Impara l’arte e lotta contro gli abusi di potere. Il cuore della street art e lo scandalo dei “maiali” di San Basilio

Blu colpisce ancora.

http://it.wikipedia.org/wiki/Blu_(artista)

Lo street artist inserito dall’autorevole The Observer in una lista comprendente i dieci artisti di strada più autorevoli del mondo, dopo aver regalato a Roma lavori importanti come quelli che possono essere ammirati sulle facciate del LOA Acrobax, di Porto Fluviale Occupato e dello Studentato Occupato Alexis, ha rivolto le sue attenzioni a San Basilio, trasformando la facciata grigia di una palazzina in un quadro trasudante storia e memoria. Oggetto prescelto da Blu, un San Basilio Magno in carne, ossa, barba e abito talare impegnato, con una cesoia al posto del tradizionale aspersorio, a scassinare lo stesso lucchetto forzato quarant’anni fa dalla gente della borgata, protagonista nel settembre del 1974 dell’occupazione di massa delle locali case vuote, una clamorosa prova di forza popolare capace di sfidare un dispiegamento senza precedenti di forze dell’ordine dando vita alla celebre “battaglia di San Basilio”, da allora evento-simbolo della lotta per la casa e dell’autorganizzazione.

Per rendere omaggio al protagonismo di quei giorni, il San Basilio di Blu è raffigurato come un colosso capace di irradiare una sorta di potere magnetico di fronte al quale un branco di maiali e pecorelle in divisa da poliziotto è costretto a inchinarsi tra dolorose contorsioni, come riconoscendo la supremazia della volontà popolare sul corrotto potere temporale dello stato o, per lo meno, soccombendo alla forza di un santo noto per le parole spese in favore dei diritti degli animali, a cui, chissà, lo stesso Blu potrebbe essersi ispirato:

O Signore, accresci in noi la fratellanza con i nostri piccoli fratelli; concedi che essi possano vivere non per noi, ma per se stessi e per Te; facci capire che essi amano, come noi, la dolcezza della vita e ti servono nel loro posto meglio di quanto facciamo noi nel nostro

Implicazioni teologiche a parte, l’ennesima, bellissima opera di Blu è stata realizzata dall’artista – anonimo per precisa scelta politica – nel corso della grande festa popolare organizzata a San Basilio in occasione dell’anniversario della Battaglia e della morte di Fabrizio Ceruso, un ragazzo di diciannove anni accorso da Tivoli per partecipare alla difesa delle case occupate e assassinato dalle forze dell’ordine con una fucilata.

http://www.senzasoste.it/anniversari/8-settembre-1974-fabrizio-ceruso

Correva l’8 settembre del 1974, e da allora il caso di Fabrizio Ceruso giace insabbiato tra i misteri di una storia che, complice la cossighiana strategia della tensione, ha compreso l’impiego disinvolto di cecchini che, in quegli stessi anni, si presero la vita di altri ragazzi, dalla romana Giorgiana Masi (12 maggio 1977) al fiorentino Rodolfo Boschi (18 aprile 1975), ugualmente impegnati ad esercitare il proprio diritto al dissenso, anche opponendo il proprio corpo alla violenza dei tanti abusi in divisa che non hanno mai smesso di insanguinare le strade delle città italiane.

Nel corso della partecipata commemorazione, una festa popolare che, oltre all’esibizione di atleti delle palestre popolari, ha visto la partecipazione del cantautore Pino Masi e di diversi gruppi hip hop tra cui i mai abbastanza lodati Gente di Borgata, l’intervento commosso di Carla Ceruso, sorella di Fabrizio, ha contribuito a ricordare come la figura del diciannovenne di Tivoli, da sempre dimenticata e infamata dalle istituzioni responsabili della sua morte, sia al contrario vivissima nella memoria di tutto il quartiere: dedicare a lui un lavoro firmato da un’artista come Blu, insomma, appariva come un riconoscimento minimo nei confronti di chi, a un quartiere come San Basilio, ha lasciato addirittura la propria vita per garantire il diritto di tutti gli abitanti ad ottenere un tetto sopra la testa.

A pensarla in maniera opposta, però, ci hanno pensato le stesse forze dell’ordine citate da Blu nel suo murales. Talmente colpite dalla provocazione da presentarsi in massa nel cuore della notte per provvedere a cancellare, deturpando il lavoro dell’artista, le pecore e i maiali dotati delle loro sembianze. Con quale autorità? Con quali permessi? Rispetto a quale preparazione e con quale rispetto nei confronti dell’opera d’arte i tutori della legge hanno compiuto un simile gesto?

Il commento dell’assessore ai lavori pubblici Paolo Masini, secondo il quale il lavoro di Blu è da considerarsi illegale oltre che colpevole di violare l’articolo 342 del codice penale (in quanto contenente immagini denigratorie delle forze dell’ordine), è infatti arrivato a cose già fatte. Ma come se non bastasse, da quando è un assessore, anziché un giudice, ad arrogarsi il diritto di applicare leggi e di comminare pene?

Per discettare di legalità, occorrerebbe ricordare a Masini, sarebbe necessario anche vivere nella legalità, essendo stato il comportamento suo e dei tutori dell’ordine coinvolti più appropriato a pseudogiustizieri della notte che non a dei rappresentanti delle istituzioni. A Masini si potrebbe anche ricordare che una simile solerzia sarebbe, dato il ruolo, benvenuta se andasse una volta tanto a ficcare il dito in piaghe come quelle relative agli scandali dei ritardi nei lavori delle metropolitane romane, tanto per fare un esempio, ma evidentemente il comune di Roma si muove secondo priorità estremamente distanti rispetto a quelle sentite dalla popolazione. A testimoniarlo, lo stesso sindaco Ignazio Marino che, a detta di quanto riportato dai giornali, si è affrettato a telefonare al Questore “per ribadire il proprio ringraziamento riguardo l’attività quotidiana svolta dalle donne e dagli uomini delle forze dell’ordine a tutela della sicurezza delle romane e dei romani”.

A Marino occorrerebbe  forse far sapere che tra le romane e i romani tutelati dalle forze dell’ordine c’è un ragazzo come Stefano Cucchi, assassinato il 22 ottobre del 2009, e che nessun rappresentante delle istituzioni ha ritenuto opportuno alzare il telefono per un abitante dei quartieri popolari quel giorno. Questo non accade a Roma, ma neppure a San Basilio, dove l’ultimo intervento comunale a favore della vivibilità del territorio e della sua tutela si perde nella notte dei tempi, segno che al sindaco interessa la sicurezza delle romane e dei romani come ai palazzinari la qualità del cemento utilizzato nell’edificazione dei loro scempi… altrimenti, d’altra parte, perché rendersi artefice di un provvedimento come quello passato sotto silenzio ultimamente, una ristrutturazione dei commissariati con la relativa imposizione della chiusura notturna per gran parte di questi (ben 29 dei 39 totali) e il dirottamento delle forze disponibili sull’ordine pubblico – per tenere meglio a bada le manifestazioni di piazza – e negli uffici della digos: repressione dell’opposizione sociale, quindi, questa è l’unica idea di “sicurezza” presente nella testa di Marino, mentre a poche settimane dall’omicidio del sedicenne napoletano Davide Bifolco, la solerzia può essere spiegata come una mano tesa all’immagine delle stesse forze dell’ordine, quanto mai appannata.

http://www.romatoday.it/politica/chiusura-notturna-commissariati-roma.html

In ogni caso, non è certo questa la prima volta che la street art affronta o si scontra con il tema della sicurezza. Negli ultimi anni, in virtù del successo del movimento, si sono sprecati i tentativi istituzionali di utilizzare persone e linguaggi della street art per dare verso l’esterno un’immagine “giovane”, dinamica e futuribile di enti locali o governativi. La stessa San Basilio, attraverso un progetto finanziato dal comune, ha conosciuto la pratica dei “muri legali”, tentativi di riqualificazione urbana che hanno visto impegnati street artist importanti come il bravissimo Agostino Iacurci. Ma, da questo punto di vista, è inaccettabile il commento del rappresentante del progetto, secondo il quale: “A distanza di pochi mesi dal progetto ‘SanBa’, studiato e approvato per la riqualifica del nostro territorio che ha visto protagoniste le scuole i bambini e molte realtà sociali buone di San Basilio, questo murales entra a gamba tesa e spiazza noi tutti, compreso chi ha nel cuore anche il lato religioso e morale del quartiere”.

Si tratta del classico tentativo di dividere i buoni dai cattivi per tracciare un confine inesistente tra street artist legali e illegali ai quali i protagonisti si piegheranno molto difficilmente. Al di là del campo libero delle scelte personali, infatti, la street art non perde di senso quando entra nelle gallerie, ma quando dimentica che l’arte non è nata per abbellire le case dei potenti o per soddisfare le necessità di istituzioni antipopolari, ma, al contrario, nel caso della street art per riappropriarsi – per occupare – lo spazio pubblico dell’immaginario sottraendolo al monopolio che la pubblicità a pagamento e/o la propaganda di regime intende esercitarci. Per questo tra street art e forze dell’ordine – sensibilissime alla loro immagine e mai sazie di fiction televisive progettate solo per esaltare chi indossa la divisa – è un eufemismo dire che non corra affatto buon sangue. Lo stesso ricchissimo e popolarissimo Obey, noto per aver realizzato l’icona che avrebbe spianato ad Obama la strada della vittoria elettorale (ma su questo argomento l’artista ha fatto autocritica…), vanta un curriculum di ben 19 arresti, l’ultimo dei quali subito nel corso dell’inaugurazione di una sua mostra in un ufficialissimo museo di arte contemporanea statunitense!

Le forze dell’ordine, insomma, bersagliate dalle critiche degli street artist, reagiscono con particolare durezza di fronte a chi pratica l’arte urbana. Non a caso un altro scandalo italiano dimenticato è quello che ha visto protagonista Rumesh Rajgama Achrige, uno street artist diciannovenne di Como colpito a bruciapelo da un colpo di pistola esploso da un membro della locale squadriglia antigraffiti. Era il 29 marzo del 2006. Inutile precisare che neppure in questo caso gli stimati rappresentati delle istituzioni, essendo il ferito soltanto un graffitaro, hanno mai telefonato.

La sindrome di Robin Williams

Nemmeno il tempo di dare alla notte il modo di trasformarsi in giorno. Poi le bacheche dei social network, ancora prima delle pagine dei quotidiani on-line, sono state prese d’assalto con una notizia terribile e commovente: Robin Williams è morto. Il “mio capitano” de L’attimo fuggente ha perso la sua battaglia contro il male oscuro della depressione e, nella sua residenza californiana, si è suicidato.

Gli ultimi istanti della vita di Robin Williams, a questo punto, si sono già trasformati in frasi che, con l’aiuto di photoshop, si accompagnano a fotografie in cui l’attore, indossando i panni del professor John Keating, declama il Carpe Diem di Orazio, incarnando nel senso comune un ideale anticonvenzionale e libertario, se non addirittura rivoluzionario, tristemente affine al suicidio – questo suggeriscono le immagini in questione – se si tiene conto della realtà del mondo in cui viviamo, per nulla incline ai sensibili e ai ribelli.

Con un sospiro di circostanza, a questo punto, il popolo di internet può tranquillamente passare oltre, concludendo che tutto sommato è meglio rigare dritto, continuando ad accettare compromessi e, al massimo, coltivando nel privato stravaganze affini a quelle responsabili del suicidio del tanto amato attore hollywoodiano. Questo, almeno, è quello che la proteiforme informazione sul caso, equamente divisa tra messaggi personali e media mainstream, sta suggerendo in merito alla morte di Robin Williams. E se non è stato in grado di reggere botta un personaggio come Williams, è il senso inconscio della comunicazione, figuriamoci l’uomo medio e comune, invariabilmente destinato alla malamorte nel momento in cui dovesse decidere di rompere gli ormeggi dell’ordine a cui è destinato, magari prendendo spunto proprio dall’attore prematuramente scomparso e dal suo film più famoso.

Archiviando per un attimo tra queste righe l’incredibile capacità delle sovrastrutture del capitale nel trasformare in messaggi conservatori gli eventi più disparati del vivere quotidiano, sarà bene ricordare come di Robin Williams esistano ben altre immagini oltre a quella del professore illuminato disposto a sacrificare tutto ai suoi ideali pedagogici. Esistono, per esempio, fotografie dell’attore che, indossando una maglietta con la scritta (in arabo) “I Love New York”, arringa e intrattiene le truppe statunitensi impegnate in Kuwait e in Afghanistan: una realtà che, tra le altre cose, si sposa molto male non soltanto, per stare nella filmografia di Williams, con l’ideale del professore antisistema de “L’attimo fuggente”, con l’incapacità di crescere (cioè di omologarsi)  di Peter Pan, con l’ironia stralunata dell’alieno Mork o con la lucida follia de “La leggenda del re pescatore”, ma anche con quell'”odio i nazisti dell’Illinois” strettamente associato a John Belushi, di cui l’attore suicida fu grande amico.

Una certa coerenza suggerisce che il “mio capitano” de “L’attimo fuggente” non avrebbe mai prestato il suo volto al militarismo nazionalista, né avrebbe pervertito i versi di Orazio a uso e consumo dell’imperialismo a stelle e a strisce. Molti diranno che un conto è l’attore, un altro è la persona. Ma dietro ogni maschera c’è lo stesso individuo, anticonformista e libertario per la macchina da presa, ridotto a macchietta di se stesso quando intrattiene le truppe statunitensi con la maglietta “I love New York”… a quale interpretazione bisogna prestare fede?

O meglio: dove finisce la macchina da presa e dove inizia l’essere umano?

La domanda, a ben vedere, non riguarda soltanto Robin Williams. Al contrario, l’intero pianeta è nella realtà costretto a vivere all’interno di un universo di valori – onestà, giustizia, rettitudine, bontà, fratellanza, solidarietà… eccetera, eccetera – che lo stesso sistema provvede a negare minuto dopo minuto, sfruttando il lavoro, imponendo immani carneficine nei luoghi riottosi del pianeta, devastando territori nel nome del profitto e chi più ne ha più ne metta. Ogni singola esistenza, in queste condizioni, è preda delle contraddizioni più atroci e posta di fronte a un bivio: cedere all’alienazione totale del sé, e magari andare a sculettare per l’esercito nel corso di qualche operazione militare; oppure lottare affinché la distanza tra ideali e realtà si riduca fino a dissolversi del tutto, almeno negli ambiti più vicini alla propria esperienza e alla propria esistenza.

Chi sceglie il secondo cammino non avrà vita facile. La repressione è in agguato ed è pronta a colpire in mille modi, non soltanto con i manganelli della polizia e le inferriate di una galera. A sorreggere il percorso, in ogni caso, c’è un diffuso senso di benessere che comunque accompagna chi trova la forza, giorno dopo giorno, di “fare la cosa giusta”.

