In fin dei conti, diceva Marx, un tavolo non è nient’altro che un pezzo di legno. O meglio, non è nient’altro che un pezzo di legno che un essere umano, con la sua attività, ha provveduto a cambiare in modo utile alle sue esigenze. E se fino a qui non c’è nulla di strano nell’osservare un pezzo di legno trasformarsi in “tavolo”, ecco che le cose cambiano nel momento in cui lo stesso soggetto, che pure non aveva problemi a constatare il come e il perché un pezzo di legno diventava tavolo, è costretto a perdersi nei gorghi della produzione, della promozione e della distribuzione per avere finalmente a che fare non più con una semplice materia prima quale il legno, né con un banale oggetto, come indubbiamente è il tavolo, ma con una presenza assai più inquieta: la merce. E «appena si presenta come merce», osserva Marx, con una penna capace di introdurre il lettore in regioni più straordinarie e spaventose di quelle in cui è entrata Alice passando attraverso lo Specchio: «Appena si presenta come merce il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare».
In quel luogo assurdo che è il mondo dominato dal modo di produzione capitalistico potremmo scoprire, seguendo Marx come Dante fece con Virgilio, come sia addirittura possibile arrivare a confrontarsi con oggetti che non sono più semplici cose, ma cose dotate di anima; merci, appunto. Protagoniste indiscusse di quel tempo – il nostro tempo – in cui, ci dice di nuovo Marx: «Tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino ad allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, conoscenza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale o fisica, divenuta valore venale, viene messa sul mercato per essere apprezzata al suo giusto valore».
Così, in questo tempo, ci sarà poco da stupirsi se un giusto valore venga attribuito di diritto alle cose, cioè alle merci, più che agli esseri umani. «Prima le cose!», si potrebbe chiosare parafrasando l’«America first!» degli USA di Donald Trump o il «prima gli italiani!» dei neofascisti nostrani. Solo che in questo caso non si starebbe lavorano per rompere su linee etniche la faticosa costruzione dell’unità degli sfruttati ma semplicemente fotografando la realtà.
Allargando il campo, però, la realtà diventa più difficile da mettere a fuoco e il problema della complessità, grazie alla nota «testa dura» dei fatti, inizia a dare il giusto filo da torcere a chi intendesse accontentarsi di analisi superficiali. Perché la più grande assurdità del sistema capitalista non è quella di essere allegramente disposto a correre tra le braccia dell’apocalissi ecologica e sociale nel nome del suo onnivoro bisogno di profitto. La più grande assurdità del sistema capitalista – la sua suprema contraddizione – è quella di contenere in se stesso i presupposti utili al suo superamento. Marx – e se non lui, chi? – lo aveva capito benissimo, indicando le generazioni di sfruttati sospinti sul «lato cattivo» della storia e ammonendo: «È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta».
Detto in altri termini, se il Capitalismo distrugge, inquina, sfrutta, umilia e uccide, il «lato cattivo» non resta a guardare: si organizza, resiste, attacca, conosce sconfitte cocenti ma anche clamorose vittorie e, in ogni caso, continua ad andare all’assalto.
Certo, se bastasse affidarsi alla fede sul “naturale” superamento dialettico del Capitalismo neppure scrivere queste parole avrebbe alcun senso. Per raccogliere il frutto del cambiamento, infatti, salvo essere anticipati da una definitiva catastrofe atomica o da un irreversibile sconvolgimento climatico, basterebbe recarsi sulla proverbiale riva del fiume per attendere il passaggio del cadavere del nemico. E una simile prospettiva potrebbe anche risultare accattivante per l’epoca che ha consegnato all’umanità invenzioni quali il bastone da selfie e inaspettate figure sociali tipo i leoni da tastiera. Ma checché possano dirne i nuovi rivoluzionari da salotto, i rivoluzionari da social network, la storia continua ad avere bisogno di una spinta. O magari di un viaggio simile a quello che, nell’ormai lontano novembre del 1956, vide qualche decina di uomini e una bagnarola solcare il braccio di oceano che separa il Messico da Cuba per sbarcare sull’isola caraibica decisi, come nelle migliori tradizioni, a vincere o a morire per la suprema causa della Rivoluzione. La bagnarola, nella fattispecie, si chiamava Granma, il pugno di uomini era capitanato da un giovane avvocato di nome Fidel Castro e, tra loro, si distingueva un medico argentino cronicamente sofferente d’asma: Ernesto “Che” Guevara.
