Brescia, 28 maggio 1974. La strage di piazza della Loggia

Cresciuto nell’ambiente dell’estrema destra bresciana, Silvio Ferrari, ventuno anni appena, ha un piede nella redazione del periodico «Anno Zero» e l’altro dentro “La Fenice” di Giancarlo Rognoni. Tra le sue frequentazioni spiccano quelle con i sanbabilini milanesi: la manovalanza di un disegno in cui, attentato dopo attentato, fioriscono sigle come quella del Movimento d’Azione Rivoluzionaria (Mar) di Carlo Fumagalli e delle Squadre d’Azione Mussolini (Sam) di Giancarlo Esposti, organizzazioni eversive impegnate a seguire la scia dell’appena disciolto Ordine Nuovo (e del suo erede “Ordine nero”) e di Avanguardia Nazionale, ognuna con i suoi interlocutori (e i suoi finanziamenti) all’interno dei servizi segreti, ognuna costretta a guadagnare la propria sopravvivenza lottando contemporaneamente su due fronti: 1) in mezzo alla gente, con lo scopo di seminare indiscriminatamente morte e distruzione per favorire un intervento militare che favorisse l’avvento di un colpo di Stato; 2) all’interno del sistema, per spingere nella direzione di una soluzione “dura”, prevedendo l’instaurazione di un regime dittatoriale simile a quello installatosi nella Grecia dei Colonnelli e destinato a imporsi anche nel Cile di Pinochet; o, viceversa, per favorire un approccio “morbido” alla gestione politica italiana: un Paese nel quale i fermenti sociali si sarebbero potuti tenere sotto controllo anche acquisendo il controllo dei mezzi di informazione, limitando le garanzie sancite dalla Costituzione e invocando la necessità di riforme in grado di scambiare una democrazia di tipo parlamentare con un repubblica presidenziale.

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aa.Silvio-Ferrari-1Esiste una fotografia che mostra il corpo di Silvio Ferrari orrendamente dilaniato. Uno scempio provocato da mezzo chilo di polvere da mina mescolato a mezzo chilo di tritolo. Sigillata all’interno di un pacco, la bomba, prima di esplodere, si trovava tra le gambe di Ferrari, evidentemente incaricato di trasportare l’ordigno per conto di qualcuno o di andare a piazzarlo chissà dove. Non si conoscono le intenzioni del giovane fascista né, tanto meno, è nota l’identità del mandante ma, alle tre di notte del 18 maggio 1974, il vespino di Ferrari è fermo a Brescia, in piazza del Mercato, quando salta in aria insieme al suo conduttore. La deflagrazione ha una forza in grado di rompere i vetri ai palazzi del quartiere, eppure l’iniziale ipotesi di uno scoppio accidentale durante il trasporto viene smentita dalla perizia disposta sull’esplosivo e sui resti del ragazzo:

È parere concorde dei periti che l’esplosivo fosse innescato con detonatore elettrico e l’accensione organizzata a tempo prestabilito mediante congegno a orologeria ottenuto con una sveglia di marca “Europa”. Sulle cause dello scoppio, la posizione di Silvio Ferrari e della motoretta, i periti ritengono che la Vespa non fosse in movimento. Il Ferrari era seduto sulla Vespa con il busto reclinato in avanti, le braccia appoggiate al manubrio e i piedi a terra. La perizia esclude che l’esplosione sia dovuta a un fatto accidentale. L’ordigno sarebbe invece esploso al momento prestabilito.

Detto in altri termini: Silvio Ferrari non è vittima di un “incidente” ma sarebbe stato assassinato.

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La notizia dell’esplosione avvenuta la notte del 18 maggio in piazza del Mercato è come una frustata su nervi già estremamente scossi. È dal 29 gennaio, quando tre ordigni innescati dalle Sam saltano contemporaneamente a Milano, che in Lombardia esplodono le bombe e si spara per le strade: numerosi militanti di sinistra sono feriti con le spranghe e i colpi di pistola nel corso di raid organizzati dagli ultras di estrema destra mentre le sedi delle loro organizzazioni vengono devastate. Gli attentati di marca neofascista provocano anche un morto a Varese, il 28 marzo, quando, in piazza Maspero, un fioraio perde la vita per la deflagrazione di una carica di esplosivo occultata tra i banchi del mercato.

La morte di Silvio Ferrari segna una misura già colma. Eppure, dopo la notte del 18 maggio, il tempo della paura non si limita a sfogare le sue ansie in piazza del Mercato ma, dichiarando guerra a tutta la società civile, continua a proferire minacce come quelle contenute in un volantino recapitato al «Giornale di Brescia» (ma, d’accordo con la Questura, mai pubblicato) e riferite a un sedicente “Partito Nazionale Fascista – sezione Silvio Ferrari”.

Brescia non ha altra scelta: la città insorge contro il terrore nero e il Comitato antifascista si mobilita. Al termine di una riunione a cui, con l’esclusione del Movimento sociale, partecipano tutte le forze dell’arco costituzionale e i sindacati, per la giornata di martedì 28 maggio viene indetto un sciopero e annunciata una manifestazione. L’occasione è talmente grave e importante da auspicare la più grande partecipazione popolare e questo è quello che chiedono a Brescia i rappresentanti del Comitato all’indomani dell’orrenda morte di Ferrari:

Cittadini bresciani,

ancora una volta il fascismo si manifesta nella nostra città e nella nostra provincia con i caratteri ripugnanti del terrorismo omicida, della provocazione e della violenza. Per richiamare i democratici all’unità e alla vigilanza antifascista, perché sia con fermezza colpita ogni trama fascista, perché oltre agli esecutori materiali della violenza siano assegnati alla giustizia i mandanti ed i finanziatori, il Comitato permanente antifascista indice per martedì 28 maggio ore 10 in piazza Loggia una manifestazione antifascista in concomitanza con lo sciopero generale proclamato dai sindacati. Partecipano Franco Castrezzati, a nome delle organizzazioni sindacali e l’on. Adelio Terraroli, a nome delle forze politiche.

Ore 9: concentramento a piazza Garibaldi – Porta Trento – piazza Repubblica. Ore 9 e 30: partenza cortei per piazza Loggia. Ore 10: comizio pubblico

(Testo del manifesto redatto dal Comitato unitario permanente antifascista di Brescia e sottoscritto da Dc – Pci – Psi – Pri – Cgil-Cisl-Uil – Anpi – Ffvv – Aned – Anppia – Acli – Cogidas).

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L’antifascismo chiama e Brescia risponde. Il 28 maggio nella “Leonessa d’Italia” scendono in piazza migliaia di persone: lavoratori, militanti di sinistra, ex partigiani e cattolici del dissenso decisi a far sentire la propria voce. Al contrario di quanto accade nel corso degli scioperi “normali”, questa volta non si incrociano le braccia per sostenere una rivendicazione di tipo salariale ma per protestare contro il rigurgito di violenza che sta tormentando la regione e per sostenere i valori della democrazia. Alle 10 il luogo in cui si deve tenere il comizio è già pieno da un pezzo ma, dalle vie adiacenti, i cortei partiti da piazza Garibaldi, Porta Trento e piazzale della Repubblica continuano ad alimentare la folla. Per l’occasione, in piazza della Loggia è stato allestito un grande palco ornato con il panno rosso e sormontato dalle bandiere tricolore, e, all’ora convenuta, gli altoparlanti cominciano a diffondere le parole di Franco Castrezzati della Cisl, deciso a tenere un discorso in cui l’episodio che ha visto protagonista il giovane Ferrari viene inquadrato all’interno di un più ampio e inquietante scenario nazionale:

Amici e compagni, lavoratori, studenti, siamo in piazza perché in questi ultimi tempi una serie di attentati di chiara marca fascista ha posto la nostra città all’attenzione preoccupata di tutte le forze antifasciste. Sono così venuti alla luce uomini di primo piano che hanno rapporti con gli attentatori di piazza Fontana e del direttissimo Torino-Roma, vengono pure alla luce bombe, armi, tritolo, esplosivi di ogni genere. Ci troviamo di fronte a trame intessute segretamente da chi ha mezzi e obbiettivi precisi. […] Si attenta alla vita umana che è un diritto naturale. Si innescano ordigni esplosivi contro sedi di partito, sindacati, cooperative, col proposto di intimidire. Il propellente à ancora una volta l’ideologia fascista. […] La nostra costituzione, voi lo sapete, vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto Partito fascista. Eppure il Moviemento sociale italiano vive e vegeta. Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della Repubblica Sociale Italiana, ordinava fucilazioni e ordinava spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e istituzionale.

A Milano…

«A Milano – avrebbe potuto continuare Castrezzati, riferendosi magari alle bombe del 1969 e alla strage di piazza Fontana – l’Italia è stata spinta sul baratro di una guerra civile da una carneficina senza precedenti che, accanto all’impiego di manovalanza fascista, lascia intravedere anche pesanti responsabilità da parte di importanti autorità dello Stato…».

Il sindacalista bresciano, però, non avrebbe mai avuto modo di completare il suo ragionamento. Sta parlando da pochissimi minuti quando, alle 10 e 12, l’aria viene raggelata da un rumore secco e assordante, simile a una fucilata. Istantaneamente, la piazza piomba in qualche secondo di silenzio irreale. Come se stesse trattenendo il fiato per prepararsi a un urlo spaventoso, la folla ammutolisce prima di sprofondare nel panico totale. C’è chi scappa, chi si dispera, chi, allucinato, resta immobile, con lo sguardo sbarrato:

Piazza della Loggia sembra una nave in tempesta, con la folla che ondeggia, prende a sussultare e poi a sbandare mentre bandiere e striscioni cadono a terra, la gente urla e molti fuggono. Sulla piazza, lungo i portici e davanti al cestino della morte è l’inferno: pezzi di gambe e di braccia, resti umani, feriti lievi e feriti gravi, persone agonizzanti, morti. C’è chi urla e chi si lamenta, i mariti cercano le mogli e le mogli i mariti, altri invocano il nome di un parente, altri ancora si aggirano come fantasmi con brandelli di vestiti tra le mani mentre qualcuno, muto, senza lacrime e senza espressione, fissa il vuoto (Giancarlo Feliziani, Lo Schiocco, Limina, Arezzo 2006).

Nel marasma generale, dalla voce aggrappata al microfono, sul palco degli oratori, vengono fuori frase intrise di fumo, avvertimenti acri come l’odore della paura e della polvere da sparo:

Aiuto… state fermi.

Compagni e amici, state fermi, calma. State calmi, state calmi, state all’interno della piazza, il servizio d’ordine all’interno della piazza, il servizio d’ordine faccia cordone all’interno della piazza. State all’interno della piazza. Lavoratori, all’interno della piazza. Il servizio d’ordine… state calmi, tutti sotto il palco, lasciate il passo alla Croce Bianca… sotto il palco, portatevi alla sinistra della piazza, alla sinistra della piazza, alla sinistra della piazza verso il palco, lavoratori… lascia… lasciate il passo, lavoratori… rechiamoci tutti in piazza della Vittoria, lasciate il passo alle macchine per il soccorso, tutti in piazza della Vittoria. Compagni, il senso di responsabilità in questo momento… andiamo in piazza della Vittoria, lasciate il passaggio alle macchine, lasciate il passaggio alle macchine…

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Sette etti di esplosivo nascosti in un cestino di rifiuti proprio sotto il porticato: questa è stata l’arma usata dei terroristi per provocare quello scempio di arti strappati dai corpi e sangue che devasta piazza della Loggia dopo l’attentato. Un’intenzione criminale favorita dall’inclemenza del tempo e dalla pioggia battente che, la mattina del 28 maggio, ha spinto i manifestanti ad accalcarsi dove era possibile trovare un riparo.

Per otto di loro, quell’intenso attimo di luce che precede l’urto di un’esplosione, è il confine che separa la vita dalla morte. La vita, nella fattispecie, è quella densa di impegni vissuta da Livia Bottardi, trentadue anni, professoressa attiva nella cgil Scuola. Livia, la mattina del 28, va in piazza anticipando di poco Manlio Milani, suo marito, un operaio. I due, da una parte all’altra dei portici, fanno in tempo a vedersi, a sorridersi, a farsi un cenno con la mano… ma dopo l’esplosione Manlio resta solo e gettarsi a capofitto nella folla che scappa via terrorizzata per trovarsi a stringere il corpo di Livia non serve a nulla. Manlio spera fino all’ultimo, continua ad abbracciare Livia anche sull’ambulanza ma… «Ormai è morta», sono le parole che non avrebbe mai voluto ascoltare, pronunciate da un’infermiera a testa bassa, nell’androne dell’ospedale.

Insieme a Livia, a Brescia cadono altri quattro insegnanti, tutti attivi all’interno del sindacato e amici tra di loro. Soltanto la sera prima della Strage, a cena con Livia e Manlio c’erano anche Clementina “Clem” Calzari e Alberto Trebeschi. Lei, trentuno anni, ragazza molto bella, non aveva avuto paura di affrontare i pregiudizi quando si era trattato di opporsi alla volontà del padre, convinto che per una ragazza non stesse bene proseguire gli studi, ed era diventata professoressa di latino. Lui, trentasette anni, laureato in fisica ed esperto di filosofia della scienza, è l’autore di un’importante ricerca intitolata Fisica e filosofia, redatta con la collaborazione della stessa Clementina. Tra le pagine del suo diario c’è una frase che resta a rappresentarlo meglio di un autoritratto: «Se mi andasse si perdere il sapore del travaglio intellettuale, in me rimarrebbe esclusivamente l’animale e questo rappresenterebbe il primo passo verso la morte, la vera morte che è quella dello spirito».

Coppia felice e innamorata, Clementina ed Alberto non avevano rinunciato alle proprie idee nemmeno quando si era trattato di sposarsi: erano disposti ad andare incontro alla madre di Clementina che non accettava l’idea di una convivenza ma la cerimonia che li avrebbe dichiarati marito e moglie non si sarebbe tenuta in chiesa bensì in municipio. Poi ci avrebbe pensato Giorgio a cementare la loro unione: un ragazzino che, a nemmeno due anni, è costretto a vedere i nomi di entrambi i genitori tra quelli delle vittime della Strage.

In questo macabro elenco c’è anche Luigi Pinto, venticinque anni, sposato con Ada, nato Foggia e arrivato a Brescia dopo aver lavorato in uno zuccherificio in Puglia e alla Sir di Porto Torres, in Sardegna. L’incarico di insegnante di Educazione tecnica, per lui, è un punto d’arrivo importante visto che il contatto con i giovani – insieme alla politica – è la cosa che lo appassiona di più. Quando arriva in ospedale, insieme a più di cento feriti, Luigi respira ancora: la sua tempra è forte e, a tratti, sembra che ce la possa ancora fare… invece morirà il primo di giugno, dopo tre giorni di coma.

Oltre a lavorare per la Cgil Scuola, Luigi frequentava il circolo di Avanguardia operaia, lo stesso in cui è di casa un’altra compagna del sindacato: Giulietta Banzi in Bazoli, trentaquattro anni, detta anche “Giulietta la rossa”, come la bandiera che adornerà la sua bara il giorno dei funerali. Sposata a un assessore della Democrazia cristiana anche se convinta sostenitrice del marxismo-leninismo, Giulietta, madre di due figli, insegna francese senza avere nessuna necessità di ricorrere ai formalismi autoritari che, troppo spesso, separano il professore dai suoi allievi. Allievi che, riuniti in assemblea subito dopo la notizia della carneficina, si dimostreranno perfettamente in grado di mettere in pratica il sapere appreso insieme alla loro insegnante inquadrando con lucida precisione i meccanismi nascosti dietro la bomba di piazza della Loggia: «Di fronte al tentativo di mistificare i connotati politici di questi caduti – sostengono gli studenti della Banzi – facendoli passare per individui casualmente coinvolti nella Strage, è necessario testimoniare l’impegno politico che li ha portati al sacrificio».