D’altronde chi, evitando di mettere in discussione un ordine irragionevole, accetta di alienare la realtà dei valori a uso e consumo di interessi reazionari e antiumanistici, per esempio evitando di ribellarsi alle condizioni di sfruttamento che ha sotto gli occhi, delegando la partecipazione alla vita politica, aderendo a piattaforme semplificate di produzione di senso comune e magari affidando la rappresentazione di un presunto “vero sé” a momenti circoscritti come quelli passati da Robin Williams dietro una cinepresa, non potrà pensare di dormire sonni tranquilli. I compromessi con cui scendere a patti, giorno dopo giorno, si ingigantiranno fino a inghiottire ogni residua traccia di individualità. E a questo punto possiamo ribattezzare “sindrome di Robin Williams” il momento in cui, per ritrovare se stessi, resta solo la morte, momento supremo di superamento dialettico di ogni dolorosa contraddizione.

Pulirsi il culo con le (nostre) mani. L’anima del capitalismo di rapina e lo sgombero del Volturno Occupato

In una Roma messa a dura prova dal caldo e da un anno in cui la spinta repressiva ha toccato altissimi livelli, la notizia è stata di quelle comunque in grado di arrivare come una frustata in faccia alla città: «Stanno sgomberando il Volturno!».

Erano le otto e un quarto del 16 luglio quando un indignato passaparola ha fatto accorrere davanti al portone dell’ex cinema occupato un centinaio di attivisti, ma era già troppo tardi. Numerosi blindati avevano sbarrato le vie limitrofe e nutriti cordoni di celerini, facendo ondeggiare ritmicamente il manganello, non nascondevano di certo le loro reali, voluttuose idee di violenza. La stessa violenza che, nel nome della legge, si scatenava sugli spazi del Volturno, aggredito da picconi immediatamente in grado di demolire arredi e pavimenti, producendo nel giro di un’ora un’immagine in grado di commentarsi da sola: ci sono voluti sei anni per fare del Volturno un teatro aperto alla città e uno degli sportelli del diritto alla casa più noti a livello nazionale, mentre nel giro di appena sessanta minuti tutto è stato distrutto senza nessuna remora. Mancano effettivamente le immagini dei celerini che pisciano per dispetto sugli oggetti degli occupanti, ma alla resa dei conti, quando c’è stata la possibilità di entrare per recuperare le cose più importanti, diverse parti dell’impianto luci e audio risultavano assenti:qualcuno tra poliziotti e operai assoldati per l’apertura della porta se li era rubati!

Tra le questioni sociali che in questo momento a Roma scottano di più, c’è senz’altro la ferma volontà della prefettura – autentico sindaco-ombra della capitale – di “normalizzare” gli spazi sociali attivi sul territorio, promuovendo una campagna di sgomberi che mette a rischio,insieme ai luoghi liberati, gli strumenti dell’organizzazione dal basso e dell’autogestione. Lo stesso articolo 5 della mai abbastanza bestemmiata Legge Lupi, d’altro canto, nel momento in cui arriva a imporre il divieto di allacciare utenze a chi vive in spazi occupati, non sferra soltanto un infame attacco alla realtà delle occupazioni abitative, ma estende la sua portata su tutti gli spazi sociali, ed è, in ultima istanza, una delle cause profonde dello sgombero del Volturno a ben sei anni di distanza dalla sua occupazione. Niente di strano, dunque, se un simile atto sia riuscito a raccogliere una solidarietà ampia: la stessa solidarietà che, nella serata di giovedì 20 luglio, ha portato oltre tremila persone a conquistare il percorso di un corteo non autorizzato, ma in grado comunque di attraversare il centro della città, da piazza Indipendenza fino a Porta Pia.

«Il Volturno», si diceva nel corteo parafrasando Vittorio Arrigoni secondo cui l’attacco a Gaza comincia sull’uscio della casa di chiunque, «è la nostra Palestina»: una situazione in cui, di fronte all’incomparabile superiorità di uomini e mezzi messi in campo dalla speculazione, bisogna in ogni caso trovare il modo di autorganizzarsi per dare una risposta concreta, pena un arretramento generalizzato del concetto stesso di diritto all’abitare fino a livelli difficilmente pensabili – nelle intenzioni dei padroni, ovviamente, fino al suo annientamento.

Mentre la rabbia e le lacrime del corteo defluivano, gli speculatori non restavano a guardare, né ovviamente davano prova di alcuna sensibilità. Il primo atto dei padroni del Volturno (le società che risultano eredi di ciò che è stato uno dei lotti messi in vendita dopo il fallimento Cecchi Gori appaiono come una serie di nebulose scatole cinesi), non a caso, è stato il gesto di asportare il murales di Sten e Lex che faceva bella mostra di sé all’entrata dell’ex cinema, per coprire il portone con una triste mano di vernice nera.

Qui le contraddizioni si fanno talmente fitte da riuscire a tagliarsi con il coltello. Il giorno stesso dell’occupazione del Volturno, infatti, si insediava a Roma Giovanna Marinelli in qualità di nuova assessora alla cultura. Una nomina politicamente in linea con le mosse del governo centrale, un personaggio che, iniziando a parlare di cultura a Roma, ha immediatamente specificato come questa possa essere salvata soltanto con l’intervento dei privati. Ed eccoli qui i privati santificati dallo sfrenato neoliberismo renziano: sono gli stessi che, mettendo le mani sul Volturno, procedono immediatamente alla distruzione di un’opera d’arte realizzata da due artisti di strada come Sten e Lex, i classici esempi di artisti che “tutto il mondo ci invidia”, senz’altro tra i nomi più importanti della street art internazionale, artefici di lavori in grado di conquistare gli appassionati di tutti i continenti e di trovare spazio persino in importanti ambiti museali (digitare il loro nome su Google per credere).

Ma parlare di queste cose con gli speculatori, ed evidentemente anche con i politici impegnati nella loro copertura, è davvero gettare le parole al vento. Quale ridicolo buzzurro, infatti, trovandosi in possesso di un’opera d’arte bella e importante come il pezzo di Sten e Lex al Volturno avrebbe come prima cosa deciso di distruggerla?

Quale crasso ignorante avrebbe proceduto a cancellare un pezzo dalla simile portata senza minimamente mettersi nell’ottica della sua cautela?

Ai padroni del Volturno, ma anche ai loro referenti politico-polizieschi, verrebbe da chiedere: che cosa altro fate nel chiuso delle vostre case? Mangiate ficcando il grugno in un trogolo? O per pulirvi il culo usate le mani?

Sarà anche il caso di sottolineare che se Sten e Lex avevano lavorato sul portone dell’ex cinema Volturno, all’interno del cinema c’è o c’era una delle più interessanti collezioni di street art capitolina, con opere di Hogre, Diamond, Solo, Borondo, Omino 71 e di tanti altri grandi dell’arte urbana, come il collettivo teatrale artefice di una serrata programmazione aperta a tutta la città (gratuitamente) e lo sportello per il diritto alla casa, trattati alla stregua di carta straccia dal famigerato partito della legalità, un’accolita di soggetti il cui comportamento – l’accanimento contro le opere d’arte e la loro distruzione – denota nei confronti della “cultura” lo stesso interesse che i palazzinari sono soliti accordare alla qualità del cemento utilizzato per le loro grandi opere speculative.

Lo scandalo dello Sten e Lex distrutto, naturalmente, non ha trovato alcuno spazio sui giornali. Ma come potrebbe essere altrimenti?

Sarà appena il caso di ricordare che ancora recentemente una “giornalista” (?!?) de «la Repubblica» ha appellato con il termine di «imbianchino» un artista come Blu nel momento in cui, tanto per restare sul terreno del rapporto tra arte e spazi occupati romani, dopo essersi occupato delle facciate di Acrobax e prima di dedicarsi ai muri di Alexis, realizzava un capolavoro davvero ammirato in tutto il mondo sulle facciate di Porto Fluviale.

La giornalista de «la Repubblica», dopo l’infelicità del suo pezzo, venne pubblicamente sbeffeggiata da chiunque avesse avuto un minimo di interesse per parole come “riqualificazione urbana” o, semplicemente, “arte” e “cultura”. Nel caso del Volturno, dunque, meglio scegliere il silenzio: continuare a dare corpo alla disinformazione e fare finta di nulla finché negli spazi dell’ex cinema possa finalmente concretizzarsi la destinazione pensata dai padroni, vale a dire una patetica sala slot, l’ennesimo tempio delle macchinette mangiasoldi da tirare su nel cuore di Roma.

Le chiacchiere stanno a zero. E anche la neo assessora alla cultura, in vista del tavolo strappato per il 21 luglio dopo un’azione animata dal collettivo teatrale del Volturno e dagli attivisti del diritto all’abitare, dovrà essere chiamata ad esprimersi chiaramente su questo. L’unico modello di evoluzione degli spazi cittadini presente nella testa dei padroni della metropoli è quello di un degrado assistito dalla presenza di sale slot che spuntano come funghi: poli delinquenziali in grado di far convergere in un unico amalgama e di nascondere dietro macchinette mangiasoldi stratificati interessi di tipo mafioso, dallo spaccio di cocaina in grande stile fino allo sfruttamento della prostituzione. E quale luogo migliore del Volturno per realizzare un progetto del genere?

Roma possiede già intere arterie, basti pensare al tratto finale della via Tiburtina, in cui questo modello di (sotto)sviluppo è più che una realtà: è l’imposizione violenta di quel divieto di pensare e agire che i padroni hanno conquistato impedendo ai cittadini di vivere le proprie strade e di imprimere il segno della loro presenza alle vie che abitano, orientandone aspetto e destinazione d’uso. Siamo davvero, e la distruzione dell’arte contenuta dal Volturno lo dimostra, alla nuova preistoria di pasoliniana memoria: un’epoca in cui, nel nome della messa a valore totalitaria di tempi e spazi, qualunque complessità di tipo intellettuale, culturale ed esistenziale viene messa al bando a favore di progetti capaci di rimuovere ogni sorta di rapporto dialettico con l’essere qui e ora come collettività e di consegnare al futuro le facce di una stessa medaglia: le asettiche e scintillanti vie del centro commerciale per le necessità diurne, le strade sordide delle slot machine per gli impulsi notturni; il trionfo del consumo e la polizia ovunque, la cultura e il diritto all’abitare da nessuna parte. Questo è il mondo che vuole essere disegnato addosso a tutte e a tutti. Mentre se non si sarà in grado di opporre un’argine all’esondazione di arroganza padronale che ha appena sommerso il Volturno, il governo dei comitati d’affari attualmente e schifosamente al potere continuerà a ghignare, a distruggere opere d’arte, ad affondare il grugno in città trasformate in mangiatoie e, per pulirsi il culo, ad usare le (nostre) mani.

Come si (ri)diventa fascisti: lo stato di polizia del governo Renzi

Come si (ri)diventa fascisti. Il titolo è impegnativo, quindi ciò che sto per scrivere non sarà esaustivo. Al contrario, si basa su riflessioni precedenti rispetto alla data di oggi e intende andare oltre per indicare una soglia di pericolo – il fascismo, appunto – che al momento appare già varcata.

Torniamo all’oggi dunque, giovedì 22 maggio, e ricordiamoci di questa data. Che cosa è successo?

Il presidente del consiglio Matteo Renzi, a capo di un governo (il terzo di fila) mai votato da nessuno, ha scelto piazza del Popolo per chiudere la campagna elettorale con cui il Partito Democratico ha affrontato le imminenti elezioni europee.

L’appuntamento con il discorso del “capo”, previsto per le ore 19 arriva insieme alla desolazione di una piazza semivuota, animata con molta fatica da zelanti volontari (o dipendenti?) che si affannavano a distribuire ai presenti quante più bandiere del PD possibili.

Il tempo, come è sua natura, passa: i militanti piddini sperano che qualcun altro arrivi, e i loro desideri vengono esauditi soltanto a metà. In piazza, infatti, insieme ai quattro gatti del comizio c’è anche un buon numero di cittadini e cittadine qualunque: studenti, precari, disoccupati, migranti, lavoratori impossibilitati ad arrivare alla fine del mese… una rappresentanza, insomma, di quelle oltre dieci milioni di famiglie italiane costrette a (sopra)vivere al di sotto della soglia di povertà.

Quello che salta agli occhi, appena la piazza viene animata da queste nuove presenze, è la profonda differenza antropologica tra i nuovi arrivati e i militanti del PD. Da una parte, insieme a tutti i colori del mondo, si sprigionano odore di officina, di libri e di cucina, mentre le voci parlano di cantiere e di call center e i vestiti raccontano l’arte di arrangiarsi. Tra i militanti del PD, al contrario, si apprezzano le giacche comprate in centro e le hogan ai piedi, gli afrori di lacca per capelli e i volti distesi di chi non si sta ponendo né il problema del pranzo né quello della cena. Questa spaccatura, ormai definitiva e irreversibile, dei corpi che un tempo non lontanissimo ancora condividevano uno spazio genericamente definito “di sinistra” dovrebbe essere presa in considerazione più attentamente, ma quello che è sicuro è che a piazza del Popolo una simile differenza produceva dissonanze incapaci di passare inosservate. I primi ad accorgersene, gli impiegati della DIGOS, la polizia politica che, per l’occasione, è stata mobilitata in grande stile: le stesse lacche dei militanti piddini sui capelli, le stesse hogan ai piedi.

I poliziotti della politica, mentre Renzi ancora non si affaccia sul palco allestito per l’occasione, sono decine e decine; e gli uomini ai loro ordini, in divisa, con i caschi e i manganelli, molte centinaia. Si coordinano e, incordonati, si gettano addosso a chi è considerato “diverso” e le pelli degli africani e degli indios sono le prime a farne le spese, insieme a quelle di chi ha meno anni sulle spalle, ritenuto, probabilmente, “colpevole” di non indossare le orrende magliette arancioni con cui si pavoneggiavano i Giovani Democratici presenti al comizio.

Così, senza proferire parola, la polizia si scaglia su tutta questa massa di intervenuti, spinta a manganellate fuori dalla piazza, con l’ausilio di schiaffi e pugni di volenterosi militanti del PD, completamente a loro agio in questo ruolo di ausiliari di polizia, né per nulla ostacolati in questo compito da chi la divisa la porta per mestiere: altra circostanza foriera di inquietanti parallelismi con le abitudini delle vecchie squadracce in camicia nera, sempre all’opera sotto l’occhio compiacente delle forze dell’ordine “regolari”.

Attenzione perché stiamo parlando di donne, studenti giovanissimi e signori di mezza età maltrattati e picchiati dalla polizia nel centro di una piazza dove era in programma un comizio, eppure nessun militante PD ha pensato di potersi schierare al fianco del più debole e del perseguitato.

In ogni caso, la prima domanda, di fronte alla polizia che si abbatte su un comizio per aggredire una parte dei presenti, potrebbe o dovrebbe essere spontanea: sulla base di quale legge, regolamento, norma o disposizione si può impedire a dei comuni cittadini di essere nel luogo in cui sono nel momento in cui ci vogliono essere?

