Come tutte le storie, anche quella della letteratura è gravata da un pregiudizio difficile da sradicare. Minaccioso come una censura che, seppur mai decretata da alcun organismo di controllo, sortisce l’effetto di occultare interi campi di sapere dall’enorme valore critico-culturale, questo pregiudizio è l’idea secondo la quale l’intera produzione mondiale di documenti scritti può essere divisa in due gruppi ben distinti: da un lato uno spazio “alto”, dove troverebbero cittadinanza il romanzo borghese, la poesia colta e la saggistica speculativa di matrice accademica; dall’altro lato un territorio “basso”, all’interno del quale andrebbero automaticamente collocate tutte le opere di natura eminentemente tecnica insieme a qualunque spunto – dalle scritte sui muri agli stornelli improvvisati “a braccio” – di natura popolare e, spesso, anche a qualunque traccia linguistica subalterna nell’economia e, di conseguenza, anche nei contenuti e nello stile.
Arcigni come sentinelle dispiegate lungo un confine inesistente, siedono orde di intellettuali, per lo più fermi a un concetto di critica intesa come “discorso sul bello” che, tra le molte altre cose, ha accuratamente evitato di misurarsi con quegli strani oggetti narrativi definibili come «letteratura della guerriglia partigiana»: un variegato corpus di testi sospesi tra la necessità di portare su un terreno morale il rapporto tra guerrigliero e popolo (lasciando, dunque, l’abituale attitudine al saccheggio e alla rapina agli eserciti di occupazione di stampo classico) e di diffondere le istruzioni utili a violare il tradizionale monopolio statale dell’esercizio della violenza affinché qualunque lettore possa dare il suo contributo alla causa della lotta di liberazione e/o all’avvento di un nuovo ordine rivoluzionario.
Cercando di serrare le fila della nostra analisi e nell’attesa di dare la parola ai testi-chiave della letteratura della guerriglia partigiana sarà utile individuare l’origine di questa forma espressiva nel secolo Diciannovesimo quando, incrociando i valori di libertà, eguaglianza e fraternità ereditati dalla rivoluzione francese con le suggestioni romantiche intorno ai concetti di lingua e tradizione, diventa possibile concepire in chiave moderna una definizione di “patria”; intesa come luogo in cui le aspirazioni alla giustizia sociale diventano, prima ancora che un desiderio o un progetto politico, un elemento che non può essere scisso da ciò che si va configurando come il cardine di un’interpretazione radicale del diritto di cittadinanza.
È all’interno di un simile magma – un percorso tutt’altro che lineare e foriero, come vedremo, di equivoci pagati a caro prezzo dagli ex sudditi, ora cittadini, decisi a rivendicare fino in fondo le prerogative del nuovo status – che la letteratura della guerriglia trova la propria origine: un humus politico-culturale che, per quanto riguarda l’Italia, è fortemente segnato dalla speculazione teorica e dall’impegno propagandistico-militare di Giuseppe Mazzini, artefice del Risorgimento nostrano e, a livello mondiale, uno dei massimi teorici dell’insurrezione popolare. A testimoniare l’importanza di Giuseppe Mazzini (facendo chiarezza su un’icona misconosciuta e mistificata) ci sono una serie di scritti che valgono al fondatore della Giovine Italia il ruolo di padre nobile della letteratura della guerriglia partigiana. I soli titoli di queste opere, con la loro ridondanza, bastano a chiarire i termini di un invito alla rivolta destinato a riecheggiare nel tempo e a sottolineare l’enorme importanza che il pensiero mazziniano riserva all’argomento: Della guerra d’insurrezione conveniente all’Italia (1833), Della guerra d’insurrezione (1849) e Partito d’azione. Della guerra d’insurrezione (1853); (raccolte in La guerra per bande. Insurrezione e strategia, a cura di Giuseppe Tramarollo, Gilberto Bagaloni Editore, Ancona 1978; tutte le citazioni mazziniane si intendono tratte da questa edizione).
Nelle tesi di Mazzini, mai come in questi lavori (e a differenza di altri pensatori europei per i quali un’ideologia di tipo comunitario sarebbe diventata l’anticamera del razzismo di stampo nazifascista), risuona l’epocalità di una riflessione destinata a radicare il concetto stesso di “nazionalismo” non solo su un terreno fortemente sociale ma addirittura socialista. Perché, scrive Mazzini: «Ogni rivoluzione, dalla quale non scenda un progresso morale, intellettuale e materiale a quanti vivono nel Paese dove essa si compie, e segnatamente a quanti sono più diseredati di mezzi dalla società che la rivoluzione trasforma, è colpa a un tempo e ironia».