Gli studenti della Banzi hanno ragione. Perché l’impegno politico è esattamente ciò che tiene insieme non soltanto il gruppo degli insegnanti – tra l’altro spesso richiamati dalla stessa direzione della cgil in quanto accusati di “sorpassare a sinistra” le linee-guida del sindacato – ma anche gli altri caduti di piazza della Loggia.

Tra gli iscritti al sindacato, per esempio, c’è l’artigiano Bartolomeo Talenti detto Bartolo, cinquantasei anni: una mago nella manutenzione e nella riparazione delle armi, mestiere che aveva appreso direttamente dal padre; ma anche un militante talmente esperto da guadagnarsi tra i più giovani il soprannome di “papà”.

Ancora dalle fila del Partito comunista, con un passato nei Gruppi di azione partigiana, viene Euplo Natali: sessantanove anni e, alle spalle, un licenziamento provocato dal suo acceso antifascismo ma anche, dopo la Liberazione, l’orgoglio di avere rappresentato il Cln nella provincia di Brescia.

Anche l’operaio Vittorio Zambarda è iscritto al Pci praticamente da sempre: dopo una vita di lavoro durissimo, avrebbe dovuto iniziare a riscuotere la pensione. L’esplosione della bomba, però, non gli consentirà mai di andarsi a mettere in fila all’ufficio postale ma lo tormenterà con una lunga agonia, chiusa dal sopraggiungere della morte soltanto il 15 giugno, diciotto giorni dopo l’attentato.

Sono questi i morti provocati dalla bomba fascista di piazza della Loggia: «Non si chiamino vittime ma caduti consapevoli», si dirà di loro, per sottolineare come, a differenza delle altre stragi compiute dall’eversione nera in Italia, quella di piazza della Loggia non è stata pensata per colpire nel mucchio ma per abbattersi sui settori più progressisti dell’opinione pubblica. Come preciserà nel 1993 nella sua sentenza-ordinanza il giudice istruttore Giampaolo Zorzi, la strage di Brescia è quella «a più alto tasso di politicità nel novero delle stragi che hanno scandito la storia d’Italia dal 1969».

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Cosa c’è di peggiore della morte?

Non c’è niente di peggiore della morte. A parte il comportamento – a metà strada tra l’incompetente e il complice – di chi esisterebbe (polizia e magistratura inquirente) proprio per impedire che un fatto come quello di Brescia possa accadere o, al limite, per portare un contributo di verità alle ragioni più profonde di un simile lutto. Il comportamento a metà strada tra l’incompetente e il complice, passando in rassegna la gestione investigativa e giudiziaria della strage di piazza della Loggia, è quello della questura di Brescia e del dottor Aniello Diamare, uno dei suoi massimi dirigenti. Perché la bomba è esplosa da poco più di un’ora quando il funzionario, spinto da un lampo di follia o da chissà cosa, ordina ai pompieri di accorrere sulla scena del delitto per irrorare la piazza con potenti getti d’acqua. In questo modo piazza della Loggia viene tirata a lucido: dopo mezzogiorno non ci sarà più traccia del sangue versato e, naturalmente, nemmeno più traccia di qualsiasi reperto in grado di dispensare indizi sull’identità dei bombaroli e sugli autori della Strage.

Perché il vicequestore Diamare ordinò ai pompieri di lavare la Piazza?

L’attitudine delle forze dell’ordine a ripulire la scena del delitto, quando si tratta di stragi, più che un errore o una manifestazione di pura incompetenza è una specie di tradizione. Già nel 1944, a Palermo, quando un battaglione di soldati aprì il fuoco su una folla inerme, subito dopo l’eccidio si procedette a lavare via Maqueda e le strade circostanti. Ancora nel 1969, il giorno della strage di piazza Fontana, un altro ordigno inesploso venne immediatamente fatto brillare dagli artificieri di Milano con il risultato di distruggere per sempre una prova preziosa.

Si tratta di stranezze più che sospette che, nel caso di piazza della Loggia, iniziano addirittura prima dell’esplosione della bomba. Ai bresciani abituati a partecipare alle manifestazioni, infatti, il 28 maggio non sfuggì il movimento dei carabinieri incaricati di svolgere il servizio di vigilanza che, poco prima dell’inizio del comizio, abbandonarono il loro solito presidio – collocato esattamente sotto i portici, nei pressi del cestino contenente l’ordigno – per schierarsi all’interno del cortile della Prefettura. Si potrebbe pensare a un gesto di buona educazione, compiuto dagli uomini al comando del vicequestore Diamare e del tenente Ferrari per dare modo a chi affluiva in piazza della Loggia di trovare un riparo… un presunto atto di distensione che è difficile interpretare come tale tenuto conto che, subito dopo l’esplosione e poco prima che gli idranti dei pompieri iniziassero ad annacquare l’inchiesta, i manifestanti superstiti vennero sgombrati dalla piazza a manganellate!

Come mai Diamare e Ferrari spostarono i loro uomini dal porticato di piazza della Loggia al cortile della Prefettura?

Per completare il profilo della Questura di Brescia si deve ancora aggiungere una cosa. Quando si tratta di esprimersi sulla natura della Strage, le prime dichiarazioni ufficiali, insieme alle tracce lasciate sulla Piazza, cercano di rimuovere anche la matrice politica dell’attentato: «Indaghiamo in tutte le direzioni – si sentenzia dalla Questura – ma chi può escludere che si sia trattato del gesto di un folle?» (citato in «Paese Sera» del 30 maggio 1974).

Per le questure italiane, l’attitudine a negare le responsabilità della destra relativamente agli episodi più sanguinosi degli anni di piombo, sembra essere una sorta di abitudine: un comportamento che, oltre a causare gravi perdite di tempo compromettendo l’esito delle investigazioni, priva i cittadini di una sponda istituzionale credibile, erodendo in maniera irreversibile qualunque idea di fiducia nei confronti dei rappresentanti del potere centrale.

Non a caso, una volta appresa la notizia della strage, tutta l’Italia insorge riversando la propria rabbia nelle strade e scagliandosi spesso contro le sedi del Movimento sociale e i luoghi di ritrovo della destra. A Brescia, in modo particolare, i fischi che sommergono le massime cariche dello Stato durante i funerali delle vittime di piazza della Loggia rappresentano in modo crudo ed eloquente una vera e propria chiamata in correità da cui, uomini come il presidente del Consiglio Mariano Rumor, il ministro Paolo Emilio Taviani e lo stesso presidente della Repubblica, Giovanni Leone, non riescono a sottrarsi. Con le mani tremanti, Leone dovrebbe essere a Brescia per esprimere la sua solidarietà ai familiari di Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Clementina “Clem” Calzari, Euplo Natali, Alberto Trebeschi, Luigi Pinto e Bartolomeo “Bartolo” Talenti, ma, una volta arrivato sul palco riservato alle autorità, troverà l’assessore della Dc Luigi Bazoli, il marito di Giulietta Banzi, pronto ad afferrarlo per il bavero e a dirgli senza mezzi termini: «Caro Presidente basta con queste cose… Dobbiamo smetterla, impedire, non possiamo più accettare che questo avvenga, basta… Non possiamo permettere che avvengano queste cose nel nostro Paese…».

Giovanni Leone non è certo l’interlocutore più adatto a raccogliere la domanda di moralità avanzata prepotentemente dalla piazza… i voti del Msi grazie ai quali, nel 1972, è stato eletto Presidente pesano come macigni nel momento in cui il «marchio di fabbrica» della destra eversiva si stampa in maniera indelebile sulla Strage. La pista nera – malgrado i tentennamenti iniziali e i tentativi con cui il «Secolo d’Italia» proverà ad attribuire l’attentato alle Brigate rosse – inizia velocemente a fornire i primi indizi: i gruppi di Ordine nuovo attivi in Veneto, il movimento neofascista bresciano insieme ai settori più retrivi del padronato cittadino diventano presto i luoghi in cui cercare per dare un nome e un volto agli assassini di piazza della Loggia.

Per chiudere il cerchio di una simile teoria mancano alcuni tasselli fondamentali, magari una testimonianza diretta come quella di Ermano Buzzi: un ex missino bresciano vicino sia agli ambienti della criminalità politica che a quelli della criminalità comune (ha precedenti per furto e ricettazione di quadri), arrestato con l’accusa di essere responsabile dell’esecuzione materiale della strage. Ad inchiodarlo, la testimonianza di un altro fascista di Brescia, Angelino Papa, secondo cui, la mattina del 28 maggio, Buzzi avrebbe preannunciato l’attentato dichiarando, prima dell’esplosione: «C’è la manifestazione antifascista… Gli facciamo lo scherzetto…».

Ermanno Buzzi, auto-proclamatosi “conte di Blanchery” dopo aver acquistato il titolo da un notabile napoletano, non è certo un personaggio benvoluto dai suoi camerati. Dopo il suo arresto lo stesso Giorgio Almirante avrà buon gioco nel scrollarsi di dosso le accuse che chiamano in causa il Movimento sociale accusando Buzzi di essere «un noto pederasta» e, conseguentemente, giustamente espulso dal suo partito essendo l’Msi «l’unico partito veramente anti-omosessuale».

L’omofobia di Almiranti e camerati, ostentata come se si trattasse di un valore e non di un serio problema psichiatrico, fa parte delle eterne contraddizioni della destra italiana: ammantata di virilità e machismo fino al punto di costruire per i suoi militanti un’ideale di tipo spartiata o tebano, una “società di maschi” in cui, come ai tempi di Patroclo e Achille, anche la sessualità – recuperata in chiave antiborghese – viene esperita all’interno del gruppo di “guerrieri” o “soldati politici” che dir si voglia. In questo contesto, Ermanno Buzzi può ben rispecchiarsi del gruppo neofascista più celebre del Nord Italia, quello dei sanbabilini, “ritratti dal vero” dalla penna di Alessandro Preiser, pseudonimo di un’ex militante nero:

Eurialo non tardò a far parte della ristretta chiostra nella quale tutti riconoscevano gli eroi da emulare e seguire […]. Raimondo Forzi: era il più legato a Eurialo […] e al pari di questi, pur non disdegnando di quando in quando rapporti omosessuali, era sostanzialmente eterosessuale. […] Corrado: […] non s’è mai saputo se gli piacessero più gli uomini o le donne. […] Ruggero detto Ruggerino: un femmineo fanciullo diciassettenne basso e smunto con lunghe anella more, si truccava, aveva meravigliose mani inanellate che avrebbero fatto invidia ad Anna Karenina, delicato, con voce che pareva un soffio leggero, uranista sentimentale. Stravedeva per Silvano, ma essendo questi troppo moralista si lasciava coinvolgere nelle avventure di droga e sesso di Ennio, Eurialo e Raimondo. […] Luca: sedicenne, appena più mascolino di Ruggerino, leggermente più alto di questi ma più basso d’Eurialo. Legato a Corrado insieme col quale si faceva adusare da Eurialo e Raimondo dalle tentazioni dell’hashish e non soltanto a quelle (Alessandro Preiser, Avene selvatiche, Marsilio, Venezia 2004).

Più concretamente, il problema di Ermano Buzzi con gli uomini che gestiscono il terrorismo nero non è l’omosessualità ma il suo presunto status di spia: un uomo dei servizi infiltrato tra i camerati dalla polizia, considerato responsabile di molte soffiate e anche di aver architettato la morte di Silvio Ferrari. Questa, almeno, è l’opinione che, di Buzzi, hanno i camerati di «Quex», la famosa rivista autoprodotta dai detenuti politici di estrema destra e utilizzata per ospitare notizie “di movimento” insieme a una rubrica dedicata agli infami in cui, senza mezzi termini, si fanno i nomi dei personaggi da eliminare. Tra gli ospiti di questa rubrica – definita «vagamente jettatoria» dagli stessi lettori – c’è proprio Ermanno Buzzi: il teste più importante per le indagini su piazza della Loggia che, inspiegabilmente, nell’aprile del 1981, viene trasferito nel carcere di Novara, cioè dietro le stesse sbarre in cui è ospitato Pierluigi Concutelli, capo militare del Movimento politico ordine nuovo nonché diretto estensore della rubrica di «Quex» e della condanna a morte per il discusso “conte”.

Nel carcere di Novara, Ermanno Buzzi ha le ore contate. A Concutelli, già noto con il soprannome di “Comandante” ma in carcere detto “Er Sentenza” in virtù delle esecuzioni portate a termine, bastano quarantotto ore per avvicinare Buzzi al passeggio… non appena questo succede, il 13 aprile del 1981, scocca l’ultima ora d’aria del conte di Blanchery. Su come sia possibile uccidere un uomo a mani nude dice la sua Pierluigi Concutelli, aiutato, nell’occasione, da un altro assassino fascista molto conosciuto dentro e fuori dal carcere:

Buzzi temeva per la sua vita e per i primi giorni non venne all’aria. Aveva paura, era terrorizzato dalle possibili ritorsioni. Dopo un po’ di tempo passato in cella senza uscire, si convinse che nessuno gli avrebbe fatto del male e scese in cortile. «Ah, ci sei anche tu,» disse rivolgendosi a me e diventando pallido come un cencio. Quando gli andai addosso cercò di fermarmi: «Prima mi picchi e poi ne parliamo? Prima fammi spiegare e poi, casomai, mi prendi a cazzotti». Non immaginava che l’avremmo ammazzato, era convinto che ci saremmo limitati a un semplice pestaggio di galera. […] Buzzi morì così, in un angolo del supercarcere di Novara, strangolato da me e da Mario Tuti. […] Io e Tuti chiamammo la guardia. Mario disse una cosa un po’ pesante: «Dovete far rimuovere dell’immondizia che è rimasta in cortile (Giuseppe Ardica – Pierluigi Concutelli, Io, l’uomo nero, Marsilio, Venezia 2008).

Chi, essendo perfettamente al corrente della condanna a morte emessa contro Ermanno Buzzi, decise di trasferire il super-testimone di piazza della Loggia nello stesso carcere di Pierluigi Concutelli?

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Concutelli, nel futuro, continuerà a rivendicare la piena autonomia della decisione di assassinare Ermanno Buzzi. Quello che nemmeno “il comandante” tenta di smentire, però, è che la scelta di mandare “il conte” a Novara sia stata evidentemente compiuta da qualcuno che ha tutto l’interesse a sbarazzarsi dello scomodo camerata bresciano:

Siccome sapevano che con noi sarebbe finita male – dichiara Concutelli – ce l’hanno dato in pasto. A me qualcuno me l’ha fatto anche notare. Ma se io ho fame non sto a vedere chi mi dà da mangiare. Tu me lo mandi? Cazzi tuoi. Io non l’ho soppresso mica perché me lo hai detto te. È uno che già ho condannato io (intervista di Mario Caprara e Gianluca Semprini in Destra estrema e criminale, Newton Compton, Roma 2007).

Inutile specificare che lo stesso qualcuno che «ha dato in pasto» Buzzi a Concutelli è anche chi, all’interno delle istituzioni, ha contribuito a ostacolare l’inchiesta sulla Strage, provvedendo a cancellare le tracce e animando ogni sorta di mistificazioni. Nessuno sorpresa, quindi, che una verità giudiziaria sull’eccidio del 28 maggio non sia ancora venuta alla luce nel corso di quel calvario che è l’iter giudiziario della strage di piazza della Loggia. Nel 1979, la Corte di Assise di Brescia, basandosi sulle esternazioni di Angelino Papa, condanna Ermanno Buzzi all’ergastolo ma la sentenza viene ribaltata in Appello nel 1982, quando Buzzi, ormai assassinato a Novara, viene definito «un cadavere da assolvere» nelle motivazioni della sentenza. Da allora, per i fatti di piazza della Loggia sono stati spesi trentaquattro anni di indagini e 750.000 pagine di atti giudiziari: un materiale sufficiente a proiettare la torbida accusa di stragismo su tutto il neofascismo italiano e i collegati ambienti economico-militari in grado di alimentarlo. In modo particolare, risalgono al 1993 le dichiarazioni con cui Donatella Di Rosa, alias “Lady Golpe”, e suo marito, il tenente colonnello Aldo Micchittu, innescano l’inchiesta che culmina con la quinta istruttoria dedicata alla strage di Brescia.