Perché forse è anche così che si (ri)diventa fascisti: affrontando le cerimonie ufficiali con una massiccia ondata di fermi preventivi, giustificati da nulla ma eseguiti nel nome del sospetto che alcuni “malintenzionati” possano rovinare con il loro intervento la festa preparata dal capoccia di turno. Senza dubbio durante il fascismo si procedeva anche in questo modo, ma non è il Ventennio l’unica epopea dittatoriale da cui trarre un precedente, anche Mobutu, in Congo, usava comportarsi così: e in Cile? o in Argentina?

La stessa, triste, gravissima cosa.

Di questo, adesso, bisognerebbe parlare. E questo è ciò che sarebbe utile leggere sui giornali: di uno stato europeo, l’Italia, in cui si è consumata a ciel sereno la pratica del fermo preventivo di massa, a totale arbitrio di uno schieramento misto di poliziotti in borghese, poliziotti in divisa e militanti del PD con la lacca sui capelli e le hogan ai piedi.

I numeri raccontano di 50 persone accusate di nulla eppure costrette con le buone, o più spesso con le cattive, a seguire le forze dell’ordine nelle caserme e nelle questure, affrontando uno stillicidio di ore dietro le sbarre, salvo poi essere rilasciati (mentre scrivo non si riesce ancora a capire se tutti) con un foglio che parla di “verbale di accompagnamento in ufficio”, visto che di altro non può proprio parlare.

Ma perché la pratica del fermo preventivo è ancora più grave di quello che sembra?

Perché la pratica del fermo preventivo disegna, con la sua indeterminatezza, un’area grigia di sospensione del diritto: una zona dove non si punisce un reato specifico, ma in cui ad alcuni – poliziotti e militanti del PD oggi – si affida il ruolo di giudicare tra omologati e non omologabili, salvando i primi e arrestando “per sicurezza” i secondi.

Per questo, d’altro canto, sto scrivendo un pezzo intitolato “come si (ri)diventa fascisti”, perché il fermo preventivo non è che l’ennesimo dispositivo con cui si consente l’arbitrio poliziesco su quote di cittadinanza di volta in volta ritenute esterne al campo delle libertà personali. Il fermo preventivo, infatti, giunge al culmine di una lunga stagione che ha introdotto, con i CPT, i CARA e i CIE, la detenzione dei migranti per questioni di natura burocratica (la mancanza di documenti) e non per ragioni di materia penale; proseguendo poi, prendendo come scusa la “sicurezza negli stadi”, con la pratica delle schedature di massa (vedi tessera del tifoso) e l’abominio giuridico di poter essere arrestati “in flagranza di reato” addirittura dopo 48 ore dallo stesso; arrivando con il ministro Alfano – cioè con il governo Renzi – a vietare come se niente fosse ai cortei “violenti” (e chi lo decide?) la possibilità di manifestare; e sommando tutto questo alla grande massa di leggi speciali e di emergenza (la legge Scelba, la legge Reale, eccetera) sempre rimaste attive anche dopo che il periodo emergenziale o presunto tale finiva per essere archiviato nei libri di scuola.

Tra gli appunti dedicati al come si (ri)diventa fascisti, un altro dato va sottolineato in rosso. La principale caratteristica del fascismo, infatti, non era e non è soltanto l’impianto razzista delle sue leggi e il carattere censorio della sua informazione – tutte pratiche tra l’altro perfettamente rintracciabili nell’attuale sistema statale – ma anche, e per certi versi soprattutto, la natura corporativa della sua governance: un’amministrazione che nasconde dietro valori “superiori” – ce lo chiede l’Europa!, urla Renzi, come Mussolini gridava “ce lo chiede la Patria!” – la realtà di un comitato d’affari che agisce con la mediazione-fantoccio di sindacati gialli, cioè senza nessuna mediazione, sul conflitto sociale e sulle rivendicazioni di classe. Fascismo come sistema corporativo, dunque, allo stato delle cose rappresentato in maniera inquietante non soltanto dai regolamenti liberticidi del già menzionato Angelino Alfano; ma con decreti come quello di Maurizio Lupi, il famigerato “piano casa”, che dichiara guerra ai movimenti per il diritto all’abitare imponendo il distacco delle utenze e la revoca delle residenze agli “abusivi” mentre finanzia senza pudore i palazzinari e le banche con meccanismi dipinti come bonus-affitti o sostegno ai mutui; o come quello del ministro del lavoro Poletti, che se nel ruolo di presidente della Lega delle Cooperative promuoveva lo sfruttamento selvaggio della manodopera – in primo luogo i facchini – dell’Emilia Romagna, all’interno di un sistema in cui il “pubblico” diveniva sinonimo di “Partito Democratico” e in cui “Partito Democratico” sinonimo di gestione personalistica degli apparati statali, da ministro istituzionalizza in scioltezza la precarietà, consentendo senza ritegno, grazie al suo “jobs act”, il perpetuarsi di qualunque tipologia contrattuale, purché non garantita.

Le persone fermate in piazza o prima di arrivare in piazza oggi avrebbero portato davanti a Renzi esattamente tutto questo, e posto problemi inerenti un cambio radicale dell’esistente, a partire dall’affermazione di un principio: viene definito “diritto” tutto ciò che non può essere né venduto né comprato, né tantomeno fatto oggetto di speculazione affaristica. La casa, l’istruzione, la salute, il reddito e il lavoro sono diritti che, in questa fase, vengono attaccati da un capitalismo deciso a recuperare l’affanno proprio sulle spalle dei meno garantiti, il contrario dei sostenitori di Renzi ed esattamente uguali a coloro che la polizia dello stesso Renzi ha attaccato, manganellato e recluso a scopo preventivo, anche se le urla contro il governo della fame dell’ex sindaco di Firenze si sono sentite lo stesso.

Le ha sentite persino Roberto Giacchetti, parlamentare piddino e attuale vicepresidente della Camera, che attraverso twitter ha dichiarato: “la DIGOS ha in mano 1 pugnale trovato a terra durante i tafferugli. E non era un giocattolo”.

Ora, persino spulciando tutti i verbali di “accompagnamento in ufficio” che hanno colpito chi intendeva contestare Renzi, la questione del pugnale non compare. Se il parlamentare piddino non mente spudoratamente, tanto per infamare “a buffo” l’opposizione sociale e i movimenti antagonisti, è lecito pensare che la polizia si sia rivolta direttamente a lui, faccia da pretino, camice stirate di fresco e sigaro nelle mani… ma da quando la digos parla di corpi di reato con soggetti diversi da quelli prescritti dalla legge? Cioè con soggetti diversi da un PM o da un Giudice per le indagini preliminari?

Da quando stiamo (ri)diventando fascisti, sicuramente sì.

Libri e motorini: le mani sporche della passione

Se fossi chiamato a disegnare la passione, mi cimenterei nell’impresa tracciando due cerchi con il compasso e, simulata con quella forma l’idea della ruota, andrei avanti abbozzando con una matita nera i pneumatici e i raggi, il telaio e il manubrio, i fari e la sella. Arriverei, in questo modo, a rimirare sulla carta un motorino: magari uno di quelli degli anni Ottanta, esile ma comunque in grado di caricarsi sulla sella due persone grazie alla sua cilindrata, senz’altro portata a settantacinque cc partendo dall’originale taglia cinquanta. Per questo, sempre nel disegno, dedicherei la massima attenzione al cuore di quel mezzo: la marmitta ad espansione. Ovviamente, per farla rendere al massimo, la sceglierei di fattura artigianale e non trascurerei mai, continuando a correre con la matita sul foglio, di sottolineare, nel carburatore, la dimensione maggiorata del getto. Mi affiderei con fiducia a ciò che mi è rimasto negli occhi per recuperare, insieme al ricordo dell’adolescenza, la memoria delle singole parti che compongono l’oggetto. Ma poi, vittima di uno strano scherzo, immaginando di tornare ai tempi della scuola, su quel foglio inizierebbero ad apparire nuove cose insieme al motorino. Lo schema di una gabbia tipografica, per esempio. Un rettangolo di carta senza pedali o manopole o candele ma, al loro posto, le misure precise del taglio, del piede, della cucitura, della mozza e della testa.

Sulle mani, se dovessi pensarle come erano allora, le macchie lasciate dal grasso dopo aver smontato il carter si confonderebbero con quelle più morbide dell’inchiostro. Segnale inequivocabile di appartenenza a un nuovo mondo: dopo quello dei motorini, della messa a punto e della convergenza, quello dei libri e delle riviste, delle redazioni e della programmazione editoriale; lancio dopo lancio, accuratamente pianificata utilizzando le pagine di un’agenda.

Il foglio su cui tutto il gioco della passione e delle sue forme si è depositato, a questo punto, avrebbe bisogno dello stesso colore rosso delle guance di un meccanico in erba di fronte ai primi sguardi delle ragazze per completare la dimensione strettamente sentimentale di un percorso professionale: il percorso che, dai banchi della scuola, conduce direttamente all’industria editoriale. Quali collegamenti ci sono?

Tantissimi. Motorini e libri, prima di tutto, restano formidabili mezzi di comunicazione. E se i primi servivano principalmente ad andare a trovare le ragazze, i secondi risultavano indispensabili quando si trattava di dedicare loro poesie d’amore…

Motorini e libri, ovviamente, sono una metafora. Ma anche un titolo che prima o poi sarebbe giusto dare a qualche corso di editoria. Motorini e libri… magari per sottolineare che anche ai tempi dell’istruzione specialistica e parcellizzata, a fare i libri si impara come si impara ad aggiustare motorini: rubando a il mestiere con gli occhi e continuando sempre e comunque a sporcarsi le mani. Gli ostacoli non mancheranno mai. Ma se ai tempi del liceo non erano forti abbastanza da impedire a un ragazzo di borgata di inforcare il suo sogno a due ruote per spingerlo verso il mare senza casco, senza bollo e senza assicurazione, ma con un passeggero attaccato alle spalle, oggi che, complice la più grave crisi economica dell’ultimo mezzo secolo, gli spazi a disposizione per chi vuole esprimersi e lavorare si sono ridotti al minimo, la regola regina che ogni aspirante autore – e qualunque sognatore – dovrebbe seguire religiosamente è sempre quella dettata anni fa dal grande Bukowski: «Soltanto una cosa può impedire a un uomo di scrivere. Se stesso».

Per il resto, tra libri e motorini le analogie restano profonde. E applicata all’editoria una famosa canzoncina popolare romana – quella che recita «vengo da Primavalle / col vespino rosso bordeaux. / Di prima mi fa una piotta / di seconda non lo so…» – ne verrebbe fuori un discorso molto divertente su una certa attitudine, da parte dei centauri, ad esagerare fino all’inverosimile le prestazioni del loro motorino; e, da parte degli addetti al lavoro editoriale, sulla disinvoltura con cui si snocciolano vendite e tirature o si millantano conoscenze e possibilità promozionali.

In questo parallelismo mancherebbero soltanto le ragazze. Ma in fondo non c’erano neppure al bar tanti anni fa. Mentre il centauro prendeva una birra con gli amici e infilava nella stessa storia le pieghe in quarta sulle curve a gomito e un volto da sogno su cui fantasticare incredibili avventure.

a.cosecheIntroduzione al libro Cose che gli aspiranti scrittori farebbero meglio a non fare ma che invece fanno di Cristiano Armati, Giulio Perrone Editore, 2012

Facchini e libri: scrittori, editori e istinto di classe

Dopo giorni di pioggia e nuvole nere, ma mai nere come le anime dei benpensanti della nostra politica e della connessa loro industria (non solo) editoriale, cercavo giusto un’occasione per cimentarmi con un argomento con cui sarà facile rendersi impopolare.

Questo argomento riguarda i libri, la loro presunta sacralità e quell’aura di “garanti della democrazia e della libertà” da cui vengono artatamente circondati. “I libri,” sostengono facendo la faccia da cerbiatto stuprato orde di cittadini-buonidemocratici-mediamenteacculturati, “non dovrebbero mai essere toccati…”; e, immancabilmente, proseguono il loro noioso discorso ricordando a chiunque metta in discussione questo assunto che erano stati i nazisti a permettersi il più grave dei peccati: bruciare i libri.

Singolari paragoni. Perché in casi come questi chi ha tanto a cuore il destino dei libri, facilmente si dimentica dell’unico destino per il quale valga davvero la pena di lottare: quello degli uomini e delle donne; persone in carne e ossa, non cellulosa sporcata d’inchiostro.

Il nazismo ha fatto naturalmente ben altro rispetto al bruciare i libri. Artefice dell’olocausto – mai abbastanza bestemmiato e combattuto: ma dove sono quelli che gridano al nazi quando il fascismo si manifesta davvero? – il nazismo ha rappresentato la cristallizzazione estrema di precisi interessi capitalistico-padronali, alimentati con la frustrazione nazionalistica e patriottarda e sostenuti attraverso l’individuazione di un nemico ben preciso: la lotta di classe. Soltanto tenendo presente questo passaggio, allora, si può ripetere – e assolutamente condividere – quanto sostenuto dal sansimonista Heinrich Heine, secondo il quale “dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli esseri umani” (Heine, a dire il vero, sosteneva anche che “dovremmo perdonare i nostri nemici, ma non prima che siano impiccati”). Altrimenti la realtà è quella dove – di fatto – gli essere umani vengono bruciati tutti i giorni, in modo metaforico, certo, attraverso la generalizzata privazione dei diritti di ogni tipo a cui stiamo assistendo più o meno inermi, ma comunque nell’acquiescenza generale, capitanata dai tanti pronti a indignarsi per i libri perduti… gli stessi che, quando il 15 febbraio del 2012, con la cancellazione di una moltitudine di testi elettronici e nel nome della “lotta alla pirateria”, si è consumata la distruzione del portale library.nu (solo per fare un esempio:  http://www.webnews.it/2012/02/15/library-nu-cancellati-migliaia-di-e-book-pirata/), “colpevole” di mettere a disposizione gratuitamente milioni di testi in formato elettronico, non hanno sprecato una sola parola, pianto una sola lacrima, animato una singola protesta o, perlomeno, avanzato una sola domanda. Una domanda tipo: si difendono i libri o si difende il capitale?

In questo contesto, naturalmente, la parola “capitale” può essere presa come sinonimo di “potere”. Ma la precisazione serve soltanto a raccontare la storia che i tanti difensori dei libri non hanno mai letto: quella della scrittura e delle prime forme di pubblicazione. Già. Perché quando venne messa a punto la scrittura in quanto tecnica, i suoi primissimi impieghi – e a lungo pressoché gli unici – non riguardarono la stesura di delicate liriche sul male di vivere o di amene prose sulla passione romantica, niente di tutto questo. Con la scrittura, per prima cosa, vennero affrontati i lati di massicci obelischi. Per incidere sulla pietra lunghe liste di nomi di laghi, fiumi, montagne… accompagnati da elenchi altrettanto lunghi di dinastie reali che, quella stessa scrittura e quegli stessi supporti, spacciavano come depositari di un potere millenario, naturalmente voluto da Dio. Da quel momento in poi, il destino della “Scriba” è uno solo: affondare lo stiletto nella gola del potente di turno… o restare un semplice servo di quel potere che ha partorito lui e la sua scrittura. Compito tutt’altro che facile, a cui pure generazioni di scribi infedeli si sono votati subendo in cambio persecuzioni di ogni genere: a cominciare proprio dal rogo dei propri libri.

