“Il luogo comune è in un certo modo un’arma del potere” (Roland Barthes)
Gli italiani usano i gas come se piovesse quando vanno a fare la guerra in Africa del nord; ma hanno la pizza e il mandolino, sono brava gente. Gli italiani impiantano campi di sterminio e si abbandonano alla pulizia etnica quando vanno a fare la guerra in Yugoslavia; ma hanno il sole, il mare e vogliono tanto bene alla mamma, sono brava gente. Gli italiani mandano al potere Benito Mussolini e appoggiano leggi razziali ancora più terrificanti di quelle in vigore in Germania (e chiudono gli occhi sulle loro conseguenze: il massacro di migliaia di uomini, donne, bambini…); ma hanno stile nel vestire (dicono) e fanno bene all’amore (dicono), sono brava gente. Gli italiani dalla fine della seconda guerra mondiali ai giorni nostri si crogiolano in uno stato fondato sulle tangenti e sui privilegi garantiti a una minoranza parassitaria e ingorda oltre ogni limite, le condizioni che – tra le mille altre cose – consentono alla sabbia di prendere il posto del cemento nelle costruzione spacciate come antisismiche; ma cucinano cose così buone!, sono brava gente.
A Roma persino prendere il 716 è lotta per il potere. Nel senso che è più realistico pensare di fare la rivoluzione piuttosto che pensare che l’autobus passi. Poi arriva il Fertility Day e cosa dimostra? Che la rivoluzione bisogna farla pure per scopare in pace.
Non sono Parigi
resto un senza casa
per questo le mie lacrime
significano qualcosa.
Non sono Charlie
sono disoccupato
e il pane con l’inchiostro
non me lo sono mai comprato.
Non sono Bruxelles,
non sono New York,
non sono Nizza:
sono la stella del mattino
di un avvenire
che ha smarrito il sole,
sono un operaio
in cassa integrazione.
Sono il giovane senza prospettive,
sono il migrante soffocato dalle onde,
sono i cinque euro
che spettano al bracciante.
Non sono Monaco
lo sanno tutti quanti:
frocio, negro, zingaro, drogato, disoccupato, comunista…
nelle periferie che allattano i perdenti,
mi hanno avvelenato
e ho perso i denti.
Per lottare
mi restano le unghie,
affilate con la luce degli scontri.
Sui giornali ho letto «siamo in guerra»
ma sulla strada
i cadaveri dei morti
non sono dei padroni,
sono i nostri.
Lei era una bambina. E tanti anni fa avevamo passato un pomeriggio insieme a casa sua. Avevamo fatto i compiti di matematica. Poi il tempo è passato ed è arrivato fino a qua, alla Festa di Radio Onda d’Urto, a Brescia, dove una ragazza si è avvicinata allo stand della Red Star Press, ha preso un libro e stringendolo tra le braccia mi ha detto: «Questo ce l’ho, parla del mio papà».
Il libro era “Resisto! Dieci anni senza te, dieci anni con te”, il volume collettivo dedicato alla storia e alla memoria di Davide Cesare “Dax”.
Ci siamo abbracciati. E mi veniva da piangere. Allora scrivo adesso quello che a quella ragazza avrei voluto dire ma non ho detto: «Siamo tutti e tutte il tuo papà».
SPORT POPOLARE: esperienze autogestite all’insegna dell’antirazzismo e dell’antifascismo.
Per superare la passiva fruizione sportiva come spettacolo e opporsi alle logiche del profitto. Costruire fenomeni di aggregazione e insorgenze controculturali per un nuovo protagonismo partecipato delle masse.
Con Nicolò Rondinelli che presenta “Ribelli, sociali e romantici! Fc St. Pauli tra calcio e resistenza“; interverranno Lenny Bottai (Palestra SPES FORTITUDE), Centro Storico Lebowski (FI), Spartak Apuane (MS), Palestra Popolare Valerio Verbano (Roma), Palestra Popolare La Fontina (PI); coordina Cristiano Armati (Sportpopolare.it).