Il nuovo processo è ancora in corso ma, vagliando le testimonianze di ex terroristi e collaboratori di giustizia, diventa sempre più chiaro che la decisione di colpire la manifestazione antifascista organizzata in piazza della Loggia nasce in un contesto fortemente condizionato dai “duri” dei servizi segreti e del così detto “Partito americano”: un’ala dell’Alleanza atlantica favorevole all’instaurazione di un regime militare fortemente antidemocratico, anticomunista e antipopolare. Non si tratta certo di un pugno di personaggi da avanspettacolo impegnati a vagheggiare un “golpe da operetta” ma di uomini estremamente pericolosi, in grado di poter contare sull’appoggio di poteri forti e dello stesso esercito italiano. Dopo lunghi anni di investigazioni, reticenze e mistificazioni, la quinta istruttoria entra nel vivo del dramma bresciano alla fine del 2007, quando il gup Lorenzo Benini chiede il rinvio a giudizio di un gruppo di persone accusate dei reati di strage, favoreggiamento e depistaggio. Si tratta di un pugno di vecchie conoscenze della criminalità politica italiana. Tra i presunti stragisti, infatti, ci sono nomi pesanti come quello del neonazista Delfo Zorzi: già condannato in primo grado per la strage di piazza Fontana e, a Mestre, capo della locale, agguerritissima cellula di Ordine Nuovo. Martino Siciliano, ex militante di on passato tra le fila dei collaboratori di giustizia e, oggi, iscritto insieme a Zorzi nel registro degli indagati. Secondo Siciliano, Zorzi:

Aveva un carattere molto forte, spesso duro, era molto manesco e privo di quelle reazioni che in molti di noi sorgevano alla vista del sangue durante i pestaggi. Zorzi infatti si occupava personalmente anche delle punizioni da infliggere ai camerati. Era chiuso, introverso, molto riservato. Portato quasi a una specie di misticismo. Fu lui a far scoprire ad altri camerati il buddismo (intervista di Gianni Barbacetto, E lei sa anche chi mise la bomba? Sì, fu Delfo Zorzi, in «Diario», 11-17 dicembre 1996).

Il “Samurai”, oggi, ha coronato il suo sogno mistico riparando il Giappone, dove, assunto il nuovo nome di Roi Hagen, vive al riparo da ogni richiesta di estradizione esercitando con enorme successo il mestiere di imprenditore nel campo della moda. Zorzi, questo è chiaro, non accetterà mai di sottoporsi al giudizio della magistratura italiana, le sole condanne che possono riguardarlo saranno eventualmente emesse in contumacia. È un peccato. Ripercorrendo la storia della strage di Brescia, il Samurai avrebbe potuto godere della compagnia di vecchi camerati come Carlo Digilio (deceduto in seguito a un ictus mentre aveva iniziato a rilasciare pesanti dichiarazioni ai magistrati), conosciuto con il soprannome di “Zio Otto” dai militanti di Ordine nuovo e con il nome in codice “Erodoto” dai militari della cia; come Carlo Maria Maggi, reggente di Ordine nuovo per il Triveneto; come Maurizio Tramonte, infiltrato dal sid in on con il nome in codice di “fonte Tritone”; o, addirittura, come Pino Rauti: attuale suocero del sindaco di Roma Gianni Alemanno, fondatore del Movimento sociale, di Ordine nuovo e, in tempi più recenti, protagonista delle avventure del partito della Fiamma, schierato a destra di Alleanza nazionale.

La lista degli indagati non finisce qui. E dagli ambienti più strettamente politici si sale ai piani alti delle istituzioni se, continuando a scorrere l’elenco delle coinvolte nella quinta istruttoria, ci si sofferma su Giovanni Maifredi, l’ex autista del ministro Taviani infiltrato in Ordine nuovo direttamente da un generale dei carabinieri: Francesco Delfino, uomo dei servizi segreti già condannato in via definitiva per truffa aggravata nell’ambito delle indagini sul sequestro dell’imprenditore bresciano Soffiantini. A completare questo desolante panorama, con l’accusa di intralcio all’autorità giudiziaria, favoreggiamente e depistaggio, insieme al neofascista Vittorio Pocci ci sono l’attuale parlamentare di Forza Italia Gaetano Pecorella e Fausto Maniaci, rispettivamente avvocati di Delfo Zorzi e Martino Siciliano.

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Incrociando le informazioni elargite a suo tempo da Lady Golpe con le dichiarazioni rilasciate da imputati come Carlo “Zio Otto” Digilio, il micidiale esplosivo utilizzato in piazza della Loggia sarebbe stato procurato da Delfo Zorzi e, via Milano, sarebbe finito nelle mani delle sam di Giancarlo Esposti, materialmente incaricate di compiere la Strage. Secondo Tramonte, invece, a collocare la bomba nel cestino sotto i portici sarebbe stato Giovanni Melioli, capo degli ordinovisti di Rovigo.

Se le conclusioni a cui arrivano Digilio e Tramonte sembrano diverse, a essere identico è l’ambiente che i due personaggi “informati sui fatti” evocano attraverso i loro racconti: un mondo in cui, nelle riunioni tenute per organizzare la Strage, diventa difficile distinguere i “soldati politici” dagli agenti dei servizi segreti, i rappresentanti dello Stato dagli avventurieri senza scrupoli. Recentemente, tra le altre cose, è emersa anche una nuova fotografia in cui, tra la folla di piazza della Loggia, sembra di ravvisare lo stesso Maurizio “fonte Tritone” Tramonte: una possibilità che renderebbe ancora più complicata l’interpretazioni dei fatti; sopratutto se si tiene conto di una cosa: sia Giovanni Melioli, sia Giancarlo Esposti, vale a dire i terminali del disegno stragista evocato da Tramonte e Digilio, non sono assolutamente in grado di aggiungere la loro testimonianze a quelle raccolte nel corso della quinta istruttoria. Giovanni Melioli, infatti, è stato ritrovato morto nel suo letto nel 1991, con mezzo chilo di cocaina al suo fianco. Giancarlo Esposti, da parte sua, è deceduto in circostanze ancora più sospette. L’illustre esponente delle Squadre d’Azione Mussolini, appena due giorni dopo la Strage, si trova accampato in località Pian di Rascino (provincia di Rieti). Insieme a lui, in una tenda mimetica, dormono i camerati Alessandro D’Intino e Alessandro Danieletti. Nei pressi, è parcheggiata una Land Rover traboccante di armi e di esplosivo (tra le altre cose, nella vettura sono stipati 560 detonatori, dieci chili di plastico, trecento metri di miccia e quaranta chili di esplosivo da cava!).

Alle sette del mattino del 30 maggio 1974, una pattuglia di carabinieri al comando del maresciallo Antonio Filippi, si avvicina all’accampamento. Quando Esposti si affaccia dalla tenda i militari gli chiedono: «Siete delle Brigate rosse?».

La domanda è retorica. Esposti farfuglia qualcosa – «Siamo radioamatori…» – poi mette mano alla pistola. I colpi del neofascista raggiungono in rapida successione i carabinieri Alessandro Jagnemma e Pietro Mancini. Ma la reazione rabbiosa di Esposti non basta a salvargli la vita. Crivellato dai proiettili del maresciallo Filippi, Esposti si accascia al suolo. Rantola. È ancora vivo. Filippi, però, ha ancora qualche colpo in canna. E la sua pistola, a questo punto, ha cura di avvicinarsi bene alla testa di Esposti prima di fare fuoco. Praticamente si tratta di un’esecuzione. Ma da cosa è stata provocata?

Forse soltanto da un eccesso di ritorsione. Un momento di rabbia che ha preso il sopravvento decidendo che Esposti voleva morire. Peccato solo che il maresciallo Filippi risulti attivo anche come agente del Sid. E che, insieme a Giancarlo Esposti, finiscano in una cassa da morto una grande quantità di segreti: memorie storiche che molti personaggi importanti hanno tutto l’interesse di non rivelare.

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Che cosa stava facendo esattamente Giancarlo Esposti nei boschi di Pian di Rascino? A cosa sarebbe dovuto o potuto servire l’arsenale che si trascinava dietro insieme alla Land Rover?

Quello che è sicuro è che, a un certo punto, nel mese di maggio del 1974, Esposti decide di far perdere le proprie tracce. Testimone di questa scelta, il padre del ragazzo, a cui Esposti telefona dicendo di essere costretto a scappare «perché i carabinieri li avevano traditi» (citato in Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri, Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato, Einaudi, Torino 2000).

La domanda, allora, diventa: chi è, esattamente, che, almeno secondo Esposti, è stato tradito dai carabinieri?

La risposta è contrassegnata da una data precisa: il 9 maggio del 1974, alla vigilia di una scadenza referendaria – quella sul divorzio – che, di per sé, contribuisce a foraggiare polemiche, desideri di rivalsa, tensioni. Quel giorno, con un blitz spettacolare, i carabinieri arrestano decine di militanti del Movimento d’azione rivoluzionaria, un cartello che, in chiave anticomunista, tiene insieme fascisti, cattolici intransigenti, qualunquisti ed esponenti della “Maggioranza silenziosa”, altra corrente utilizzata per mobilitare l’opinione pubblica contro la sinistra di piazza. A finire in manette c’è anche il fondatore del Mar: Carlo Fumagalli, ideatore di un disegno destinato ad imporre, attraverso il terrore, una svolta politica catto-autoritaria. Mentre Fumagalli viene tradotto in carcere, il suo vice, Gaetano Orlando, riesce ad avvisare i camerati, consentendo la breve fuga di Giancarlo Esposti: una fuga che, considerato l’armamento di cui poteva disporre, non doveva servire semplicemente a sottrarsi alla giustizia. Al contrario, asserragliato a Pian di Rascino, Esposti sperava ancora che il piano di Fumagalli e soci, quella strategia responsabile dell’incredibile numero di attentati organizzati nel corso del 1974, potesse trovare il suo pieno compimento. A Pian di Rascino, in buona sostanza, Esposti aspettava lo scoccare dell’“ora X”: un segnale che avrebbe dovuto far entrare in azione altri commando simili a quello guidato dall’estremista milanese, pronti ad unirsi all’esercito e a prendere il potere.

Esposti, evidentemente, non stava tenendo conto di una cosa. Nei piani alti dei servizi segreti, tra i protagonisti delle trame occulte della storia Repubblicana, il vento stava cambiando. Gli stessi fascisti, con il loro rozzo culto della violenza e la loro ridicola ossessione per ideali politici ormai superati, sono visti come semplici ferri vecchi: un validissimo aiuto fino a quando la violenza è stata indispensabile per arginare la vocazione progressista dell’Italia ma, a questo punto della Storia, soltanto un ostacolo per un rinnovamento reazionario in grado di mettere in alto strategie di controllo molto più raffinate di quelle che passano per un attentato dinamitardo, un’aggressione squadrista o una sparatoria.

Certo. Smobilitare una rete di assassini, bombaroli e picchiatori costruita con un paziente lavoro di intelligence e cospicuamente finanziata non è facile. Come non è facile convincere tutti gli esponenti e tutti i militanti del «partito del Golpe» dell’avvenuto mutamento di rotta. Sono tante le camice nere poco desiderose di indossare il doppiopetto e numerosi i gruppi ancora votati all’azione violenta. Schegge impazzite che, con i vecchi sistemi, continuano a giocare alla guerra sporca, lasciando il proprio “marchio di fabbrica” sulla strage di Brescia e, ancora nel 1974, sull’esplosivo piazzato sul treno Italicus, saltato in aria all’uscita di una galleria all’altezza di San Benedetto Val di Sambro il 4 agosto dell’anno destinato a chiudere il ciclo di attentati inaugurati nel 1969 con i morti milanesi di piazza Fontana. A morire sull’Italicus, dilaniati dalla bomba o bruciati vivi nell’incendio seguito all’esplosione, furono dodici persone. Per tutti loro c’è un volantino firmato Ordine nero che, al grido di «Giancarlo Esposti è stato vendicato», rende completamente esplicita la natura ricattatoria della strage:

Abbiamo voluto dimostrare alla Nazione – scrivono gli attentatori – che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare. Vi diamo appuntamento per l’autunno. Seppelliremo la democrazia sotto un mare di morti.

«Seppelliremo la democrazia sotto un mare di morti», scrivono gli attentatori. E le loro parole, come tutta la storia dello stragismo di destra, vanno lette come se fossero indirizzate a due tipi diversi di interlocutori. Da un lato c’è il contenuto palese della rivendicazione: quella diretta corrispondenza tra significante e significato decriptabile da chiunque conosca i termini della lingua italiana. Poi c’è un livello esoterico del discorso, riservato agli iniziati: nella fattispecie gli esponenti delle diverse fazioni interne al sistema; come abbiamo scritto aprendo il capitolo sulla Strage di Brescia, i sostenitori della necessità del colpo di Stato cruento e i seguaci di nuove politiche di controllo delle masse che, seppur assimilabili ai loro avversari nella volontà di imprimere al Paese una svolta reazionaria, sono convinti della necessità di rispettare la forma democratica delle istituzioni (… la forma, non la sostanza!).

Nell’anno del Signore 1974, tra queste due fazioni è guerra aperta. Una lotta senza esclusione di colpi che, alla fine, vedrà prevalere i supporter dell’“ordine democratico” sui golpisti di vecchio stampo fascio-militare. Intorno alle strutture predisposte all’intimidazione, all’aggressione e alla strage, contro i bombaroli precedentemente assoldati dai servizi segreti si fa terra bruciata ed ecco, nel mese di maggio 1974, scattare improvvisamente le operazioni di polizia che stroncano la “carriera” di un Carlo Fumagalli, gli “incidenti” che provocano la morte di un Giancarlo Esposti o i “trasferimenti” che decretano l’assassinio di un Ermanno Buzzi. Dall’altra parte, però, chi sogna l’avvento di un nuovo duce non si rassegna ad abbandonare le leve del potere occulto e sferra colpi micidiali: la Strage di Brescia e la Strage dell’Italicus, i più gravi episodi terroristici del ’74, sono solo il frutto di questa guerra intestina; un frutto amaro fatto mangiare, più o meno indiscriminatamente, a tutta la popolazione italiana.

C’è ancora un problema, però. Affinché, alla fine del conflitto, i vincitori possano continuare a usare illegalmente e per i propri fini lo Stato e tutte le sue strutture, è necessario che tutto avvenga nel completo silenzio. Non è un caso, infatti, se il processo per la Strage di Brescia sia ancora in corso o se, per quanto riguarda l’Italicus, la preziosa testimonianza di una donna che potrebbe inchiodare all’istante gli attentatori di Ordine nero e il “Fronte nazionale rivoluzionario” di Mario Tuti, detto “il Caterpillar”, non venga minimamente presa in considerazione. Addirittura, il giudice che raccoglie le dichiarazioni della donna provvede a smentirne pubblicamente la validità e a suggerire, per la testimone, il ricovero in un ospedale psichiatrico!

Il nome di questo giudice è Mario Marsili. Di professione, oltre che magistrato, questo esponente delle istituzioni è genero di Licio Gelli, detto “il Venerabile”: un signore che, dalla sua tranquilla residenza in provincia di Arezzo, dà vita alla famigerata “Propaganda 2” (P2) una loggia massonica coperta, riservata a chiunque – militare, ricco imprenditore, magistrato, giornalista, eccetera – occupi un ruolo sociale particolarmente importante e delicato. Scopo ultimo dei fratelli, l’attuazione del Piano di rinascita nazionale, una sorta di manifesto dove i punti programmatici più importanti si chiamano accentramento e controllo dei mass media, riforma della Costituzione e, per quanto riguarda il sistema politico, repubblica presidenziale.