Per il resto bruciare i libri può essere un atto bellissimo e liberatorio. Penso per esempio alla rivolta del Matese, quando un nugolo di ribelli capitanati dagli anarchici Errico Malatesta e Carlo Caffiero devastò tutti i municipi della zona – le case del potere – producendosi, come primo atto, nel rogo dei libri comunali che si arrogavano la pretesa di certificare lo stato di semi-schiavitù legalizzato a cui i braccianti locali – come milioni di altri lavoratori in tutto il mondo – erano stati condannati. La vera e propria gioia dei lavoratori di fronte a quel rogo affonda le sue radici nella nascita infame della scrittura e dei libri e costituisce l’oggetto di una realtà dimenticata: la diffidenza naturale del proletariato nei confronti dei libri e di chi li scrive è giustificata dal rapporto incestuoso che da sempre unisce i libri al potere e si tramuta spesso in atti dettati da ciò che una volta era detto “istinto di classe”.

Nell’analisi gramsciana l’istinto di classe va temperato alla luce di elementi di “folklore regressivo”… ma ecco che in questi giorni la storica diffidenza provata da ogni lavoratore degno di questo nome nei confronti di chi non svolge compiti manuali, trova nuove ragioni d’essere nelle uscite pubbliche di alcuni importanti (?) esponenti dell’intellettualità italiana a proposito della battaglia di lunga durata che, a Bologna, oppone i lavoratori della logistica alla Granarolo.

Il giallista/scrittore/autoretelevisivo bolognese Carlo Lucarelli, interviene sulla situazione affermando: “Non entro nel merito di una vertenza in corso, e se questa situazione ha generato della rabbia, dico che esiste sicuramente una rabbia sacrosanta e legittima, è quella che grida dei contenuti a cui si deve dare risposte, ma è anche quella che a un certo punto si ferma e si trasforma, diventa un atto politico che si svolge entro i limiti della democrazia ed è costruttivo (…) la rabbia non può legittimare la violenza, altrimenti diventa dannosa, inutile, strumentalizzabile e non fa l’interesse di nessuno, tanto meno dei lavoratori. Il clima è preoccupante, e spero come tanti che tutto possa tornare nei confini della civiltà e del rispetto delle regole”.

Lucarelli, insomma, invoca nientemeno che “i confini della civiltà”: poteva usare tante parole per esprimere la comune veste neo-centrista che ha assunto l’arroganza padronale; ma da buon scrittore ha usato la più giusta: “civiltà”; la stessa civiltà dei libri e della scrittura che torna a servire il potere – oggi il capitale – come ha sempre fatto quando non ha imparato ad alzare la testa dai facchini della Granarolo.

Le dichiarazioni di Lucarelli sono rivoltanti (leggere: http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2014/1-febbraio-2014/facchini-lucarelli-clima-preoccupante-2224008841979.shtml); e per quanto mi riguarda quella pretesa di giudicare ciò che fa parte della civiltà e cosa non ne fa parte resterà indelebile nei riguardi del giudizio che si può dare a un simile intervento (nessun padrone poteva esprimersi meglio di un padrone che fa lo scrittore). Che a dare manforte a Lucarelli via Twitter sia intervenuto un altro scrittore come Sandrone Dazieri non mi stupisce, dopo le dichiarazioni dello stesso a favore della nuova legge elettorale detta “Italicum” in esame al parlamento (http://www.globalproject.info/it/produzioni/chi-se-ne-frega-dei-partitini/16309). Dichiarazioni con cui, elogiando il bipolarismo renziano (quello dove si potrebbe ottenere un governo di larghissimi poteri con una minima percentuale di voti, alla faccia di qualunque formalismo democratico), Dazieri invita i suoi lettori a sostenere il PD: “Facciamo un caso pratico. Prendiamo la Valsusa. Secondo voi che cosa farebbe il partito o la coalizione all’opposizione nel caso di una mobilitazione sociale diffusa  e duratura come la No Tav. Ve lo dico io. Prima delle elezioni offrirebbe uno scambio. Ahh, voto di scambio, urlate ora tutti assieme! Schifezza, orrore. Figliole e figlioli: è sempre un voto di scambio. Si vota per ottenere qualcosa che riteniamo utile, conveniente o giusto. Un governo migliore, le tasse più basse, quel cazzo che volete. L’ideologia ci forma, ci aiuta a scegliere quello che riteniamo utile, conveniente o giusto, e tutti noi, credo, dovremmo interrogarci su qual è il modo migliore per ottenere quelle riteniamo utile, conveniente o giusto. I risultati, quando coinvolgono la vita di milioni di persone, contano”.

Non mi stupisce il sostegno alla prospettiva padronale dato da Dazieri a Lucarelli proprio per quella che è la principale, almeno a mio giudizio, caratteristica della lotta dei facchini della Granarolo. La lotta della Granarolo, infatti, non scaturisce “semplicemente” da una delle tante storie di ordinario e brutale sfruttamento, ma mette a nudo un meccanismo in cui, attraverso il paravento delle cooperative (chiamarle ancora “rosse” è ormai anacronistico come convertire l’euro in lire), lo sfruttamento è legato a doppio filo al potere piddino bolognese: autentico laboratorio neocapitalistico dove si gioca il futuro di repressione e di sfruttamento che di certo non riguarderà soltanto il comparto della logistica, ma assolutamente chiunque… altro che “voto di scambio”!

Questa, infatti, è la situazione che si sta prospettando. Anzi, che si è già concretizzata e di cui è frutto l’esperienza di lotta bolognese. Con la triplice alleanza sindacale che abiura a qualunque forma di conflittualità e si fa scoperchiatamente “concertativa” (un sindacato “giallo”); con la rappresentanza politica completamente slegata dagli elettori, sia attraverso una legge elettorale liberticida, sia attraverso l’asservimento a macrodecisioni economiche prese a livello extraterritoriale, si entra in una nuova epoca coorporativa, cioè in un nuovo stato di tipo fascista.

Ed è esattamente in questo stato che una casa editrice come la Rizzoli, cioè la casa editrice della famiglia-padrona del capitalismo italiano, “compra” una pagina del Corriere della Sera, sempre di proprietà della stessa famiglia capitalistico-rapinatrice, per venire a dire al “popolo” che… i libri non si bruciano (http://www.ilpost.it/2014/02/04/la-pagina-comprata-rizzoli-sul-corriere-i-libri-si-bruciano/).

Il riferimento dovrebbe essere al fuoco di paglia che ha riguardato qualche non immortale opera dello scrittore/giornalista/autoretelevisivo Corrado Augias, responsabile di aver accusato di “fascismo inconsapevole” gli esponenti del M5S (http://www.giornalettismo.com/archives/1335295/corrado-augias-ad-agora-racconta-il-suo-libro-bruciato/): cioè, la Rizzoli avrebbe comprato (si fa per dire, è tutta roba loro) un’intera pagina di un quotidiano a fronte di un post su twitter in cui un militante grillino bruciava alcuni libri dello stesso?

Cioè, la Rizzoli, creatura immonda del turbocapitalismo non si accontenta più di sventolare la bandiera del profitto ma pretende di inalberare quella della libertà – o magari, come la chiamerebbe Lucarelli, quella della “civiltà”?

La stessa proprietà che, a più riprese e attraverso i suoi strumenti di informazione, tanto per fare un esempio, non ha mai avuto remore ad attaccare e a diffamare nei più volgari dei modi qualunque forma di lotta popolare, adesso si permette di utilizzare i libri per darsi una verniciatura quietamente democratica?

Proprio così. Lo fa e miete consensi su questo proprio in virtù di quel legame antichissimo tra scrittura e potere, tra libri e capitalismo che, in tempi di crisi, è tutt’altro che “fascismo inconsapevole”, ma vero e proprio fascismo: propaganda-spazzatura che tenta di sommergere ogni fenomeno autenticamente progressista, come quello di cui i facchini della Granarolo sono protagonisti. D’altronde dov’è che Lucarelli ha rilasciato le sue dichiarazioni: sul “Corriere di Bologna”, dorso locale del “Corriere della Sera” naturalmente…

E francamente non ho bisogno di aspettare né le dichiarazioni di Lucarelli, né tantomeno di dichiarare la mia siderale distanza dell’opzione grillina per dire che francamente per un rogo di pubblicazioni targate “Corriere della Sera”, quindi Agnelli, quindi Fiat… beh, che dire?

Non piangerei certo lacrime amare di cordoglio per la democrazia.

Per fortuna, in ogni caso, Lucarelli, e poi Dazieri, hanno avuto la loro messa in discussione attraverso una lettera aperta firmata da Wu-Ming, Valerio Evangelisti, Alberto Prunetti e Girolamo De Michele. Un’accusa decisa, dove, tra l’altro, si legge: “I quotidiani sembrano voler contrapporre, con una furbesca titolazione, due generi di scrittori: quelli “buoni” e quelli “politicamente scorretti” che legittimerebbero la violenza. Una distinzione inaccettabile. La «violenza»: ma quale violenza? Non c’è stato alcun atto di violenza da parte dei lavoratori in lotta, in massima parte migranti. C’è stato quell’uso della forza che è proprio di ogni sciopero e si esprime nei picchetti, nei blocchi, nell’intenzione di danneggiare gli interessi economici della controparte. Al contrario, la violenza fisica delle manganellate e degli spray urticanti, gli arresti ingiustificati dei delegati sindacali (in violazione delle norme), i licenziamenti, il mancato reintegro dei lavoratori in spregio agli accordi sottoscritti (ed anche, a Milano, il pestaggio in stile mafioso del sindacalista del Si Cobas Fabio Zerbini) sono forme di violenza padronale”.

Personalmente non ho particolari problemi a fare un altro passo, aggiungendo che la “violenza” di cui si sta trattando è: 1) prima di tutto figlia del “potere” di chi può decidere cosa chiamare violento e cosa no (secondo “Il Corriere della Sera”, per esempio, un picchetto è “violenza”, affamare uomini, donne e bambini è “applicare le forme contrattuali stabilite dalla legge”); 2) in secondo luogo è frutto di rapporti di forza: sarà molto difficile, infatti, anche al di là delle proprie volontà e intenzioni, essere “violenti” (malgrado decine di processi affermino poi il contrario) a mani nude contro battaglioni di polizia schierati in assetto antisommossa, ben armati, addestrati e con tanto di copertura aerea e mezzi blindati al seguito…

Questo per dire che se un facchino fosse effettivamente riuscito, non so, a dare uno schiaffo al caporione di turno, non credo proprio starei a gridare allo scandalo.

Lo scandalo lo grido quando non si riesce più a mettere a tavola il pranzo con la cena. Quando non c’è neppure la tavola. Quando un regime neocorporativista (se non si vuole dire “fascista”) avanza inesorabilmente – meglio: violentemente – sopra qualunque voce decisa a reclamare la riconquista dei propri diritti.

Per questo, preso atto delle “scuse” di Lucarelli (pubblicate qui insieme alla lettera aperta di cui sopra: http://www.carmillaonline.com/2014/02/04/lettera-aperta-carlo-lucarelli-sulle-violenze-vere-alla-granarolo/), resta il risentimento e, legittima o meno che possa essere considerata dai padroni di turno, la rabbia per tutto quello che sta succedendo a Bologna come altrove. Una rabbia dolorosa come quella espressa da un bracciante lucano intervistato da Ernesto de Martino e che, vista la data e il luogo dell’intervista (la Basilicata degli anni Cinquanta), poteva benissimo essere mio nonno: “Sono a questo mondo come se non ci stessi”, diceva il bracciante lucano nella sua lingua, “mi hanno messo nel libro degli spersi”.

Era, questo “libro degli spersi”, un altro di quei registri comunali destinato a contenere chi veniva portato via dalla malamorte, quella che rendeva impossibile i rituali di sepoltura e le procedure del cordoglio. Un registro che fissava nero su bianco la destorificazione a cui il potere e il capitale volevano e vogliono condannare le masse: i facchini di Bologna come chiunque altro. Anche me. Che per farla finita con i libri e la loro finta aura di libertà (mai scontata ma tutta da guadagnare), ricordo sempre le parole di Claude Levi Strauss, quando demistificando l’innocenza della scrittura e dei libri ammonì: “Ad ognuno sarà insegnato a leggere affinché nessuno possa dire di non conoscere la legge”.

Prima vivere, poi scrivere. L’insurrezione messicana e il giornalismo rivoluzionario di John Reed

«Sì, il Messico è in preda al caos e alla disgregazione. Ma la responsabilità non è dei peones senza terra; la responsabilità è di coloro che seminano odio e disgregazione inviando armi e denaro, vale a dire delle Compagnie petrolifere americane e inglesi in lotta tra loro».
John Reed

Quando, sul finire del 1913, John Silas “Jack” Reed supera l’esile confine che divide ilMessico dagli Stati Uniti, il paesaggio politico che si staglia di fronte al suo taccuino da cronista è mutevole come i mulinelli di sabbia che il vento sparpaglia nel deserto. È dal 1876, infatti, che la presidenza di Porfirio Díaz provoca in tutto il Paese ondate di furioso malcontento. Ma ciò che era cominciato con tutte le caratteristiche dei classici pronunciamientos – vale a dire lotta maturata in ambienti militari per questioni inerenti la pura e semplice presa del potere – era sfociato in una lotta di lunga durata, capace di raccogliere, oltre all’indignazione dei clubs liberali, genuine energie popolari, e di gettare sul piatto della contesa questioni sociali di fondamentale importanza, a partire dagli eterni e mai risolti problemi della terra e della libertà.

a.emilianozapata
Emiliano Zapata

La storia, in una girandola di omicidi politici e di precipitose fughe all’estero alla ricerca di esili dorati, racconta che alla dittatura di Díaz, dopo la parentesi della presidenza di Francisco Madero, accusato di tradimento dai rivoluzionari per la sua incapacità di varare un programma radicale di ridistribuzione della proprietà fondiaria, sarebbe seguita la tirannia di Victoriano Huerta, destinato alla sconfitta malgrado l’appoggio degli Stati Uniti e degli interessi di una nazione già a quei tempi abituata a considerare l’intero continente americano come una propria pertinenza economica e amministrativa. Sarebbe giunto, quindi, il 1917 di Venustiano Carranza, con la prima costituzione al mondo a riconoscere precisi diritti ai lavoratori, ma anche, nel 1919, con l’omicidio – di cui Carranza fu mandante – del glorioso Emiliano Zapata: colui che pronunciò la memorabile frase «è meglio morire in piedi che vivere in ginocchio»; ispiratore dell’odierno Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (cfr. Alessandro Ammetto, Siamo ancora qui. Storia indigena del Chiapas e dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, Red Star Press, 2014); un leader contadino portatore di un’idea precisa di rivoluzione. La stessa idea che lo spinse a rifiutare la poltrona presidenziale dichiarando «non combatto per questo, combatto per le terre, perché le restituiscano» e, con lo stesso spirito, ad animare quella straordinaria esperienza di democrazia diretta che fu la Comune di Morelos, capace di tradurre il futuro «tutto il potere ai soviet» con l’indigeno «tutto il potere ai pueblos».