Sarei stato capace di amarti
come i tuoi occhi
azzurro verde lago
come il tuo animo
mutevole e sfuggente
e la tua vita,
con il dente avvelenato.
Sarei stato capace di amarti
come il mare
dentro i tuoi capelli
agitato,
tutte le volte che ti sveglio
tutte le volte
che ti sveglio per mangiarti meglio.
Sarei stato capace di amarti
e non credo che avrei sbagliato strada
perché avrei seguito le tue gambe
come il sole segue la giornata.
Al tramonto, sì
avrei pregato
e parlato lingue
e dialetti mai sentiti,
avrei smosso popoli e culture
per entrare nelle tue nature.
Sarei salito dove salgono i tuoi monti
e sceso dove scendono i tuoi fiumi,
dove certo, mi sarei nascosto
ma per non nascondere anche a te le mie paure.
Sarei stato capace di amarti
anche adesso, che è tutto finito
continuando a cercarti mentre crollo
tra la rete del mio letto e il comodino,
è per questo che stasera bevo vino
nel bicchiere vedo una scintilla
che al mattino è una bambina maltrattata:
il papà le ha regalato una capretta
ma la matrigna la capretta l’ha sgozzata.
Sarei stato capace di amarti
perché non credo alle favole,
lo vedi?
Le favole, tu me le racconti quando hai sete
ma soltanto se per bere poi ti butti
su quella fonte che conosci,
senza dubbi.
Sarei stato capace di amarti
come adesso, pensandoti per gioco:
giocando con ciò che resta
di me stesso
per non spegnere il calore del tuo fuoco.
Così mi spiace usare la sinistra
per un ricordo di appena tre minuti
ma la carta già si bagna, e si consuma
come i nostri tempi, ormai perduti.
Scusa ho un brivido… ma ecco, adesso passa
la matita, però, quella mi casca
e la rima esplode
come pioggia bianca.
Sarei stato capace di amarti
ma ormai non ha grande importanza
perdonami se ti mando una poesia
scritta di notte
con la mano stanca.
Nel decennale della morte di Valerio Marchi, a fronte delle innumerevoli iniziative a lui dedicate e, soprattutto, alla stretta attualità del suo lavoro, si può davvero parlare di una «scomparsa» del grande «sociologo di strada» romano?
Polignano a Mare, 22 luglio 2006. Sono passati dieci anni da quel giorno. Quando, dal comune pugliese, la notizia iniziò a girare tra quel pugno di amici più intimi per allargarsi ai tanti che lo avevano conosciuto e quindi a quelli, ancora più numerosi, che lo avevano letto o sentito parlare. «È morto Valerio», diceva quella voce maledetta. E si riferiva a Valerio Marchi, l’autore di Teppa, il sociologo che aveva curato la pubblicazione di Ultrà, il libraio che aveva aperto e gestito per anni la «Libreria Internazionale» a San Lorenzo, il grande tifoso della Roma, il vecchio skin esperto di ska e di punk, il compagno antifascista, l’autonomo che aveva saputo cogliere e vivere in prima linea la sete di rivolta che albergava negli stadi e che, agli stadi e ai tifosi, era tornato a rivolgersi in un passo della sua famosa Lettera agli ultrà, per ricordare come «dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe».
Per sviscerare il contenuto profondo di questa sola frase non basterebbero decine di pagine né, le implicazioni contenute nel passo, potrebbero essere sciolte da un’unica esperienza di osservazione partecipante o da qualche mese di ricerca sul campo. E intanto altri spunti, altri contenuti disseminati nei libri di Valerio o affiorati grazie alle interviste concesse, continuano a spiegare e a offrire spunti di riflessione, invitando chi scrive oggi di Marchi e del suo lavoro a evitare accuratamente di declinare al passato la sua memoria, per affrontare piuttosto la stretta attualità, e di conseguenza il futuro, di cui l’opera di questo autore resta formidabile interprete e profetica anticipatrice.