Da qui, continua il patriota, la necessità di costituire un esercito volontario popolare, le “Bande”, la cui missione, prima ancora che di tipo militare, è: «L’apostolato armato dell’insurrezione. Ogni Banda deve essere un programma vivente della moralità del Partito. La disciplina più severa è dovere e necessità d’ogni Banda: dovere sacro verso la Patria: necessità per la Banda che non può lungamente esistere se la condotta dei militi allontani da essa la simpatia dei paesi».
La norma è registrata all’articolo tre del capitolo Istruzioni per le bande nazionali compilato da Mazzini. Un foglio d’ordine assolutamente rigoroso in cui si fa obbligo a tutti i partigiani di rispettare le donne, di non compromettere in nessun modo la sicurezza delle popolazioni civili, di non oltraggiare il clero (esistono molti preti “nazionalisti”, sostiene Mazzini) e, sopratutto, di ricordarsi che, come recita l’articolo cinque:
Le Bande sono i precursori della Nazione [in futuro si utilizzerà il termine “avanguardie”, ndr], e la chiamano a insorgere; non sono la Nazione, non hanno diritto di sostituirsi a essa. […] La tolleranza, conseguenza della libertà di coscienza è tra le prime virtù del repubblicano. […] Alla Nazione sola spetta l’alta giustizia sui colpevoli del passato, l’espiazione. Le Bande non possono usurparla. La vendetta patria non può giustamente commettersi al giudizio di individui quali essi siano.
A queste condizioni, continua l’articolo sette delle Istruzioni per le bande nazionali: «Diritto d’ogni Banda è il tutelare la propria salute e promuovere l’insurrezione nazionale. Ogni aggressione, ogni resistenza, ogni avvertimento dato da uomini del paese al nemico, ogni atto, ogni tentativo ostile di individui italiani, deve avere rapida e severa punizione dalla Banda». Mentre, per far fronte alle necessità dettate dalla pura sussistenza, sarebbe stato lecito ricorrere a forme di esproprio proletario ante litteram in quanto:
Le Bande hanno diritto di vivere e dovere di procacciare mezzi al Partito perché s’accrescano le forze dell’insurrezione. Sorgenti di vita per le Bande sono: il bottino fatto sul nemico: – le casse governative: – le contribuzioni imposte ai facoltosi notoriamente avversi alla causa nazionale: – le requisizioni nei paesi. […] Se la Banda ha mezzi, paga: se ne manca, rilascia all’autorità civile della località un documento firmato dal Capitano della Banda o dall’ufficiale di distaccamento che requisisce. La nazione potrà tener conto, vinta la guerra, di quei documenti, sulle contribuzioni delle località.
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La singolarità della letteratura della guerriglia – di cui La guerra per Bande resta un classico per molti versi insuperato – si coglie all’incrocio storico e teorico che l’alimenta. Mazzini, da questo punto di vista, raccoglie e formalizza le esperienze cospirative della Carboneria e organizza l’attitudine interventista di una generazione di patrioti votati alla causa di un nazionalismo che porta con sé importanti istanze di cambiamento sociale.
Tra questi, fondamentali sono due scrittori-guerriglieri della seconda metà dell’Ottocento: il temerario patriota romagnolo Felice Orsini, responsabile di un clamoroso attentato alla vita di Napoleone III (un fallimento risoltosi in una strage); e “l’internazionalista” sabaudo Carlo Bianco di Saint Jorioz (1795-1843), definito da Massimo Novelli Il Che Guevara del Risorgimento (in «La domenica di Repubblica» del 20 gennaio 2008), suicidatosi a Bruxelles, ormai povero in canna dopo aver devoluto i suoi averi alla causa della Rivoluzione e combattuto per libertà non solo in Italia ma anche in Grecia e Spagna.
Si tratta di due autori di scuola strettamente mazziniana, eretico Orsini, “l’italiano terribile”, dissociato dalla Giovane Italia a causa dell’attitudine a suo dire “moderata” del fondatore; ispiratore Bianco di Saint Jorioz, cofondatore della Giovane Europa e scrittore, tra l’altro, di un libro pubblicato a Malta nel 1830, Della guerra d’insurrezione per bande. Trattato dedicato ai buoni italiani da un amico del Paese, a cui parte del lavoro di Mazzini è strettamente debitore.
