Chi scrive su “Libero”: appunti sulla nuova difesa della razza

"Libero" titola "islamico di razza"

Sarebbe apprezzabile che qualcuno tra i tanti (?) presunti bravi giornalisti di “cultura liberale” (cioè, la stessa cultura che condusse un Gobetti all’assassinio per mano fascista? – ne dubito…) reagisse a titoli come “islamico di razza” e, più in generale, alla narrazione schiettamente razzista che si impone su testate come “Libero” e, con toni forse meno chiari ma con analoga sostanza (vedi gli editoriali firmati da prestigiosi “intellettuali” come Ernesto Galli della Loggia per il “Corriere della sera”; un altro organo che ha il razzismo più becero iscritto nel suo dna) sulla quasi totalità della stampa italiana.

Sarebbe apprezzabile e auspicabile, certamente, che – sia pure nel nome di una deontologia professionale se non della propria etica personale – avvenisse una simile “ribellione” e, d’altro canto, sperare non costa nulla: quindi speriamo. Anche se purtroppo la storia ci dice il contrario. Ci dice che le svolte reazionarie, magari imposte con gesti eclatanti, sono in realtà preparate da una lunga incubazione quotidiana e da un attento processo di selezione dei colletti bianchi che, queste svolte reazionarie, rendono possibili. In realtà, le mani della maggior parte degli artefici dell’abominio, almeno apparentemente, restano pulite. Nel giornalismo come tra le forze dell’ordine, però, per un pugno di poliziotti che ammazza a manganellate un ragazzino diciottenne come Aldrovandi (ma la lista è lunghissima), c’è un numero appena maggiore di persone che un simile gesto approva e difende (a partire dai giudici che emettono assoluzioni o condanne lievissime); la massa di chi tutto ciò accoglie – e quindi rende possibile – se ne sta apparentemente inerte, a trincerarsi dietro il sempiterno “tengo famiglia” o all’infame “ho soltanto obbedito agli ordini”. Per questa ragione, le titolazioni di “Libero” o de “Il Giornale” rappresentano una modalità normale e normativa rispetto alla comunicazione italiana contemporanea, non un’eccezione rispetto a un approccio contrario e fondamentalmente sano (che non esiste a livello main stream). Ed è sempre per questo che persino un uomo di pace come Martin Luther King ricordava sempre come, a fargli paura, non fosse la violenza dei cattivi, ma l’indifferenza dei buoni. Erano e sono, questi ultimi, i famosi “indifferenti” di Gramsci: persone da odiare in quanto – prima di tutto – complici. Chi vive, infatti, “prende parte” a ciò che accade. E chi prende parte a ciò che accade, lotta. Chi tace, al contrario, la sua scelta l’ha già fatta. E, sperando di trovare un porto sicuro, siede tra i tanti che supportano gli interessi di pochi: il nemico.

Primo Maggio: e se la faccia ce la mettessimo tutti e tutte?

Noi le facce non le mettiamo“Noi le facce non le mettiamo”. Dopo la notizia dei dieci arresti eseguiti ieri tra Italia e Grecia ai danni di persone sospettate di aver animato la protesta del Primo Maggio No Expo, non sono mancati i mezzi di informazione indipendente che, per rispondere alla scelta forcaiola (la solita) del “Corriere della Sera”, immediatamente pronto a pubblicare le facce dei presunti black bloc, si sono affrettati a marcare una differenza: da un lato c’è il diritto e uno straccio di deontologia professionale, dall’altro fogli padronali stile “Corriere della Sera”.

Non c’è alcun dubbio che continuare a far pesare sempre e comunque a giornalisti come quelli in forza a il “Corriere” l’evidenza delle loro malefatte sia cosa buona e giusta, anche se è altrettanto innegabile come rinfacciare ai mezzi di informazione la propria natura di servitori del potere abbia lo stesso sapore scontato della scoperta dell’acqua calda.

