieme a tutto il popolo della Ex Telecom insorgeva l’intera città delle Due Torri, o perlomeno la sua parte degna.

Amelia Frascaroli osserva lo sgombero della Ex Telecom

Intendiamoci, i celerini hanno immediatamente provveduto a sporcare di sangue i marciapiedi di via Fioravanti, caricando brutalmente il primo gruppo di sodali intervenuto per bloccare lo sgombero. Poi la strada poliziesca si è fatta più dura e via Fioravanti è diventata con il passare dei minuti il centro di un mondo inesorabilmente schierato dall’altra parte della barricata rispetto a quello dei mandanti materiali e morali delle operazioni. Ecco, allora, che mentre il flex della polizia apriva le porte e mentre gli uomini (?) in divisa facevano irruzione, la resistenza degli occupanti scriveva le sue pagine eroiche, regalando a chi continua a opporsi all’abominio di una società mercificata speranze e sogni che qualcuno ha avuto la colpa di credere perduti.

Contro le mani rapaci degli sbirri, per esempio, c’è stata la determinazione di un bambino di sette o otto anni, capace di scalciare con tutte le sue forze, mentre dentro si continuavano a battere coperchi e a gridare contro gli infami.

Perché chiamiamo infami le divise che hanno sgomberato?

Danger: il manganello personalizzatoUsiamo questo termine perché sono stati molto lontani dall’interpretare “tecnicamente” il triste ruolo a cui sono condannati: lo hanno fatto, al contrario, con un sadismo che ha dello psicopatico e andando oltre qualunque regolamento di polizia. A testimoniarlo, se non dovesse bastare la signora a cui, all’interno della Ex Telecom, è stata spaccata a calci la mascella, un particolare inquietante: gli adesivi con scritto «danger» che alcuni sbirri portavano appiccicati sui loro manganelli; segnali di un godimento nella repressione capaci di spiegare lo stato di abbrutimento psichiatrico raggiunto dalla forze dell’ordine, evidentemente sulla scia di precise istruzioni e di un altrettanto puntuale addestramento. O, osservando le cose da un’altra prospettiva,Born to kill da "Full Metal Jacket" non meno grave, la personalizzazione delle armi in dotazione al corpo richiama immediatamente le immagini dei soldati statunitensi impegnati, per esempio, in Vietnam: una guerra d’invasione che, all’improvviso, mostra insospettabili analogia con la “guerra contro i poveri” a cui i celerini si stanno dedicando. Ma anche ennesima conferma di un dato di fatto: la polizia ha introiettato l’immagine del civile come nemico.

Bologna, in ogni caso, non è stata a guardare. E alcune apparizioni vanno sottolineate, lodate e analizzate per trarre preziose considerazioni. L’apparizione più bella, probabilmente, è stata quella degli insegnanti dei bambini e delle bambine della Ex Telecom. Non solo per le grida «resisti, ci vediamo a scuola!» con cui hanno incoraggiato i propri allievi occupanti, ma perché hanno insegnato a tutti e a tutte una cosa meravigliosa. Sul fronte della scuola, infatti, uno dei pezzi della cosa pubblica più importanti ed evidentemente proprio per questo più maltrattati nell’ultimo ventennio, molto spesso le richieste di professori e personale non docente sono affogati nella palude della vertenzialità, vittime di una propaganda capace di dipingere come «privilegiato» qualunque lavoratore statale e, più in generale, aggredite e superate dai tanti problemi di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Al contrario, la presenza delle insegnanti sotto la Ex Telecom ha aperto un discorso politico di ampio respiro e spiegato meglio di qualunque comunicato un fatto semplice come un uovo di Colombo, e proprio per questo dirompente: le rivendicazioni di chi lavora nella scuola torneranno popolari nel momento in cui chi lavora nella scuola torna a parlare direttamente a quel popolo che non intende restringere le possibilità dell’istruzione ai soli figli dei ricchi; e nel momento in cui – all’interno di un concetto etico e plurale di scuola pubblica – non finiscono solo le tabelline e le regole grammaticali, ma un principio di ordine superiore: è impossibile parlare di «scuola», e meno che mai di «buona scuola», se i bambini e le bambine non hanno neppure una casa.