La tensione messicana alla giustizia sociale, in realtà, venne puntualmente stemperata nel sangue dei complotti e diluita attraverso riforme come quelle varate nel 1920 da Alvaro Obregón, puntuale artefice dell’omicidio del suo predecessore.

Se dopo l’assassinio dello stesso Obregón, datato 1928, e la salita al potere di Plutarco Elías Calles e del suo Partito rivoluzionario istituzionale, ilMessico avrebbe guadagnato la fisionomia riconoscibile ancora oggi (il Pri governerà il Paese latinoamericano per oltre settant’anni), quella stessa fisionomia avrebbe consentito una relativa tranquillità soltanto a patto di rinunciare a risolvere una volta per tutte le atroci contraddizioni tra capitale e lavoro (tra grandi latifondisti, multinazionali straniere e contadini senza terra) e di giustificare i sacrifici imposti dalla modernizzazione con una gestione a dir poco autoritaria delle problematiche sociali, in genere dipinte come questioni di puro e semplice ordine pubblico.

Francisco "Pancho" Villa
Francisco “Pancho” Villa

Dove non arrivala realtà storica, però, è la leggenda che continua a prendere parola. E questa parola, nel caso del Messico, assume nomi dai contorni mitici e un grande cantore. Nomi come quello di Francisco “Pancho” Villa, tra i principali artefici dell’insurrezione messicana, raccontata come nessun altro da un cronista capace di rivoluzionare il mestiere del giornalista per dare alla cronaca un «vero» spessore letterario: John Reed.

Per le azioni di Francisco “Pancho” Villa, uno dei massimi esponenti dell’arte della guerra partigiana, il soldato del popolo che costrinse gli Stati Uniti a impiegare, oltre a nutrite truppe regolari, dirigibili e aerei da guerra nel vano tentativo di stanarlo, lasciamo che sia il libro di Reed a parlare. L’immagine dell’eroe nazionale e la figura del «bandito sociale», allora, si stempereranno all’avventurosa realtà di un combattente «amico dei peones» per una ragione semplice e fondamentale; addirittura in virtù di ciò che continua a rappresentare uno dei principali agenti di cambiamento mai presi in considerazione dagli storici di ogni tempo e Paese: l’istinto di classe.

A partire da questo punto, però, e al di là della formidabile narrazione contenuta in Messico in fiamme, è la biografia di John Reed a parlare per quello che è stato l’incredibile lavoro – e l’ancor più incredibile vita – di un uomo capace di essere contemporaneamente un grande intellettuale e un militante di rara generosità. Un uomo, come racconta l’amico e collega Albert Khys Williams, che il destino aveva scelto di far nascere il 22 ottobre del 1887 a Portland; vale a dire nella «prima città americana dove gli operai si rifiutarono di caricare munizioni per l’esercito di Kolciàk, durante l’intervento occidentale contro la giovane Unione Sovietica» (A. K. Williams, John Reed in J. Reed, America in fiamme, Editori Riuniti, 1970).

Si trattava,evidentemente, di un segno premonitore rispetto a ciò che sarebbe stata la personalità dello scrittore, fatto sta che, prosegue Williams: «[John Reed] odiava la furbizia e l’ipocrisia. Invece di mettersi dalla parte dei ricchi e dei potenti preferì esserne avversario […]. Fu perseguitato, battuto a morte,cacciato dall’impiego. Ma i suoi nemici non ebbero mai la soddisfazione di vederlo capitolare».

Chi meglio di un«partigiano della parola» (che quando è animata da fame e sete di giustizia accompagna l’azione, non vive al di fuori di questa), insomma, poteva calarsi in una situazione come quella Messicana per restituire ai lettori di allora e di oggi il senso di una guerra di classe che arrivò a sfiorare il milione di morti e che davvero, per utilizzare un’espressione di Fidel Castro (vedi Il libretto rosso di Cuba, Red Star Press, 2013), grazie all’eroismo dei battaglioni di contadini  capitanati da Villa o da Zapata arrivò a dimostrare che «così lottano i popoli quando vogliono conquistare la loro libertà: lanciano pietre contro gli aerei e capovolgono i carri armati»?

Nessuno, in effetti, avrebbe potuto scrivere i libri di John Reed, né ricalcare le sue orme. Come ricorda ancora Williams, Reed fu:

«Un pellegrino delle grandi strade del globo.[…] Come l’uccello della tempesta egli era presente dovunque accadesse qualcosa di importante.
A Patterson, uno sciopero di operai tessili si trasforma in un uragano rivoluzionario: John Reed è nel cuore della tormenta.
Nel Colorado, gli schiavi di Rockefeller escono dalle loro fosse e si rifiutano di farvi ritorno malgrado i manganelli e le mitragliatrici delle guardie armate: John Reed è al fianco dei rivoltosi.
Nel Messico, i peones oppressi levano la bandiera dell’insurrezione e, al comando di Villa, marciano sulla capitale: John Reed, a cavallo, avanza tra le loro file.
[…] Scoppia la guerra imperialista. Dovunque tuona il cannone John Reed accorre: in Francia, in Germania, in Italia, in Turchia, nei Balcani, in Russia».

a.idiecigiorni.1220092Questa succinta lista di luoghi ed avvenimenti significativi si riflette, naturalmente, nella bibliografia dell’autore, dove – senza che questo elenco sia completo – trovano spazio opere come Messico in fiamme, pubblicato per la prima volta sulla rivista «Metropolitan» nel 1914, La guerra nell’Europa Orientale (Pantarei, 1997; ed. or. 1915), i tanti racconti (Avventura e Rivoluzione, Red Star Press, 2014), gli scritti politici (Red America, Nova Delphi, 2012) e quel grande capolavoro che è I dieci giorni che sconvolsero il mondo, una cronaca in presa diretta della rivoluzione sovietica che Lenin in persona, nell’introduzione alla prima edizione americana (1919), raccomandò di leggere «ai lavoratori di tutti i paesi».

In Patria, mentre gli Stati Uniti venivano pervasi da sempre più massicce ondate di nazionalismo fascistoide e anticomunismo, John Reed si ritrovò spesso a pagare la colpa delle proprie idee. D’altro canto lo stesso Communist Labor Party, che Reed aveva contribuito a fondare rompendo con l’ala moderata del Partito socialista, era stato costretto alla clandestinità dalle autorità statunitensi. Le stesse che, processando Reed per I dieci giorni che sconvolsero il mondo, si sentirono rispondere «non desidero altro» alla domanda sulla possibilità di un «accadimento» paragonabile a quello sovietico sul territorio americano.

Il rumore di una simile affermazione suonò come un sasso scagliato nell’oscuro cuore di cristallo dello scintillante american dream. Perché a parlare era il figlio ribelle della buona borghesia americana: un giornalista affermato e ormai noto in tutto il mondo, una firma corteggiata dei giornali più prestigiosi, un autore di successo che, in ogni caso, non aveva nessuna intenzione di essere tranquillizzato dal benessere e di chiudere gli occhi di fronte alla «guerra» (Reed usava proprio questo termine) che il capitale conduceva contro i lavoratori statunitensi e di ogni parte del mondo. Non è dunque un caso se, nel settembre del 1919, John Reed è nuovamente in viaggio. La sua destinazione è l’Unione Sovietica, la patria della Rivoluzione che lui stesso ha contribuito a raccontare ai russi con I dieci giorni che sconvolsero il mondo, ma anche il luogo dove valeva la pena di ritornare con l’idea di scrivere un nuovo libro dedicato a quelli che sarebbero stati i successi del socialismo e, in qualità di membro del comitato esecutivo, per partecipare, a Mosca, ai lavori del secondo congresso dell’Internazionale comunista, e, a Baku, nel Caucaso, al primo congresso dei popoli orientali.

Tra i due appuntamenti c’è un nuovo arresto, dopo i ben venti (!) fermi subiti negli Usa, ora è la polizia finlandese a trattenerlo, mentre gli Stati Uniti, terrorizzati da ciò che Reed avrebbe potuto dire e fare sul suolo patrio, gli negano il visto necessario a rimettere piede… a casa sua!

a.Reed_1913Un paradosso per chi, come John Reed, doveva una parte importante del suo talento letterario proprio alla capacità di essere «a casa sua» ovunque si trovasse. E di essere in grado, ovunque si trovasse, di scoprire e di affratellarsi alle sofferenze dell’umanità ribelle, e di immedesimare se stesso e la sua scrittura alle lotte in corso. Una carica di immenso valore umano, artistico e politico che, il 17ottobre del 1920, sarà costretta a chiudere gli occhi nell’adorata Mosca, dopo aver contratto il tifo nel corso del viaggio a Baku e aver spossato il proprio fisico nel corso dei continui e faticosissimi spostamenti. John Reed aveva appena trentatré anni. E naturalmente non aveva mai dato credito a chi gli consigliava il riposo dopo che, nel 1917, una delicata operazione lo aveva costretto all’asportazione di un rene. Gli Stati Uniti erano appena entrati nel primo conflitto mondiale e John Reed, ancora in ospedale, commentava il suo esonero dal servizio militare dichiarando: «La perdita di un rene può dispensarmi dal servire la guerra tra due popoli. Ma non mi dispensa dal servire la guerra tra le classi».

Per questo sarebbe semplice e oltremodo giusto ricordare John Reed attraverso la sua sepoltura, sulla Piazza Rossa, nelle mura del Cremlino. Dove su un blocco di granito sono state incise le parole «John Reed, delegato alla III Internazionale, 1920». Eppure il senso del modo in cui Reed intese la sua esistenza può essere recuperato proprio tra le pagine di Messico in fiamme. In un passaggio brevissimo dove, dopo essersela vista brutta, John Reed si rende conto di come l’unica scrittura per cui vale la pena di impegnarsi sia quella che implichi un vissuto partecipato e reale. Prima vivere, poi scrivere, dunque. Magari con i fischi delle pallottole ancora nelle orecchie. E un quaderno stropicciato nelle tasche sul quale appuntare: «Bene, questa è certamente una esperienza. Ho qualcosa da raccontare».

a.messicoinfiammePostfazione al volume Messico in fiamme di John Reed, a cura di Cristiano Armati, Red Star Press, 2013

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“Ribellarsi è giusto”. L’orizzonte di Fidel Castro e della Rivoluzione Cubana

Si potrebbe parlare del 10 ottobre del 1868 e sostenere di trovarsi in quel di Yara, la cittadina della provincia di Oriente dalla quale Carlos Manuel de Céspedes y Quesada aveva lanciato il famoso «grido» con cui si invitavano tutti i cubani a imbracciare le armi e a lottare per l’indipendenza. Non fosse stato chiaro in quel momento, ci avrebbe immediatamente pensato Antonio Maceo, il «Titano di bronzo», uno dei comandanti del primo esercito rivoluzionario, a precisare che «la libertà non si mendica, ma si conquista con il filo del machete».

In realtà, quasi un secolo divide il periodo glorioso in cui a Cuba si iniziava a combattere per abolire la schiavitù e per cacciare gli spagnoli rispetto al momento in cui un pugno di giovani male armati, capitanati dall’avvocato Fidel Alejandro Castro Ruz, decide di assaltare la caserma Moncada e la stazione militare di Bayamo con l’intenzione di incitare il popolo e l’esercito alla ribellione, sconfiggere il dittatore Fulgencio Batista, instaurare un governo rivoluzionario e, finalmente, grazie all’adozione di precise misure politiche ed economiche, dare un senso compiuto alla tanto sospirata «indipendenza» e alla così a lungo agognata «libertà».

I giorni di Fidel Castro sono quelli successivi al 26 luglio del 1953 quando, alle 5 e 15 del mattino, era stato lanciato il coraggioso attacco agli obbiettivi militari prescelti e quando, subito uno sfortunato rovescio, il manipolo di ribelli era stato costretto a organizzare una veloce ritirata, braccato dai soldati di Batista, immediatamente pronti a uccidere e a torturare, a sparare colpi a bruciapelo su prigionieri inermi ma anche a cavare occhi e a strappare testicoli per ottenere impossibili confessioni pur di mantenere un regime fondato sul più bieco nepotismo e sulla corruzione dilagante e generalizzata dei pochi approfittatori a cui appartenevano le leve del potere.

Sconfitti, ma come si vedrà niente affatto vinti, i resti della piccola avanguardia castrista – cioè il nocciolo duro del Movimento «26 luglio» – si ritroveranno, rigorosamente isolati, nelle celle di un carcere e quindi, in momenti diversi, alla sbarra degli imputati nel tribunale improvvisato all’interno della Sala delle Infermiere dell’Ospedale «Saturnino Lora» di Santiago di Cuba, il luogo in cui Fidel pronuncerà il discorso divenuto famoso in tutto il mondo con il titolo di La storia mi assolverà.

In realtà, nella Sala delle Infermiere, tutto sembrava sapientemente e violentemente orchestrato dal regime affinché la voce del malcontento popolare raccolta dal Movimento «26 luglio» fosse soffocata nel silenzio insieme alle istanze della parte più progressista della gioventù cubana; quella «Generazione del Centenario» che, a cento anni dalla nascita di José Martí, era pronta a battersi per pretendere le conquiste sociali già annunciate da «L’Apostolo» dell’indipendenza, ma, nei fatti, disattese da governi asserviti al proprio tornaconto personale oltre che al giogo dei nuovi padroni statunitensi e agli interessi dei vari potentati economici e mafiosi, colpevoli di aver trasformato Cuba in un bordello a cielo aperto, sempre pronto a soddisfare i voraci appetiti dei corrotti signori locali e/o dei ricchi turisti e uomini d’affari nordamericani.

Così, mentre le multinazionali della frutta prosperavano sulle spalle dei contadini e le aziende statunitensi del telefono e dell’elettricità pretendevano dalla popolazione cubana tariffe triple rispetto a quelle applicate nella madrepatria, a Cuba una fascia sempre più ampia di sottoproletariato urbano e rurale pativa la fame, sopravvivendo a stento in capanne senza né acqua né luce o in misere baraccopoli mancanti di tutto, preda dell’analfabetismo di massa e della piaga endemica della disoccupazione.