Qualsiasi osservatore, guardando alla realtà italiana (oggi e non del 1974!), non avrà difficoltà a rendersi conto di come gli auspici del Piano di rinascita nazionale siano ancora in corso. La loro progressiva attuazione è sotto gli occhi di tutti, specialmente in un periodo di cronica erosione della partecipazione popolare alla vita politica, di negazione di diritti soltanto apparentemente elementari (dal riconoscimento delle coppie di fatto alla xenofobia di Stato contro l’immigrazione) e di ascesa di figure istituzionali in grado di manovrare il Parlamento regolando l’attività legislativa sulle proprie esigenze personali…

aa.brescia_niente_piazza-della-loggiaE i caduti di piazza della Loggia? E le vittime dell’Italicus? E le centinaia di persone assassinate in innumerevoli altre occasioni – da piazza Fontana fino alla stazione di Bologna – da quell’intreccio perverso tra terroristi neofascisti, vertici dei servizi segreti e P2?

Il sospetto – terrificante – è che tutti. Tutti. Siano morti invano:

Per questo non riesco a riconciliarmi definitivamente con le istituzioni, le ritengo inevitabilmente responsabili della mancata giustizia. Lo Stato ci ha negato il diritto alla giustizia e alla verità ed è difficile, in questo contesto, ridare equilibrio alle norme della convivenza civile. A volte penso che quei corpi martoriati nelle stragi non riescano a riposare in pace, li immagino come dei fantasmi che vagano. Ho sognato Livia che continuava a girarmi intorno con una valigia in mano, quasi a ricordarmi che non ha trovato ancora un pezzo di terra su cui riposare, perché il pezzo di terra è il principio di giustizia che non hanno ricevuto né loro come morti, né noi vivi, testimoni della loro morte (Manlio Milani, marito di Livia Bottardi, vittima della strage di Brescia. In Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Rizzoli, Milano 2006).

*

a.cuoriBrescia, 28 maggio 1974. La strage di piazza della Loggia, tratto dal volume Cuori rossi di Cristiano Armati

Teppismo, ultima bandiera

Scrivi degli ultrà
la vita da teppista
non dici verità
bastardo giornalista

Non mi ricordo più come sono diventato ultrà. A me, allo stadio, non mi ci ha mai portato mio padre: non è per onorare la sua memoria che seguo il calcio. Il calcio, per me, non è nemmeno tanto un fatto di cori o di bandiere e, se penso al campo da gioco, di colori e di profumi è l’ultima cosa di cui parlo. Ho una fede, certo. E questa è salda. Credo in dei principi ben precisi, ma non ho voglia di dire esattamente quali. Perché ci sono cose di cui si può parlare e altre per cui le parole non servono a nulla: per capirle occorre esserci. Ma,sopratutto, occorre fare.

È a questo ultimo genere di cose che appartengo. Domenica dopo domenica le ritrovo negli occhi del compagno che ho accanto ma anche nello sguardo del nemico che ho davanti. Una scintilla che illumina il buio del calcio moderno con gli echi di un principio inderogabile: «Preferisco essere sconfitto nudo addosso a un muro che festeggiare la vittoria protetto da uno scudo».

È questo il terreno sul quale io gioco la mia partita. Ed è sempre da questo terreno che io, domenica dopo domenica, torno a casa vincitore.

Su questo terreno gli arbitri non si possono corrompere, i vestiti che hai addosso non hanno nessuna importanza e nemmeno i soldi significano niente. Il coraggio, al contrario, qui non ha prezzo. E la lealtà è la merce più ricercata.

Su questo terreno nessuno è tenuto ad abbassare la testa e non esiste né sì né sissignore; basta un cenno di intesa per rinnovare un accordo mai scritto: «Non un passo indietro»; sono questi i termini del patto.

Grazie alla fede, domenica dopo domenica, prima e dopo la partita, diventa possibile sostenere uno scontro impari. Da una parte la legge, con le armi, i cani, le macchine blindate, i lacrimogeni e i manganelli. Dall’altra il cuore: forte anche quando non ha niente.

Non mi vergogno di dirlo perché è vero. Chi indossa una divisa non lo accetto e neppure lo rispetto. Troppe volte ho visto gli uomini della legge caricare i miei fratelli a tradimento. Troppe volte li ho visti, in dieci contro uno,tirare calci fino a spaccare le facce, rompere le costole, spezzare i denti.

La mia lotta, in fondo, è simile a quella delle minoranze oppresse o a quella dei partigiani che combattono nelle zone occupate dagli eserciti: «10, 100, 1000 Nassiriya» ero io che lo cantavo. E non avevo certo paura di diventare l’unico a essere considerato delinquente.

Domenica dopo domenica, insieme ai miei fratelli, ho combattuto per l’Iraq, per l’Irlanda del Nord, per il Kurdistan, per il Libano, per la Serbia, per il Delta del Niger e per la Palestina. E nessuno di noi, nel corso della lotta, ha mai preso in considerazione l’opportunità di potersi arrendere.

D’altronde è normale. La principale differenza tra noi e chi indossa una divisa è solo questa: loro agiscono nel nome di un posto fisso e dei soldi; noi lo facciamo per continuare a guardarci in faccia senza vergognarci.

Chi indossa una divisa lo capisce e ci teme. Sa che per partire non abbiamo bisogno di ricevere istruzioni: conosciamo perfettamente la città e i piani che seguiamo non vengono dall’alto, ma sono già nella nostra testa. Come avremmo fatto,altrimenti, a ritrovarci tutti nello stesso posto – allo stadio Olimpico – tre ore prima della partita Roma-Cagliari, prevista per le ore venti e trenta?

La notizia,data nella mattinata, parlava di uno scontro tra tifosi dalle parti di Arezzo. Raccontava di una macchina di laziali che incrocia un gruppo di juventini e di un ragazzo ucciso da un colpo di pistola. Cercavano di confondere le acque e di farci credere che i tifosi si fossero uccisi tra di loro… in realtà, quello che era successo, ci era stato chiaro immediatamente: a sparare e ad uccidere era stato un agente.

C’è solo una categoria di persone che rispetto ancora meno di chi porta una divisa. Ed è la categoria di chi, per professione, mente. Li chiamano giornalisti, ma per noi sono tutti pennivendoli. E come correvano! Correvano gettando sull’asfalto le loro telecamere maledette e le loro macchine fotografiche bugiarde. Correvano malgrado le pance cascanti, piene di notizie false e brutti sentimenti. Pensavano di accanirsi su di noi anche in una giornata come questa:di rinchiuderci come le scimmie nelle gabbie dei loro giornaletti, di chiamarci beceri e violenti, di infamarci e insultarci a loro piacimento. In una giornata come questa no, non glielo abbiamo concesso: abbiamo corso più forte di loro,li abbiamo raggiunti e a più di qualcuno abbiamo rotto la macchina fotografica e la telecamera insieme alla testa.

Un nostro fratello era stato ucciso dalla polizia e la nostra rabbia, radunati fuori dai cancelli dello stadio, stava crescendo come il mare in tempesta. Quando a Catania, poco tempo prima, era morto uno di loro, un ispettore, il calcio era stato fermato completamente. Mentre adesso che a uccidere un tifoso era stato un poliziotto che fine avevano fatto i discorsi sul rispetto della vita umana?

Chi comanda non ha ritenuto opportuno sospendere le partite in programma perché per loro i tifosi non sono nient’altro che merce.

Si sbagliano. E lo abbiamo scritto sugli striscioni: «La nostra coscienza non si lava con dieci minuti di ritardo».

Alla pattuglia dei carabinieri fermi a Ponte Milvio glielo abbiamo fatto capire bene. Abbiamo gridato «assassini! assassini!» e li abbiamo fatti fuggire con un fitto lancio di pietre.

In queste circostanze non conviene muoversi tutti insieme. Il grosso del gruppo è restato compatto a presidiare la zona dello stadio mentre, a turno, drappelli più piccoli sono scattati per la caccia al poliziotto. Sul Lungotevere abbiamo usato delle transenne di ferro per bloccare il traffico e, per armarci, abbiamo sradicato dall’asfalto i segnali stradali. In pochi minuti abbiamo distrutto vetrine e rovesciato cassonetti. È servito per guadagnare tempo, seminare il panico e spingerci verso l’interno: «Non ne possiamo più delle divise blu – no al governo – no alla pay tv».

In via Flaminia vecchia abbiamo preso a sassate una stazione dei carabinieri e dato fuoco alle vetture parcheggiate all’esterno. «Non c’è niente di più bello di una caserma che brucia»: basta una bottiglia piena di benzina per scatenare l’inferno.

In via Guido Reni, all’Accademia di polizia, abbiamo distrutto l’insegna e infranto i vetri antiproiettile e, bruciando ciò che potevamo, abbiamo urlato: «Merde! Merde!».

Veloci come il vento ci siamo dileguati. E abbiamo portato via lo stendardo del corpo: dato alle fiamme insieme a un’altra macchina della polizia, in piazza dei Giochi Delfici.

La città era nostra. Ma noi siamo diversi, il potere non ci interessa. Noi siamo i lupi che si nascondo tra le pecore: possono braccarci, catturarci, diffidarci o ucciderci… domenica dopo domenica torneremo comunque branco, lo facciamo sempre. Gente come noi oggi ha colpito a Roma, ma lo ha fatto anche a Milano, a Taranto, a Bergamo… ovunque con la stessa gioia di riscoprirsi ultrà: padroni di niente – chiaro – ma servi di nessuno. Liberi, seppur in fuga, tra i tornanti della panoramica che si arrampica su Monte Mario. Arditi quanto basta per accostare la macchina e, con la vernice azzurra della bomboletta, sfidare chi non crede in niente con uno slogan destinato a durare: «Teppismo ultima bandiera».

a.romanoir2.0983279Tratto dal volume Roma noir di Cristiano Armati

La bandiera dell’odio. Brevi note dal mondo perduto di Bruno Breguet

È incredibile come storie un tempo sulla bocca di tutti e persino in grado di sollecitare importanti mobilitazioni internazionali possano sparire senza lasciare alcuna traccia nella memoria collettiva.

Quella di Bruno Breguet è una di queste storie. Una storia degli anni Settanta, si potrebbe aggiungere, e il particolare, grazie al portato simbolico di cui resta capace l’evocazione di quel decennio, racconta già un pezzetto di verità. Perché se oggi non sappiamo più rispondere alla domanda «chi è Bruno Breguet?», la sopraggiunta ignoranza ha a che fare anche con la fretta con cui si è provveduto a sigillare con l’etichetta «anni di piombo» istanze, desideri, rivendicazioni, lotte e progettualità politiche inerenti a problemi in realtà più vivi che mai.

Prendiamo La scuola dell’odio di Bruno Breguet. Raccontando i suoi Sette anni nelle prigioni israeliane, l’autore non si limita a consegnarci un testo di grande forza emotiva né, il suo, è un semplice contributo alla letteratura concentrazionaria prodotta in ogni tempo e in ogni paese. Breguet, infatti, compone il suo testo nel «qui» e nell’«ora» di una fase particolare del cosiddetto conflitto «israelo-palestinese». Un «qui» e un «ora» dove, a ben vedere, la terminologia etnica oggi comunemente utilizzata per descrivere la «questione» ha uno diritto di cittadinanza pressoché irrilevante. Il conflitto di cui Breguet è protagonista, infatti, se trova nella Palestina il suo fronte geografico s’inserisce, in realtà, nell’ambito internazionalista della lotta di classe, parla il linguaggio sintetizzato da slogan come «Palestina libera Palestina rossa», supera una dialettica di tipo patriottico e, dopo aver denunciato l’oppressione di classe subita tanto dai palestinesi quanto dai proletari ebrei, incarna un capitolo dell’eterna guerra tra sfruttati e sfruttatori: quella guerra che, negli anni Settanta, veniva declinata attaccando le dinamiche neocoloniali, messe in pratica dallo stato di Israele in Medio Oriente come dalle potenze occidentali in tutte le parti del mondo. Per questa ragione persino l’elemento religioso, all’interno de La scuola dell’odio assume un ruolo marginale, diventando una componente problematica ma prima di tutto minoritaria e isolata delle lotte animate all’interno del carcere. Nella stessa istituzione totale vissuta da Breguet, inoltre, perfino la strategia, largamente utilizzata in qualunque carcere, di opporre i prigionieri lungo linee di tipo razziale per semplificare il loro controllo, non ha ancora avuto la meglio, motivo per il quale un detenuto comune ebreo ha molto più da spartire con un detenuto politico palestinese che non con una guardia carceraria israeliana. Una simile constatazione, in effetti, dovrebbe essere ovvia se si osserva la realtà dal punto di vista degli interessi oggettivi delle parti in causa; eppure finisce per risultare sacrilega oggi, quando i concetti di «etnia», «razza» e «religione» diventano i cavalli da battaglia con i quali negare il peso dell’unica differenza sostanziale, quella che continua a separare in modo insanabile chi sfrutta da chi viene sfruttato.

Bruno Breguet
Bruno Breguet

Eppure è proprio questo il campo in cui inserire le scelte di Bruno Breguet, nato a Muralto, cittadina della Svizzera italiana, nel 1950 e, non ancora ventenne, pronto ad arruolarsi tra le fila del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, diventando in seguito il primo membro «straniero» della resistenza palestinese a subire il carcere. Come d’altronde scrive lo stesso Breguet ne La scuola dell’odio, commentando le vicende successive al suo arresto avvenuto in territorio israeliano il 23 giugno del 1970, le ragioni della sua militanza discendono direttamente da un momento storico in cui: «L’analisi dell’imperialismo e del sottosviluppo permetteva di capire il legame tra l’impegno politico all’interno della metropoli capitalista e le lotte dei contadini dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina uniti insieme nella lotta contro la potenza del dollaro e contro le varie borghesie nazionali» (Bruno Breguet, La scuola dell’odio, Red Star Press, 2015).

Uno scenario, dunque, marcatamente internazionalista, «scomodo» già sul nascere per il modo in cui prometteva di sconvolgere i piani del mercato e del pensiero unico e, anno dopo anno, declassato come se si stesse parlando di una «moda culturale» e non della visione di un progetto di liberazione capace di coniugare la lungimiranza dell’analisi politica con i nobili ideali della giustizia sociale. Come scrisse dalla Svizzera il «Collettivo nazionale per la liberazione di Bruno Breguet», formatosi solo nel 1975: «Nei vivaci dibattiti che pure caratterizzarono l’inizio degli anni Settanta, un dato era generalmente acquisito: il declino del terzomondismo, da cui anche una scarsa considerazione per le azioni di solidarietà internazionale» (Appendice in Bruno Breguet, La scuola dell’odio, La Pietra, 1980).

Allo stesso Collettivo, il merito di aver velocemente colmato il ritardo rispetto alle azioni di solidarietà nei confronti del prigioniero ticinese, ma anche di aver mostrato le responsabilità degli stati europei nella definizione della situazione palestinese e, più in generale, il loro ruolo di protagonisti nel generale assoggettamento di popoli e territori agli interessi del capitalismo globale. Fu grazie al Collettivo Breguet se il nome del militante del Pflp s’impose sulla scena pubblica, arrivando a raccogliere il sostegno d’importantissime personalità della cultura in un appello internazionale alla sua liberazione. Per rendersi conto dell’eco assunto dalla notizia, basti dire che, a firmare per la libertà di Breguet, furono, tra gli altri, personaggi come Roland Barthes, Louis Althusser, Manuel Castells, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Michel Foucault, Jacques Le Goff, Edgard Morin, Jean-Paul Sartre, Simone De Beauvoir, Friedrich Dürrenmatt, Günther Grass, Noam Chomsky e, dall’Italia, Dario Fo, Franco Fortini e Alberto Moravia. Tutto ciò accadeva nel 1977, quando Breguet aveva già scontato i due terzi della pena a cui era stato condannato e quando, grazie anche alle pressioni internazionali, il militante ticinese avrebbe effettivamente riguadagnato la strada di casa insieme alla libertà.