Direi che questo è un concetto elementare e proprio per questo esplosivo, lodevolmente afferrato, sotto la Ex Telecom, anche dal nutrito gruppo di studenti e studentesse di medicina accorsi per portare la loro solidarietà agli sgomberati.

Recentemente la casa editrice Rapporti Sociali ha ripubblicato il libro Il bisturi e la spada, la biografia (dimenticata) di un medico canadese, Norman Bethune. Ebbene, pioniere della lotta alla tubercolosi, come rispondeva Bethune alle domande su come curare quel terribile male?

Con un lavoro decente e una casa, rispondeva Bethune: proprio così. Al contrario, in una città come Roma (non conosciamo da questo punto di vista la situazione bolognese), se qualche persona di buona volontà intendesse farsi un giro fuori dai cancelli di qualunque ospedale scoprirebbe orde di pazienti e parenti di pazienti costretti a dormire in macchina in attesa del momento del proprio ricovero o durante i cambi-turno legati all’assistenza di un proprio congiunto: molto spesso di un bambino (se non ci credete fate un salto fuori dal Bambin Gesù…). Ma avete mai sentito un dottore o un infermiere protestare – nel nome della dignità della propria professione – contro un simile stato di cose?

Direi proprio di no. Mentre a Bologna gli studenti di medicina sono stati artefici esattamente di questo tipo di protesta. Hanno portato solidarietà agli sgomberati, certamente, ma non nel nome di un qualche principio pietistico, ma perché il campo dei diritti – che si parli di casa o di salute non fa nessuna differenza – non può essere affrontato a compartimenti stagni. E se si curano gli uomini e le donne per professione e per vocazione è impossibile separare il modo giusto di fare il proprio mestiere dalle condizioni in cui coloro a cui ci si rivolge in quanto pazienti sono costretti a vivere.

Bisogna davvero lodare la presenza degli studenti di medicina di Bologna, dunque, e sono molte le categorie professionali che dovrebbero prendere esempio da loro. Ne citiamo almeno due cominciando dai pompieri: la loro missione è quella di garantire la sicurezza di uomini, cose e animali, per quale motivo dovrebbero essere screditati fino al punto di essere costretti a mettere i propri mezzi e la loro professionalità al servizio degli sgomberi?

La cosa è accaduta molte volte e a Bologna non c’è stata un’eccezione. C’è stata, però, e la cosa va almeno citata, la protesta dell’USB: anche se a Roma, in una precedente occasione, l’organizzazione aveva invitato i pompieri alla disobbedienza civile contro l’uso del corpo nelle operazioni di sgombero, ora a Bologna ci si lamenta di come i vigili del fuoco siano impropriamente utilizzati per compiti di ordine pubblico.

Che di concrete azioni di disobbedienza civile ci sia estremo bisogno è poco ma sicuro. Lo stesso tipo di azioni, e qui veniamo alla seconda categoria professionale chiamata in causa nel corso dello sgombero della Ex Telecom, assolutamente assente, almeno per quello che ci è dato sapere e almeno fino a questo momento, tra gli assistenti sociali. Personale di questo tipo, infatti, ha svolto un ruolo attivo nel corso dello sgombero, ma non certo per difendere i problemi delle persone coinvolte, ma per fiancheggiare le forze dell’ordine proferendo minacce del tipo: «Se non esci di qui ti facciamo togliere tuo figlio».