A fare da filo conduttore a tutte le pubblicazioni, gli elementi essenziali di questa primigenia letteratura della guerriglia: 1) una base ideologica nazionalista di tipo progressista; 2) una forte attenzione alle tematiche di ordine tecnico-organizzativo e non solo di natura politica; 3) un’assoluta propensione all’azione insieme all’auspicio di scatenare una sorta di “guerra partigiana totale”.
Così, se Mazzini, con una frase degna del Leonida al passo delle Termopili, invita a combattere con i coltelli in caso non sia possibile disporre di fucili, Felice Orsini riecheggia l’antico maestro nel suo bestseller Memorie di un italiano terribile (1857) quando proclama: «Che le norme direttrici di chi ha cuore italiano esser debbono la Cospirazione e l’Azione; costanti, efficaci, potenti; e non cieche o pazze o meschine, siccome furono sino ad ora».
Un’affermazione con cui Orsini sembra fare autocritica del suo individualismo, riconoscendo a posteriori la validità di quanto affermato da Bianco e ribadito da Mazzini (a cui, per altro, non mancò certo l’impulsività nel corso della sua intensa attività cospirativa):
Gli ordini fanno gli eserciti – e tra noi dov’è l’educazione militare che dia vita agli ordini? – dov’è la fiducia che deve regnare illimitata tra i capi e i subalterni? Lo slancio rivoluzionario agevola, non crea l’arti di guerra, le abitudini de’ ranghi, e quello spirito di corpo che strugge quanto è individuale nell’uomo, che vince il fremito delle passioni urtate ad ogni ora dalle leggi di disciplina, che immedesima il soldato alla bandiera del corpo ov’ei milita.
Un impostazione che, almeno a livello teorico (considerando che il mazzinianesimo continuerà ad alimentare generosi slanci libertari tentati – basti pensare al martirio di Carlo Pisacane immortalato ne La spigolatrice di Sapri – anche al di là di ogni possibilità di riuscita), affermerà il primato dell’organizzazione sullo spontaneismo, della gerarchia sull’improvvisazione e della disciplina sul semplice afflato ideale.
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La predicazione mazziniana, con i suoi slanci eroici, con il suo nazionalismo etico e socialista e con il suo modello esistenziale, militare e politico, raccolse proseliti non soltanto tra i corpi d’elite incarnati dai numerosi volontari che sposarono la causa ma alimentò il “giacobinismo plebeo” (vedi Valerio Evangelisti, Gli sbirri alla lanterna, DeriveApprodi, Roma 2005) stimolato dai princîpi democratici diffusi in Italia dall’esercito di Napoleone Bonaparte. Il riflesso della rivoluzione francese, seppur mediato dall’imperialismo bonapartista, introduce in Italia riforme importanti (almeno dato il contesto di assoluta arretratezza di molte regioni della Penisola), sia nel campo dell’assegnazione di quote di latifondo, sia in materia di igiene pubblica e servizi sociali, fomentando nelle classi subalterne la consapevolezza di rappresentare un soggetto politico autonomo, portatore di rivendicazioni radicali. Quello che succede, però, è che mentre Felice Raquillier, un generale napoleonico, dà il proprio contributo alla letteratura della guerriglia dando alle stampe una Guida pratica del perfetto partigiano (Firenze 1847), le stesse armate francesi tradiscono il messaggio di liberazione insito nell’avvento di Napoleone reprimendo violentemente i “proletari senza rivoluzione” pronti a radunarsi intorno alle parole d’ordine “pane” e “terra”.
Non di meno, anche la predicazione mazziniana e populista di Giuseppe Garibaldi fu pronta a trasformarsi in repressione quando, crollato il giogo borbonico, in diverse località della Sicilia i braccianti assalirono i proprietari terrieri, riconosciuti come affamatori del popolo e sfruttatori di ingiusti privilegi. Come ha raccontato Giovanni Verga ne La libertà (1883), i contadini:
Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!». Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. […] E il sangue che fumava ed ubriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! […] Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! E quanti anelli d’oro!
Il resto del racconto di Verga è storia nota: i contadini-ribelli vennero passati per le armi da Nino Bixio, il braccio destro di Giuseppe Garibaldi, forse legittimato nel suo svolgimento delle operazioni di polizia dall’antico monito mazziniano secondo cui nessuno ha diritto di farsi giustizia da solo mentre ogni “italiano” responsabile di intralciare il percorso della “rivoluzione” può essere colpito con la massima inflessibilità.