La situazione – gravissima – non poteva certo definirsi «casuale». Al contrario, non era altro che la diretta conseguenza della realtà neocoloniale: un assurdo sistema che rapinava (e continua a rapinare) i paesi come Cuba delle loro materie prime per poi derubarli una seconda volta, rivendendo a prezzi maggiorati il frutto delle lavorazioni industriali eseguite esternamente. In teoria si tratta di un perfetto strumento di sfruttamento e di dominio, nella pratica – come è stato dimostrato – soltanto una feroce «tigre di carta», capace di perpetuarsi a patto di mantenere (a spese dei dominati) un implacabile esercito di dominatori e, a livello ideologico, di spacciare come «giusto», «normale» o «naturale» ciò che, in realtà, è il frutto amaro dello sfruttamento e dell’arbitrio.

a.FIDEL-26-JULIOQuesta è la situazione in cui, dopo settantasei giorni di isolamento, il 16 ottobre del 1953, Fidel Castro prende la parola. Il Pubblico Ministero si è già espresso spendendo appena qualche minuto per chiedere nei confronti del leader del Movimento «26 luglio» ben ventisei anni di carcere. Che una simile pretesa si fondi su un testo di legge contrario alla stessa Costituzione cubana, stravolta dopo il colpo di Stato di Batista del 10 marzo del 1952, non sembra avere nessuna importanza. E che esercitare il proprio diritto alla difesa all’interno di un finto tribunale, circondato da militari armati fino ai denti, sia quanto meno una beffa, non crea alcun problema al regime di Batista, per il quale il processo a Castro e al «26 luglio» è soltanto l’ultimo atto di un copione repressivo già messo in scena con successo. Invece, messo con le spalle al muro, Castro non accetta neppure per un minuto di vestire i panni della vittima predestinata. Al contrario, il futuro Líder Máximo della rivoluzione cubana capovolge i termini della questione e, da accusato, si trasforma in accusatore, ridicolizzando la giurisprudenza di Batista insieme ai suoi strumenti di dominio e alla sua ideologia totalitaria. In questo modo, la liquidazione dell’opposizione diventa l’inizio della fine per la dittatura che regge le sorti dell’Isola: un passaggio che sarebbe un grave errore considerare di semplice natura retorica, venendo a fondarsi, all’interno del discorso di Castro, su una strategia ben precisa, destinata a demolire le armi dell’avversario e, contemporaneamente, a indicare una precisa alternativa politica per la gestione dei destini di Cuba. Rispetto a questo discorso, i punti salienti de La storia mi assolverà, riguardano:

Le forze messe in campo dal nemico

 Non ha nessuna importanza, nota Castro, che il regime di Batista possa contare sulla protezione di un esercito ben armato e ben addestrato, e su un servizio di spionaggio foraggiato con milioni di pesos. La storia (non solo) cubana – insieme all’attualità della protesta sociale in America Latina – insegna che un esercito più numeroso di quello di Batista, cioè l’esercito spagnolo, è già stato sconfitto da cubani disposti a lottare persino a mani nude oltre che a colpi di machete. Perché: «Così lottano i popoli quando vogliono conquistare la loro libertà: lanciano pietre contro gli aerei e capovolgono i carri armati!».

La definizione delle parti in lotta

La visione castrista è quanto mai chiara. Il campo della battaglia è diviso tra due schieramenti. Da una parte l’esigua minoranza degli oppressori e i loro sostenitori, cioè: «Quegli strati agiati e conservatori della nazione sempre pronti a inchinarsi davanti al padrone di turno fino a spaccarsi la fronte per terra»; dall’altra la stragrande maggioranza degli oppressi, vale a dire l’intero «popolo», che si definisce come tale – superando qualunque mistica reazionaria fondata sul «sangue», sulla «lingua» e sul «territorio» – proprio nel momento in cui riconosce se stesso all’interno di una «comunità in lotta».

I limiti della legalità

Il processo al «26 luglio», da un punto di vista strettamente giuridico, è di per sé frutto di un paradosso. Come è possibile infatti che un regime – quello di Batista – apertamente fondato sulla violazione della Costituzione cubana, stravolta dal colpo di Stato del 10 marzo, si possa permettere di giudicare nei termini della legge chi a quella Costituzione si richiama e che quella Costituzione difende? E come possono i rappresentanti di un pugno di sfruttatori ergersi a pontefici della voce della massa di sfruttati; processare cioè quello stesso «popolo» a cui tutti i poteri dovrebbero essere costituzionalmente demandati?

Il diritto alla ribellione

È il passaggio a cui Fidel Castro dedica maggiore energia, evidentemente sulla scia della convinzione che sconfiggere l’ideologia del nemico sia più difficile che avere la meglio su un esercito di uomini armati. Compiendo l’impresa, l’arringa di Castro si trasforma in un saggio di storia del diritto costituzionale che, partendo dagli albori greco-romani, si spinge fino alle dottrine politiche contemporanee. L’analisi di Castro è estremamente interessante perché tutta protesa a cogliere i passaggi che, storicamente, consentono di dare corpo al diritto alla ribellione. Da San Tommaso, che nell’ambito del conflitto tra Chiesa e Impero riconosceva ai sudditi la possibilità di ribellarsi ai tiranni se i loro ordini si fossero posti contro la legge di Dio, fino al Thomas Paine padre dell’indipendenza degli Stati Uniti, che invitava alla ribellione chiunque si trovasse assoggettato a un regime nemico del principio dell’uguaglianza degli uomoni, passando per i riformatori luterani, i monarcomani liberali e gli illuministi. Pensatori estremamente diversi, ma legati a uno stesso filo rosso e a un’identica considerazione. Perché tutti coloro che a vario titolo hanno contribuito a dare corpo al motto «ribellarsi è giusto» – che facessero riferimento a Dio, alla Libertà o all’Umanità – lo hanno fatto concependo le loro dottrine all’interno di un orizzonte più vasto di quello strettamente teoretico e speculativo. Un orizzonte «più vasto» abbracciato anche da Castro che, nel suo discorso, dopo aver ripercorso le principali tappe di quella che è stata la lotta mai conclusa per la liberazione della schiavitù dell’uomo sull’uomo, attraversa i concetti di «Patria» e di «Popolo» – eredità fondamentale delle lotte sociali e anticoloniali sudamericane – per arrivare a indicare l’unica prospettiva rivoluzionaria degna di questo nome: il Socialismo.

*

Nell’Accademia, come nel senso comune, accade spesso di sentire parlare della rivoluzione cubana e della stessa biografia di Fidel Castro alla luce di alcune fasi, contrassegnate da date precise. In modo particolare, il 2 dicembre del 1961, dopo aver sventato alla Baia dei Porci un colpo di Stato organizzato dalla cia (17 aprile 1961) e dopo aver nazionalizzato le raffinerie statunitensi che rifiutavano di raffinare il petrolio importato dall’Unione Sovietica, Castro parla alla Nazione definendo se stesso «marxista-leninista» e dichiarando «comunista» la natura della Rivoluzione.

Questo discorso, in sostanza, rappresenterebbe lo spartiacque tra un Castro animato da una sorta di socialismo utopistico di stampo quasi mazziniano e il Castro comunista contro il quale si scagliano i tanti detrattori reazionari, sempre pronti a gettare fango addosso alla rivoluzione cubana. Sconfessare i miopi demolitori del mito del comunismo tropicale, magari citando gli straordinari progressi cubani in tutti i campi del vivere civile, non è l’obbiettivo di questa introduzione. Più interessante, invece, è rileggere La storia mi assolverà per notare, dalla giusta distanza prospettica, come l’approdo di Cuba al socialismo non derivi in maniera diretta né dalle particolari condizioni geopolitiche degli anni della guerra fredda, né da una successiva elaborazione teorica compiuta dal Líder Máximo. Al contrario, proprio questo è «l’orizzonte» a cui tende il percorso rivoluzionario della Cuba di Castro, con una chiarezza talmente luminosa da rendere La storia mi assolverà un perfetto manuale pratico di avvicinamento al socialismo reale, una vera e propria guida alla realizzazione concreta di quanto pensato da Friedrich Engels in persona che, nel lavoro di preparazione alla redazione de Il Manifesto del Partito comunista, afferma chiaramente:

Prima di tutto la rivoluzione del proletariato introdurrà una costituzione democratica, e con questo strumento favorirà il dominio politico diretto o indiretto della classe operaia. (…) La democrazia sarebbe del tutto inutile per il proletariato se non venisse usata immediatamente come strumento per avanzare ulteriori rivendicazione che intacchino direttamente la proprietà privata e garantiscano l’esistenza al proletariato. Di queste misure, le più importanti, per come già adesso suggerisce la situazione vigente, sono le seguenti: 1. Limitazione della proprietà privata mediante imposte progressive, forti imposte di successione, abolizione della successione per via collaterale (fratelli, figli di fratelli ecc.), prestiti forzosi, eccetera. 2. Espropriazione graduale dei proprietari fondiari, degli industriali, dei proprietari di ferrovie e degli armatori navali, in parte mediante la concorrenza dell’industria nazionalizzata, in parte direttamente, tramite indennizzo in titoli di stato. (…) 7. Aumento delle fabbriche nazionali, delle officine, delle ferrovie e delle navi, dissodamento di tutti i terreni incolti e miglioramento di quelli già dissodati, nella stessa proporzione con la quale aumentano i capitali e gli operai a disposizione della nazione. 8. Educazione di tutti i ragazzi, a cominciare dal momento in cui possono fare a meno delle prime cure materne, in istituti nazionali e a spese della nazione. Educazione e lavoro di fabbrica insieme. 9. Costruzione di grandi palazzi sui terreni nazionali, destinati ad abitazioni collettive per comunità di cittadini impegnati nell’industria o nell’agricoltura, unificando in questo modo i vantaggi sia della vita cittadina che di quella rurale, senza condividere l’unilateralità e gli svantaggi di tutti e due i modi di vivere. 10. Demolizione di tutte le abitazioni e di tutti i quartieri malsani e malcostruiti. (…) Ovviamente tutte queste misure non possono essere attuate in un solo momento. Ma l’adozione di uno qualunque di questi provvedimenti comporterà sempre l’introduzione dell’altro. Una volta compiuto il primo assalto radicale contro la proprietà privata, il proletariato sarà costretto ad andare sempre più avanti, a concentrare sempre più nelle mani dello stato tutto il capitale, tutta l’agricoltura, tutta l’industria, tutti i trasporti, tutti gli scambi (Friedrich Engels, Il libretto rosso dei Comunisti, Red Star Press, 2012).

È Engels che scrive, eppure sembra di sentire Fidel Castro che parla nella Sala delle Infermiere. Nel momento in cui, sviluppando il ragionamento su cui si poggia la difesa per i fatti del 26 luglio, il Líder enuncia il «programma del Moncada», spiegando le celebri «cinque leggi rivoluzionarie» a cui si sarebbe uniformata la nuova politica cubana:

La prima legge rivoluzionaria restituiva al popolo la sovranità e proclamava la Costituzione del 1940 quale vera legge suprema dello Stato. In attesa che il popolo avesse deciso di modificarla e agli effetti della sua entrata in vigore e della condanna esemplare di tutti coloro che l’hanno tradita (…). La seconda legge rivoluzionaria concedeva la proprietà inconfiscabile e inalienabile della terra a tutti i coloni, i subcoloni, i fittavoli, i mezzadri e gli abusivi (…). La terza legge rivoluzionaria accordava agli operai e agli impiegati il diritto di partecipare al trenta per cento degli utili di tutte le grandi imprese industriali, commerciali e minerarie, zuccherifici inclusi (…). La quarta legge rivoluzionaria concedeva a tutti i coloni il diritto di partecipare agli utili della raccolta della canna da zucchero nella misura del cinquantacinque per cento (…). La quinta legge rivoluzionaria ordinava la confisca dei beni dei colpevoli di peculato e dei loro aventi causa o degli eredi relativamente ai beni ottenuti per testamento o ab intestato dalla dubbia fondatezza. (…) Queste leggi sarebbero state proclamate immediatamente e, una volta terminata la lotta e svolto un esame minuzioso del loro contenuto e dei loro effetti, sarebbero seguite un’altra serie di leggi e di norme fondamentali come la riforma agraria, la riforma della scuola e la nazionalizzazione del trust elettrico e del trust telefonico, con la restituzione al popolo delle eccedenze illegali che i monopoli hanno continuato a riscuotere con le loro tariffe e il versamento al fisco di tutte le somme estorte alla finanza pubblica.

Questo è il cuore del discorso di Castro, più che di una difesa, in effetti, si tratta di una rivendicazione per quanto accaduto il 26 luglio e, cosa ancora più importante, è questo il punto che segna la fondamentale differenza qualitativa tra la rivoluzione castrista e i conflitti per l’indipendenza e la libertà combattuti fino a quel momento a Cuba. Perché il Programma del Moncada è la base che consentirà a Castro e ai compagni del Movimento «26 Luglio» di passare dall’ammirevole e coraggioso socialismo di un Martí o di un Chibás ad un’altrettanto coraggiosa, ma concreta, azione rivoluzionaria. Un cambiamento reale che, non a caso, permetterà al «26 Luglio» di guadagnare una volta per tutte la giustizia sociale, inseguita dai cubani dai tempi della lotta per l’abolizione della schiavitù, e l’indipendenza politica, che per molte società sudamericane, schiacciate dall’ombra del gigante statunitense, resta ancora un mito. Allo stesso modo, il Programma del Moncada è l’orizzonte in cui tutto il celebre discorso castrista sulla rivoluzione e sulla libertà acquista senso. Il palco ideale sul quale, oggi come allora, è possibile affermare che «ribellarsi è giusto», sfidando i sempre severi giudici delle lotte sociali con una splendida affermazione: «Condannatemi pure. La storia mi assolverà».

a.379320_331560686949203_853950314_nPostfazione al volume Il libretto rosso di Cuba, a cura di Cristiano Armati

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a.stealth-23ec211d0365be0665abf1354689014dDISPONIBILE ANCHE IN EBOOK

Continuare a disobbedire agli ordini. L’eredità morale degli Arditi del Popolo

a.arditi2Capita, incontrando alcuni libri, di rendersi conto che leggerli (o magari, come in questo caso, scrivere per loro conto un’introduzione) non significa avere a che fare con la carta e l’inchiostro, ma con delle realtà in grado di assumere una consistenza addirittura fisica: presenze che sarebbe più giusto assimilare a dei vecchi amici piuttosto che a delle voci bibliografiche da mettere al sicuro in qualche schedario.

Naturalmente è più facile che una simile identificazioni scatti quando il libro in questione, anziché discendere da un programma accademico, venga direttamente dalla strada, proprio come Dal nulla sorgemmo. La legione romana degli Arditi del Popolo, scritto da Valerio Gentili.

«Venire dalla strada», in questo caso, è un’espressione che non ha nulla di metaforico. E oggi, a oltre tre anni di distanza dalla pubblicazione della prima edizione del volume (2009), posso tranquillamente raccontare che io stesso ebbi modo di conoscere questo testo, prima che attraverso la sua lettura, grazie a una serie di manifesti che a un certo punto – ostentando il simbolo del teschio con il coltello tra i denti in campo nero – invasero diversi quartieri romani, a partire da San Lorenzo.

Incuriosito da sempre da tutto ciò che dicono i muri, risalii al progetto implicito in quell’attacchinaggio – riproporre all’attenzione della sinistra italiana il patrimonio rimosso del combattentismo progressista – e arrivai a conoscere Valerio Gentili: giovane storico «d’area» con il quale, in qualità di editor, iniziai una collaborazione che avrebbe prodotto, oltre a Dal nulla sorgemmo, anche Roma combattente (Castelvecchi, 2010), Bastardi senza storia (Castelvecchi, 2011) e Antifa. Storia contemporanea dell’antifascismo militante europeo (Red Star Press, 2013).