Lo schifo di un simile atteggiamento è intollerabile. E dopo quanto accaduto a Bologna è l’intero comparto a essere chiamato a un’assunzione di responsabilità per spiegare se quando parliamo di «assistenza sociale» parliamo dei colletti bianchi della repressione o di altro. Nell’attesa dei necessari chiarimenti, resta altissimo il disprezzo, anche perché nella stessa giornata del 20, quando a Roma molte centinaia di occupanti di case solidali con i compagni bolognesi si sono riversati a Porta Pia per manifestare contro lo sgombero della Ex Telecom, lo stesso, identico tipo di frasi erano pronunciate direttamente da poliziotti in borghese: «Ti fotografiamo e poi veniamo a cercarti per toglierti il bambino», dicevano ai manifestanti con figli al seguito.

Ma quando questi stessi bambini, verrebbe da chiedersi, si trovavano con le loro famiglie in mezzo alla strada, dove erano questi solerti tutori dell’ordine, dove erano gli zelanti assistenti sociali e dove gli assessori preposti?

Di sicuro per quei bambini ha fatto molto di più l’orsetto che a Bologna si è visto difendere gli occupanti lottando sulle barricate e, grazie a questo, destinato a conquistarsi un posto importante dell’immaginario antagonista degli anni a venire.

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E non a caso, a proposito del dove erano? rivolto a poliziotti, assistenti sociali e assessori preposti, la risposta istintiva dei manifestanti di Porta Pia è stata:

  • I poliziotti erano dove sono adesso: a garantire i traffici di mafia capitale e gli interessi dei palazzinari a suon di manganelli;
  • Gli assistenti sociali erano dove sono adesso: con il culo sopra una sedia; davvero restii a comprendere che fare il lavoro che fanno dovrebbe significare iniziare a schierarsi compatti dietro a una piattaforma che affermi «casa e reddito per tutt*»;
  • Gli assessori alla casa erano dove sono adesso: con il culo sopra una sedia anche loro, ma con la faccia dentro una mangiatoia foraggiata a destra dai palazzinari e a sinistra dal peloso – e altrettanto palazzinaro – sistema clerical-cooperativistico, quello che gestisce i residence e i centri per i rifugiati e che si pone, dietro compenso, come intermediario tra l’erogazione dei diritti e la massa a cui spetterebbero senza condizioni di sorta.

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Per quanto riguarda il 20 ottobre romano, la dose dell’indegnità è stata ulteriormente rincarata ancora dagli stessi tutori dell’ordine, capaci di avvicinarsi agli attivisti più noti per proferire frasi sul genere: «Tanto con te facciamo i conti dopo»; oppure: «Ti veniamo a prendere quando meno te lo aspetti».

«Sì», è stata una delle risposte che si è sentita in piazza, «e portati pure quattro mani, così magari riesci a farmi una pippa»; ma al di là del folklore locale o del coraggio manifestato a Bologna come a Roma e anche ad Alessandria e a Brescia, dove pure ci si è riversati in strada per bloccare il traffico in solidarietà con gli sgomberati della Ex Telecom, l’atteggiamento «cileno» della polizia dovrebbe spingere alla disperazione anche i «sinceri democratici» e indurre gli osservatori a capire come tra il golpe bianco di Renzi e l’insediamento del prefetto Gabrielli come sostituto dell’incapace sindaco Marino si sia consumata l’occupazione poliziesca degli spazi di mediazione politica, ormai completamente azzerati.

Oggi più che mai, quindi, affermare che «i diritti si conquistano a spinta», non significa estendere alla società intera il felice slogan coniato dai lavoratori della logistica nel corso di mille picchetti davanti alle fabbriche del loro sfruttamento, ma cercare di mettere in pratica un sano esercizio di realismo morale e politico. Ancora da Bologna, da questo punto di vista, arriva un segnale importante e riguarda intellettuali ancora in grado di agire in quanto «organici». Accanto al nome di Zerocalcare, che da sempre lega il suo tratto alla storia dei movimenti conflittuali e che anche questa volta non ha fatto mancare la sua interpretazione iconografica di quanto accaduto, segnaliamo la puntuale vignetta di Be Folko e sopratutto il prezioso contributo del collettivo Wu Ming, presente in piazza accanto agli occupanti e protagonista di una cronaca-fume degli eventi in corso.