Un processo sommario, al termine del quale l’idea originaria di un nazionalismo popolare e fraterno viene sconfitta dalla soluzione “monarchico-prefettizia” concertata da Cavour a beneficio di Casa Savoia: un’Italia unita a patto di non rivoluzionare affatto il suo assetto sociale e di ingaggiare nella parte meridionale del Paese una feroce caccia all’uomo contro un genere di partigiano molto diverso dal tipo mazziniano. Si tratta dei celebri “briganti” (vedi Adolfo Perrone, Il brigantaggio e l’Unità d’Italia, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano-Varese 1963). Ma fin troppo spesso un’etichetta di tipo criminale è stata usata per nascondere la realtà di un’opposizione locale inquadrata militarmente e, in molti casi, condotta con l’ausilio di ufficiali dell’ex esercito borbonico di provata fede lealista. Un brandello di letteratura della guerriglia viene da qui. Dalle memorie dei partigiani borbonici e dalle relazioni compilate dagli ufficiali sabaudi contro di loro: documenti disorganici che lasciano trasparire – quando si tratta di descrivere i combattenti e le loro azioni – un’ottima conoscenza delle tecniche della “guerra per Bande” ma che non sfocia in una manualistica precisa come quella nata in ambito patriottico. Il nazionalismo di tipo egalitario e sociale, intanto, subisce un duro colpo: Roma diventerà la capitale dell’Italia, Vittorio Emanuele re «per grazia di Dio e volontà della Nazione» mentre gli idealisti (inizialmente), insieme agli storici (interessatisi all’argomento solo in tempi più recenti), iniziano a fare i conti con il nodo irrisolto del “Risorgimento tradito”.
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Dal punto di vista dei patrioti mazziniani, il compimento della “rivoluzione” risorgimentale non generò nessun «progresso morale, intellettuale e materiale» al Paese dove si era combattuta. Per questo, alla resa dei conti, poteva dirsi “tradita”.
Sulle macerie di quella sconfitta, lo Stato liberale non ereditò che in parte trascurabile il programma dei patrioti più ardenti e, a livello storiografico, diede corpo a un progetto di carattere revisionista privilegiando, nell’interpretazione del percorso risorgimentale, gli aspetti della lotta patriottica per la liberazione del territorio nazionale a danno di altri due aspetti – (1) il suo essere stato una guerra civile tra soldati piemontesi e partigiani borbonici insieme a truppe di contadini votati alla jacquerie; (2) il suo essere stata – ben oltre un livello “pre-insurrezionale” – un imponente episodio di guerra di classe: lotta armata con obbiettivi di tipo sociale.
Il risultato di questa complessa operazione ideologica è la messa in circolo di una versione epurata degli stessi concetti di “Patria” e “Nazione”: nati, come si è visto, come valori intimamente legati a una necessità di rinnovamento (una “rivoluzione”) ma che, dopo la censura, si trasformano in semplice “merce da parata” o, peggio, in strumenti utili a trasferire il rapporto tra classi egemoni e classi subalterne, dal terreno dei rapporti sociali a quello, mostruoso, di una fisiologia gerarchizzata delle “razze”.
Con l’avvento del fascismo-regime la “rinnovata” ideologia nazionalista raggiunge la sua apoteosi eppure, malgrado l’immensa differenza tra le forze in campo, l’afflato progressista insito nel concetto di “Patria” riuscì a manifestarsi con energia rendendosi protagonista di episodi che, proprio per essere accaduti in un momento in cui il nazionalismo si era radicato in un ambito reazionario, saranno immediatamente etichettati come “inspiegabili” e trattati come “scomodi”. La bandiera italiana, in questo caso, recupera lo spirito libertario del tricolore e, adeguando lo slancio egalitario con l’evoluzione del pensiero politico anarchico e marxista, viene sventolata da un tipo di formazione militare cresciuta dentro lo stesso esercito italiano ma, con l’avvento di Mussolini, apertamente schierato contro il regime fascista. Si tratta degli Arditi del popolo: associazioni combattentistiche che comprendevano reduci dei reparti d’assalto già veterani della prima guerra mondiale e volontari che, con Gabriele D’Annunzio, avevano tentato l’impresa di prendere la città di Fiume per renderla all’Italia sotto forma di repubblica costruita su solide fondamenta sociali. Tra le loro fila, la componente patriottica ritorna a essere radicalmente popolare perché, come disse il comandante parmigiano Guido Picelli a una squadraccia fascista: «Siamo gli Arditi del popolo, non abbiamo indietreggiato sul Carso e sul Piave, figuriamoci se lo faremo adesso. È facile per voi massacrare lavoratori inermi. Ma ora, il popolo ha il suo esercito pronto a difenderlo. Pensateci bene, perché se aprite il fuoco, lo faremo anche noi» (Pino Cacucci, Oltretorrente, Feltrinelli, Milano 2003).