Quella accennata fino a qui, però, è, in rapporto a Bruno Breguet, soltanto il pezzo della vicenda necessaria a spiegare la genesi de La scuola dell’odio e, nei fatti, coincide con la pubblicazione del libro, avvenuta per la prima volta nel 1980 grazie all’iniziativa della casa editrice milanese La Pietra. Guidata dall’ex partigiano Enzo Nizza, nome di battaglia «La Pietra», l’etichetta con cui uscì La scuola dell’odio è essa stessa frutto di una riflessione culturale e politica che, complice lo stretto rapporto tra Nizza e il «massimalista» Pietro Secchia, avrebbe abbracciato in un solo catalogo libri dedicati alla guerra partigiana e alle esperienze delle lotte di liberazione dei popoli oppressi.

L’eredità resistenziale e anticolonialista di Secchia, morto nel 1973, considerata la lungimiranza del partigiano piemontese ma anche le sue posizioni, con il tempo sempre più eretiche rispetto alla linea ufficiale del Partito Comunista prima di Togliatti e poi di Amendola, potrebbe e dovrebbe essere riscoperta e problematicizzata proprio a partire dalla pubblicazione di un testo come La scuola dell’odio in quella che fu la «sua» casa editrice. In quel periodo, tra l’altro, Breguet si trovava a Londra per proseguire gli studi di economia iniziati in carcere. Eppure non è l’arrivo nelle librerie italiane e ticinesi delle memorie dedicate ai suoi sette anni di carcere a salutare l’uscita di scena del militante svizzero. Il nome di Breguet, infatti, torna a circolare già nel 1982 quando, con il nome di battaglia di «Luca», viene arrestato a Parigi insieme a «Lilly», al secolo Magdalena Kopp, compagna di Ilich Ramírez Sánchez e appartenente all’Organizzazione dei Rivoluzionari Internazionali (Ori), la sigla del venezuelano, più conosciuto con il soprannome di «Carlos lo Sciacallo».

Accusato di aver progettato di minare con un’auto-bomba la sede di un giornale libanese, Breguet sconta tre anni e mezzo di prigione ma, dopo di allora, «esce dal giro» e, a parte un avvistamento a Damasco datato 1986, il suo nome non compare più in alcun rapporto, né si torna a parlare di lui sui giornali. Sappiamo solo che ha imparato il mestiere di carpentiere e che si è trasferito nella cittadina greca di Perdika, dove vive con la compagna Carol-Anne e Shona, la loro bambina. Sappiamo anche che transita spesso in Italia: Ancona, infatti, è una tappa obbligata del viaggio che da Perdika conduce in Ticino; e anche il 10 novembre del 1995 Breguet si trova nel capoluogo marchigiano quando, per quello che sembra un banale controllo dei documenti, l’ex membro del Fronte viene fermato mentre scende dal «Lato», il traghetto greco proveniente da Igoumenitsa. Fino a qui, nulla di strano:

Un breve controllo alla frontiera e Bréguet potrà ripartire con la sua famiglia verso la Svizzera. Lo fa ogni cambio di stagione, ma questa volta è diverso. I doganieri italiani lo fermano, lo tempestano di domande: sospettano che stia trasportando un carico d’armi. Gli chiedono di aprire il portabagagli, perquisiscono la macchina, frugano dappertutto; ma non trovano niente. «Lei è persona non gradita sul suolo italiano», gli dice un agente. «La sua famiglia può proseguire, lei invece non può passare». Bréguet riesce comunque a fare una telefonata. Chiama suo fratello a Lugano, gli spiega la situazione. Non è la prima volta che, arrivato alla frontiera italiana, viene respinto. Gli era già successo l’anno prima. Un bel fastidio, certo, ma niente di grave. «Se non avete mie notizie nel giro di tre o quattro giorni, significa che ci sono problemi», dice prima di riattaccare. Viene quindi imbarcato nuovamente sul «Lato» e rispedito in Grecia (Emanuele Midolo, La scomparsa di Bruno Breguet, «Agoravox.it», 8 marzo 2012).

Sarebbe stata, questa, l’ultima volta in cui viene visto Bruno Breguet. Lo stesso capitano del «Lato», pur affermando che il ticinese si trovava effettivamente sulla sua nave fino a poco prima dell’approdo, non riesce a capacitarsi della «sparizione» del passeggero. E infatti bisogna aspettare almeno fino al 2001 affinché, dopo un ritrovamento di ossa umane avvenuto a Drepano, un’altra località greca, si possa almeno ipotizzare che questi resti appartengano proprio a Bruno Breguet. La fosca previsione scoperchia una nuova, inquietante possibilità. Breguet sarebbe: «Deceduto in seguito a una “crisi cardiaca” all’interno di un’installazione militare a Kaposvár, sud dell’ Ungheria. La stessa fonte precisa: niente torture, si è trattato di “un incidente”» (Olimpio Guido, «Caro Obama, notizie su Bruno?», firmato Carlos, lo «Sciacallo», dal «Corriere della Sera» del 15 febbraio 2009).

Ai margini del mistero, si agitano le acque sporche dei servizi segreti e, senza trovare conferme definitive a nessuna ipotesi, si mette mano a uno scenario in cui trovano posto gli affari francesi in Algeria, la copertura di delicate informazioni rinvenute nella Germania Orientale negli archivi della Stasi, la possibile vendetta postuma dell’israeliano Mossad e un non meglio precisato coinvolgimento della Cia. Proprio all’agenzia statunitense, per esempio, fa riferimento anche Carlos nel 2009, indirizzando al neo-eletto presidente Obama una lettera aperta scritta nel carcere francese in cui sta scontando l’ergastolo: «Se Bruno è ancora vivo liberatelo», chiede il prigioniero al capo della Casa Bianca, «se è morto restituite le sue spoglie».

L’appello di Carlos non passa inosservato. E così il giallo sulla sparizione di Breguet torna di attualità nel 2012, quando Wikileaks inizia a pubblicare un pugno di mail provenienti dagli analisti della Stratfor (http://bit.ly/1F4dvS9), un carteggio in cui i collaboratori della compagnia d’intelligence texana fanno riferimento a uno scenario ancora più complesso, come quello che potrebbe riguardare le situazioni siriane e irachene, già attraversate dal gruppo di Carlos, e rispetto al quale la sparizione di Breguet potrebbe suonare come un avvertimento, affinché chi sa continui a non parlare. Ma a non parlare di cosa?

Anche solo provare a rispondere a questa domanda sarebbe un compito troppo gravoso rispetto a questo testo: una postfazione che saluta il ritorno in libreria de La scuola dell’odio di Bruno Breguet. Eppure, come il classico messaggio lanciato in mare chiuso dentro una bottiglia, questo libro, a distanza di trentacinque anni rispetto alla sua prima edizione, sembra dirci qualcosa di più ampio rispetto alla terribile situazione vissuta dall’autore nelle prigioni israeliane. Ci dice, per esempio, che la guerra alla Palestina continua più crudele che mai. E ci obbliga a notare come, dalla Libia alla Siria, ciò che fu il socialismo arabo, il «mondo perduto» dal quale ha parlato Bruno Breguet, sia stato sistematicamente travolto dai feticci etnici e religiosi, agitati, con la maldestria degli apprendisti stregoni, dalla politica estera occidentale, indignata soltanto adesso per l’avvento della bandiera nera dello Stato Islamico: quell’Isis, Is o Isil che, a mo’ di nemesi storica, arriva a radicalizzare quelle stesse linee etniche e religiose sistematicamente preferite a Ovest di Raqqa, la capitale del Califfato, ai frutti di libertà e di uguaglianza offerti dalla lotta di classe.

Al libro di Brequet va riconosciuto il merito di aver intuito il problema quando questo non esisteva ancora nei termini drammatici di oggi. Se, da questa semplice osservazione, sarà possibile ricavare ulteriori spunti di riflessione rispetto a una realtà che certamente non è più quella del 1977 spetta ai lettori giudicarlo.

a.odiolibro_10491253_668492393256029_4414858388109203167_nPostfazione al volume La scuola dell’odio. Sette anni nelle prigioni israeliane di Bruno Breguet, a cura di Cristiano Armati (Red Star Press, 2015)

Lotta di classe e prospettive di salvezza: perché tanto odio? Perché abbiamo smesso di dire vogliamo tutto!

Ogni giorno masse di uomini e di donne aprono gli occhi e si scoprono a disagio con se stessi e con il mondo. Stanno male, ma non sanno dire bene il perché. Nel profondo del loro disagio, in realtà, si agita perenne lo spettro delle preoccupazioni economiche, l’ansia di non essere in grado di garantirsi un futuro degno di questo nome o quella, ancora peggiore, di non poter contribuire alla felicità dei propri figli o delle persone che amano; l’ansia, concreta, di non riuscire a pagare l’apparecchio per i denti al proprio bambino, di acquistargli gli occhiali di cui ha bisogno, di versare la quota per la gita scolastica o di saldare il tecnico che deve aggiustare la caldaia, quando il problema non è direttamente con il padrone di casa a cui si devono le minacce di sfratto. Una simile situazione, con il suo vissuto collettivo e la sua stratificazione generazionale, basta e avanza per rispondere alla domanda “perché tanto odio?” che possiamo farci osservando il crudele nervosismo da cui siamo assediati. Un “perché tanto odio?” di fronte al quale è facile restare attoniti se si ascolta la facilità con cui, tanto i politici quanto le persone della strada, augurano ai migranti di morire in mare o ai rom di essere bruciati vivi insieme ai loro figli. Che poi, a ben vedere, si tratta degli stessi politici e delle stesse persone della strada secondo cui gli omosessuali, ammessa e non concessa la libertà di coltivare nel privato la propria “perversione”, non dovrebbero avere alcun diritto di esporsi sulla scena pubblica e nemmeno il diritto di camminare mano nella mano o baciarsi, pena il legittimo risentimento di chi li osserva, e che se li aggredisce sono loro “che se la sono andata a cercare”. All’interno di questa linea di pensiero, tutt’altro che isolata, le stesse donne restano, se stuprate o uccise, quelle “che se la sono andata a cercare”… essendo “tutte puttane” a meno che non si parli delle proprie madri, sorelle o mogli, vale a dire a meno che tutte le donne non accettino di vivere all’interno di ruoli patriarcali nemici della propria voglia di esprimersi nei mille modi che ognuna può fare propri rispetto alle mille possibilità conosciute e a tutte quelle ancora da scoprire, cominciando, magari, proprio da quella possibilità che porta a denunciare la stessa “puttanofobia” come uno dei mali sociali da cui siamo irrimediabilmente afflitti. La domanda, in ogni caso, resta la stessa: “perché tanto odio?”. E la domanda si fa tanto più atroce quanto più ci si rende conto che la risposta, rispetto a quella massa di uomini e donne che tutte le mattine aprono gli occhi solo per scoprirsi in perenne disagio con se stessi e con il mondo, esiste da sempre. Tanto è chiara questa risposta, infatti, che i numerosi veli religiosi imposti a originarie rivendicazioni di carattere sociale e alle prospettive di libertà dei popoli oppressi, oggi – grazie all’insaziabile sete di capri espiatori da cui siamo animati – fa gridare all’estremismo islamico e lo addita come nemico pubblico numero uno, fa tranquillamente accettare persino la prospettiva di una guerra mondiale pur di non provare ad affrontare una semplice verità; pur di non provare ad articolare questa risposta primordiale. E questa risposta, censurata dalle sovrastrutture che accecano la coscienza di tutti, ha a che fare esattamente con quella tranquillità rispetto alla quale dovrebbe essere possibile affrontare il presente e il futuro e passa per una società dove la casa, la salute e la scuola siano la cornice di un percorso costruito in comune e garantito, insieme al diritto inviolabile al reddito e alla dignità, quando, al contrario, ci si ritrova in una situazione in cui è la stessa sopravvivenza – letteralmente – a essere messa in discussione. La risposta al disagio sociale ed esistenziale, al disagio che è esistenziale proprio perché è sociale, e che è sociale in quanto affonda le sue radici nell’economia differenziale in cui viviamo; questa risposta esiste da sempre e si chiama lotta di classe: vale a dire capacità di affidare alle proprie difficoltà responsabilità chiare, responsabilità figlie di quella divisione tra ricchi e poveri alla quale si è accettato di delegare l’accesso ai diritti più elementari e che, ogni giorno, condanna alla paura della morte fisica e sociale le stesse masse di cui stiamo parlando. Con la lotta di classe, quando la mattina si aprono gli occhi, non si ha voglia di affogare migranti, cacciare islamici o bruciare rom. Né, all’affannosa ricerca di un capro espiatorio, si viene rosi dalla necessità di sentirsi superiori agli omosessuali se eteresessuali, alle donne se si è uomini o ai neri se si è bianchi. Con la lotta di classe si stabilisce una volta per sempre che gli uomini e le donne sono nati uguali di fronte alla felicità di cui è intessuto il mondo, e ci si muove con l’obbiettivo di riconquistarla in tutte le sue forme e attraverso tutte le opportunità – molte ancora sconosciute – che sono capaci di offrirci le nostre menti e i nostri corpi. La lotta di classe è la strada del nuovo umanesimo in quanto uccide il capro espiatorio che ognuno sente la necessità di vedere nell’altro e perché indirizza l’odio direttamente alla fonte del male: verso il sistema padronale, fonte di abominio e di disagio generalizzato. Ognuno può scoprire autonomamente chi è che ha l’interesse di spostare questo odio dalla lotta di classe alle tante sfumature di presunta “diversità” di volta in volta additate come nemiche del popolo. E anche chiedersi come mai, dal razzismo all’uguaglianza di genere, persino quei diritti cosiddetti “a costo zero”, dal matrimonio gay allo ius soli, restano – in una società divisa in classi – tanto combattuti e tanto osteggiati da risultare negati a tutti gli effetti. La morale della favola? Difficile trovare mezze misure. Combattere il razzismo o la disuguaglianza di genere è l’obiettivo di qualunque vita degna. Ma per farlo davvero, alla domanda “cosa vogliamo?” bisogna inevitabilmente tornare a rispondere: “tutto!”.

Chi si è permesso di devastare Roma?

I tifosi del Feyenoord in trasferta a Roma fanno un po’ di casino in centro e Marino si incazza come un picchio. Il sindaco di Roma protesta con il Prefetto, il ministro degli Interni, quello degli Esteri e pure con l’ambasciatore dell’Olanda. Quante volte lo deve ripetere che non è che uno può venire a Roma e fare come gli pare? Per saccheggiare la città c’è una regolare lista d’attesa affollata di palazzinari, intrallazzatori, tangentisti, mafiosi e ladri di prima qualità. I tifosi olandesi non hanno nemmeno qualche palazzo in centro affittato a pochi euro al mese con gli impicci, come si permettono di parlare? Non possono competere neppure con la fondazione di Marino o con SEL, dove si presentano? A Campo dei Fiori hanno alzato la testa, è vero. Ma provassero a venire a prendersi la loro fetta di business tra i lupi delle cooperative che si spartiscono la torta dei soldi pubblici destinati ai residence o ai centri di accoglienza e poi vediamo se fanno ancora tanto i gaggi o se non si ritrovano tutti incaprettati in un attimo dentro a qualche sfascio fuori dal raccordo. E poi parliamoci chiaro, con tanti professionisti affermati a livello internazionale che derubano la Capitale e sventrano il suo territorio a tempo pieno, non è che un affare serio come il saccheggio può essere lasciato a un branco di dilettanti per cui lo stupro paesaggistico è solo un passatempo. E che cazzo.

La fabbrica dell’odio. La propaganda razzista sulla stampa italiana oggi

Certo che non deve succedere davvero niente ad Alessandria. Anzi, qualcuno dovrebbe prendere un treno e andare a controllare se per caso, da quelle parti, non siano tutti morti. Diversamente sarebbe difficile capire come sia possibile prendere due ragazzini di otto e dieci anni che si accapigliano sullo scuolabus e trasformare l’accaduto in una notizia da sparare in prima pagina. A riuscire nell’impresa di spacciare come notizia il puro nulla è “Il Piccolo” grazie a un “articolo”, firmato da tale Marcello Feola, che non si limita, con la sua banalità, a buttare altro inchiostro nell’indistinto mare del “chi se ne frega”, ma si contraddistingue per un’operazione di propaganda razzista degna… dell’Italia di Renzi, considerando che questi sono i tempi e questo è il paese in cui (soprav)viviamo.