Questi contributi sono ancora più preziosi all’indomani dell’assoluzione di Erri De Luca, processato per essersi espresso a favore degli atti di sabotaggio contro la linea ad Alta Velocità; sono preziosi perché mettono in discussione il processo di disumanizzazione a cui da anni sono soggetti i protagonisti dei movimenti per il diritto all’abitare; sono preziosi perché in controtendenza rispetto alle gravissime responsabilità di organi di stampa come «la Repubblica», il «Corriere della Sera» e «il Resto del Carlino», immediatamente pronti a silenziare o a diffamare gli eventi (lo hanno sempre fatto, continueranno a farlo: «giornalista / terrorista» non è uno sologan, è una fotografia…); sono preziosi, perché sull’esempio delle insegnanti offrono la possibilità di impostare un discorso sulla cultura davvero popolare (dovrebbe farci un pensiero chi, in questi giorni, si trova colpito dai feroci tagli di Franceschini ai teatri…) in quanto capace di partire dal presupposto “cosa me ne faccio di un libro se non ho nemmeno una casa”; sono preziosi perché si muovono su un crinale dove le parole sussistono dentro le azioni e perché non bisogna dimenticare almeno altre due cose accadute il 20 ottobre:

Si potrebbe chiosare quest’ultima notizia affermando come nessuno dei fascisti che volevano uccidere Emilio sia mai entrato in carcera, ma sarebbero altre parole gettate al vento: Zerocalcare per Degage«La guerra la fate soltanto a noi», aveva scritto Zerocalcare quando si era trattato di fare i conti con lo sgombero di Degage, probabilmente la “madre” di questa ondata di sgomberi; e l’affermazione resta vera: si può toccare con mano ed è sotto gli occhi di tutte e di tutti. Così come è sotto gli occhi di tutte e di tutti l’attacco scagliato contro i movimenti antagonisti: contro, cioè, un’area che rifiuta le mediazioni al ribasso e che legittima giorno dopo giorno l’azione diretta e la riappropriazione come pratiche utili al necessario riscatto popolare. Occupare case, lottare contro la linea ad Alta Velocità, rifiutare trivelle, discariche, impianti militari e gasdotti o essere protagonisti dell’antifascismo militante e della riappropriazione diretta e indiretta di reddito sono l’equivalente contemporaneo di ciò che è stato in passato la lotta contro la schiavitù: pratiche considerate illegali, represse con il sostegno di tutti i poteri forti, eppure irrimediabilmente giuste.

Pisa: il poliziotto con la pistola alla Ex GeaQuesto è il versante della nuova guerra civile italiana: un territorio dove, è accaduto il 23 ottobre nel corso delle operazioni di sgombero della ExGea, a Pisa, la polizia si permette di fare irruzione con le pistole spianate (un fatto gravissimo e a proposito del quale è lecito chiedersi: quando ci scapperà il morto?); o dove, come a Roma, il 16 ottobre, uno spazio pubblico come quello universitario viene privatizzato a uso e consumo di una ridicola fiera delle multinazionali delle nuove tecnologie e si finisce per imporre un biglietto d’ingresso persino agli studenti a cui quella stessa università impone tasse sempre più alte, anche grazie all’ennesima creatura di Renzi: il nuovo Isee, un astruso sistema di calcolo capace di trasformare i poveri in ricchi dal punto di vista delle imposte, contribuendo così alla distruzione degli ultimi brandelli di welfare ancora esistenti. Inutile specificare, a questo proposito, che gli studenti romani sono stati caricati, picchiati, arrestati e attaccanti con l’idrante.