Con la stessa forza, gli arditi del romano Argo Secondari serrarono i loro ranghi diventando una dolorosissima spina nei fianchi dell’apparato propagandistico fascista. Mentre le camice nere declinavano il mito della loro invincibilità, infatti, gli arditi romani associati alla popolazione impedivano ai fascisti di mettere piede nel quartiere “rosso” di San Lorenzo (vedi Valerio Gentili, La legione romana degli Arditi del popolo, Purple Press, Roma 2009).
Cosa era cambiato tra gli anni dei carbonari Mazzini, Orsini o Bianco e quella degli Arditi del popolo di un Picelli o di un Secondari? Quali differenze o, meglio, quali analogie tengono insieme epoche così diverse?
La risposta è: tanto i patrioti risorgimentali che i legionari della grande guerra avevano affrontato il conflitto in prima linea. E tutti e due, incitati durante i combattimenti dal miraggio di una più equa distribuzione della ricchezza in caso di vittoria, si trovarono a fare i conti con gli spettri di un tradimento. Nel caso dei reduci della prima guerra mondiale, infatti, va ricordato che le promesse di riforme agrarie avanzato dai politici per fomentare la lotta contro lo “straniero”, una volta vinta la guerra e rotte le righe, si tramutarono in un nulla di fatto: un inganno pagato in prima persona dai soldati che avevano “fatto l’Italia” (e nell’ambiente trans-regionale della trincea anche gli “italiani”), retrocessi da “eroi” a “disoccupati” nel volgere di una stagione.
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Osteggiati non solo dalle forze governative fasciste ma anche da un parte consistente della sinistra istituzionale, gli Arditi del popolo restano un soggetto che resiste anche alle ordinarie narrazioni storiografiche, mai generose con la memoria di questi “strani” soldati nazionalisti ma anche anarchici e socialisti. Un tipo di accoppiata, quella tra “Patria” e “rivoluzione” addirittura normale prima dell’unità d’Italia, quando chi oggi viene ricordato come “patriota” veniva braccato, carcerato e spesso ucciso in quanto considerato “terrorista”. Una sorte, quella di essere etichettati e spiegati come fenomeno delinquenziale, che i mazziniani dividono tanto con gli Arditi quanto con i briganti borbonici: segno che un mancato riconoscimento istituzionale allo status di “belliggeranti” è un altro degli elementi che connota i soggetti collettivi a cui viene attribuita la letteratura della guerriglia. E come, se non banditi – anzi, banditen – furono detti gli uomini che, anche sulla scia dell’esempio degli Arditi del popolo, imbracciarono le armi contro l’esercito tedesco e contro la milizia fascista durante e dopo che questo si trasformassero da amici in invasori e traditori?
Una cosa è sicura. Mai come durante la lotta partigiana vi fu un riferimento così forte alla letteratura della guerriglia di impronta patriottica e mazziniana. Anche chi prende le armi contro i fascisti e contro i nazisti, nel momento in cui combatte nel nome della Patria, associa al concetto un auspicio rivoluzionario e ripensa alla tradizione patriottica arrivando addirittura a utilizzare il termine “Risorgimento” per battezzare se stessa. Ferrucci Parri, in un discorso del 1926, rivendica apertamente i “compagni” carbonari, strappando ai reazionari il primato sul nazionalismo faticosamente conquistato: «Questa tradizione – sostiene Parri – è nella aspirazione, perenne della nostra storia migliore, alla libertà e alla giustizia, ragione ideale del nostro Risorgimento, ragione ideale domani ancora della nostra storia del mondo».