Senza alcun ritegno, infatti, il sopracitato Feola scrive che: “Una bimba di 8 anni è stata picchiata da un compagno di scuola extracomunitario – di due anni più grande – sullo scuolabus”.

La “vittima”, quindi, secondo il Feola è una “bimba”, mentre colui che l’avrebbe colpita non è ugualmente un bambino, ma un “extracomunitario”.

Già questo, come evidente, basta ad innescare il meccanismo principe del razzismo: una linea di demarcazione dove sono sufficienti due parole per concentrare da un lato tutta l’umanità – la “bimba” – spogliando, al contrario, di ogni identità e di ogni termine utile a suscitare empatia ciò che viene artificiosamente dipinto come bestiale e pericoloso, non più il “bambino”, quindi, ma “l’extracomunitario”.

Non contento, il Feola rincara la dose dando la parola alla madre della “bimba” (l’extracomunitario, ovviamente, viene privato di ogni diritto di parola: per lui non ci sono familiari, amici, nulla; sola un’indistinta bestialità evocata dai gesti), che affranta esclama: “Come è possibile che sia potuta accadere una cosa del genere?”.

Lo stupore, ovviamente, dovrebbe riguardare ben altro: chiunque sia stato bambino e, con il passare degli anni, genitore, avrà un bagaglio sterminato di aneddoti per confermare come le baruffe tra ragazzini siano sempre state all’ordine del giorno. Fatti che in passato venivano affrontati “dai grandi” cercando di rispettare il buonsenso secondo cui le questioni tra ragazzini facevano bene a restare tra ragazzini, ora finiscono in prima pagina. E il giornale di Feola, per trasformare l’incidente in incitamento all’odio, abbandona il linguaggio colloquiale con cui inizia l’articolo per cedere la parola, strada facendo, alla terminologia medica, suffragando implicitamente grazie alla “scienza” la bestialità dell'”extracomunitario”: cioè di un bambino di dieci anni.

Si cita, quindi, il referto del pronto soccorso: “Trauma facciale e nasale – si legge – con infrazione del terzo medio delle ossa proprie del naso”; tutte parole senz’altro più paurose di quanto non sia il senso implicito in un banale cazzotto. Un atto che comunque non è certo destinato a restare impunito. Infatti, come si premura di farci sapere “Il Piccolo”, il certificato medico è “stato inviato d’ufficio, come sempre accade quando si tratta di atti di violenza che vedono coinvolti i minori, all’autorità giudiziaria”. Anche se poi, i gestori dello scuolabus, non hanno certo avuto bisogno di aspettare l’esito di un processo per emettere la loro condanna: “L’azienda dei trasporti, intanto, ha escluso dal servizio il ragazzino autore dell’incredibile gesto”.

Ad essere “incredibile”, ovviamente, è il fatto di riuscire ad accettare questo modo di fare giornalismo e di fabbricare le notizie. Un modo che, più che ad Alessandria – una città viva e vegeta, dove, per esempio grazie alla pratica delle occupazioni abitative, si lotta per i propri diritti mettendo in discussione lo stato di cose presenti – fa pensare direttamente al Ventennio e, più che a “Il Piccolo”, rievoca il modo di scrivere dei redattori de “La difesa della razza”. E, come sempre, citando M. L. King, a fare paura non sono le parole dei malvagi come il giornalista che ha scritto questo pezzo. Quello che spaventa davvero è il silenzio di chi di fronte a simili strumentalizzazioni dei bambini ha ancora la faccia di definirsi onesto.

 

Pagherete caro, pagherete tutto, pagherete tutti. Ovvero perché, in memoria di Wolinski, non sto con Charlie Hebdo

Posso dire di aver avuto, nella vita, la sorte e il privilegio di essere riuscito ad avere a che fare con Wolinski. Ed è accaduto grazie alle pagine di «Blue», dove io ero un giovane redattore, lui un mostro sacro che intrecciava a doppio filo la storia della satira italiana dei Pazienza, dei Tamburini (e parlo solo dei morti, visto che di morte parla questo pezzo), de «Il Male» e dell’ambiente autonomo e irriverente della Bologna del ’77 con la nuova tradizione francese del fumetto, quella nata dalla furia del Maggio e che, con Wolinski, stampava giornali che si definivano «cubi di porfido da lanciare contro il potere».

Quando, oggi pomeriggio, un mio vecchio collega mi ha chiamato per dirmi «hanno ammazzato Wolinski» non sapevo ancora nulla di quanto era successo a Parigi. Allora sono restato in silenzio, sconvolto. E poi ho aggiunto: «Chiunque sia stato ora è un mio nemico».

Volevo intendere, dicendo questo, che da ateo quale sono non ho nessuna predisposizione verso la retorica del pentimento o del perdono ma, al contrario, apprezzo il piatto freddo della vendetta, sul genere immortalato da slogan del tipo «pagherete caro, pagherete tutto». Ed ora sono proprio slogan di questo genere che vorrei usare per onorare la memoria del Maestro. Un bel «pagherete caro, pagherete tutto» e… pagherete tutti. Sì. Perché confesso di non aver seguito e di conoscere poco le polemiche sui presunti contenuti islamofobici di «Charlie Hebdo», ma riesco benissimo a vedere la strumentalizzazione, questa sì islamofoba e assolutamente antilibertaria, che personaggi più pericolosi di qualunque estremista islamico stanno facendo della tragedia parigina. Partiamo, per esempio, da Ferruccio de Bortoli che, da «CorriereTV», erre moscia in testa e frangetta sempre fresca di parrucchiere calcata sulla fronte, si è immediatamente fatto alfiere della «civiltà occidentale» e della «libertà di espressione», auspicando immediatamente l’innalzamento dei «livelli di guardia» e la tolleranza zero contro le «zone grigie», concludendo il sermone con il grido «siamo tutti Charlie Hebdo» prima di annunciare la pubblicazione sul suo giornale delle vignette satiriche del settimanale francese.

Ecco, ovunque sia de Bortoli, io non vorrei mai essere, e quindi ora non voglio stare neppure con Charlie Hebdo né con il relativo hashtag che sta impazzando sui social. Anzi, mi dispiace di non saper disegnare, altrimenti approfitterai immediatamente dell’illuminismo di de Bortoli in tema di libertà di espressione per raffigurarlo con il naso e la lingua ben piantata nel culo dell’Agnelli di turno, ricordando che dove c’è oppressione padronale e monopolio del grande capitale sui mezzi di informazione non può esserci nessuna libertà di espressione, altro che le vignette di Charlie Hebdo.

Un altro luogo dove non vorrei mai essere è qualunque luogo in cui si trovi il nostro presidente del consiglio, l’uomo mai votato da nessuno (ok, io comunque non ho proprio votato) Matteo Renzi. Anche lui si è affrettato a sottolineare la sua vicinanza al settimanale in cui lavorava Wolinski, specificando – magari prima di prendere un Falcon per andare a farsi fare un pedicure a Montecarlo – che «l’Europa ha il dovere di reagire». Certo, lui di «reazione» se ne intende: il massacratore sociale per eccellenza, l’uomo dello smantellamento dei diritti dei lavoratori, il servo dei palazzinari e dei banchieri, l’artefice degli sgomberi e degli sfratti generalizzati, il generale della guerra contro i poveri che stiamo subendo da troppo tempo… più reazione di così? Neanche al congresso di Vienna!

Ora, lontano da ogni ipocrisia, e rendendo rispettoso omaggio alla vena dissacrante del grande Wolinski, vorrei affermare tranquillamente che se a Renzi prendesse un colpo secco adesso (e attenzione, parlo di malattie assolutamente naturali: se ne va tanta gente brava, perché lui sta ancora qui?!?), ebbene sarei affranto davvero per il fatto di non saper disegnare, altrimenti farei un bellissimo ritratto di me stesso mentre piscio sulla sua tomba.

Qualora dovesse succedere, comunque, qualcuno può venire a farmi una fotografia.

Poi la mandiamo a de Bortoli e gli diciamo: «È la libertà d’espressione bellezza!».

Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte

LA MORTE DI STEFANO CUCCHI E LE ALTRE VITTIME DELLA LEGALITÀ IN ITALIA

Prendiamo un parlamentare come Carlo Giovanardi. Mettiamogli addosso quell’aria tipica di chi ha sempre impugnato il potere dalla parte del manico e riempiamogli la pancia con lo stesso ventre oscuro che, nel governo delle larghe intese di Matteo Renzi e del suo inquietante «Partito della Nazione», già «democratico», continua imperterrito a rappresentare.

Prendiamo un simile individuo e mostriamogli le fotografie di Stefano Cucchi, arrestato a Roma il 15 ottobre del 2009, tradotto in carcere e mai più uscito vivo. Mettiamo davanti ai suoi occhi il corpo di un Cristo-giovinetto, ridotto a uno scheletro di 37 chili. Ebbene, quelle stesse immagini, capaci di accendere di rabbia chiunque possa semplicemente dirsi «umano» in virtù della capacità di provare solidarietà, passando attraverso le lenti deformanti inforcate dall’ex democristiano e forzaitaliota diventano un giudizio senza appello: «Cucchi?», sentenzia Giovanardi, «è morto perché drogato» (cfr. «la Repubblica» del 9 novembre 2009)

Non sono mancate le persone perbene che, ascoltando simili bestemmie, hanno accusato il politico di infamità e sciacallaggio. Eppure il ragionamento di Giovanardi merita un’attenzione diversa, di tipo filosofico e morale. Ciò che Giovanardi opera, infatti, mentre definisce Stefano Cucchi «drogato», non ha soltanto a che fare con l’intorbidamento delle acque in cui la vicenda del giovane geometra nuota a livello processuale, né semplicemente con gli insulti necessari a processare e a condannare la vittima anziché i suoi assassini. Giovanardi, in modo cosciente e reiterato, opera un preciso atto di despecificazione: esclude, cioè, Stefano Cucchi e «quelli come lui» dalla comunità in cui sono inseriti, negando persino ai più elementari diritti umani di avere un qualche valore nei rapporti che la società «civile» intrattiene o è costretta a intrattenere con i soggetti despecificati.

Quando Giovanardi esclama «drogato», in sostanza, smette di parlare di Stefano Cucchi come di un ragazzo di Roma Est, amante del pugilato e con qualche problema di tossicodipendenza alle spalle, smette di pensare a una persona in carne, ossa, passioni e pulsioni, ma inizia a riferirsi a Cucchi quasi fosse un oggetto, un essere non pensante, una semplice cosa giunta chissà come a turbare una certa visione dell’ordine costituito e, per questo, meritevole di essere eliminata alla stregua di spazzatura.

Da qui, ovviamente, discende l’esplicito plauso di Giovanardi agli agenti, ai giudici e agli operatori sanitari responsabili del caso Cucchi, un piccolo esercito istituzionale che, al culmine di cinque anni d’indagini, dibattimenti e processi non può che cogliere i frutti della despecificazione di Stefano grazie a una sentenza che non lascia spazio al dubbio: tutti assolti; la morte del ragazzo di Tor Pignattara non è un omicidio, ma fa semplicemente parte dell’ordine naturale delle cose.

L’«ordine» e le «cose», d’altro canto, sono gli ingredienti immancabili di ogni processo di despecificazione: una sorta di cancro molto più esteso di quanto non faccia immaginare la sola, terrificante storia di Stefano Cucchi. Come si è difeso, per esempio, l’agente ripreso dalle videocamere a scalciare e a calpestare una ragazza inerme, «colpevole» di aver partecipato alla manifestazione indetta a Roma dai movimenti contro la precarietà e l’austerità il 12 aprile del 2014?

Le sue parole, pronunciate con il tono più ingenuo del mondo, saranno ancora nella memoria di tutti: «Credevo fosse uno zainetto» (cfr. «Corriere della sera» del 15 aprile 2014)

Questo affermò l’agente, ennesimo frutto dell’identico processo di despecificazione in grado di colpire un ragazzo di strada come Stefano alla stessa maniera con cui sono colpiti, e talvolta anche uccisi (un esempio per tutti: Carlo Giuliani) i militanti di un’opposizione sociale ormai completamente impossibilitata a riconoscersi, o a maggior ragione a delegare il proprio dissenso, a vecchie strutture politiche e/o sindacali, tutte ormai ricomprese in quel «Partito della Nazione» dove trovano spazio i presunti «democratici» renziani in compagnia dei Giovanardi di turno. Un assetto di potere che ricorre sistematicamente all’arma della despecificazione, costruendo il risultato ultimo della propria propaganda, cioè l’espulsione dei soggetti despecificati dal consesso civile, attraverso la programmazione di una serie di tappe intermedie, e precisamente: 1) individuazione dei folk devil, vale a dire dei «devianti» o presunti tali da utilizzare a mo’ di capro espiatorio a fronte dell’inasprarsi delle tensioni sociali e delle relative contraddizioni del sistema; 2) sistematica campagna diffamatoria ai loro danni; 3) varo di apposite leggi speciali, «utili» a fronteggiare un’emergenza che, alla resa dei conti, non passerà mai; 4) imposizione di una «legalità» utilizzata a mo’ di lista di proscrizione, un invito aperto alla repressione generalizzata del fenomeno preso di mira.

Per comprendere meglio questo percorso, si può senz’altro tornare sullo scandaloso caso Cucchi. La categoria di «devianza» utilizzata per giustificare l’omicidio di Stefano è quella di «drogato»; la campagna capace di scatenare la paura sociale non sulla droga in generale, ma sul contatto con la categoria di persone definibili tali al di là di ogni corrispondenza con un dato reale, è incessante; il semplice sospetto di possedere droga autorizza gli ufficiali di polizia giudiziaria a procedere con perquisizioni derogando dalla necessità di richiedere la relativa autorizzazione al magistrato ed eludendo in tutta tranquillità quello che dovrebbe essere un diritto costituzionale garantito a ogni cittadino.

Questa, nella fattispecie, è la legge speciale (cfr. Dpr 309/1990) responsabile della morte violenta di Stefano Cucchi. Ma è anche la strada imboccata sempre più spesso da un governo, quello del «Partito della Nazione», e da un intero sistema di potere, che continua a spacciare l’eccezionalità come norma, sospendendo il Diritto all’interno di ambiti sempre più estesi di vita pubblica e, in ultima analisi, riducendo masse di uomini e donne «a nuda vita», vale a dire, come nei campi di sterminio nazisti, completamente in balia dello sbirro di turno.

L’affermazione è forte?

Bisognerebbe chiederlo a Patrizia Moretti e parlare del barbaro assassinio di suo figlio, Federico Aldrovandi, assassinato a Ferrara da quattro agenti di polizia il 25 settembre 2005. Giovanardi ebbe modo di esprimersi anche sul corpo martoriato di Federico e anche in questo caso difendendo a oltranza gli agenti, coinvolti, secondo lui, una «fatalità» (cfr. «Il fatto quotidiano» del 26 settembre 2013). Mentre il Coisp, sindacato di polizia, ha avvertito in maniera talmente forte il clima di impunità che circonda le vittime della legalità da arrivare a importunare Patrizia Moretti sul suo posto di lavoro, senza che la cosa si concludesse con reali ripercussioni sulla carriera degli indegni capaci di tanto. Una sorta di nuova abitudine, quella inaugurata dal Coisp, subito adottata da altre sigle sindacali di polizia. Come il Sap, immediatamente pronto a festeggiare l’assoluzione degli indagati per l’assassinio di Cucchi come se si trattasse di un gol allo stadio e non della morte di un ragazzo. O come il Sappe, organizzazione degli agenti di polizia penitenziaria, che non appagata dalla sentenza di assoluzione arriva a querelare Ilaria Cucchi, sorella di Stefano.