Né sorte migliore è toccata, nel pomeriggio del 20, a chi è sceso in piazza a Porta Pia: inginocchiati l’uno accanto all’altro, gli occupanti romani hanno opposto una determinata difesa passiva su cui si è accanita la nuova macchina dell’acqua ad alta pressione, capace non solo di sparare un potente getto direzionale ad altezza d’uomo, ma anche di muoversi producendo getti bassi, evidentemente progettati allo scopo di forzare simili blocchi. La grottesca somiglianza di questo tipo di idrante-blindato alla tradizionale motospazzatrice ha fatto scattare nella testa degli occupanti un’evidente analogia: «Ci stanno trattando come spazzatura», è stata l’impressione che è iniziata a serpeggiare sulla piazza; e la risposta a chi vuole trasformare uomini e donne in oggetti da buttare è stata effettivamente all’altezza della situazione in termini di coraggio e di determinazione; ma anche costosa in termini di feriti: due donne, lavoratrici e madri di bambini, una anche incinta, sono state portate via in ambulanza con diverse fratture provocate dalle cariche.

Purtroppo la cronaca di queste giornate non si esaurisce con i soli fatti di Bologna, Roma, Brescia o Alessandria, perché a Torino, il 22 ottobre, con la Ex Telecom ancora impegnata a sostenere la lotta che pretende l’assegnazione di una casa popolare a tutti i nuclei familiari sgomberati, la polizia attacca di nuovo i movimenti per il diritto all’abitare, facendo irruzione in una palazzina in via Collegno ma producendo, insieme allo sgombero, l’apertura di una nuova vertenza, con le famiglie che si asserragliano nella circoscrizione, decise a pretendere l’alloggio popolare a cui hanno diritto o a occupare ancora!

Un nuovo stabile, d’altro canto, viene occupato a Parma il 24: finalmente una bella notizia; la conferma che l’onda lunga inaugurata dal grande corteo del 19 ottobre 2013, quando centomila persone sfilarono nella capitale dietro lo striscione «una sola grande opera: casa e reddito per tutt*», sta continuando a camminare, con un’unità di intenti maggiore del passato e, come ha dimostrato Bologna, anche con la capacità di istituire i termini di un dibattito pubblico in grado di riscoprire la possibilità di essere veramente parte di un movimento reale che cambia lo stato di cose presenti. Che cosa hanno affermato, in fondo, le «tesi di settembre», vale a dire il documento conclusivo dell’intensa quattro giorni di «Sfidiamo il Presente», momento di assemblea e incontro delle lotte italiane autorganizzate?

«Senza aspettare che una promessa di cambiamento piova improvvisamente dal cielo, ora è il tempo di agire, di prendere in mano il nostro destino, facendo in modo che le nostre stesse vite diventino minaccia», c’è scritto sul documento conclusivo. E puntuale, una simile minaccia si è fatta vedere ancora il 24 ottobre, quando tra Palermo, in solidarietà con gli arresti per i fatti di Cremona, a Roma e a Bologna sono state migliaia le persone scese in piazza, con le grida “tutte libere, tutti liberi”, bandiere rosse «stop sfratti e sgomberi» al vento e grandi striscioni con la parola d’ordine «prima i poveri», già pronta ad affermarsi nel corso di quello che si preannuncia come un nuovo ciclo di lotte.

Di fronte alla montagna dell’ingiustizia, in realtà, non c’è discorso che tenga. Ci sono, piuttosto, i tanti sassolini delle lotte, determinati a inceppare gli ingranaggi del neoliberismo o comunque capaci di scivolare lungo il crinale di una società atomizzata per tornare ad aggregare, e quindi a ricomporre in una classe, le energie degli esclusi, degli ultimi, dei proletari e dei sottoproletari, dei precari, dei disoccupati, delle partita IVA incapienti, dei working poor e di qualunque altra categoria sia riconducibile, con qualunque tipo di lessico, all’universo degli sfruttati. Ce n’è abbastanza per trasformare il Vangelo in un Manifesto e per passare dal Discorso della Montagna a una più edificante “parabola del sassolino”, concludendo dunque con le parole del poeta Tasos Livaditis: beati coloro che non hanno nulla, perché stanno venendo a prendersi il mondo. Altro che regno dei cieli.