Non c’è patriottismo senza libertà e giustizia: questo sembra ricordare il partigiano Ferruccio Parri. Un monito che trapela da ogni riga del volume, scritto nel novembre del 1943, che la Purple Press ha deciso di ristampare in occasione del 25 aprile 2009 con il titolo Il libretto rosso dei partigiani. Un’edizione dello stesso libro, nel 1973, era stata data alle stampe dall’editore Napoleone di Roma e chiamata Manuale per il sabotaggio. La resistenza partigiana attiva contro i nazisti. Tra i testi della letteratura della guerriglia, si tratta dell’opera forse dal taglio più popolare: ancora prima dei consigli pratici per «mettere il tedesco – come avrebbe detto il presidente della Repubblica Sandro Pertini – di fronte a una sola alternativa: arrendersi o morire», Il libretto rosso dei partigiani porta avanti una sottile opera di guerriglia psicologica, chiamando a raccolta l’intera popolazione intorno a gesti molto semplici come versare zucchero nel motore di un’automobile e prendere a picconate le strade. D’altronde, recita l’incipit de Il libretto rosso dei partigiani: «La resistenza passiva dei civili alle pretese tedesche non è più sufficiente. […] Bisogna che la lotta delle popolazioni civili entri in una fase attiva. Ma senza farsi prendere naturalmente: sarebbe troppo comodo per i tedeschi».
La Resistenza, nelle riflessioni dei partigiani che compilarono il testo, non può essere semplicemente concepita come un gesto di coraggio: è una pratica costante anche quando è invisibile e, come per malasorte, attenta agli impianti industriali, impedisce i rifornimenti agricoli o, soltanto, si adopera con il suo contegno per gettare addosso agli invasori «gli effetti deprimenti di un’atmosfera ostile».
Per confermare l’importanza psicologica che gli estensori de Il libretto rosso dei partigiani diedero al loro lavoro, la confezione del volume originale ardisce irridere apertamente il nemico. Il manuale di guerriglia, infatti, veniva stampato utilizzando come copertina quella di un banale orario ferroviario. Ma, già aguzzando la vista, le pubblicità contenute nella quarta offrono la conferma di sottili modifiche: la ditta Pellizzari di Arzignano, per esempio, diventa specialista in «motori, ventilatori e pompe funebri per i Nazisti»; i motori Lombardini sono «i più facili da sabotare» e, lo slogan dell’inchiostro Pelikan sostiene che «la voce del vostro pensiero non deve ascoltarla il tedesco».
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Come ha documentato Cesare Bermani (vedi Il nemico interno, Odradek, Roma 1997), anche gli esiti della guerra partigiana vennero rivisti eliminando dal concetto di patriottismo gli elementi di natura politica e sociale. La Resistenza diventò così una guerra patriottica mosso contro un esercito invasore e non un conflitto civile: un momento della lotta di classe… ma gli operai che, prima della disfatta nazista, presidiarono armati le fabbriche evitando che il nemico in fuga le distruggesse per ritorsione, si sarebbero comportati nello stesso modo senza la consapevolezza che, difendendo il proprio posto di lavoro, difendevano un avvenire in cui gli strumenti di produzione sarebbero potuti appartenere al proletariato?
Intorno a domande come questa, pesano sugli esiti del processo di Liberazione problemi simili a quelli che avevano afflitto il percorso risorgimentale: è a margine dei problemi irrisolti delle rivendicazioni sociali avanzate dai partigiani, infatti, che si apre la ferita della “Resistenza tradita”. Una generale situazione di sconforto che, come documenta una parte importante della memorialistica dedicata alla lotta armata in Italia, consentì agli arsenali custoditi in montagna dai partigiani di passare in eredità e di costituire i primi arsenali dei militanti delle formazioni della sinistra combattente attive fin dagli anni Sessanta.
Nel “salto”, favorito dalla Resistenza, tra il Risorgimento e la lotta armata, però, è la tradizione risorgimentale – ormai stravolta e istituzionalizzata – a perdere il ruolo di punto di riferimento. Le fonti della letteratura della guerriglia, ormai, vengono da altrove e parlano la lingua dei popoli in lotta per la propria decolonizzazione e/o – come a Cuba – per una rivoluzione sociale. In Italia, in questo periodo, arriva l’eco delle gesta di Ernesto “Che” Guevara. E con l’impresa cubana, un manuale di guerriglia che i rivoluzionari italiani avrebbero con qualche difficoltà ricondotto alla storia dei mazziniani, malgrado un autore come lo stesso Che, un titolo eloquente come Guerra per Bande (Edizioni Avanti!, Milano 1961) e un contenuto dove ideologia politica e pragmatismo militare tornano a essere una cosa sola:
Una banda armata inquadrata non deve avere più di centocinquanta combattenti, e questa cifra è già piuttosto alta. L’ideale sarebbe un centinaio di uomini, il guerrigliero è un riformatore sociale e la sua bandiera di combattimento è la riforma agraria. In principio la riforma può anche non essere completamente definita nelle aspirazioni e nei limiti e può semplicemente far leva sulla fame secolare del contadino per la terra su cui lavora o vorrebbe lavorare.
