Se dovessi ridurre ciò che so della storia a quello che ho visto con i miei occhi, allora Sandro Pertini è il nonno che tutti avrebbero voluto avere, il vecchio partigiano che tra i reali di Spagna e il cancellierato tedesco se non fa il gesto dell’ombrello poco ci manca mentre, l’11 luglio del 1982, la nazionale italiana segna tre reti a quella della Germania Ovest e se ne torna a casa con la Coppa del Mondo.
Altro che le «notti magiche» di otto anni dopo, quando l’Italia, ospitando i campionati del mondo di calcio, dovette accontentarsi di decine di operai morti costruendo gli impianti, di una manciata di grandi opere inutili, di una mascotte orribile chiamata «Ciao» dai geni del marketing, di un fiume di tangenti finite nelle tasche dei soliti noti e pure di essere eliminata in semifinale dall’Argentina. Il 1982 resta un momento in cui ha un certo peso poter dire «io c’ero» visto che, titolo mondiale a parte, nel momento in cui Rossi, Tardelli e Altobelli infilavano la porta di Schumacher e Pertini esultava in tribuna, in Italia sarebbe stato difficile misurarsi con la realtà senza lasciarsi sopraffare dallo straniamento. In un lasso di tempo incredibilmente breve, infatti, nell’ideale passaggio di testimone tra decenni, la democristiana «strategia della tensione» sarebbe trasecolata in una non certo meno sanguinosa berlusconiana «strategia della finzione», e così l’eskimo avrebbe lasciato il posto al moncler, la funzione sociale delle piazze sarebbe stata assorbita dai centri commerciali e la massa, più che alle manifestazioni, ci si sarebbe stupiti di meno a vederla in coda davanti a un fast food. Benvenuti negli anni Ottanta, possiamo dire oggi, rievocando il mito della «Milano da bere» e osservando, come se fossimo in un laboratorio, l’ideologia del «lavoro-guadagno, pago-pretendo» andare a occupare spazi dell’immaginario precedentemente riservati a quei progetti collettivi di cambiamento dell’esistente comunemente detti «lotta di classe». Il «Drive in», dunque, e non Stato e Rivoluzione di Lenin. E il disimpegno, piuttosto che un diffuso attivismo politico e sociale, diventano il paradigma con cui misurarsi senza aspettare il 9 novembre del 1989 e la caduta del Muro di Berlino per celebrare la morte del socialismo, la sconfitta delle grandi narrazioni e il trionfo del capitalismo interplanetario: unico dispensatore di valori e sola guida del presente e del futuro… cioè, per restare nella storia e nella familiarità con la quale i vincitori la scrivono, sola guida anche del passato.
D’altro canto, questo fanno i vincitori. Nei momenti di trionfo innalzano verso il cielo archi e obelischi. Ma quando le cose vanno meno bene, quando il calendario segna sotto la data 2014 guerre più o meno sporche diffuse in tutto il pianeta, precarietà generalizzata di masse enormi di persone ovunque, catastrofi ecologiche in corso senza soluzione di continuità e regresso accertato di diritti a lungo dati per scontati (nel 2014, nel cuore dell’Occidente, si torna tranquillamente a morire di fame), ecco che la storia arriva in soccorso degli stessi vincitori, per affermare senza tema di essere smentita come le cose, se non sono andate sempre così, sono andate molto peggio quando non erano loro – i vincitori – a tessere i fili del discorso.
Eppure, nel 1982, il vecchietto che, viaggiando sull’aereo di ritorno dalla Spagna si faceva immortalare nell’atto di giocare a scopone in coppia con Causio contro Zoff e Bearzot, di discorso ne aveva fatto un altro, affermando, al cospetto del Senato della Repubblica: «Egli è un gigante della storia».
Era il 6 marzo del 1953 e Sandro Pertini si riferiva a Giuseppe Stalin.
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Non saprei dire se assistere alla sconfitta della Germania Ovest avesse avuto per Pertini anche il sapore dell’ennesima rivincita. In fondo era contro le truppe di occupazione di quel paese che il partigiano, chiamando il popolo italiano intero all’insurrezione, aveva urlato: «Ponete i tedeschi di fronte a un dilemma: arrendersi o perire!».