“Una serie di violenze a cui i cremonesi non avevano mai assistito”

“Una serie di violenze a cui i cremonesi non avevano mai assistito”, scrive il “Corriere della sera” commentando la grande manifestazione antifascista del 24 gennaio:

http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_25/jesuiscremona-giorno-scontri-antagonisti-polizia-06f621f8-a48b-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml

Strano, perché considerando l’area in cui operò Roberto Farinacci, uno dei mazzieri più pericolosi del fascismo, direi che contadini, operai e il popolo cremonese tutto la violenza, quella vera, l’abbia conosciuta eccome, e potrebbe tranquillamente andare a spiegarla al “Corriere della sera”, che, al contrario di tanta stampa socialista, comunista o indipendente, la violenza fascista non l’ha davvero mai conosciuta, essendosi sempre ben guardato dall’avanzare alcuna critica nei confronti del regime mussoliniano, ma avendo invece avuto sempre premura di svolgere con diligenza il compitino di megafono del fascismo, senza mai permettersi di denunciare i massacri squadristi perpetrati dalle camice nere in tutta Italia.

Non avendo mai affrontato l’argomento, non è dunque strano se nell’archivio del “Corriere della sera” o nella memoria dei pennivendoli assoldati dal padrone di turno non vi sia alcuna idea della violenza, della sua realtà o dei suoi significati. Infatti sarebbe bastato anche un po’ di semplice buonsenso per capire come, parlando di “violenza a Cremona”, diventi più utile e appropriato interrogarsi sul senso dell’attacco squadrista subito dal CSA Dordoni solo pochi giorni fa: un assalto con spranghe che ha lasciato in fin di vita una persona a proposito della quale, ovviamente, il “Corriere della sera” non reputa sia il caso di parlare di “violenza”.

Episodi come quello che hanno mandato in coma Emilio o che, nel recente passato, hanno assassinato Dax a Milano o Renato a Roma, sono da considerare al massimo, per il “Corriere della sera”, “risse tra ubriachi” o “scontri tra punk”, quando non si preferisce parlare di “opposti estremismi” o di “rivalità calcistiche” per tirare un colpo di spugna sul senso politico degli avvenimenti.

Al contrario, il senso dell’assalto al csa Dordoni appare addirittura trasparente se lo si mette in parallelo con lo stillicidio di azioni violente che i gruppi fascisti hanno preparato e realizzato in tutta Italia. Dal rogo della libreria popolare dello spazio autogestito Grizzly di Fano all’assalto alla tifoseria dell’Ardita in trasferta a Magliano Romano, fino ad arrivare a Cremona e, soltanto il giorno dopo, a Parma, quando un’altra squadraccia ha provato a sfondare il portone di una casa occupata da famiglie in emergenza abitativa, la crescente iniziativa violenta dei gruppi fascisti può e deve essere inquadrata in un contesto politico più ampio: lo stesso contesto politico in cui l’evoluzione nazionalista della Lega di Salvini incontra la galassia nera italiana, fondendosi in un unico movimento fascioleghista, corteggiato dai media e accompagnato da tutte le tutele istituzionali del caso.

Già ieri, mentre la manifestazione antifascista organizzata a Cremona per dare una risposta concreta all’assalto del Dordoni era ancora in corso, si sono sprecati i soggetti politici pronti a stigmatizzare la “violenza”: dalla Cgil all’Anpi, da Sel all’Arci, è stato un coro univoco di “l’antifascismo non ha nulla a che fare con la violenza”… no?

http://www.cremonaoggi.it/2015/01/24/cgil-arci-e-anpi-violenza-che-non-ha-niente-a-che-fare-con-antifascismo%E2%80%9D/#more

E con cosa avrebbe a che fare quando è proprio la violenza ciò che consente al fascismo di interpretare il mandato padronale e di attaccare le sacche di resistenza alla generalizzata deprivazione dei diritti in corso?

