Nessuno sa, o tutti fanno finta di non sapere, come la pratica di sottrarre i bambini Rom ai genitori ha radici antichissime. Un’infamia che nel passato procurava ai bravi cattolici schiavi da sfruttare nel lavoro dei campi e schiave-bambine utili al lavoro domestico e/o ai letti dei padroni. Il tutto, in modo simile a quanto accaduto anche per i bimbi ebrei, garantito da un sistema legale capace di coprire questi rapimenti, spacciandoli di volta in volta come “conversioni” o come misure utili a fronteggiare il “vagabondaggio”. L’opinione pubblica appoggiava (vale la pena usare il passato?) senza problemi simili misure, tanto i Rom quanto gli ebrei d’altronde venivano tranquillamente – e ovviamente falsamente – accusati di essere loro a rapire i bambini, magari per berne il sangue.
Grazie al profondo razzismo in cui siamo immersi, sottrarre un bambino a una famiglia Rom, ancora oggi, non solo è possibile, ma è anche una pratica molto meno rara di quando ci si possa immaginare. Ed è così che una coppia qualunque di nonni in automobile con il nipotino può ritrovarsi – come accaduto sulla Salaria, all’altezza di Amatrice, subito dopo il terremoto – prima agli arresti e poi privata della custodia del bimbo.
In genere si tende ad alzare le spalle di fronte a storie simili, ma che sia pieno di gente che fa schifo è cosa nota. Meno nota è un’altra grande legge della repressione. Una solida catena di stereotipi, infatti, unisce i soggetti di volta in volta definiti “negri”, “froci”, “drogati” o “comunisti” e così, quello che fanno oggi ai Rom o ai migranti, viene o verrà utile quando meno ce lo si aspetta per colpire proletari e/o chiunque alzi la testa. Basta trattare chi si vuole colpire come “persona socialmente pericolosa” e il gioco è fatto. Tanto la legge, si sa, non ha bisogno di alcuna giustizia – e neppure di “prove” – per essere applicata.