Certo, nel 1982 ricordare i giorni di fuoco vissuti da Pertini come da moltissimi altri all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale non era più né facile, né politicamente conveniente. Eppure è proprio l’esperienza della guerra partigiana antifascista che, nei decenni, aveva legato persino oltre la politica – considerando che il pertiniano Partito socialista di unità proletaria fu tutto tranne che bolscevico – un uomo come il Presidente della Repubblica italiana alla figura di Giuseppe Stalin e al miracolo compiuto dalla sua Unione Sovietica, capace di trasformarsi da paese sottosviluppato in potenza industriale nel giro di una manciata di anni e, grazie a questo sforzo, senz’altro conseguito a caro prezzo, capace anche di reagire all’esercito più maledetto e potente della storia, aggredendolo con le unghie, i denti e l’acciaio forgiato dai suoi operai fino ad annientarlo definitivamente, arrivando a far sventolare la bandiera rossa sul tetto del Reichstag di Berlino il 2 maggio del 1945.
La canzone degli Stormy Six, in seguito cavallo di battaglia della Banda Bassotti, sarebbe stata scritta soltanto nel 1975 ma sembra già di sentirla cantare nelle piazze di tutta Europa: «Sulla sua strada gelata / la croce uncinata lo sa / d’ora in poi troverà / Stalingrado in ogni città».
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L’uomo che il 2 maggio del 1945 issa la bandiera rossa con la falce e il martello sul palazzo del Reichstag non è soltanto un soldato sovietico. Si chiama Abdulkhakim Ismailov e viene dalla remota regione del Daghestan. Già reduce dalla terrificante battaglia di Stalingrado, nel corso della «grande guerra patriottica» viene ferito per ben cinque volte, scegliendo sempre e comunque di tornare al fronte per combattere. E lui, morto nel suo letto il 17 febbraio del 2010 alla bella età di novantatré anni, è soltanto uno dei milioni di volti anonimi per cui scegliere di pubblicare oggi una selezione di opere scelte di Stalin può acquistare un senso forse inaspettato. Si tratta, in effetti, di provare a tracciare un percorso che ha poco a che fare con l’idea di «riabilitare Stalin» o, tantomeno, di esaltare le conclusioni a cui arriva l’autore di Questioni del leninismo. Un percorso che, al contrario, ripartendo dalla sorte dello stalinismo, mostra alcuni dei come e dei perché il patrimonio dell’intero movimento operaio internazionale sia stato aggredito e dilapidato fino al punto di essere ridotto alla stregua di un fossile, una canzone intonata da vecchi nostalgici mentre la nave del capitalismo affonda senza che nessuno trovi la forza necessaria a invertire la rotta. Dove saremo oggi se questa forza, settanta anni fa, non fosse stata nelle braccia di una moltitudine di Abdulkhakim Ismailov? E soprattutto, considerando il punto in cui siamo arrivati, rinunciando di riappropriarci di quella stessa forza, dove rischiamo seriamente di finire domani?
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Spendiamo due parole per chiarire, oltre l’evidenza di ciò che viene messo nero su bianco, il contesto in cui si manifesta la necessità di curare una selezione di opere scelte di Stalin. Questa antologia, infatti, fa parte della collana «I Libretti Rossi», nata nel 2011 e, dopo una serie di vicissitudini editoriali, felicemente approdata alla Red Star Press. Al suo interno, fino a ora, hanno trovato spazio raccolte di citazioni e testi dedicati alla Resistenza, al risorgimento garibaldino, a Vladimir Lenin, Friedrich Engels, Fidel Castro e Mao Tse-tung. Volendo continuare fino a offrire una visione la più estesa possibile delle teorie e delle lotte nate sul fronte degli ideali di fraternità, giustizia e libertà, sarebbe stato possibile escludere l’Unione Sovietica, la Rivoluzione d’Ottobre e, di conseguenza, anche Giuseppe Stalin?