Nulla di strano, dunque, se tornare a scrivere di quello che fu l’esordio letterario di Valerio Gentili possa significare – sovrapponendo parole vecchie e nuove – rievocare quel malcelato senso di appartenenza già provato di fronte alla visione del teschio con il coltello. In modo particolare, la lettura di Dal nulla sorgemmo ha sempre richiamato alla mia memoria un’immagine difficile da mettere a fuoco. Catturato dalla prosa asciutta e dal rigore mostrato dall’autore di questo libro bello e necessario, approfondivo la conoscenza di uomini e simboli dai contorni leggendari ma, seppur rapito dalle tante informazioni inedite contenute nel volume, continuavo a pensare al luogo e al tempo in cui questa immagine, evidentemente ridotta a un ricordo seppellito nell’inconscio, doveva essersi materializzata forte e chiara davanti ai miei occhi.

a.2arditipopolo1Avvincente come un romanzo in cui il lettore capace di rispettare il patto narrativo non può fare a meno di immedesimarsi nelle situazioni descritte dall’autore, Dal nulla sorgemmo, vale a dire la storia delle prime formazioni armate che strenuamente si opposero al fascismo, lega in un discorso coerente l’avventura fiumana di Gabriele D’Annunzio e dei suoi legionari insieme al freddo intenso delle trincee della prima guerra mondiale, il clima di povertà e disperazione precedente il periodo di scioperi e repressione noto come «il biennio rosso» e l’avvento della violenza delle camice nere di Mussolini, finanziate dagli industriali, sottovalutate dai partiti della sinistra istituzionale e appoggiate dal grosso delle forze di polizia. Talmente è vivido il racconto di Valerio Gentili che, tra le pagine del suo libro, sembra di sentire crepitare le mitragliatrici utilizzate dai fascisti per assaltare le case del popolo, le leghe contadine e le sedi dei giornali dissidenti. Un’aggressione brutale e indiscriminata contro ogni luogo o persona decisi a opporsi all’ordine voluto dal Duce che, oggi, sarebbe più facilmente scivolata nel dimenticatoio se, a ostacolarla con più coraggio che mezzi, non ci fosse stata l’abnegazione e spesso il sacrificio estremo di una strana razza di soldati anarchici, repubblicani e comunisti – gli Arditi del Popolo – capaci di non confondere la necessità di obbedire agli ordini propria di qualunque sistema gerarchico con il pericolo di trasformarsi in servi di un potere volgare e assassino: un regime capace, tra le altre cose e al pari del complice nazista, di rinchiudere uomini, donne e bambini in vagoni piombati diretti ai campi di sterminio (ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici… le loro grida continuano a pesare come macigni sulla coscienza di chi ancora oggi si propone come erede di quella stagione sanguinaria) annullando qualunque «garanzia democratica» con la forza e il terrore.

Malgrado il tremendo potenziale offensivo a disposizione, le «forze del male» in camicia nera avrebbero conosciuto una clamorosa sconfitta quando, serrati i ranghi, l’esercito popolare dei Partigiani sarebbe stato in grado di rispondere alla violenza colpo su colpo e persino a sostenere vittoriosamente scontri in campo aperto. Grazie a questo, nella «Repubblica democratica fondata sul lavoro» non ci sarebbe dovuto più essere nessuno spazio né per il fascismo né per i fascisti: relitti sociali con i quali si è troppo a lungo creduto di aver chiuso i conti per sempre.

a.arditiLa realtà, purtroppo, è molto diversa dalla buone intenzioni. E se le affermazioni elettorali dell’estrema destra europea – Francia, Grecia, Inghilterra, Ungheria… – sono sotto gli occhi di tutti, la nuova edizione del libro di Valerio Gentili non si limita a osservare il fenomeno del cosiddetto «neofascismo», ma, scavando tra le pieghe di ciò che accade stabilisce un inquietante parallelismo. Perché se gli Arditi del Popolo, sulla scia del proprio valore morale e militare, non ebbero particolari problemi nel rompere il monopolio fascista della violenza, furono comunque costretti a incassare il disprezzo e la mancata collaborazione di tutti i partiti della sinistra istituzionale che, con la lodevole ma isolata eccezione di Gramsci, contribuì in modo decisivo al tramonto di quell’esperienza. Allo stesso modo, dopo la seconda guerra mondiale e dopo un periodo di relativa tenuta del fronte antifascista, l’opposizione di piazza agli eredi di Mussolini ha conosciuto un progressivo isolamento, fino a diventare appannaggio quasi esclusivo di una nuova generazione di ribelli di strada – i militanti dell’Antifa – armati di passione e coraggio, ma sistematicamente accusati di teppismo, balordaggine e superficialità delle formazioni istituzionali. Anche in Italia, da questo punto di vista, fanno storia i titoli «rissa tra ubriachi» con cui i mezzi di informazione – e i più importanti rappresentanti dell’«arco costituzionale» con loro – si sono affrettati a bollare gli omicidi di antifascisti come Davide Cesare «Dax» (Milano, 16 marzo 2003) o Renato Biagetti (Roma, 27 agosto 2006): volgari testimonianze di come, entrando nel nuovo millennio e affrontando, insieme a una crisi economica epocale anche il ritorno di fiamma delle ideologie più reazionarie, la pratica antifascista si ritrovi a vivere una nuova stagione di isolamento e marginalità, consumata nel nome diell’inesistente pace sociale necessaria a chi si è fatto alfiere dell’imperante ideologia dei «sacrifici».

Contro una simile prospettiva, non resta che tornare ai capitoli finali di Dal nulla sorgemmo. Tra gli stessi passaggi in cui – mentre l’epopea degli Arditi volge al termine e i boia in camicia nera, nelle loro prigioni, innalzano i cavalletti per estorcere con le pinze arroventate e i fili elettrici impossibili confessioni ai loro fieri oppositori – l’immagine a cui affidare il ruolo di introdurre un libro così importante, assume finalmente una consistenza concreta. All’improvviso, infatti, mi sono ricordato di un sentiero arrampicato tra le montagne della provincia di Cuneo: un tratturo ammorbidito dall’erba, come se la Natura stessa volesse ancora aiutare il suo segreto a sfuggire alla vista del passante occasionale o della spia. In questa località, amena soltanto all’apparenza, la consistenza della terra battuta cede d’un tratto il passo alla solidità della pietra viva, infilzando uno scalino dopo l’altro fino alla sommità di un monte. Qui, dove l’aria è rarefatta dall’alta quota e il cielo perennemente terso, la sacralità del luogo è affidata a un circolo di croci di legno, tese sulla serenità della valle sottostante come sentinelle. Si tratta delle tombe di un gruppo di partigiani caduti nel corso della guerra di Resistenza, come direbbe Piero Calamandrei, uomini «che volontari si adunarono per dignità e non per odio. Decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo». Tra di loro, ugualmente segnalato da una croce ma a differenza degli altri privo persino del conforto di un nome, c’è un partigiano ricordato da una targa che si limita a dire «tedesco anonimo»: un soldato dell’esercito del male che, evidentemente, non ebbe paura di gettare alle ortiche la sua uniforme per continuare a combattere dalla parte giusta. La sua lezione, affidata a quel sacrario della provincia di Cuneo, andrebbe trasferita nei tribunali di guerra in cui i tanti aguzzini fascisti e nazisti insistono a scrollare le spalle di fronte alle loro responsabilità, continuando a ripetere di avere solo «obbedito agli ordini»; quasi pretendendo, con simili scuse, non soltanto il perdono, ma anche il riconoscimento di un’inesistente dignità.

A pensarci bene gli Arditi del Popolo di cui parla Valerio Gentili sono simili al soldato tedesco senza nome venuto a morire tra montagne tanto lontane da casa sua: combattenti che ebbero la capacità e la forza di disobbedire agli ordini rifiutandosi di diventare la manodopera del terrore al servizio di forze antipopolari ma che, malgrado tutto, faticarono a trovare posto in quella tradizione di giustizia e libertà a cui dovrebbe continuare a ispirarsi la Repubblica italiana. Le ragioni del sostanziale silenzio su una simile esperienza, mai valorizzata come avrebbe meritato, sono tante. A Valerio Gentili e al suo Dal nulla sorgemmo va il plauso di averle ripercorse insieme alle vite e alle avventure degli eroici protagonisti di quell’esperienza. Una storia da conoscere e da fare propria. Affinché nessuno possa ancora pensare di giustificare l’abominio. E affinché molti possano continuare a disobbedire agli ordini.

a.dalnullaIntroduzione al volume Dal nulla sorgemmo. La Legione Romana degli Arditi del Popolo di Valerio Gentili, Red Star Press

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Chi era Robin Hood? Scene di sesso e di lotta di classe nella foresta di Sherwood

Joseph Walker McSpadden, nel 1904, licenzia il suo Le avventure di Robin Hood con una prefazione in grado di arrivare in pochi passaggi al cuore del problema: «Le canzoni e le leggende su Robin Hood e la sua allegra brigata di fuorilegge hanno affascinato per più di cinquecento anni lettori giovani e non», afferma l’autore, ma Robin Hood: «È esistito davvero?».
In quanto scrittore, McSpadden sa bene che, sul fronte dell’immaginario, la realtà non ha mai avuto bisogno di un certificato di esistenza in vita. E che se c’è un buon motivo per considerare «veri» tutta quella massa di documenti scritti o tramandati oralmente di volta in volta definiti come miti, leggende, favole o racconti popolari (e il discorso vale anche per i romanzi, le canzoni e le poesie), questo motivo ha a che fare con il fatto che i miti, le leggende, le favole e i racconti popolari sono efficaci come poche altre cose nel momento in cui, quella stessa realtà alla quale devono faticare per dimostrare di appartenere, si rivelano perfettamente in grado di influenzarla fortemente e addirittura di plasmarla a loro immagine e somiglianza. Basta questo per spingere McSpadden ad affermare che: «Sarebbe bello se riuscissimo a prescindere dalla realtà storica e a credere agli eroi leggendari col cuore». Come dargli torto? Parlando di Robin Hood, una complessa ragnatela di significati ha incarnato nella figura mitologica del «ladro che ruba ai ricchi per dare ai poveri» i valori della libertà, dell’amicizia, del coraggio e della lealtà: simboli che nessuna rigorosa indagine filologica è in grado di interpretare nel momento in cui, come fa l’Oxford Dictionary of National Biography, si prende la briga di dedicare una sua intera voce a un personaggio – caso unico – soltanto per dimostrare la sua mancata esistenza…
In effetti, dopo gli anni d’oro compresi tra il Quindicesimo e il Diciannovesimo secolo, quando generazioni di studiosi si adoperarono in tutti modi, dando per scontata la veridicità di Robin Hood, a trovare per il «Principe dei ladri» una data di nascita certa e una genealogia inoppugnabile, i ricercatori contemporanei hanno riconsiderato tutto il materiale giunto fino a noi, bollando le conclusioni precedenti come assolutamente inaffidabili, decisamente fantasiose e oltremodo carenti. In una parola: false. Robin Hood, insomma, non è mai esistito. E pazienza se al di là delle ballate che lo vedevano protagonista – un certo Robin, in compagnia di Little John, fa la sua comparsa già nel 1420 nella cronaca in versi della Scozia pubblicata da Andrew de Wyntoun, né, stando agli scienziati della letteratura, si può dar credito allo Scotichronicon di John Fordune e Walter Bower, compilato tra il 1420 e il 1450, o alla History of Greater Britain di John Major (1521), visto che questi scrittori sono convinti di aver avvistato lo stesso Robin Hood rispettivamente: intorno al 1266, tra i sostenitori di Simone V di Montfort detto «il Vecchio», conte di Leicester e animatore di una rivolta contro Enrico III destinata a concludersi con la sua morte; e nel biennio 1193-94, quando Riccardo I d’Inghilterra, «Cuor di leone», si trovava prigioniero in Germania dopo aver combattuto in Terra Santa.
La versione di Major, seppur non suffragata da prove, si alimentò e finì per amalgamarsi con le anonime e più antiche ballate dedicate a Robin Hood, quindi riuscì a imporsi come verità ufficiale sulla vita dell’eroe accanto ai versi composti dal poeta William Langland per il suo Piers Plowman (1377). Per Robin Hood, a questo punto, mancavano ancora una vera data di morte, «trovata» nel 4 dicembre 1198, e un epitaffio da immaginare inciso sulla sua pietra tombale, tradizionalmente «rinvenuta», tra diversi altri luoghi, nella cittadina di Kirklees. Tutti elementi che vengono presentati come fatti certi dal poema The True Tale of Robin Hood, scritto da Martin Parker nel 1632, un periodo in cui la biografia dell’eroe di Sherwood non ha nulla da invidiare, in quanto a ricchezza di informazioni, alle notizie disponibili per i vari protagonisti della storia «reale».
A tutto ciò non resta che aggiungere la complessa genealogia affibbiata a Robin Hood, sulla scia di documenti assolutamente inattendibili, dal membro della Society of Antiquaries William Stukely (1746), secondo cui Robin sarebbe stato un certo Robert Fitzooth, di nobili natali, per capire come mai, da quel momento in poi, dedicarsi alla decostruzione del mito del bandito inglese per sottolineare la sua totale appartenenza al mondo della fantasia sia diventato lo sport preferito dei cultori della storia medioevale britannica in quell’epoca «di scetticismo e incertezza» – la nostra – a cui lo stesso Joseph Walker McSpadden si duole di appartenere.
Una volta fatti i conti con la storia, e accettate con gli opportuni distinguo psico-antropologici le inoppugnabili prove con cui si afferma l’inconsistenza biografica di Robin Hood, non resta che ripartire dal luogo in cui tutto è cominciato: il corpus di scritti dedicati al fuorilegge più celebre di Inghilterra e alla sua «allegra brigata».
Si tratta, nella fattispecie, di una serie di ballate – Robin Hood e il monaco, Robin Hood e il vasaio, La morte di Robin Hood, Robin Hood e Guy di Gisborne… – a cui bisogna aggiungere il frammento di una commedia quattrocentesca e altro materiale incompleto compilato tra la fine del Quindicesimo secolo e la prima metà del Sedicesimo secolo: un periodo in cui l’arte del torchio era sufficientemente sviluppata e le ballate popolari di Robin Hood talmente celebri da spingere gli stampatori a produrre ciò che resta uno dei più grandi bestseller della letteratura medioevale. Da questa base, naturalmente, è partito McSpadden per la sua novellization delle leggende di Robin Hood: un lavoro che consente al lettore di respirare l’originaria atmosfera sassone dove era vissuto un bandito letterario che, fino a oggi, era conosciuto in Italia, oltre che grazie al celebre cartone animato della Disney, sopratutto in virtù del romanzo Robin Hood. Il Proscritto di Alexandre Dumas, pubblicato postumo nel 1873. Questa base, però, disponibile al lettore italiano grazie a Le ballate di Robin Hood curate da Nicoletta Gruppi per Einaudi (1991), è anche la stessa a cui bisogna tornare se, al di là dell’intrattenimento offerto dalla lettura dei testi, si è convinti che la dimensione psico-sociale dell’esistenza umana – luogo in cui Robin è senz’altro radicato – basti da sola a spingere qualunque osservatore interessato ad accostarsi a un fenomeno con la stessa serietà e passione con la quale si è soliti trattare la «realtà».
Se c’è un buon motivo per cui, come ha fatto la Walt Disney, è possibile rappresentare Robin Hood con le fattezze di una volpe, questo motivo risiede nell’atmosfera perennemente scherzosa che domina buona parte dei versi dedicati al bandito di Sherwood. Robin Hood, nelle ballate originali, è una specie di Ulisse: valoroso, senz’altro, ma prima di tutto scaltro, un uomo in grado di risolvere le situazioni più disperate ricorrendo ad ogni genere di astuzie, spesso facendo leva sulle debolezze morali scorte nei suoi interlocutori e dimostrando, in questo modo, di essere abile con l’arco, la spada e il bastone, ma, soprattutto, di essere un fine psicologo.
Spesso, a dire il vero, Robin Hood è anche goffo, sbruffone e avventato. Tutte caratteristiche che consentono ad altri personaggi, a volte più furbi o più forti di lui, di impartirgli sonore sconfitte in combattimenti talmente leali da sfociare, immancabilmente, nell’amicizia tra i due contendenti e la conseguente cooptazione del vincitore di turno nella banda capitanata da Robin. Memorabili, da questo punto di vista, sono gli incontri di Robin Hood con Will Scarlet, Fra’ Tuck, Middle lo stagnino e Arthur-a-Bland il conciatore, tutti in grado di tenere testa e sopravanzare Robin prima di essere arruolati nell’allegra brigata. Qui, potrebbe valere per ogni cultura popolare l’antico detto romanesco secondo il quale le mejo amicizie nascono dalle botte… ma, oltre a notare come, nelle ballate di Robin Hood, la gagliardia (e la goliardia) sia considerata una virtù morale, questo carattere a metà strada tra lo sbruffone e lo scaltro ha spinto molti studiosi di mitologia a interpretare l’arciere più abile d’Inghilterra alla luce della categoria del trickster, un termine inglese traducibile non a caso con la parola “ingannatore”, che, nella fenomenologia delle religioni, indica un attore mitico spesso dipinto come ladro o folle, in grado, con il suo comportamento imprevedibile, di sferrare formidabili scossoni all’ordine costituito e di apportare innovazioni altrimenti impensabili nel vivere comune.
La strada che porta verso una simile interpretazione è lastricata di buone intenzioni. Il ruolo assunto dal ladro in calzamaglia nelle feste precristiane di calendimaggio, prima di tutto. Quando per celebrare l’arrivo della stagione fertile andava in scena una sorta di capodanno carnevalesco in cui un attore travestito da Robin Hood inseguiva il Re del Malgoverno per bruciare poi la sua effige. Una teoria, sostenuta tra gli altri dagli antropologi Margaret Alice Murray e Robert Graves, che trasforma Robin Hood nella versione antropomorfa di una divinità dei boschi. Un’idea suffragata anche dalla poesia di William Shakespeare quando, nel suo Sogno di una notte di mezza estate (1595), Robin Godfellow diventa un’altro dei nomi assunti dal celebre folletto Puck:

Tu, se dalle maniere e dal sembiante io non m’inganno, sei
quel discolaccio, quel folletto bugiardo e malizioso che tutti
chiamano Robin Bravomo. Non sei tu quel bizzoso spiritello
che al villaggio spaventa le ragazze, che fa cagliare il latte
dentro i secchi, che armeggia tra le pale del mulino, e si rende
molesto alle massaie vanificando la loro fatica a sbattere la crema nella zangola?
Ed altre volte a far schiumar la birra,
o a far smarrire il cammino ai viandanti di notte, e ridere
del loro disagio? E t’adoperi, invece, premuroso, ad aiutare
nel loro lavoro, ed a portar fortuna a quelli che ti chiaman
vezzeggiandoti, «mio caro diavoletto» e «dolce Puck»?

Al di là della nobiltà shakespeariana della spiegazione fenomenologico-religiosa dell’origine del mito di Robin Hood, ricondurre il principe dei ladri al folklore celtico può spiegare alcune forme assunte dal suo carattere, ma non soddisfa l’esigenza di specificità che il clamoroso e plurisecolare successo del personaggio reclama.
Da questo punto di vista, allora, potrà essere più utile, ancora restando sui testi che lo descrivono, accostarsi a Robin Hood sottolineando quella che, a ben vedere, è la caratteristica davvero più clamorosa delle popolari ballate a lui dedicate: gli incredibili poteri attribuiti alla capacità di travestimento di Robin Hood e dei suoi uomini. Succede moltissime volte all’interno delle storie di Robin Hood: mascherandosi da mendicante o da macellaio il capo dell’allegra brigata riesce a beffare personaggi come lo sceriffo di Sherwood, che pure conosce davvero bene il suo acerrimo nemico. Come è possibile una cosa del genere?
Che cosa doveva rendere credibili alle orecchie dei primi ascoltatori dei cantastorie di Robin Hood il fatto che un po’ di cenere sul volto o un mantellaccio gettato sulle spalle facesse passare completamente inosservato il loro eroe? Come si spiega il fatto che, trovandoselo di fronte vestito come un elegante paggio, lo stesso Robin Hood non riesca a riconoscere neppure suo cugino Will Gamewell alias Will Scarlet? E come accettare il fatto che, quando è Lady Marian a travestirsi da uomo, nessuno metta in dubbio la sua identità, neppure il suo futuro e devoto marito?
Se ci trovassimo in un corso di scrittura creativa o di improvvisazione teatrale si potrebbe descrivere la tecnica, antica ma efficace, del mettere in scena una serie di personaggi che si comportano senza conoscere tutte le cose che i lettori o il pubblico sanno di loro: uno stratagemma esilarante, tipico, per esempio, del teatro delle marionette. Ma Robin Hood non è soltanto una storia che ha affascinato, nei secoli, oceani di persone. Robin Hood è anche e soprattutto la testimonianza di un mondo in cui i ruoli sociali apparivano come immutabili e in cui i vari status attribuiti alle persone in virtù del proprio sesso e della propria professione erano limitati e, nell’opinione comune, suscettibili di ben poche trasformazioni. È per questa ragione che, al semplice cambiamento di abito, corrisponde una piccola rivoluzione, in grado di togliere a chi osserva qualunque riferimento in merito all’identità del proprio interlocutore.
Perché, nella quasi totalità dei casi, si nasceva e si moriva contadini, macellai, stagnini, cavalieri o monaci, con ben poche possibilità di cambiamento. Inutile specificare che, in una simile situazione, la sola idea di scrollarsi di dosso il ruolo sociale acquisito per nascita appariva, più che utopico, semplicemente pazzesco.
Di più, una simile possibilità, in virtù di un sistema custodito con l’aiuto di un’ideologia che rimandava l’ordine delle cose al volere di Dio, in genere non si dava proprio. Questo almeno fino all’arrivo di Robin Hood. Che non a caso, nelle ballate più antiche, non è né un semplice contadino né un nobile, bensì uno yeomen: particolare categoria di coltivatori liberi dai gravami feudali e/o legati direttamente alla corona da uno specifico incarico e relativo reddito. Furono proprio gli yeomen, detti anche freeholders, ad adottare come arma il long bow: il celebre arco lungo costruito in legno di tasso, pensato per conferire all’arciere grande rapidità di tiro e una gittata che poteva superare i duecento metri. Sarà con quest’arma che le truppe inglesi di Edoardo I, nel 1298, sbaragliarono i temibili shiltrons capitanati dal ribelle scozzese William Wallace: contingenti di uomini armati di picche pesanti che, fino a quel momento, si erano dimostrati un ostacolo insuperabile per la cavalleria. Ma l’arco lungo di Robin Hood, non a caso – come narrato da Walter Scott in Ivanhoe (1860) – diventato presto uno dei simboli dell’orgoglio sassone contro la nobiltà normanna, testimonia anche e sopratutto istanze di cambiamento che il rigido sistema feudale allora in voga tentava in tutti i modi di asfissiare.
Le ballate di Robin Hood stanno alla poesia polare come il ciclo di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda sta all’epica di corte. Non è un caso, infatti, che così come si ricorda e si esalta l’amore romantico, puro e impossibile, tra la bella Ginevra e il prode Lancillotto, Robin Hood non sarebbe Robin Hood senza la presenza della tanto desiderata Lady Marian: eroina della volontà di scegliere l’uomo della propria vita sulla base di un sentimento e senza nessuna implicazione di carattere economico o tradizionale. È possibile cogliere scene di sesso, dunque, nella foresta di Sherwood, ma non solo. Come il cavaliere senza macchia e senza paura esaltato dall’epopea di Camelot era in grado di superare il recinto stereotipato delle vite dei santi in cui l’etica della filosofia scolastica rinchiudeva l’espressione vitale e letteraria, anche il Principe dei ladri riesce a indicare ai suoi pari la possibilità di un riscatto dalla subalternità. È questo, in effetti, il vero motivo per cui Robin Hood diventa un fuorilegge: la sua principale colpa, infatti, è quella di aver reagito all’ingiustizia, pagando con la messa al bando l’incapacità di «restarsene al suo posto» insita nel suo particolare senso dell’onore. Quella di Robin Hood, come ha mostrato il grande storico Eric J. Hobsbawm, non è nient’altro che una «forma primitiva di rivolta sociale». E Robin, alla luce di questa considerazione, è il prototipo di una categoria rintracciabile in epoche storiche diverse alle latitudini più disparate: la categoria del «bandito sociale».
Come argomenta Hobsbawm nel suo I banditi (Einaudi, 1969), i banditi sociali sono:

Fuorilegge rurali, ritenuti criminali dal signore e dall’autorità statale, ma che pure restano all’interno della società contadina e sono considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio. […] Il fenomeno […] si verifica, a quanto pare, in tutti i tipi di società umane che si trovano tra la fase evolutiva dell’organizzazione tribale e familiare e la società moderna, capitalista e industriale, comprendendo però le fasi di disgregazione della società a base familiare e quella di transizione al capitalismo.

E il ragionamento dello storico inglese è talmente calzante che, leggendo Le avventure di Robin Hood, non si potrà certo dimenticare come, quando l’eroe si precipita a Nottingham per salvare Little John dall’impiccagione, ingaggia con gli uomini dello Sceriffo una battaglia che, complice il supporto di gran parte della popolazione, sfocia in una vera e propria prova generale di rivoluzione.
Si potrebbe dire, parafrasando Mao Tse-Tung, che come il rivoluzionario, anche il bandito sociale «deve stare sommerso nel popolo come il pesce nell’acqua».
A differenza del rivoluzionario, però, il bandito sociale raramente si uniforma a una teoria in grado di dare un senso politicamente coerente alla sua azione. In primo luogo perché il suo scopo non è quello di abbattere il sistema di potere vigente, ma ricondurre tale sistema a rispettare diritti e prerogative misconosciuti o calpestati. Questo è vero, per Robin Hood, soprattutto in rapporto al comportamento narrativo di Riccardo Cuor di Leone: per gran parte del libro autentico «convitato di pietra», ma, improvvisamente, epifania risolutrice, portatore di una verità e di una giustizia che soltanto la temporanea affermazione di personaggi indegni aveva messo in discussione. Leggendo tra le righe di questa storia, soltanto apparentemente semplice, si possono ascoltare gli echi dei Re taumaturghi mirabilmente spiegati da Marc Bloch (I Re taumaturghi, Einaudi, 1991): gli unti dal Signore che, tra Francia e Inghilterra, in un periodo compreso tra il Decimo e il Diciottesimo secolo, esercitavano le prerogative reali dando prova di miracolosi poteri di guarigione, doti che attraevano alle loro corti folle di malati postulanti. Sottotraccia, scorreva una convinzione blasfema, ma di grande impatto popolare: gli uomini che sedevano sul trono, in un’epoca in cui i sovrani inglesi e francesi si contestavano a vicenda la legittimità dei reciproci possedimenti, avrebbero ereditato le virtù taumaturgiche dalla più scandalosa e santa delle parentele, quella che sarebbe discesa loro addirittura da Cristo attraverso Maria Maddalena, esule in Provenza dopo la crocifissione del Nazzareno.
Il recupero di questa ipotesi, antichissima, ma solo di recente divenuta popolare grazie al successo galattico de Il Codice Da Vinci di Dan Brown (2003), ci rende ancora più facile apprezzare il valore di Robin Hood nel momento in cui, mostrandosi un degno di un discendente di Maria, associa l’intero popolo che ha inventato le sue ballate all’impresa di migliorare le proprie condizioni grazie alla restaurazione di un ordine giusto. Quando Robin Hood «ruba ai ricchi per dare ai poveri», dunque, è proprio questo quello che fa. Non si limita, come sosterrebbero le spiegazioni meccanicistiche, a irrorare di ricchezze acquisite all’esterno le economie stagnanti a cui erano costrette le popolazioni di Nottingham e dintorni, ma introduce un’idea dall’enorme potenziale sovversivo: «ribellarsi è giusto», sembra dire l’eroe con il suo esempio, quando è la stessa giustizia divina ad essere messa in discussione. Tanto è importante questo grido, che gli anonimi cantastorie in grado di dare vita a Robin Hood scelsero di farlo sentire ancora più forte conferendogli una compagna eccezionale: Lady Marian, appunto; un formidabile sincretismo – data la facilità con la quale si può sovrapporre la figura di Lady Marian con quella della Madonna – grazie al quale il popolo si appropria di un diritto inalienabile e sempre foriero di nuove rivendicazioni: il diritto di essere considerati figli di Dio.
Arrivati a questo punto non ci si potrà stupire se, insieme alla diffusione delle ballate di Robin Hood, nell’antica Inghilterra si diffuse anche un modello comportamentale interpretato di volta in volta da tutti coloro che si ritrovarono nella condizione di «banditi sociali». Un processo di mimesi che spiega come mai, nel tempo, si siano sprecate le segnalazioni di Robin Hood in tutta l’Inghilterra, e che dimostra una volta di più come, se non si può parlare di «un» Robin Hood, parlare di tanti Robin Hood consente di avvicinarci alla realtà di un mito potente come poche altre invenzioni umane. Sembrerebbe quasi che la leggenda di Robin Hood contenga in se stessa gli anticorpi necessari alla sua sopravvivenza. E che, addirittura, questa strana forma di non-esistenza di cui gode il Pricipe dei ladri sia fondamentalmente necessaria. Perché soltanto in mancanza di un unico Robin Hood, chiunque può impugnare l’arco lungo e, armandosi di furbizia e coraggio, calzare i panni del bandito in calzamaglia, già salutato da Karl Marx come«il nostro buon amico Robin Hood, la vecchia talpa che sa lavorare così veloce sottoterra, la rivoluzione».

a.robin_castelvecchiPostfazione al volume Le avventure di Robin Hood di J. Walker McSpadden, a cura di Cristiano Armati, Castelvecchi, 2010.