Oggi, infatti, se esiste un luogo in cui il senso dei libri di Valerio Marchi può essere tradito, questo è il territorio della retorica nostalgica, del rimpianto rispetto agli “anni d’oro” del movimento ultrà e/o dei tempi in cui la lotta di classe e il conflitto metropolitano incendiavano cuori e piazze. Perché se questi sono i temi prediletti da chi «ha gettato l’ancora», leggere Valerio Marchi vuol dire, al contrario, essere dalla parte di chi «ci prova ancora»: a cambiare l’esistente, certamente, ma intanto a riappropriarsi di una lettura del reale che sia in grado di sbriciolare le lenti con cui “il nemico” impone i suoi discorsi, fonda i suoi poteri e legittima saperi addomesticati a usare e a consumare categorie utili soltanto a reprimere le insorgenze, sempre e comunque in costante corso.
Ecco, oggi, con i libri di Valerio sottobraccio, bisogna andare a Fermo, nelle Marche, e confrontarsi con il luogo in cui Amedo Mancini ha prima insultato una donna al grido di «scimmia africana», poi ammazzato il marito accorso in sua difesa. Soltanto la gente della strada, infatti, potrà avere i titoli necessari a contrattaccare prima chi ha osato definire Mancini «ultrà» e non «fascista» e poi, quando i servi del potere già gustano la loro vittoria ammirando gli striscioni con su scritto «siamo tutti Amedeo Mancini» apparsi sui muri di diverse città italiane, continuare a combattere per dire come no, non siamo affatto tutti Amedeo Mancini: il campo dell’onore in cui iscrivere valori degni di essere accettati nella strada come negli stadi, infatti, ingaggia la sfida con avversari meglio armati e, orgogliosamente, rivendica «preferisco essere sconfitto / nudo addosso a un muro / piuttosto che festeggiare la vittoria / protetto da uno scudo»; ci parla, il campo dell’onore in cui nascono gli eroi della strada, di un Carlo Giuliani e del suo estintore, da scagliare contro maniche di infami in divisa armati di pistola, e non certo di volgari aggressori di donne e rifugiati; ci parla, il campo dell’onore dove la working class mette in gioco le sue passioni, di una linea dove la parola d’ordine «divisi dai colori, uniti dai valori», è in grado di trasformare le scaramucce tra tifoserie avversarie in orde pronte a sfondare i cordoni dietro cui gli interessi padronali difendono se stessi: questo, e non altro, significa interpretare fino in fondo il rispetto per il proprio territorio e la propria appartenenza: «my class my pride», e dunque «con il razzismo non c’avete fregato / la colpa è del padrone / e non dell’immigrato».
Ancora, pensando a Valerio Marchi, vale la pena aggirarsi furenti tra le macerie dello scontro frontale tra i due treni che viaggiavano sul binario unico della linea Andria – Corato per cogliere un cambiamento epocale. Nel paese che a suo tempo non è stato in grado di interpretare, a livello collettivo e fino in fondo, le implicazioni politiche delle stragi di Ustica e del Cermis, e che dietro gli innumerevoli assassinii di massa provocati periodicamente dalle alluvioni, figlie delle tangenti pagate al dissesto idrogeologico dei nostri territori, si è troppo spesso limitato ad allargare le braccia con cattolica rassegnazione rispetto a una presunta volontà del «fato»; ebbene nel paese che in innumerevoli occasioni, quelle stesse braccia, le ha allargate anche per archiviare il continuo stillicidio di morti sul lavoro trincerandosi dietro l’ipotesi in fondo tranquillizzante della «disgrazia», questa volta, tra Andria e Corato, non ha più allargato le braccia, ma ha serrato i pugni, e ha puntato direttamente contro il governo la sua indignazione, parlando apertamente, e come è giusto, di «strage di stato».