Ci sono storie che a sentirle raccontare sembrano leggende. E quella di Che Guevara è una di queste. Perché sappiamo bene di come il Che non si limitò a rivestire un ruolo di primo piano nell’incredibile avventura che fruttò a Cuba la cacciata del dittatore Fulgencio Batista e la conquista del socialismo. Al contrario, non contento di essere riuscito ad alzare la bandiera rossa in faccia al gigante statunitense, il Comandante prosegue la sua missione rivoluzionaria in terra d’Africa e, quindi, in America Latina, fino a trovare in Bolivia quella morte sfidata tante volte e tante volte costretta a concedere al guerrigliero nuovi giorni di gloria.
Ma fu vera morte quella conosciuta in combattimento da Ernesto “Che” Guevara? O non ha piuttosto ragione il testo di una delle più celebri canzoni di lotta di tutti i tempi, Hasta siempre, scritta da C. Puebla nel 1965, quando, senza mezzi termini, afferma che «Aqui se queda la clara,/ la entranãble trasparencia/ de tu querida prensencia,/ comandante Che Guevara»?
Perché la «chiara, penetrante trasparenza della cara presenza» di Che Guevara è impossibile da mettere in discussione – a esistere, infatti, è tutto ciò che continua a produrre effetti sul reale. Ma, tanto è forte nell’immaginario collettivo l’icona del guerrillero heroico resa celebre da una famosa fotografia di Alberto Korda che, dai superalcolici fino all’abbigliamento, non sono certo mancati né mancano i modi con cui il mainstream ha cercato e continua a cercare di anestetizzare l’innegabile carica sovversiva del personaggio gettando lo stesso in pasto ai capricciosi cliché della moda. D’altro canto, anche di questo è capace il Capitale: di assorbire, anzi, per restare nel gergo marxista, di sussumere, vale a dire di includere e di sottomettere dentro se stesso pratiche nate in forma indipendente al sistema di produzione capitalista o, addirittura, pensieri, azioni e relazioni sociali la cui origine è completamente opposta ai rapporti di subordinazione tipici della società divisa in classi.
Possiamo dire, dunque, che i milioni di magliette che girano per il pianeta con sopra impressa l’effige di Che Guevara testimoniano, attraverso il loro naturale asservimento all’universo della merce, la reale e definitiva sconfitta della tensione rivoluzionaria soggettivata da quella che fu la vita e l’opera del Comandante?
La risposta è tutt’altro che scontata. Vero, piuttosto, è che la storia stessa, vale a dire l’idea che una società ha di se stessa, non arriva mai a costruire narrazioni senza filtrare accuratamente i materiali che le compongono. Al contrario, come un immenso setaccio, la storia tende a far cadere sugli scogli dell’oblio le voci e i documenti di estrazione popolare, per accogliere sul terreno fecondo di ciò che tende a essere ricordato testimonianze capaci di esprimere le relazioni borghesi di cui sono frutto. Per dirla in altri termini, è difficile che uno storico con l’alloro dietro le orecchie decida di avventurarsi tra i vicoli maleodoranti di popolarità in cui le bancarelle con la faccia di Che Guevara fanno bella mostra di sé. Ed è una lacuna davvero grave – e, al di là della volontà soggettiva, assolutamente classista nel suo manifestarsi – se si tiene conto che la quantità abnorme di parole e immagini che adornano le magliette stampate nel pianeta compongono un macrotesto capace di ridicolizzare persino il numero di lettori della Bibbia!
Karl Marx, nel corso della sua esistenza, riuscì a farsi profeta del dispiegarsi compiuto e globale del sistema capitalista da lui stesso “scoperto”, pur non avendo avuto, sulla scia dei ritmi che il lavoro salariato andava imponendo alla vita, l’occasione di soffermarsi su quell’alternanza tra lavoro e tempo libero rispetto alla quale si sviluppa una specifica economia del leisure e, in opposizione allo sfruttamento, cioè al mancato assoggettamento ai tempi imposti dal Capitale, prendono corpo una serie di nuove «classi pericolose», tra cui quella dei “giovani”, capaci di elaborare propri codici di comunicazione controculturale. È all’incrocio di questi fenomeni che, a partire da un indumento adottato prima dai marinai e poi dai militari, nasce la tshirt così come la conosciamo oggi, essenzialmente, e decenni prima che il termine diventasse famoso con internet e i social network, un meme, vale a dire «un’unità auto-propagantesi di evoluzione culturale, analoga a ciò che il gene è per la genetica quindi un elemento di una cultura o civiltà trasmesso da mezzi non genetici, soprattutto per imitazione» (Pascal Jouxtel, Memetica. Il codice genetico della cultura, Bollati Boringhieri, 2010).