Le affinità inaspettate tra il pensiero di Ernesto Guevara e Giuseppe Mazzini non sono casuali ma filtrano nella rivoluzione cubana attraverso la lezione bolivarista a cui l’internazionalismo della Giovane Italia non era certo estraneo. Allo stesso modo, nel brano del Che, le similitudini con la situazione italiana sono dovute a un’economia ancora fondata sull’agricoltura e spesso dominata dalla sperequazione tra proprietari della terra e coltivatori – una situazione che poteva ben mettere l’Italia in parallelo con Cuba. E se un editore come Gian Giacomo Feltrinelli, principale divulgatore della lectio cubana in Italia nonché instancabile militante politico, immaginò e valutò la possibilità di un’insurrezione socialista in Sardegna, non lo fece certo per la banale analogia tra la morfologia insulare delle due terre (come viene adombrato spesso a mo’ di scherno) ma perché, a Cagliari come a L’Avana, la rivoluzione poteva tornare a offrire quello straordinario ingrediente di aggregazione che è il patriottismo declinato in chiave sociale.
L’indipendentismo sardo, d’altro canto, non era neppure il primo fermento di una ribellione in grado, da sinistra, di sovrapporre la lotta di classe con la lotta per l’autodeterminazione. Già nella Sicilia del dopoguerra la frazione indipendentista marxista capeggiata dall’ex partigiano comunista Antonio Canepa si era radunata intorno al manifesto La Sicilia ai siciliani!, scritto dallo stesso Canepa con lo pseudonimo di Mario Turri:
Si tratta di un’opera intrisa di retorica mazziniana e di spunti tardo-romantici ma che offre anche elementi di sorprendente modernità: a livello stilistico, perché composta con una tecnica, quella dell’auto-intervista, che negli anni caratterizzerà i comunicati politici dei guerriglieri uruguaiani Tupamaros e, attraverso l’eco delle loro gesta, anche i documenti delle italianissime Brigate rosse; per i suoi contenuti, perché l’avvento di una Sicilia libera e indipendente veniva immaginato come un percorso rivoluzionario popolare, sostenuto in primo luogo dall’applicazione di una necessaria e drastica riforma agraria: «Quando faremo la repubblica sociale in Sicilia – scrive Canepa ne La Sicilia ai siciliani! – i feudatari dovranno darci le loro terre se non vorranno darci le loro teste (Cristiano Armati, Cuori rossi, Newton Compton, Roma 2008).
Destinato a incontrare la diffidenza (se non l’ostilità) provata dal Partito comunista nei confronti di una soluzione indipendentista al problema siciliano, Antonio Canepa cade vittima di un posto di blocco dei carabinieri in contrada Murrazzu Ruttu, in provincia di Catania, il 17 giugno del 1945. Da quel momento in poi, le insegne dell’autonomia siciliana ritornarono nelle mani degli ultraconservatori e, dopo aver brigato con monarchici e mafiosi, finiranno per armare il bandito Salvatore Giuliano e sparare ai contadini a Portella delle Ginestre: un strage che suggella l’indipendentismo socialista siciliano nello stesso sudario già utilizzato per contenere l’eterno peccato originale del Risorgimento tradito.
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La fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta l’editoria italiana, con Feltrinelli in testa, conferisce alla letteratura della guerriglia le prerogative di un genere narrativo offrendo la generosa ospitalità dei suoi cataloghi. Il momento è storico in quanto è la prima volta che questo tipo di letteratura evade da un circuito segreto, proibito e cospirativo offrendosi come argomento pubblico di analisi, dibattito e possibilità di lettura. La massima attenzione, in questo periodo, è dedicata alle lotte di liberazione condotte dai popoli di tutto il mondo e nessun continente viene trascurato. La letteratura della guerriglia amplia la propria biblioteca con le pagine scritte dal generale vietnamita Vo Nguyen Giap (Guerra del popolo esercito del popolo, Feltrinelli, Milano 1968; la prima edizione italiana si avvale della prefazione di Ernesto “Che” Guevara) e quelle compilate dal leader congolese Edouard-Marcel Sumbu (Il sangue dei leoni, Feltrinelli, Milano 1969; uno dei libri della biblioteca di Valerio Verbano, giovane militante di Autonomia operaia assassinato da un commando neofascista il 22 febbraio 1980).
