Sara si poteva salvare.
Lo affermano tutti i giornali, anche il «Corriere della Sera»
A pagina 5 dell’edizione di oggi, martedì 31 maggio, un virgolettato riprende le parole di Maria Monteleone, pm di Roma: «Il mio è un invito caldo a chi si imbatte in una ragazza di notte, in una strada isolate che chiede aiuto: fermatevi o chiamate immediatamente la polizia».
Chiamate la polizia, dunque.
Già, ma quale polizia?
La stessa che è intervenuta quando a urlare aiuto c’era Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi?
O quella che il 30 giugno del 2001 ha “affrontato” Michele Ferrulli a Milano riconsegnandolo morto ai suoi familiari dopo l’intervento?
Sara si poteva salvare. E Michele avrebbe potuto avere giustizia.
Invece la Corte d’Assise del capoluogo lombardo, assolvendo i poliziotti responsabili del trattamento, ha sentenziato che «il fatto non sussiste» e che i colpi inferti a Ferrulli erano necessari a vincere la resistenza dell’uomo.
Questo in fondo accade quando si fa confusione tra colpevoli e innocenti: tante donne che alla polizia si sono rivolte perché minacciate o perseguitate dall’ex di turno non hanno avuto un sostegno molto diverso dal nulla. E così, mentre molte di queste donne sono state aggredite e uccise dagli stessi che pure avevano denunciato, si omette sempre di spiegare come mai è proprio il nulla ciò che le attuali diramazioni dello Stato articolano di fronte al tema dei bisogni, qualunque genere di bisogni.
Sara si poteva salvare, in ogni caso.
Perché mentre lei veniva bruciata viva sono passati per via della Magliana, a Ponte Galeria, almeno due motociclisti, che hanno visto la ragazza urlare e dimenare le mani, ma non si sono fermati.
Hanno evitato di cimentarsi con un assassino, e forse anche con la sua pistola: oggi i giornali ci informano che chi ha ucciso Sara faceva la guardia giurata, ma non ci dicono se fosse armato o meno. Un silenzio necessario a sottrarsi dal tema della privatizzazione degli stessi corpi di polizia in atto, di fatto, da molto tempo in Italia?
Prima di quei motociclisti, in ogni caso, a non fermarsi sono stati una banda di speculatori, che hanno preso una delle poche zone verdi di Roma stuprandola con l’acciaio e con il cemento. E i marciapiedi? E l’illuminazione? E le piazze e i punti d’incontro? E tutte quelle opere in grado di favorire l’unica vera forma di sicurezza all’interno dei quartieri – la socialità diffusa, la possibilità di percorrere strade che le persone vivono e attraversano?
Ma se questo contesto è figlio – come e è figlio – della violazione sistematica di piani regolatori e norme edilizie, dove sono le condanne dei palazzinari responsabile di questi scempi?
Sarà però si poteva salvare.
Come si salvano, ogni giorno, decine di donne sole, spesso con bambini e bambine piccole, ancora più spesso già capaci di affrontare e vincere storie di botte subite dentro casa – capaci di cacciare da loro stesse la presenza di uomini violenti e di affrontare un lavoro che non c’è o si perde e quindi un affitto che non si riesce a pagare. Ci pensano altri uomini, e anche altre donne (la polizia), a questo punto, ad arrivare ancora nel cuore della notte: a rompere le inferriate delle finestre e a cacciare quelle donne e i loro figli in mezzo alle strade.
Di fronte a un simile scempio, sono in tanti e in tante a girarsi dall’altra parte. Ma non tutti e non tutte. Altri e altre in simili casi si organizzano e accorrono: difendono lo sfratto e la dignità; spesso ne ricavano un rinvio dell’esecuzione del provvedimento (firmato da un magistrato), ancora più spesso denunce per resistenza aggravata e un numero incalcolabile di manganellate, sferrate tenendo il tonfa dalla parte opposta rispetto al manico, apposta per fare più male (la legalità…).