Tra gli stessi lettori di Valerio Marchi, tra l’altro, soltanto una minoranza sa come sia proprio questo il campo in cui l’originalità del pensiero dell’autore – vale a dire la capacità di scardinare le cornici che impediscono di allargare l’analisi del contesto in cui prendono corpo i fenomeni di natura politica e sociale – abbia avuto modo di forgiarsi ed esercitarsi. Ci riferiamo, in particolare, al volume La morte in piazza, quando Valerio Marchi, indagando sulla strage di Brescia, fu tra i primi a interpretare correttamente lo stragismo fascista, inserendolo all’interno di quella «strategia della tensione» che tanta parte ha avuto e, in modalità diversa continua ad avere, nella storia contemporanea italiana.
Strategia della tensione, dunque. E moral panic, come Valerio Marchi spiega egregiamente in Teppa, raccontando del modo in cui, lungo tutta la storia dell’urbanizzazione e quindi dell’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, si siano sedimentate, intorno alla categoria del «giovane», status imperativi in grado di isolare, reprimere e condannare anticipatamente qualunque dissenso, sia questo insito nella condizione oggettiva dei soggetti o esplicitamente espresso da una loro esplicita presa di parola. In questo senso, quando si dice «giornalista terrorista» non si recita uno slogan, ma si scatta una fotografia se, guardando ancora ai fatti che si continuano a produrre a Fermo, a margine dell’arresto di Martino Paniconi e Marco Bordoni, accusati di una serie di attentati ai danni di strutture ricollegabili all’accoglienza dei migranti, assistiamo ancora una volta all’uso del termine «ultrà», collegato questa volta alla parola «anarchico».
Paniconi e Bordoni, dunque, sarebbero «ultrà» come Mancini, ma in più anche «anarchici». Il termine «ultrà», in questo contesto come in quello di Mancini, serve a ricondurre i fatti sul terreno della «devianza», impedendo una corretta visuale politica degli stessi. L’ultrà, in fondo, come spiega Marchi in Teppa, è uno dei folk devil per eccellenza, ma in altre occasioni, con il medesimo intento di spoliticizzare l’interpretazione dei fenomeni negando la conflittualità sociale connaturata agli stessi, altre categorie vengono in soccorso degli osservatori pronti ad addomesticare la realtà. Così, per esempio, quando Davide Cesare «Dax» e Renato Biagetti furono assassinati da fascisti armati di coltello a Milano e a Focene, alle porte di Roma, sui giornali entrambi i fatti vennero descritti come il tragico esito di «risse tra punk». Ma la voce «anarchico», insinuata dai giornalisti a proposito di Paniconi e Bordoni a Fermo, serve anche ad altro: crea un ponte psicologico in grado di trasferire la gravità dei fatti dal mondo dell’estrema destra, a cui tali fatti appartengono, direttamente al campo opposto, quello delle lotte sociali. E non a caso, all’indomani dell’arresto di Paniconi e Bordoni, in occasione dello sgombero, a Roma, dell’occupazione abitativa Point Break, a fronte di alcune bandiere antifasciste e di manifesti relativi ad assemblee pubbliche sul tema «decide la città» rinvenuti nella struttura, com’è stata definita tale occupazione?
I giornali, sulla scia della relativa velina della questura, non hanno avuto remora alcuna, e incuranti delle reali idee politiche degli occupanti hanno scritto «anarchici», stabilendo così un legame implicito, in grado di dare l’impressione che i bombaroli di Fermo e gli occupanti di Roma fossero un qualcosa di simile… poi, in virtù di qualche grammo d’erba, hanno completato l’opera descrivendo Point Break come «una centrale di spaccio» e i suoi occupanti come «drogati», altra classica categoria di folk devil buona per tutte le stagioni e sempre utile quando si vogliono negare le istanze che parlano, per esempio, di diritto alla casa e di lotta alla precarietà, affossandole dentro un discorso di ordine pubblico e di criminalità comune.