Il tema è talmente sentito e il clima del momento – all’indomani della strage di piazza Fontana, nel cuore buio degli “anni di piombo” – talmente incline alla lettura di una controinformazione forte che, nel 1973, un testo di letteratura della guerriglia assurgerà a vero e proprio “caso editoriale”. Il titolo “incriminato”, stampato a Roma dall’editore Savelli, è quello del celebre In caso di Golpe. Come recita il sottotitolo: Manuale teorico-pratico per il cittadino di resistenza totale e di guerra di popolo di guerriglia e di controguerriglia.
Frutto di un’intuizione semplice ma efficace, In caso di Golpe si limita a presentare ai lettori italiani un libro pubblicato un anno prima nella tranquillissima Svizzera, La resistenza totale del maggiore H. von Dach, e distribuito ai cittadini elvetici per prepararli a un’eventuale guerra di popolo nei confronti di un qualunque invasore. Il testo di von Dach è amplio, molto esplicito e estremamente documentato dal punto di vista tecnico, tuttavia in In caso di Golpe il libro del militare svizzero è preceduto da una sorta di biblioteca della guerriglia da campo: un’antologia di testi sulla guerriglia comprendente Guerra di popolo di von Clausewitz; La guerra partigiana di Lenin e Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina di Mao. Il tutto lanciato da una quarta di copertina allarmante: «Ci sarà un golpe fascista? Come comportarsi in questo caso? La lotta di classe evolve verso lo scontro armato? Che fare?»; e preceduto dall’introduzione di Vincenzo Calò, dove si legge: «Il punto di vista dei marxisti-leninisti sulla questione della guerra è chiaro: il proletariato deve apprendere l’uso delle armi e di ogni tecnica militare, per rivolgere armi e tecnica contro i propri sfruttatori e l’imperialismo, per trasformare le guerre imperialiste in guerre civili e rivoluzionarie, le guerre coloniali e di aggressione in guerre di liberazione nazionale e guerre di popolo».
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In caso di Golpe, in modo palese, esercita una delle prerogative della letteratura della guerriglia: mentre si rivolge al popolo, infrange il dogma di una violenza coperta dal monopolio di Stato; mentre si rivolge ai militari ricorda che, se rivolti contro il popolo, possono e devono essere rigettati gli ordini. Dell’antico legame tra nazione e rivoluzione restano le parole d’ordine “liberazione nazionale” e “guerre di popolo” ma, se è normale sventolare alle manifestazioni le bandiere di Cuba, del Vietnam o della Cina insieme a simboli dell’anarchia o del comunismo, si pensa sempre meno di associarli alla bandiera italiana, rinunciando a un simbolo potente ma logorato da un processo di depoliticizzazione che dura dai tempi di Mazzini e Garibaldi. I percorsi del movimento rivoluzionario legale e/o clandestino in relazione alla letteratura della guerriglia presero un’altra direzione e seguirono ben altre “idee di Patria” ma, come i carbonari, tornarono a servirsi dell’editoria sommersa.
Scritto dal comunista brasiliano e filocubano Carlos Marighella, il Piccolo manuale della guerriglia urbana (l’edizione originale brasiliana è del 1969) nasce nel Brasile violentato dalla dittatura militare spalleggiata dagli Stati Uniti, in un clima di brusca sospensione di tutte le garanzie costituzionali. In un pugno di pagine e con uno stile semplice e incisivo, “il Marighella”, come veniva chiamato dai lettori italiani, passa in rassegna i principali modi d’azione del guerrigliero, dalla propaganda armata all’esproprio proletario, soffermandosi sulle doti di coraggio e moralità che devono competere a chi combatte in nome del popolo.
Diversi brigatisti rossi, nel descrivere le fonti a cui ispirarsi nel gettare le fondamenta della loro organizzazione armata, citano “il Marighella” come unico testo di formazione al di fuori dell’azione: il luogo in cui tutto, anche la guerriglia urbana, si impara facendola. Non a caso, negli anni Settanta, affrontare una perquisizione con addosso le fotocopie del Piccolo manuale della guerriglia urbana poteva costare il fermo di polizia, l’incriminazione e persino il carcere. Un destino che è anche il limite di questa ricerca: una soglia oltre la quale la letteratura della guerriglia non può certo essere in libera vendita sugli scaffali di una libreria.
Postfazione al volume Il libretto rosso dei Partigiani. Manuale di resistenza, sabotaggio e guerriglia antifascista, a cura di Cristiano Armati, Purple Press, 2009