D’altronde questa è la strada a cui porta la despecificazione. Gli assassini di Aldrovandi, se è per questo, avevano anche provato a giustificarsi sostenendo che Federico «sembrava un albanese» (cfr. «Il fatto quotidiano» del 9 novembre 2009). E quella dei migranti è un’altra, grande categoria di folk devil: demoni talmente spaventosi da generare, in tema di leggi speciali, quell’abominio che sono i moderni campi di concentramento detti CIE, per la prima volta dai tempi della Germania nazista luoghi in cui si può essere imprigionati non a causa di un reato effettivamente commesso, ma in virtù di una problematica burocratica inerente la regolarità dei propri documenti. I giornalisti delle testate più importanti, naturalmente, di fronte a tutto questo non perdono certo l’occasione per accaparrarsi la propria parte di vergogna e puntualmente, in cronaca nera, sottolineano sempre la nazionalità di chi ha commesso un delitto se il colpevole è un migrante. Ma è un effetto della globalizzazione. Prima i giornalisti si affannavano a specificare «calabresi» o «napoletani», ora ci si è allargati a «albanesi», «rumeni» o, magari, «senegalesi», come Chehari Behari Diouf, residente a Civitavecchia e freddato con una fucilata da un ispettore di polizia il 31 gennaio del 2009 al termine di un banale diverbio (cfr. «la Repubblica» del 1 febbraio 2009).

Gli esempi potrebbero sprecarsi e riempire un intero libro nero della polizia italiana. A tessere le fila insanguinate di questo discorso, da qualche tempo a questa parte, ci prova l’Associazione Contro gli Abusi in Divisa (Acad): una onlus organizzata dal basso e completamente indipendente forte di un numero verde (800 588605) a cui rivolgersi per trovare un sostegno legale e una possibilità di ascolto in caso di incontri troppo ravvicinati con appartenenti alle forze dell’ordine. Sono moltissimi i casi di vittime di abusi in divisa denunciati e sostenuti da Acad nel nome della verità e della giustizia. Ma il problema, come sempre, è politico, non certo di «ordine pubblico». Prendiamo il caso della persecuzione ai danni degli ultrà per esempio, una delle ultime forme resistenti e non omologate di aggregazione di massa. L’«ordine pubblico», in questo caso, ha consentito il varo, nell’indifferenza generale, di provvedimenti liberticidi come la «tessera del tifoso» o come l’estensione della flagranza di reato fino a quarantotto ore (!!!) dopo aver commesso i fatti contestati. Resta poco da stupirsi, allora, se quando ci scappa il morto questo sia proprio un tifoso di calcio, come Gabriele Sandri, assassinato lungo l’autostrada l’11 novembre del 2007. Chi prenderà mai le parti di un tifoso di calcio? Chi, di fronte alla diffamazione sistematica che colpisce la «teppa» dello stadio, non penserà che uno come Sandri, in fondo, non se la sia cercata?

I giudici, questo è evidente, non fanno parte delle eccezioni. Così quando i casi di vittime della legalità arrivano in tribunale i loro assassini o se la cavano o, comunque, finiscono per incassare condanne ai limiti del simbolico. Viceversa, le categorie demonizzate risultano permeabili e, con la loro indeterminatezza, hanno la tendenza a investire il corpo sociale nel suo complesso. Per questa ragione un ragazzo come Federico Aldrovandi ha potuto trovare la morte incrociando contemporaneamente la categoria di «drogato» e quella di «migrante»: perché i folk devil non finiscono mai negli archivi della storia, ma continuano a subire gli effetti della demonizzazione a cui sono sottoposti sovrapponendosi gli uni agli altri e, allo stesso modo, le leggi speciali che il loro allarme ha generato non finiscono mai per essere abrogate. La famigerata «Legge Reale», per esempio, in vigore dal 1975, continua a giustificare uno stato di eccezionalità risalente agli anni di piombo, colpendo indistintamente tutti i cittadini: basti pensare che, fino al 1989, sono stati conteggiati in 625 i casi di ferimenti e uccisioni direttamente connessi con la normativa in questione (cfr. 625. Libro bianco sulla Legge Reale, a cura del Centro di iniziativa Luca Rossi). Non che questo sia servito a invertire la rotta. Diventa materia di questi giorni l’accanimento con cui il governo Renzi continua a colpire l’opposizione sociale. Il caso più eclatante riguarda la persecuzione dei movimenti per il diritto all’abitare, investiti da un’apposita «Legge Lupi» che, tra le altre cose, con l’articolo 5, intima il divieto non soltanto di allacciare utenze vitali come luce e acqua, ma anche di prendere la residenza in stabili occupati. Sulla stampa, anche in questo caso, non trovano spazio le violazioni dei diritti umani insite nella normativa (migliaia di famiglie esposte alla possibilità di ritrovarsi senza acqua e luce) o i dubbi d’incostituzionalità del provvedimento (senza residenza diventa complesso o impossibile usufruire di cure mediche o iscrivere i bambini a scuola) né, ci mancherebbe altro, si fa mai cenno ai limiti che pure lo stesso diritto italiano pone alla proprietà privata nel momento in cui questa si oppone agli interessi generali (cfr. Art. 42 della Costituzione). Sui media mainstream, al contrario, trova spazio una serrata campagna contro le occupazioni abitative, e poco importa se si tratta di stabili abbandonati, vuoti, sottratti al degrado e alla speculazione: chi si mette in gioco in una prospettiva di cambiamento dell’esistente viene criminalizzato e trattato di conseguenza, incassando manganellate alla stregua di uno «zainetto» e/o condanne esemplari in sede processuale. La situazione, se non fosse drammatica, potrebbe anche essere considerata ironica. Se infatti si volesse rispondere con i fatti alla domanda su quale è stato, dagli anni Novanta fino ai giorni nostri, il gruppo responsabile dei delitti più gravi in Italia sarebbe molto difficile tirare in ballo drogati, militanti politici, migranti o tifosi di calcio ma si sarebbe costretti a parlare della «Uno Bianca», una banda completamente composta da poliziotti. Ai tempi, girava anche uno slogan: «La polizia italiana / non è mai stanca», recitava, «il giorno manganelli / la notte Uno Bianca». Sarebbe il caso di ricordarlo più spesso, questo slogan. Per iniziare a denunciare tutti i limiti e i pericoli insiti nel concetto di «legalità» e per capire come, quando la polizia è dappertutto, la giustizia finisca per non essere più da nessuna parte.

a.cucchi-cover_defCristiano Armati, Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte. La morte di Stefano Cucchi e le altre vittime della legalità in Italia, in Luca Moretti – Toni Bruno, Non mi uccise la morte. La storia di Stefano Cucchi, assassinato due volte dallo Stato italiano, Castelvecchi, 2014 (nuova edizione)

Pioverà

Pioverà.
E il fango, tracimando dalle fogne, affogherà i vostri figli negli asili a cui hanno avuto diritto in cambio di centocinquanta euro al mese dopo due anni di lista d’attesa.
Ne avevate due, di figli. E insieme non arrivavano a sei anni.
Pioverà.
Ma non basterà a lavare via le lacrime che versate per vostra moglie, morta annegata mentre andava a farsi visitare.
Cento euro di ticket li aveva già pagati. Poi ci sono voluti sette mesi per avere quell’appuntamento.
Pioverà.
E a uccidervi non sarà la morte. Ma le tangenti versate da un palazzinaro insaziabile a un politico corrotto.
Così uno ha spianato le montagne per fare spazio alla TAV, l’altro ha pippato tutta la notte e voi siete stati travolti dal fango mentre provavate a tornare a casa con la macchina nuova.
Peccato. Mancavano solo 75 rate e poi avreste finalmente potuto chiamarla “vostra”.
Pioverà.
Poi pioverà ancora.
Non aspettate la tomba.
Rivoltatevi ora.

 

Ha da venì Baffone. Gli occhi e le mani di una scelta editoriale

Se dovessi ridurre ciò che so della storia a quello che ho visto con i miei occhi, allora Sandro Pertini è il nonno che tutti avrebbero voluto avere, il vecchio partigiano che tra i reali di Spagna e il cancellierato tedesco se non fa il gesto dell’ombrello poco ci manca mentre, l’11 luglio del 1982, la nazionale italiana segna tre reti a quella della Germania Ovest e se ne torna a casa con la Coppa del Mondo.

a.PertiniAltro che le «notti magiche» di otto anni dopo, quando l’Italia, ospitando i campionati del mondo di calcio, dovette accontentarsi di decine di operai morti costruendo gli impianti, di una manciata di grandi opere inutili, di una mascotte orribile chiamata «Ciao» dai geni del marketing, di un fiume di tangenti finite nelle tasche dei soliti noti e pure di essere eliminata in semifinale dall’Argentina. Il 1982 resta un momento in cui ha un certo peso poter dire «io c’ero» visto che, titolo mondiale a parte, nel momento in cui Rossi, Tardelli e Altobelli infilavano la porta di Schumacher e Pertini esultava in tribuna, in Italia sarebbe stato difficile misurarsi con la realtà senza lasciarsi sopraffare dallo straniamento. In un lasso di tempo incredibilmente breve, infatti, nell’ideale passaggio di testimone tra decenni, la democristiana «strategia della tensione» sarebbe trasecolata in una non certo meno sanguinosa berlusconiana «strategia della finzione», e così l’eskimo avrebbe lasciato il posto al moncler, la funzione sociale delle piazze sarebbe stata assorbita dai centri commerciali e la massa, più che alle manifestazioni, ci si sarebbe stupiti di meno a vederla in coda davanti a un fast food. Benvenuti negli anni Ottanta, possiamo dire oggi, rievocando il mito della «Milano da bere» e osservando, come se fossimo in un laboratorio, l’ideologia del «lavoro-guadagno, pago-pretendo» andare a occupare spazi dell’immaginario precedentemente riservati a quei progetti collettivi di cambiamento dell’esistente comunemente detti «lotta di classe». Il «Drive in», dunque, e non Stato e Rivoluzione di Lenin. E il disimpegno, piuttosto che un diffuso attivismo politico e sociale, diventano il paradigma con cui misurarsi senza aspettare il 9 novembre del 1989 e la caduta del Muro di Berlino per celebrare la morte del socialismo, la sconfitta delle grandi narrazioni e il trionfo del capitalismo interplanetario: unico dispensatore di valori e sola guida del presente e del futuro… cioè, per restare nella storia e nella familiarità con la quale i vincitori la scrivono, sola guida anche del passato.

D’altro canto, questo fanno i vincitori. Nei momenti di trionfo innalzano verso il cielo archi e obelischi. Ma quando le cose vanno meno bene, quando il calendario segna sotto la data 2014 guerre più o meno sporche diffuse in tutto il pianeta, precarietà generalizzata di masse enormi di persone ovunque, catastrofi ecologiche in corso senza soluzione di continuità e regresso accertato di diritti a lungo dati per scontati (nel 2014, nel cuore dell’Occidente, si torna tranquillamente a morire di fame), ecco che la storia arriva in soccorso degli stessi vincitori, per affermare senza tema di essere smentita come le cose, se non sono andate sempre così, sono andate molto peggio quando non erano loro – i vincitori – a tessere i fili del discorso.

Eppure, nel 1982, il vecchietto che, viaggiando sull’aereo di ritorno dalla Spagna si faceva immortalare nell’atto di giocare a scopone in coppia con Causio contro Zoff e Bearzot, di discorso ne aveva fatto un altro, affermando, al cospetto del Senato della Repubblica: «Egli è un gigante della storia».

Era il 6 marzo del 1953 e Sandro Pertini si riferiva a Giuseppe Stalin.

*

Non saprei dire se assistere alla sconfitta della Germania Ovest avesse avuto per Pertini anche il sapore dell’ennesima rivincita. In fondo era contro le truppe di occupazione di quel paese che il partigiano, chiamando il popolo italiano intero all’insurrezione, aveva urlato: «Ponete i tedeschi di fronte a un dilemma: arrendersi o perire!».

a.ReichstagCerto, nel 1982 ricordare i giorni di fuoco vissuti da Pertini come da moltissimi altri all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale non era più né facile, né politicamente conveniente. Eppure è proprio l’esperienza della guerra partigiana antifascista che, nei decenni, aveva legato persino oltre la politica – considerando che il pertiniano Partito socialista di unità proletaria fu tutto tranne che bolscevico – un uomo come il Presidente della Repubblica italiana alla figura di Giuseppe Stalin e al miracolo compiuto dalla sua Unione Sovietica, capace di trasformarsi da paese sottosviluppato in potenza industriale nel giro di una manciata di anni e, grazie a questo sforzo, senz’altro conseguito a caro prezzo, capace anche di reagire all’esercito più maledetto e potente della storia, aggredendolo con le unghie, i denti e l’acciaio forgiato dai suoi operai fino ad annientarlo definitivamente, arrivando a far sventolare la bandiera rossa sul tetto del Reichstag di Berlino il 2 maggio del 1945.

La canzone degli Stormy Six, in seguito cavallo di battaglia della Banda Bassotti, sarebbe stata scritta soltanto nel 1975 ma sembra già di sentirla cantare nelle piazze di tutta Europa: «Sulla sua strada gelata / la croce uncinata lo sa / d’ora in poi troverà / Stalingrado in ogni città».

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a.Abdulkhakim-Isakovic-Ismailov-1917-2010
Abdulkhakim Ismailov

L’uomo che il 2 maggio del 1945 issa la bandiera rossa con la falce e il martello sul palazzo del Reichstag non è soltanto un soldato sovietico. Si chiama Abdulkhakim Ismailov e viene dalla remota regione del Daghestan. Già reduce dalla terrificante battaglia di Stalingrado, nel corso della «grande guerra patriottica» viene ferito per ben cinque volte, scegliendo sempre e comunque di tornare al fronte per combattere. E lui, morto nel suo letto il 17 febbraio del 2010 alla bella età di novantatré anni, è soltanto uno dei milioni di volti anonimi per cui scegliere di pubblicare oggi una selezione di opere scelte di Stalin può acquistare un senso forse inaspettato. Si tratta, in effetti, di provare a tracciare un percorso che ha poco a che fare con l’idea di «riabilitare Stalin» o, tantomeno, di esaltare le conclusioni a cui arriva l’autore di Questioni del leninismo. Un percorso che, al contrario, ripartendo dalla sorte dello stalinismo, mostra alcuni dei come e dei perché il patrimonio dell’intero movimento operaio internazionale sia stato aggredito e dilapidato fino al punto di essere ridotto alla stregua di un fossile, una canzone intonata da vecchi nostalgici mentre la nave del capitalismo affonda senza che nessuno trovi la forza necessaria a invertire la rotta. Dove saremo oggi se questa forza, settanta anni fa, non fosse stata nelle braccia di una moltitudine di Abdulkhakim Ismailov? E soprattutto, considerando il punto in cui siamo arrivati, rinunciando di riappropriarci di quella stessa forza, dove rischiamo seriamente di finire domani?

*

Spendiamo due parole per chiarire, oltre l’evidenza di ciò che viene messo nero su bianco, il contesto in cui si manifesta la necessità di curare una selezione di opere scelte di Stalin. Questa antologia, infatti, fa parte della collana «I Libretti Rossi», nata nel 2011 e, dopo una serie di vicissitudini editoriali, felicemente approdata alla Red Star Press. Al suo interno, fino a ora, hanno trovato spazio raccolte di citazioni e testi dedicati alla Resistenza, al risorgimento garibaldino, a Vladimir Lenin, Friedrich Engels, Fidel Castro e Mao Tse-tung. Volendo continuare fino a offrire una visione la più estesa possibile delle teorie e delle lotte nate sul fronte degli ideali di fraternità, giustizia e libertà, sarebbe stato possibile escludere l’Unione Sovietica, la Rivoluzione d’Ottobre e, di conseguenza, anche Giuseppe Stalin?