La domanda è retorica considerando ovviamente negativa la risposta che è stata data in sede di coordinamento redazionale e il relativo libro che stringete tra le mani in questo momento. Ma, a essere negativa, è anche la risposta a una domanda meno scontata, uno dei grimaldelli attraverso i quali negli ultimi settant’anni la demonizzazione di Stalin ha finito per coincidere con la demonizzazione dell’intera cultura rivoluzionaria, in tutte le sue forme e sfaccettature. La domanda sotto accusa, quindi, diventa: è possibile addossare a Stalin l’intero destino dell’Unione Sovietica insieme a tutte le scelte politiche compiute dallo stato socialista per difendere se stesso dall’aggressione fascista quando si è trattato di combattere le truppe tedesche e dal «nemico interno» quando l’attacco ha riguardato chiunque fosse sospettato di deviazionismo?
Qui l’Abdulkhakim Ismailov che pianta la bandiera sovietica sul Reichstag fa un gesto incredibilmente simile a quello compiuto dall’esultante Pertini nella finale Italia – Germania Ovest, scoprendo nei due quei «compagni d’una massa operaia. / Proletari di corpo e di spirito» capaci di schierarsi dalla parte giusta nella buona e nella cattiva sorte, senza sospettare che, nel 1990, il vecchio palazzo del Reichstag perdesse il diabolico portato simbolico che emanava dalle sue pareti fino al punto di tornare a ospitare le sedute del Parlamento della Germania, riunificata all’indomani della caduta del Muro.
L’atto, in quel momento, passò assolutamente inosservato. Un’amnesia collettiva allucinante che, se avesse riguardato la storia italiana, sarebbe stato possibile paragonare alla visione di un uomo politico a cui, dopo Mussolini, fosse stato concesso di arringare la folla parlando dai balconi di Palazzo Venezia a Roma. E questo non per gridare allo scandalo individuando un rapporto di continuità tra la Germania unita di Helmut Kohl e il Terzo Reich di Hitler (anche se l’evento la dice lunga sul cuore nero dell’Unione Europea), ma proprio per parlare della formidabile operazione di lavaggio collettivo dei cervelli e delle coscienze portato avanti immediatamente dopo la fine della guerra mondiale. Che la deriva nazifascista covi costantemente tra la cenere del capitalismo, rappresentando una modalità tipica della periodica ristrutturazione a cui è costretto, infatti, è cosa nota. Ma intanto, isolando e assolutizzando la figura di Stalin, estraendola dal suo contesto come si fa con un dente marcio dalla bocca, è stato possibile astrarre il singolo personaggio dalla massa enorme che ha sostenuto urbi et orbi la politica sovietica, facendo del comunismo in Russia non più il formidabile risultato del protagonismo delle masse diseredate, ma l’esito imprevisto delle azioni di un folle, una specie di satrapo orientale capace di impossessarsi dello sterminato territorio dell’ex Impero degli zar grazie a un’astuta e criminale combinazione di realpolitik e feroce repressione.
La stessa identica cosa, secondo gli autori di questa storia (cioè secondo i «vincitori»), sarebbe accaduta anche in Germania, dove Hitler diventa la controparte di Stalin, una figura altrettanto isolata e altrettanto avulsa dalla realtà sociale in cui si muove, un altro pazzo sanguinario protagonista, al pari del «dittatore» sovietico, di quella stagione drammatica chiamata «Novecento» e caratterizzata dal tentativo di ideologie totalitarie in fondo identiche come nazismo e comunismo di distruggere il sistema di preziose garanzie democratiche donate al popolo dai governi liberali.
Oltre a essere una bestemmia che grida vendetta di fronte agli uomini, la sovrapposizione di nazismo e comunismo attraverso la sovrapposizione di Hitler e Stalin, personalizzando in maniera ridicola eventi epocali e di massa (con buona pace del rigore della lettura materialista della storia, autentica conquista intellettuale a disposizione dell’umanità), ha reso possibile, per quanto riguarda la stagione dei fascismi europei, di evitare a intere collettività nazionali come quelle italiana e tedesca di fare realmente i conti con se stesse, di procedere come se nulla fosse con le mancate epurazioni dei personaggi chiave del fascismo e del nazismo dai ruoli di potere occupati e, in una manciata di anni, di essere riassorbite e integrate dagli ex nemici della seconda guerra mondiale nell’orbita atlantica, questa sì pronta senza problemi a «perdonare» fascismo e nazismo – che pure ha la responsabilità di aver generato – pur di non concedere nessun tipo di terreno al socialismo reale.