Si ricorda spesso, tra l’altro, come la violenza di genere non abbia né classe né tantomeno “razza”. Ed è senz’altro vero. Eppure ci si è mai confrontati – prima di archiviare il tutto alla voce “femminicidio” – con l’enorme numero di reati compiuti in ambiente domestico ai danni di mogli, fidanzate ed ex da appartenenti alle forze dell’ordine o da guardie giurate? Ci si è mai confrontati, o invece in questo caso non sono stati solo due motociclisti a scappare, anche con l’enorme numero di casi in cui nelle caserme, nei carceri, nei CIE a stuprare sono proprio gli appartenenti alle forze di polizia?
Sara però si poteva salvare.
Come ci si salva a Ventimiglia, per esempio. Dove pure non mancano gli uomini e le donne che non hanno alcuna intenzione di girarsi dall’altra parte.
Ci sono tante donne lì e Sara è in ognuna di loro. Ognuna di loro costretta a subire una doppia oppressione, di genere e di classe: e la magistratura magari si girasse dall’altra parte, no, non si gira affatto. Ma spalanca gli occhi e distribuisce condanne e fogli di via.
Sara però di poteva salvare.
Con una ruspa in grado di passare sopra a mille bar con i quattro tavolini di plastica fuori e, seduti con una birra in una mano e la ricevuta delle scommesse nell’altra, un gruppetto di ragazzi – maschi, cattolici, eterosessuali e italiani per lo più – soli con la propria testa bacata. Passa una donna come Sara e qualunque coglione presente si sente autorizzato ad aprire la bocca: «quanto sei bona, vieni qui bella, anvedi che bocce, aoh, ciò un cazzo pieno d’amore per te…».
Questo, fin da quando Sara – una Sara per tutte – era ancora piccola, undici o dodici anni, aspetta le donne in ogni angolo di strada: un’intimidazione continua, un eterno fischiare, uno stalkeraggio diffuso a cui si demanda il sacro compito di imporre le cose così come stanno in questa società. Una società dove il ricco ha il povero, il povero ha l’immigrato e tutti hanno le donne contro cui – boccia di birra in una mano e ricevuta della scommessa nell’altra – sfogare l’ansia generata da un possesso eternamente negato: il possesso dell’uguaglianza, della giustizia, della libertà, della fraternità e della sorellanza.
Sara si poteva salvare, certamente.
Bloccando tutti gli sfratti, gli sgomberi e i pignoramenti.
Travolgendo tutti i reticolati di filo spinato.
Distruggendo tutte le macchine dell’umiliazione e dello sfruttamento.
Spezzando il cortocircuito che perpetua lo sfruttamento all’interno dei rapporti personali, sacrificando le donne al simulacro del “possesso” e innescando la mentalità che si sente autorizzata a punire i rifiuti di sottostare a una simile logica – la stessa logica che trasforma gli esseri umani in merce quando fanno gli operai e le operaie e le donne in cose all’interno dei rapporti di coppia.
Sara si poteva salvare.
Imboccando con decisione la strada della decolonizzazione del cuore e del pensiero, l’unica dove è possibile cominciare ad articolare davvero la parola «amore».
Qualcuno e qualcuna a un simile processo dà il nome di Rivoluzione e la descrive come un cambiamento dello stato di cose presenti.
Sono le stesse persone che se vedono Sara gridare e gesticolare in cerca di aiuto si fermano e intervengono come si sono fermati e sono intervenuti quando un’altra Sara doveva essere buttata in mezzo a una strada da uno sfratto; quando un’altra Sara ha avuto la necessità di un’atmosfera solidale al culmine di una storia di violenza domestica; quando un’altra Sara si è vista attaccare per il modo in cui veste, parla o ama (nessun contesto è escluso dal problema).
Sono le stesse persone che rispetto alla voce “sessismo” non si limitano a generare una teoria ma costruiscono una pratica di combattimento quotidiano, capace di strappare libertà e autonomia: capace di costruire quel processo di decolonizzazione non solo necessario, ma indispensabile.
Un processo di decolonizzazione capace di rovesciare quei tavoli in quei bar – in tutti i bar – dove oggi, con Sara bruciata viva, torme di uomini (maschi, bianchi, cattolici, eterosessuali… a chi se non al loro ego malato e represso si rivolge il fortunato e orrido slogan «prima gli italiani»?) continuano a sedere, a fischiare, a importunare, a incarnare il ruolo di agenti di una colonizzazione capace di salvare solo il profitto.
Invece è Sara che si poteva salvare.