Mentre, e non a caso, è sullo stesso csa Dordoni che inizia ad addensarsi la nube dei tanti, volenterosi e ovviamente falsi fustigatori della violenza –

http://www.laprovinciacr.it/news/cremona/108294/Il-sindaco—con-soggetti.html

– sono la stessa Cgil, la stessa Anpi, la stessa Sel e la stessa Arci a non trovare incredibile che un bieco individuo come Salvini sia libero di portare avanti un piano eversivo senza precedenti, di alludere nei suoi discorsi a minacce golpiste, di consentire la presenza all’interno della sua area di gruppi ai limiti del paramilitare e di incitare all’odio tutti i giorni, approfittando del grande spazio regalatogli dalla stampa compiacente sul genere de il “Corriere della sera”.

Ciò che però Salvini e i suoi sgherri conoscono benissimo, è la realtà di un’opposizione sociale autorganizzata, niente affatto disposta non soltanto a tollerare attacchi nei confronti dei compagni come Emilio, ma neppure a consentire inerme a pericolose pagliacciate stile “marcia su Roma” che la nuova Lega ha in programma nella Capitale il 28 febbraio.

Da questo punto di vista, un’altra falsità a carattere “etnico” apparentemente inutile scritta altrove dal solito “Corriere della sera” –

http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_24/cremona-corteo-antagonisti-gli-scontri-casa-pound-348ea93e-a3da-11e4-808e-442fa7f91611.shtml

– secondo il quale la testa del corteo sarebbe stata presa “da un gruppo di romani, vestiti di nero e con caschi integrali, armati di aste e bastoni che avevano nascosto negli zaini”, è da leggersi come un’autentica minaccia nei confronti dei “malumori” che hanno accolto la notizia della manifestazione leghista. Intanto, comunque, essendo perfettamente al corrente che, sul piano in cui si trovano, lo scontro con i movimenti è inevitabile, con la moltiplicazione delle azioni violente i fascioleghisti stanno provando a conquistare nuovi spazi di legittimità proprio sul fronte della violenza, incontrando in questo tentativo – evidentemente riuscito – non soltanto la scontata compiacenza del “Corriere della sera”, ma persino il fiancheggiamento di realtà come Cgil, Anpi, Sel e Arci, a cui non resta che sventolare il simbolico fazzolettino arancione dell’opposizione-fantoccio, incarnando il dissenso educato dei benpensanti ma non certo la rabbia generalizzata delle masse.

Per questa ragione la giornata di Cremona ha avuto un’importanza epocale ed ha impartito una lezione da fare propria al più presto, riproducendo quella stessa determinata compattezza ovunque fascisti e leghisti abbiano intenzione di darsi convegno.

Le orde fascioleghiste, infatti, hanno ora in programma di prendersi lo spazio fisico e simbolico di un’importante piazza romana, soltanto il preludio a una situazione in cui attaccare e sgomberare spazi sociali e abitativi, come campi rom, picchetti operai e ogni luogo di dissenso pratico o teorico, diventerà un qualcosa di assolutamente “normale” nell’Italia asservita ai poteri forti messa in piedi da Renzi: il luogo migliore per dare modo al brodo di cultura fascistoide di lievitare fino alle più gravi conseguenze. Il luogo in cui, questo è bene saperlo, la parola “violenza” sarà utilizzata sempre per stigmatizzare chi si oppone. Almeno finché il cartello “vendesi” non verrà apposto soltanto sulla porta della sede di Casapound Cremona, ma anche sui palazzi dove tramano l’uscita in grande stile dalle fogne gli interpreti principali di questo disegno, a cominciare dalla Lega Nord di Milano.