Al contrario, l’operazione di riduzione del comunismo a Stalin, insieme a tutta la retorica da «libro nero» sui crimini commessi sotto l’egida della falce e martello, non offre nessun credito alle differenze sostanziali tra Stalin e Trockij, non si interessa alle polemiche che separarono i bolscevichi dai luxemborghisti, non prende in esame le lacerazioni tra la frazione stalinista e gli esponenti della «nuova opposizione unificata» o le deviazioni tra impostazione leninista e interpretazione stalinista, non parla di anarchici, di spartachisti, di femministe, di comunisti cubani o titini ma, facendo di tutta l’erba un solo fascio, va ben oltre e, urlando «dagli al comunista!» con il fanatismo dei cacciatori di streghe, supera di gran lunga i confini dell’Unione Sovietica stringendo in un abbraccio mortale i movimenti di liberazione dei popoli oppressi, i militanti di base di ogni tempo e di ogni paese, la fondamentale rivoluzione epistemologica di Marx ed Engels fino ad arrivare, con un’azione senza precedenti di «despecificazione politico-morale», ad escludere dalla comunità civile e quindi a screditare, attaccare, imprigionare e, non di rado, anche a uccidere, chiunque mostri idee e stili di vita non omologati. Quale parola, in fondo, viene utilizzata dai benpensanti per radunare in un ideale campo di concentramento minoranze etniche e capelloni, fumatori di marijuana e omosessuali, attivisti dei centri sociali e intellettuali non allineati?
Sotto quale parola la pancia fascista dei regimi democratici e liberali riunisce lo spauracchio impersonificato da «froci, negri, drogati, capelloni ed ebrei»?
La parola è sempre la stessa: «comunisti».
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Se devo dire come la penso su Stalin, confesso di considerare la vittoria ottenuta sull’esercito nazista con la conseguente affermazione dello stato sovietico come un fatto decisivo, in grado di sopravanzare le mie tendenze libertarie e di mettere in secondo piano le suggestioni trockijste assorbite studiando la vita e le opere dell’ex comandante dell’Armata rossa. Eppure non ho difficoltà ad affermare che tra le pagine de Il libro rosso di Stalin non c’è nessuna volontà di seguire Domenico Losurdo nell’impostazione e nelle conclusioni del suo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008). In questo testo, relativamente celebre (considerando che solo una nicchia legge questo tipo di pubblicazioni, ma questo è precisamente parte del problema), Losurdo prende in esame la figura di Stalin tentando di separare la storia dalla leggenda, ciò che è accaduto realmente in Unione Sovietica da ciò che sarebbe stato raccontato dalla propaganda anticomunista. Le intenzioni, dunque, sono senz’altro condivisibili, eppure, senza entrare nello specifico del lavoro di Losurdo o commentare i suoi esiti, la postura de Il libro rosso di Stalin non è quella assunta da qualcuno che si prepara a una formidabile guerra di cifre e documenti né, a maggior ragione, incarna lo spirito «burocratico» di chi, a colpi di citazioni, intendesse avere la meglio nell’ambito di un confronto dialettico sulla «vera» ortodossia marxista-leninista e su di chi meriti di ricadere un’eredità tanto illustre. Se per questo genere di scontri, infatti, può sempre esserci tempo, molto di meno è il tempo ancora a disposizione, se non per formare un vero «fronte unico» anticapitalista, almeno per provare a impostare un dibattito a partire da informazioni reali e non da notizie recuperate di terza mano e/o dalle stesse fonti di propaganda anticomunista.