Restando sul terreno della vetrina infranta dell’Expo milanese, davvero chi, da sinistra, ha speso parole di fuoco e di fiamme contro il “blocco nero” non aveva alcuna idea che i propri distinguo, i propri attacchi, il proprio giocare la partita dei “buoni” contro quella dei “cattivi”, si sarebbe tradotta prima in una strumentalizzazione, poi in una giustificazione ideologica non soltanto rispetto agli arresti, ma anche rispetto all’eccezionale durezza che si stanno meritando gli arrestati?

“Anche chi ha contestato democraticamente l’inaugurazione di Expo”, è scritto tra le righe di tutti i giornali e si legge dietro le fotografie di tutti gli arrestati, si è schierato compatto contro i “soliti teppisti”. A testimoniarlo, un esempio su tutti: l’articolo con cui il “Corriere della Sera” ha anticipato – evidentemente e ovviamente ben informato dalla Questura, di cui è abituale velina – gli arresti rispetto ai quali oggi ci si esprime. Come?

Passando in rassegna commenti ed opinioni, emerge o (1) la contestazione del reato di devastazione e saccheggio, residuato bellico del fascista Codice Rocco, pensato per situazioni di guerra e quindi assolutamente inappropriato per episodi come Expo2015 e, più indietro nel tempo, Genova2001; o (2) la condanna della gogna mediatica a cui la stampa main stream si è abbandonata con gusto orgiastico.

Per quanto riguarda la contestazione del reato di devastazione è saccheggio, si potrebbe dire che la battaglia utile alla sua cancellazione sarebbe cosa buona e giusta nella misura in cui potrebbe lavorare a una sempre utile ricomposizione di classe, evidenziando come le contraddizione per cui si scontano dieci anni per un bancomat rotto sono inaccettabili alla luce del governo ladro e mafioso che siamo costretti a subire. Eppure… se è opinione corretta e comune che dietro il famigerato reato di devastazione e saccheggio vi sia prima di tutto una forzatura, considerando che in punta di diritto quella legge non parla delle situazioni a cui viene applicata oggi, chissà cosa si potrebbero inventare – visto che di arbitrio stiamo parlando – una volta abrogata!

Forzatura per forzatura, tolta la devastazione e il saccheggio, potrebbero arrivare con lo stesso arbitrio le accuse di tentato omicidio anche per aver lanciato una bottiglietta di plastica vuota, o di associazione a delinquere per essere in possesso della tessera di una biblioteca… considerazioni che portano direttamente al secondo punto della questione, quello che ha a che fare con la condanna – più o meno di maniera – della gogna mediatica a cui i sospetti black bloc sono stati esposti, ovviamente senza che per loro abbia mai avuto alcun valore il “garantismo” di cui tanti si riempiono la bocca. Questo solo per dire che di fronte a fenomeni di insorgenza sociale non si può pretendere di avere salva la coscienza compartimentando la propria indignazione: è assurdo pensare di condannare pezzi di Movimento e addirittura additarli (alle attenzioni della Questtura) per poi stupirsi della durezza della repressione (“Ma come, dieci anni per una vetrina!”) o della connessa gogna mediatica (“Ma come, pubblicano i volti dei sospettati in dispregio delle garanzie democratiche!”). Per dirla in altri termini, rispetto ai fenomeni di insorgenza sociale, o si è dalla parte della soluzione che questi auspicano, o si è parte del problema, difficile pensare a comode vie di mezzo. Ed è per questo, che parlando di Expo, non sento la necessità di dire che “io le facce non le pubblico”, al contrario, ho voglia di dire che io la faccia ce la metto.

Io la faccia la mettoLa trovate qui, in basso a sinistra, dove è sempre stata. Mentre è impegnata a lasciare traccia del proprio dna su un pericolosissimo scovolino utile a fare le bolle di sapone, si fa una domanda: e se per dimostrare solidarietà e complicità con gli arrestati del primo maggio la faccia la mettessimo tutte e tutti, rispetto ai fatti di Milano come in rapporto ai luoghi dove le lotte reali conquistano a spinta la propria volontà di cambiare l’esistente, non questo l’unico, vero passo avanti?

TUTTI LIBERI! TUTTE LIBERE!