Simili ragionamenti, ispirati da una lettura dei libri di Valerio Marchi vicina all’esperienza quotidiana, servono a spiegare come questo autore, negli ultimi anni, sia stato più presente che mai in quella scena che, tra antagonismo politico e organizzazione controculturale, continua a interrogarsi sul come, vivendo e lottando all’interno delle periferie, sia possibile ribaltare il «mondo di sopra». Dal 2014, anno di riedizione per i tipi della Red Star Press in collaborazione con Hellnation di Roberto Gagliardi del volume Teppa. Storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, da Vetralla (Cantina del Gojo) a Napoli (Mensa Occupata), da Pisa (Comitati di Quartiere) a Porto San Giorgio (CSOA Trenino) e Taranto (Taranto Antifascista), da Bari (Ex Caserma Liberata) a Lecce (No Racism Cup), da Cosenza (CS Rialzo e Sparrow) a Roma (CS Macchia Rossa, Esc, Tre Serrande, VIII Zona ed Ex51) e Bologna (Gateway, A Skeggia e Noi Restiamo), sono state innumerevoli le iniziative dedicate a Valerio Marchi.
E, entrando nel decennale della scomparsa, mentre il CSOA Scurìa di Foggia (oggi purtroppo sgomberato) intitolava a Valerio Marchi la sala del suo infopoint, Il derby del bambino morto è stato ripubblicato a cura di Wu Ming nella collana Quinto Tipo delle Edizioni Alegre. Così, se per Red Star Press, La morte in piazza ha conosciuto una nuova edizione con la collaborazione di Brescia Antifascista e la ristampa di Ultrà ha visto la luce per l’etichetta gemella Hellnation Libri, il CUA di Bologna ha dedicato a Valerio Marchi uno dei partecipati dibattiti ospitati dalla rassegna «Parole nel Pallone» e il FOA Boccaccio di Monza ha organizzato nel segno dello stesso Valerio Marchi la rassegna «I bravi ragazzi vanno in paradiso, quelli cattivi dappertutto». Il cantautore comasco Filippo Andreani, da parte sua, parla anche di Valerio Marchi in E Roma è il mare, una delle canzoni più belle del suo ultimo disco, La prima volta. In vista dell’autunno, inoltre, si annuncia sia la pubblicazione di una monografia completamente dedicata a Valerio che la riedizione delle sue altre opere per Red Star Press insieme alla ripresa, in quel di San Lorenzo e a cura di Sportpopolare.it con la collaborazione del Cinema Palazzo e dello storico «rude pub» Sally Brown, del Festival delle Controculture, da sempre pensato in suo onore. Un florilegio di libri, di iniziative, di prese di parola che trovano la loro ragione nell’urgenza con cui Valerio Marchi seppe trovare per strada, nelle periferie, tra la teppa, insieme agli skin e negli stadi di calcio, un’opportunità prima che un «problema» – ma anche un filo rosso in grado di guardare avanti e persino di negare la morte, affermando come Valerio sia sempre stato qui perché, in realtà, non è mai andato via.
Sarebbe apprezzabile che qualcuno tra i tanti (?) presunti bravi giornalisti di “cultura liberale” (cioè, la stessa cultura che condusse un Gobetti all’assassinio per mano fascista? – ne dubito…) reagisse a titoli come “islamico di razza” e, più in generale, alla narrazione schiettamente razzista che si impone su testate come “Libero” e, con toni forse meno chiari ma con analoga sostanza (vedi gli editoriali firmati da prestigiosi “intellettuali” come Ernesto Galli della Loggia per il “Corriere della sera”; un altro organo che ha il razzismo più becero iscritto nel suo dna) sulla quasi totalità della stampa italiana.