La domanda è retorica considerando ovviamente negativa la risposta che è stata data in sede di coordinamento redazionale e il relativo libro che stringete tra le mani in questo momento. Ma, a essere negativa, è anche la risposta a una domanda meno scontata, uno dei grimaldelli attraverso i quali negli ultimi settant’anni la demonizzazione di Stalin ha finito per coincidere con la demonizzazione dell’intera cultura rivoluzionaria, in tutte le sue forme e sfaccettature. La domanda sotto accusa, quindi, diventa: è possibile addossare a Stalin l’intero destino dell’Unione Sovietica insieme a tutte le scelte politiche compiute dallo stato socialista per difendere se stesso dall’aggressione fascista quando si è trattato di combattere le truppe tedesche e dal «nemico interno» quando l’attacco ha riguardato chiunque fosse sospettato di deviazionismo?

Qui l’Abdulkhakim Ismailov che pianta la bandiera sovietica sul Reichstag fa un gesto incredibilmente simile a quello compiuto dall’esultante Pertini nella finale Italia – Germania Ovest, scoprendo nei due quei «compagni d’una massa operaia. / Proletari di corpo e di spirito» capaci di schierarsi dalla parte giusta nella buona e nella cattiva sorte, senza sospettare che, nel 1990, il vecchio palazzo del Reichstag perdesse il diabolico portato simbolico che emanava dalle sue pareti fino al punto di tornare a ospitare le sedute del Parlamento della Germania, riunificata all’indomani della caduta del Muro.

L’atto, in quel momento, passò assolutamente inosservato. Un’amnesia collettiva allucinante che, se avesse riguardato la storia italiana, sarebbe stato possibile paragonare alla visione di un uomo politico a cui, dopo Mussolini, fosse stato concesso di arringare la folla parlando dai balconi di Palazzo Venezia a Roma. E questo non per gridare allo scandalo individuando un rapporto di continuità tra la Germania unita di Helmut Kohl e il Terzo Reich di Hitler (anche se l’evento la dice lunga sul cuore nero dell’Unione Europea), ma proprio per parlare della formidabile operazione di lavaggio collettivo dei cervelli e delle coscienze portato avanti immediatamente dopo la fine della guerra mondiale. Che la deriva nazifascista covi costantemente tra la cenere del capitalismo, rappresentando una modalità tipica della periodica ristrutturazione a cui è costretto, infatti, è cosa nota. Ma intanto, isolando e assolutizzando la figura di Stalin, estraendola dal suo contesto come si fa con un dente marcio dalla bocca, è stato possibile astrarre il singolo personaggio dalla massa enorme che ha sostenuto urbi et orbi la politica sovietica, facendo del comunismo in Russia non più il formidabile risultato del protagonismo delle masse diseredate, ma l’esito imprevisto delle azioni di un folle, una specie di satrapo orientale capace di impossessarsi dello sterminato territorio dell’ex Impero degli zar grazie a un’astuta e criminale combinazione di realpolitik e feroce repressione.

La stessa identica cosa, secondo gli autori di questa storia (cioè secondo i «vincitori»), sarebbe accaduta anche in Germania, dove Hitler diventa la controparte di Stalin, una figura altrettanto isolata e altrettanto avulsa dalla realtà sociale in cui si muove, un altro pazzo sanguinario protagonista, al pari del «dittatore» sovietico, di quella stagione drammatica chiamata «Novecento» e caratterizzata dal tentativo di ideologie totalitarie in fondo identiche come nazismo e comunismo di distruggere il sistema di preziose garanzie democratiche donate al popolo dai governi liberali.

Oltre a essere una bestemmia che grida vendetta di fronte agli uomini, la sovrapposizione di nazismo e comunismo attraverso la sovrapposizione di Hitler e Stalin, personalizzando in maniera ridicola eventi epocali e di massa (con buona pace del rigore della lettura materialista della storia, autentica conquista intellettuale a disposizione dell’umanità), ha reso possibile, per quanto riguarda la stagione dei fascismi europei, di evitare a intere collettività nazionali come quelle italiana e tedesca di fare realmente i conti con se stesse, di procedere come se nulla fosse con le mancate epurazioni dei personaggi chiave del fascismo e del nazismo dai ruoli di potere occupati e, in una manciata di anni, di essere riassorbite e integrate dagli ex nemici della seconda guerra mondiale nell’orbita atlantica, questa sì pronta senza problemi a «perdonare» fascismo e nazismo – che pure ha la responsabilità di aver generato – pur di non concedere nessun tipo di terreno al socialismo reale.

Al contrario, l’operazione di riduzione del comunismo a Stalin, insieme a tutta la retorica da «libro nero» sui crimini commessi sotto l’egida della falce e martello, non offre nessun credito alle differenze sostanziali tra Stalin e Trockij, non si interessa alle polemiche che separarono i bolscevichi dai luxemborghisti, non prende in esame le lacerazioni tra la frazione stalinista e gli esponenti della «nuova opposizione unificata» o le deviazioni tra impostazione leninista e interpretazione stalinista, non parla di anarchici, di spartachisti, di femministe, di comunisti cubani o titini ma, facendo di tutta l’erba un solo fascio, va ben oltre e, urlando «dagli al comunista!» con il fanatismo dei cacciatori di streghe, supera di gran lunga i confini dell’Unione Sovietica stringendo in un abbraccio mortale i movimenti di liberazione dei popoli oppressi, i militanti di base di ogni tempo e di ogni paese, la fondamentale rivoluzione epistemologica di Marx ed Engels fino ad arrivare, con un’azione senza precedenti di «despecificazione politico-morale», ad escludere dalla comunità civile e quindi a screditare, attaccare, imprigionare e, non di rado, anche a uccidere, chiunque mostri idee e stili di vita non omologati. Quale parola, in fondo, viene utilizzata dai benpensanti per radunare in un ideale campo di concentramento minoranze etniche e capelloni, fumatori di marijuana e omosessuali, attivisti dei centri sociali e intellettuali non allineati?

Sotto quale parola la pancia fascista dei regimi democratici e liberali riunisce lo spauracchio impersonificato da «froci, negri, drogati, capelloni ed ebrei»?

La parola è sempre la stessa: «comunisti».

*

Se devo dire come la penso su Stalin, confesso di considerare la vittoria ottenuta sull’esercito nazista con la conseguente affermazione dello stato sovietico come un fatto decisivo, in grado di sopravanzare le mie tendenze libertarie e di mettere in secondo piano le suggestioni trockijste assorbite studiando la vita e le opere dell’ex comandante dell’Armata rossa. Eppure non ho difficoltà ad affermare che tra le pagine de Il libro rosso di Stalin non c’è nessuna volontà di seguire Domenico Losurdo nell’impostazione e nelle conclusioni del suo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008). In questo testo, relativamente celebre (considerando che solo una nicchia legge questo tipo di pubblicazioni, ma questo è precisamente parte del problema), Losurdo prende in esame la figura di Stalin tentando di separare la storia dalla leggenda, ciò che è accaduto realmente in Unione Sovietica da ciò che sarebbe stato raccontato dalla propaganda anticomunista. Le intenzioni, dunque, sono senz’altro condivisibili, eppure, senza entrare nello specifico del lavoro di Losurdo o commentare i suoi esiti, la postura de Il libro rosso di Stalin non è quella assunta da qualcuno che si prepara a una formidabile guerra di cifre e documenti né, a maggior ragione, incarna lo spirito «burocratico» di chi, a colpi di citazioni, intendesse avere la meglio nell’ambito di un confronto dialettico sulla «vera» ortodossia marxista-leninista e su di chi meriti di ricadere un’eredità tanto illustre. Se per questo genere di scontri, infatti, può sempre esserci tempo, molto di meno è il tempo ancora a disposizione, se non per formare un vero «fronte unico» anticapitalista, almeno per provare a impostare un dibattito a partire da informazioni reali e non da notizie recuperate di terza mano e/o dalle stesse fonti di propaganda anticomunista.

Ecco, giunto alla soglia dei quarant’anni, la mia idea di tempo non fa più nessuna difficoltà a identificarsi nella forma di una clessidra. E se ogni singolo granello che, passando attraverso la strozzatura scivola irrimediabilmente nel bulbo inferiore, è prezioso come la vita stessa, diventa faticoso sostenere confronti con chi non ha mai pensato di alimentare le proprie opinioni dedicando alla verifica delle stesse i granelli di sabbia a sua disposizione. Senza scomodare il motto maoista secondo il quale «chi non ha fatto inchiesta non ha diritto di parola», insomma, Il libro rosso di Stalin potrà perlomeno sortire l’effetto di offrire una fonte di prima mano alla riflessione collettiva. E questo mi sembra già un primo, piccolo risultato.

Un secondo risultato, forse più importante, è di natura strettamente polemica e riguarda il diffuso atteggiamento di moltissimi che, pur collocandosi in un campo genericamente di sinistra, scuotono perennemente la testa in tutte le occasioni in cui, vuoi attraverso l’arma dello sciopero, vuoi grazie allo strumento dell’occupazione sociale o abitativa o in virtù del ricorso al conflitto di piazza, un movimento sembra indicare possibili strade al cambiamento dell’esistente. Che fare?

Questo particolare genere di «sinistri» lo sa benissimo. Se soffia il vento di rivolta, il loro compito è quello di scuotere la testa. Dotti come sono, citano il «complesso di Saturno» e, ricorrendo all’immagine mitologica del padre che divora i figli, teorizzano come inevitabile il destino di ogni rivoluzione: quello di essere tradita dall’istituzionalizzazione della stessa avanguardia rivoluzionaria senz’altro, «come Stalin», sempre, irrimediabilmente pronta a varare grandi purghe contro potenziali rivali nella corsa al potere e, per scrupolo, anche a imporre al popolo misure degne del peggior stato di polizia.

Risultato di questo diffuso modo di ragionare?

Meglio non fare mai nulla. Restare con le «mani pulite» anche se nel mondo tutt’altro che rivoluzionario o rivoluzionato in cui viviamo l’oppressione cresce, seconda soltanto alla disoccupazione, alla fame e a una qualità della vita sempre più bassa per tutte e tutti.

Di fronte a questi dati di fatto, personalmente, preferisco rischiare ogni sorta di cambiamento: non è l’opzione individualistica del coraggio, ma il riflesso oggettivo di un interesse di classe a impormelo. In virtù di questo stesso interesse, preferisco rischiare persino di ritrovarmi a portare il nome di Trockij o Bucharin nella Mosca degli anni Trenta, preferendo riconoscermi nel primo piuttosto che nel secondo ma avendo sotto gli occhi la realtà dei tanti proletari che, nell’Europa del 2014, si ritrovano già a fare da bersagli mobili alla guerra contro i poveri che la «crisi» del Capitale ha scatenato contro di loro.

Un altro punto, qui, vale la pena di essere sottolineato. Chiunque sogni un sistema capace di risparmiare all’individuo lo sforzo di esercitare il proprio libero arbitrio al cospetto dell’angoscia insita in ogni scelta, probabilmente, che lo sappia o meno, abita già il loculo di qualche cimitero. Ai vivi resta la responsabilità di scegliere e di schierarsi. E quindi di sporcarsi le mani.

*

Un altro libro, quello dell’ex maoista belga Ludo Martens, affronta Stalin in termini decisamente antitetici rispetto ai soliti, largamente utilizzati da quella formidabile arma del potere che è il luogo comune. Il lavoro di Martens, pubblicato in italiano dalla casa editrice Zambon nel 2004 e intitolato Stalin. Un altro punto di vista, esamina in oltre trecento pagine i temi caldi delle tesi antistaliniste passando in rassegna il testamento di Lenin, la collettivizzazione forzata, la burocrazia imperante, l’eliminazione della vecchia guardia bolscevica, il mito dell’industrializzazione e le presunte collusioni con la Germania. Un particolare estremamente interessante, però, Martens, partito in gioventù da posizioni notoriamente e accesamente antistaliniste, lo rivela già nell’introduzione quando afferma:

Tutte le organizzazioni comuniste e rivoluzionarie in tutto il mondo sentiranno l’obbligo di riesaminare le opinioni e i giudizi che esse hanno formulato sull’opera di Stalin dopo il 1956. Nessuno può sottrarsi a questa evidenza: quando, dopo trentacinque anni di denunce virulente dello «stalinismo», Gorbačëv aveva realmente eliminato tutte le realizzazioni di Stalin, si è constatato che Lenin era diventato di colpo «persona non gradita» in Unione Sovietica. Seppellendo Stalin, anche il leninismo è stato sotterrato. Riscoprire la verità rivoluzionaria sul periodo dei pionieri è un compito collettivo che compete a tutti i comunisti del mondo. Questa verità rivoluzionaria scaturirà dal confronto delle fonti, delle testimonianze e delle analisi. (…) La classe il cui interesse fondamentale consiste nel mantenere il sistema di sfruttamento e di oppressione ci impone quotidianamente il suo punto di vista su Stalin. Adottare un altro punto di vista su Stalin significa guardare il personaggio storico di Stalin con gli occhi della classe opposta, quella degli sfruttati e degli oppressi.

*

Tra tutte le narrazioni conosciute da chi scrive, quella che con più verità ha saputo guardare a Stalin «con gli occhi della classe degli sfruttati e degli oppressi» di cui parla Martens, non è contenuta, a mio parere, negli studi rigorosi di un saggista o nei comizi di un esponente del ceto politico ma appartiene alla voce sommessa di un «poeta contadino», il lucano Rocco Scotellaro. Giovane sindaco socialista di Tricarico, all’indomani della morte di Stalin Scotellaro scrive:

L’uomo che vide suo padre calzare

gli uomini e farli camminare

imparò da quell’arte umile e felice

la meraviglia di servire l’uomo.

L’uomo che crebbe nell’esule villaggio

imparò il coraggio di farsi riconoscere

e di crescere non lontano dai potenti della terra.

L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini

imparò dal fascino della notte

il chiarore del giorno.

Quell’uomo muore. Attorno attorno

alla ceppaia gigantesca che è

agili frullano i vivai che piantò nel mondo.

Ogni uomo che dà agli uomini amore profondo

e il pane e le scarpe e le case e le macchine

può dire chi era Stalin e la ragione del mondo.

Rocco Scotellaro
Rocco Scotellaro

Come il padre di Stalin, anche il padre di Scotellaro faceva il calzolaio. Ma non è questo il punto. Il punto è che credere di trattare Stalin, il comunismo e l’Unione Sovietica come elementi riducibili a un’indagine storica tutta di carta e di inchiostro, di risoluzioni emesse dal Partito e di inoppugnabili documenti, significa tagliare fuori dal discorso l’impatto impalpabile eppure potentissimo che la figura di Stalin ebbe sui lavoratori di tutto il mondo. Questo impatto, misurabile con la forza della suggestione e l’ampiezza dei ricordi che si ha la fortuna di aver vissuto prima che con il rigore delle fonti, ha disegnato una comunità internazionale di donne e uomini con la faccia sporca e le mani di pietra. Sono i lavoratori. Gli stessi che alle nostre latitudini si riconoscevano per gli occhi scintillanti di dignità e per un motto, una specie di grido di guerra, spontaneo e genuino, naturalmente antifascista e assolutamente impermeabile rispetto all’approccio intellettualistico che caratterizza tanta parte del dibattito su Stalin, la sua figura, la sua eredità. Quel motto, quel grido di guerra, quel confine internazionale in cui si raccoglieva una patria completamente alternativa alle mistificazioni nazionaliste, fatta di gente che con orgoglio di appartenenza posso dire «mia», affermava di «volere tutto» quando scandiva le parole «Ha da venì Baffone».

Ed essendo che personalmente non nutro alcuna ambizione nell’esercitare rispetto a questa comunità (tutt’altro che «immaginaria» vista la sua capacità di incidere sul reale) un’opzione politica capace di distinguermi dalla massa a cui sono sempre appartenuto, è per gli occhi e le mani di chi ha voluto e continua a «volere tutto» che Il libretto rosso di Stalin ha trovato una buona ragione di essere editato.

a.stalinPostfazione al volume Il libro rosso di Stalin. Storia, politica, rivoluzione: opere scelte del padre del socialismo sovietico, a cura di Cristiano Armati, Red Star Press

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