In Italia, in modo particolare, dopo le pulsioni insurrezionali covate dalla Resistenza e domate non certo senza fatica dalla normalizzazione post-bellica, è proprio una tshirt a simboleggiare il nuovo corso delle tensioni sociali. Si tratta della tshirt indossata dai “ragazzi con la maglietta a strisce” – i teddy boys, come li definì la stampa coeva ispirandosi a una sottocultura anglosassone – scesi in campo nel 1960 a Genova, al lato o al di fuori di ogni organizzazione di partito, per sbaragliare la velleità del neofascista Movimento Sociale Italiano di tenere il proprio congresso in una città dalla fortissima identità operaia e comunista. In quello stesso 1960, Korda scattava a Cuba la fotografia del Che capace di rivaleggiare con la Gioconda nel campo delle icone più famose di tutti i tempi, mentre è nel 1967 che l’editore Feltrinelli sceglieva di usare lo scatto del fotografo cubano per la copertina di Diario in Bolivia, dopo aver tappezzato Milano di poster con quella stessa immagine alla notizia della morte di Che Guevara. Da quel momento in poi, il passo verso la maglietta è breve e l’immagine del Comandante, inchiostro nero su tessuto rosso, accompagnata dal motto HASTA LA VICTORIA SIEMPRE, riuscirà a navigare tra le acque basse del reflusso, troneggiando sulle macerie del Muro di Berlino e superando di slancio gli anni Novanta, quando conosce nuova linfa attraverso la distribuzione del gruppo Rage Against the Machine. Da allora fino ai nostri giorni, il passo è breve, e quella stessa, identica maglietta continua a presidiare le residue manifestazioni a vario titolo ascrivibili alla sinistra, come i tradizionali raduni del primo maggio o del 25 aprile. La maglietta di cui parliamo, però, riesce a fare molto altro. E se non può fare a meno di incarnare la crisi del movimento operaio nel momento in cui, ridotte al lumicino le occasioni di essere esposta e acquistata in forma ufficiale, magari negli stand dei grandi partiti comunisti o sui banchetti allestiti dalle più agguerrite aree di movimento, la maglietta di Che Guevara continua imperterrita a essere distribuita nei più reconditi mercati rionali così come nei negozietti dedicati ai souvenir per turisti, dove il Che resta a combattere una sorda guerriglia culturale ai danni di altri meme, spesso dalla vocazione reazionaria: «Versace n’antro litro», «Domani faccio la brava», «Sex Instructor – First Lesson Free», «FBI – Female Body Inspector», e chi più ne ha più ne metta.
Quello che è successo alla maglietta di Che Guevara è simile al destino di quei capi di abbigliamento dal design particolarmente caratteristico (chi ricorda, per esempio, i pantaloni con il marchio scritto grande all’altezza del fondoschiena?), che dopo avere esaurito la loro stagione di vita commerciale nel “centro”, riemergono nella periferia geografica, economica ed esistenziale dell’Impero, “fuori moda” solo per i cataloghi delle classi dominanti perché, in realtà, perfettamente in grado di interpretare le tensioni stilistiche dei proletari che continuano a indossarli, sordi alle etichette discriminatorie coniate per stigmatizzare la loro vita insieme al loro abbigliamento: coatti, truzzi, burini, tamarri…
Se ne potrebbero citare altre mille di etichette utilizzate per stigmatizzare l’appartenenza alle classi sociali subalterne spacciandola per una questione di buono o di cattivo gusto. In questo modo, però, partendo dalla merce, e prestando attenzione allo status inquieto attribuitogli da Marx, torniamo al discorso sulle classi pericolose: infatti chi è che, insensibile alle “mode”, ha continuato a sventolare orgogliosamente il volto di Che Guevara se non i teppisti che, ogni maledetta domenica, continuano a reclamare il proprio spazio sugli spalti degli stadi di calcio? Sono mai state contate le tifoserie che, tessera o non tessera, continuano a scegliere il Che come proprio simbolo?