Sarebbe apprezzabile e auspicabile, certamente, che – sia pure nel nome di una deontologia professionale se non della propria etica personale – avvenisse una simile “ribellione” e, d’altro canto, sperare non costa nulla: quindi speriamo. Anche se purtroppo la storia ci dice il contrario. Ci dice che le svolte reazionarie, magari imposte con gesti eclatanti, sono in realtà preparate da una lunga incubazione quotidiana e da un attento processo di selezione dei colletti bianchi che, queste svolte reazionarie, rendono possibili. In realtà, le mani della maggior parte degli artefici dell’abominio, almeno apparentemente, restano pulite. Nel giornalismo come tra le forze dell’ordine, però, per un pugno di poliziotti che ammazza a manganellate un ragazzino diciottenne come Aldrovandi (ma la lista è lunghissima), c’è un numero appena maggiore di persone che un simile gesto approva e difende (a partire dai giudici che emettono assoluzioni o condanne lievissime); la massa di chi tutto ciò accoglie – e quindi rende possibile – se ne sta apparentemente inerte, a trincerarsi dietro il sempiterno “tengo famiglia” o all’infame “ho soltanto obbedito agli ordini”. Per questa ragione, le titolazioni di “Libero” o de “Il Giornale” rappresentano una modalità normale e normativa rispetto alla comunicazione italiana contemporanea, non un’eccezione rispetto a un approccio contrario e fondamentalmente sano (che non esiste a livello main stream). Ed è sempre per questo che persino un uomo di pace come Martin Luther King ricordava sempre come, a fargli paura, non fosse la violenza dei cattivi, ma l’indifferenza dei buoni. Erano e sono, questi ultimi, i famosi “indifferenti” di Gramsci: persone da odiare in quanto – prima di tutto – complici. Chi vive, infatti, “prende parte” a ciò che accade. E chi prende parte a ciò che accade, lotta. Chi tace, al contrario, la sua scelta l’ha già fatta. E, sperando di trovare un porto sicuro, siede tra i tanti che supportano gli interessi di pochi: il nemico.
Brexit o non Brexit, si può ed è giusto discutere se e come – riassumendo con approssimazione i termini del dibattito in corso – l’esito del referendum britannico sia in grado di aprire spazi di opportunità utili all’avanzamento della causa della sovranità popolare o se non sia, piuttosto, un puro e semplice trionfo del lato oscuro della forza, incarnato dalle pulsioni xenofobe e parafasciste in ascesa in tutta Europa. Allo stesso modo è sacrosanto mettere all’indice il disprezzo per i poveri e i pregiudizi di classe che, senza vergogna alcuna, sono stati ostentati da intellettuali come Michele Serra e Roberto Saviano, immediatamente pronti a scagliarsi contro gli anziani, gli operai e gli abitanti delle zone periferiche, rei di aver condotto la terra d’Albione alla vittoria del leave. Intanto quello che ora accadrà in Gran Bretagna è che in ogni caso le élite economiche coadiuvate dall’ampio fronte della disinformazione borghese faranno esattamente quello che gli pare e gli piace (e quindi, a quanto pare, resteranno nella UE strappando qualche ulteriore vantaggio a loro favore), con l’ausilio e/o l’inazione e/o il massimalismo parolaio ma inconcludente e quindi complice dei laburisti e/o dei conservatori e/o dei movimenti più o meno qualunquisti o populisti o cittadinisti che dir si voglia – tutti uniti, fino a oggi, da una concezione politica basata sulle chiacchiere e, attraverso il ricorso alla delega, sulla strumentalizzazione di un’entità astratta detta “opinione pubblica”; tutti ugualmente incapaci, alla faccia della “partecipazione” di animare la messa in gioco – e quindi il ricorso alla piazza – di una qualunque base materiale collegata alle proprie posizioni. Esattamente come in Italia, quando vinse il NO alla privatizzazione dell’acqua e invece l’acqua è stata privatizzata. Ed esattamente come in Grecia, quando vinse il NO ai diktat della troika e invece questi diktat il paese ellenico li ha rispettati lo stesso, con gli interessi. Nell’uno e nell’altro caso, a continuare le proteste, anche nel nome di una democrazia reale, conquistata dal basso, è stata solo e unicamente l’unica sinistra degna di questo nome: quella di classe e, allo stato delle cose, autorganizzata. Per inciso, dalle nostre parti una buona metà della popolazione, se non di più, non va a votare. Strano, vero?