Ecco, giunto alla soglia dei quarant’anni, la mia idea di tempo non fa più nessuna difficoltà a identificarsi nella forma di una clessidra. E se ogni singolo granello che, passando attraverso la strozzatura scivola irrimediabilmente nel bulbo inferiore, è prezioso come la vita stessa, diventa faticoso sostenere confronti con chi non ha mai pensato di alimentare le proprie opinioni dedicando alla verifica delle stesse i granelli di sabbia a sua disposizione. Senza scomodare il motto maoista secondo il quale «chi non ha fatto inchiesta non ha diritto di parola», insomma, Il libro rosso di Stalin potrà perlomeno sortire l’effetto di offrire una fonte di prima mano alla riflessione collettiva. E questo mi sembra già un primo, piccolo risultato.
Un secondo risultato, forse più importante, è di natura strettamente polemica e riguarda il diffuso atteggiamento di moltissimi che, pur collocandosi in un campo genericamente di sinistra, scuotono perennemente la testa in tutte le occasioni in cui, vuoi attraverso l’arma dello sciopero, vuoi grazie allo strumento dell’occupazione sociale o abitativa o in virtù del ricorso al conflitto di piazza, un movimento sembra indicare possibili strade al cambiamento dell’esistente. Che fare?
Questo particolare genere di «sinistri» lo sa benissimo. Se soffia il vento di rivolta, il loro compito è quello di scuotere la testa. Dotti come sono, citano il «complesso di Saturno» e, ricorrendo all’immagine mitologica del padre che divora i figli, teorizzano come inevitabile il destino di ogni rivoluzione: quello di essere tradita dall’istituzionalizzazione della stessa avanguardia rivoluzionaria senz’altro, «come Stalin», sempre, irrimediabilmente pronta a varare grandi purghe contro potenziali rivali nella corsa al potere e, per scrupolo, anche a imporre al popolo misure degne del peggior stato di polizia.
Risultato di questo diffuso modo di ragionare?
Meglio non fare mai nulla. Restare con le «mani pulite» anche se nel mondo tutt’altro che rivoluzionario o rivoluzionato in cui viviamo l’oppressione cresce, seconda soltanto alla disoccupazione, alla fame e a una qualità della vita sempre più bassa per tutte e tutti.
Di fronte a questi dati di fatto, personalmente, preferisco rischiare ogni sorta di cambiamento: non è l’opzione individualistica del coraggio, ma il riflesso oggettivo di un interesse di classe a impormelo. In virtù di questo stesso interesse, preferisco rischiare persino di ritrovarmi a portare il nome di Trockij o Bucharin nella Mosca degli anni Trenta, preferendo riconoscermi nel primo piuttosto che nel secondo ma avendo sotto gli occhi la realtà dei tanti proletari che, nell’Europa del 2014, si ritrovano già a fare da bersagli mobili alla guerra contro i poveri che la «crisi» del Capitale ha scatenato contro di loro.
Un altro punto, qui, vale la pena di essere sottolineato. Chiunque sogni un sistema capace di risparmiare all’individuo lo sforzo di esercitare il proprio libero arbitrio al cospetto dell’angoscia insita in ogni scelta, probabilmente, che lo sappia o meno, abita già il loculo di qualche cimitero. Ai vivi resta la responsabilità di scegliere e di schierarsi. E quindi di sporcarsi le mani.
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Un altro libro, quello dell’ex maoista belga Ludo Martens, affronta Stalin in termini decisamente antitetici rispetto ai soliti, largamente utilizzati da quella formidabile arma del potere che è il luogo comune. Il lavoro di Martens, pubblicato in italiano dalla casa editrice Zambon nel 2004 e intitolato Stalin. Un altro punto di vista, esamina in oltre trecento pagine i temi caldi delle tesi antistaliniste passando in rassegna il testamento di Lenin, la collettivizzazione forzata, la burocrazia imperante, l’eliminazione della vecchia guardia bolscevica, il mito dell’industrializzazione e le presunte collusioni con la Germania. Un particolare estremamente interessante, però, Martens, partito in gioventù da posizioni notoriamente e accesamente antistaliniste, lo rivela già nell’introduzione quando afferma:
Tutte le organizzazioni comuniste e rivoluzionarie in tutto il mondo sentiranno l’obbligo di riesaminare le opinioni e i giudizi che esse hanno formulato sull’opera di Stalin dopo il 1956. Nessuno può sottrarsi a questa evidenza: quando, dopo trentacinque anni di denunce virulente dello «stalinismo», Gorbačëv aveva realmente eliminato tutte le realizzazioni di Stalin, si è constatato che Lenin era diventato di colpo «persona non gradita» in Unione Sovietica. Seppellendo Stalin, anche il leninismo è stato sotterrato. Riscoprire la verità rivoluzionaria sul periodo dei pionieri è un compito collettivo che compete a tutti i comunisti del mondo. Questa verità rivoluzionaria scaturirà dal confronto delle fonti, delle testimonianze e delle analisi. (…) La classe il cui interesse fondamentale consiste nel mantenere il sistema di sfruttamento e di oppressione ci impone quotidianamente il suo punto di vista su Stalin. Adottare un altro punto di vista su Stalin significa guardare il personaggio storico di Stalin con gli occhi della classe opposta, quella degli sfruttati e degli oppressi.