Ma andiamo oltre, perché, “pericoloso”, almeno rispetto a chi ha il potere di decidere sull’ordine e sul disordine, il proletario lo è per eccellenza. E tra i proletari, per eccellenza è pericoloso chi porta scritto sulla sua pelle un’appartenenza che la geografia, l’economia e la cultura descrivono come periferica per definizione: il lavoratore migrante – lo straniero, il negro, l’extracomunitario; l’incubo principale delle politiche securitarie dei governi occidentali, l’agitatore inconfessabile delle notti dei borghesi in regola con la legge, il capro espiatorio di ogni male attribuibile, nella realtà delle cose, a una particolare categoria di sfruttatori e non certo alla massa degli sfruttati. Eppure, avete mai partecipato a una manifestazione dei senza casa? Vi siete mai affacciati nei pressi di un picchetto organizzato dai facchini davanti ai cancelli di un magazzino della logistica?
Basta provare per rendersi conto, nel primo caso, come le magliette di Che Guevara, espulse frettolosamente dai guardaroba di una sinistra assente dalla lotta di classe e quindi ininfluente come movimento d’opinione, tornino a segnalare un’identità orgogliosa e pronta allo scontro. Mentre, nel secondo caso, le grida «Hasta la victoria siempre» possono seguire le esclamazioni «Allah Akbar» in una crasi che, come nessun’altra espressione, formula o definizione, è in grado di parlare della realtà meticcia in cui si va sostanziando il nuovo proletariato metropolitano.
E che sia sul petto dei senza casa, sugli stendardi dei tifosi o sulla bocca dei facchini, l’effige di Che Guevara, la querida presencia del Comandante, dipana un filo rosso capace di restituire quello che resta il senso più profondo della lezione del rivoluzionario argentino. Al di là di qualunque altra considerazione, tra i padri nobili del comunismo, colui che meglio è riuscito ad esprimere nel qui e nell’ora il tempo in cui si pensa e si agisce la rivoluzione. E se le forze soverchianti di un sistema normalizzante sembrano ridurre a brandelli l’opposizione sociale organizzata dalle curve calcistiche, gli stendardi con il Che Guevara di Pisa o di Cosenza ricordano che il Davide cubano ha già fatto stramazzare al suolo una volta il Golia statunitense… perché, allora, il miracolo non dovrebbe ripetersi di nuovo?
O, detto in altri termini, rispetto a Che Guevara il mercato ha giocato una carta, oltre che ben più redditizia, opposta e complementare alla censura, quella della sovraesposizione: una sorta di pinkwashing al contrario… ma non basta essere ridotti a merce per venire triturati dall’incredibile forza di sussunzione posseduta dal Capitale. Perché se i tavoli, come dicevamo all’inizio citando Marx, possono «ballare», le magliette di Che Guevara possono rendersi protagoniste di uno dei più macroscopici fenomeni di resistenza culturale che ci è dato osservare nella contemporaneità. Indossate dai senza casa e dai facchini, vale a dire dalla composizione meticcia che caratterizza i senza casa e i facchini, quelle magliette tornano a soffiare nuova vita nell’insuperata battaglia antimperialista condotta da Che Guevara e continuano a parlare a quella che resta la classe sociale di riferimento del Comandante: non semplicemente “gli sfruttati”, ma, per dirla con Franz Fanon, un autore che fu caro a Che Guevara, ai dannati della Terra, a coloro che, per le estreme condizioni di sfruttamento a cui sono sottoposti trovano in una prospettiva rivoluzionaria l’unico antidoto all’essere costretti a lavorare come e peggio degli schiavi, al non poter mettere insieme il pranzo con la cena, al non avere un tetto sopra la testa, al non vedersi riconosciuta la propria umanità e all’essere considerati per sempre ragazzi negri. In questa congiunzione, tra l’altro, vive tutta la modernità di Che Guevara, l’antitesi di quell’idea di “rivoluzionario romantico” a lui impropriamente accostata, e risalta, autentica luce nel buio, l’urgenza di un rivoluzionario capace come nessun altro di leggere Lenin insieme a Fanon e, su questa strada, di rendere davvero universale la necessità della lotta di classe. Una necessità che passa per Cuba, per il Congo, per l’Angola, per la Bolivia, ma anche per gli stessi Stati Uniti, raccontati col sangue agli occhi da George L. Jackson, che dedica a Che Guevara lunghe pagine del suo classico (Einaudi, 1972), e interpretati politicamente dalle Pantere Nere, un’avanguardia rivoluzionaria metropolitana da cui tanto è possibile tornare a imparare per continuare a sfidare il presente… indossando una maglietta di Che Guevara, naturalmente. E chissà se, dopo tante risate cadute nel vuoto, non sarà proprio una maglietta che vi seppellirà.
HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!
(Introduzione a “Il libretto rosso di Ernesto CHE Guevara“, Red Star Press)