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Tra tutte le narrazioni conosciute da chi scrive, quella che con più verità ha saputo guardare a Stalin «con gli occhi della classe degli sfruttati e degli oppressi» di cui parla Martens, non è contenuta, a mio parere, negli studi rigorosi di un saggista o nei comizi di un esponente del ceto politico ma appartiene alla voce sommessa di un «poeta contadino», il lucano Rocco Scotellaro. Giovane sindaco socialista di Tricarico, all’indomani della morte di Stalin Scotellaro scrive:
L’uomo che vide suo padre calzare
gli uomini e farli camminare
imparò da quell’arte umile e felice
la meraviglia di servire l’uomo.
L’uomo che crebbe nell’esule villaggio
imparò il coraggio di farsi riconoscere
e di crescere non lontano dai potenti della terra.
L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini
imparò dal fascino della notte
il chiarore del giorno.
Quell’uomo muore. Attorno attorno
alla ceppaia gigantesca che è
agili frullano i vivai che piantò nel mondo.
Ogni uomo che dà agli uomini amore profondo
e il pane e le scarpe e le case e le macchine
può dire chi era Stalin e la ragione del mondo.
Come il padre di Stalin, anche il padre di Scotellaro faceva il calzolaio. Ma non è questo il punto. Il punto è che credere di trattare Stalin, il comunismo e l’Unione Sovietica come elementi riducibili a un’indagine storica tutta di carta e di inchiostro, di risoluzioni emesse dal Partito e di inoppugnabili documenti, significa tagliare fuori dal discorso l’impatto impalpabile eppure potentissimo che la figura di Stalin ebbe sui lavoratori di tutto il mondo. Questo impatto, misurabile con la forza della suggestione e l’ampiezza dei ricordi che si ha la fortuna di aver vissuto prima che con il rigore delle fonti, ha disegnato una comunità internazionale di donne e uomini con la faccia sporca e le mani di pietra. Sono i lavoratori. Gli stessi che alle nostre latitudini si riconoscevano per gli occhi scintillanti di dignità e per un motto, una specie di grido di guerra, spontaneo e genuino, naturalmente antifascista e assolutamente impermeabile rispetto all’approccio intellettualistico che caratterizza tanta parte del dibattito su Stalin, la sua figura, la sua eredità. Quel motto, quel grido di guerra, quel confine internazionale in cui si raccoglieva una patria completamente alternativa alle mistificazioni nazionaliste, fatta di gente che con orgoglio di appartenenza posso dire «mia», affermava di «volere tutto» quando scandiva le parole «Ha da venì Baffone».
Ed essendo che personalmente non nutro alcuna ambizione nell’esercitare rispetto a questa comunità (tutt’altro che «immaginaria» vista la sua capacità di incidere sul reale) un’opzione politica capace di distinguermi dalla massa a cui sono sempre appartenuto, è per gli occhi e le mani di chi ha voluto e continua a «volere tutto» che Il libretto rosso di Stalin ha trovato una buona ragione di essere editato.
Postfazione al volume Il libro rosso di Stalin. Storia, politica, rivoluzione: opere scelte del padre del socialismo sovietico, a cura di Cristiano Armati, Red Star Press
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