Lei era una bambina. E tanti anni fa avevamo passato un pomeriggio insieme a casa sua. Avevamo fatto i compiti di matematica. Poi il tempo è passato ed è arrivato fino a qua, alla Festa di Radio Onda d’Urto, a Brescia, dove una ragazza si è avvicinata allo stand della Red Star Press, ha preso un libro e stringendolo tra le braccia mi ha detto: «Questo ce l’ho, parla del mio papà».
Il libro era “Resisto! Dieci anni senza te, dieci anni con te”, il volume collettivo dedicato alla storia e alla memoria di Davide Cesare “Dax”.
Ci siamo abbracciati. E mi veniva da piangere. Allora scrivo adesso quello che a quella ragazza avrei voluto dire ma non ho detto: «Siamo tutti e tutte il tuo papà».
Categoria: Strane storie
Valerio: il tuo sapere, la nostra vita
Nel decennale della morte di Valerio Marchi, a fronte delle innumerevoli iniziative a lui dedicate e, soprattutto, alla stretta attualità del suo lavoro, si può davvero parlare di una «scomparsa» del grande «sociologo di strada» romano?
Polignano a Mare, 22 luglio 2006. Sono passati dieci anni da quel giorno. Quando, dal comune pugliese, la notizia iniziò a girare tra quel pugno di amici più intimi per allargarsi ai tanti che lo avevano conosciuto e quindi a quelli, ancora più numerosi, che lo avevano letto o sentito parlare. «È morto Valerio», diceva quella voce maledetta. E si riferiva a Valerio Marchi, l’autore di Teppa, il sociologo che aveva curato la pubblicazione di Ultrà, il libraio che aveva aperto e gestito per anni la «Libreria Internazionale» a San Lorenzo, il grande tifoso della Roma, il vecchio skin esperto di ska e di punk, il compagno antifascista, l’autonomo che aveva saputo cogliere e vivere in prima linea la sete di rivolta che albergava negli stadi e che, agli stadi e ai tifosi, era tornato a rivolgersi in un passo della sua famosa Lettera agli ultrà, per ricordare come «dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe».
Per sviscerare il contenuto profondo di questa sola frase non basterebbero decine di pagine né, le implicazioni contenute nel passo, potrebbero essere sciolte da un’unica esperienza di osservazione partecipante o da qualche mese di ricerca sul campo. E intanto altri spunti, altri contenuti disseminati nei libri di Valerio o affiorati grazie alle interviste concesse, continuano a spiegare e a offrire spunti di riflessione, invitando chi scrive oggi di Marchi e del suo lavoro a evitare accuratamente di declinare al passato la sua memoria, per affrontare piuttosto la stretta attualità, e di conseguenza il futuro, di cui l’opera di questo autore resta formidabile interprete e profetica anticipatrice.
Oggi, infatti, se esiste un luogo in cui il senso dei libri di Valerio Marchi può essere tradito, questo è il territorio della retorica nostalgica, del rimpianto rispetto agli “anni d’oro” del movimento ultrà e/o dei tempi in cui la lotta di classe e il conflitto metropolitano incendiavano cuori e piazze. Perché se questi sono i temi prediletti da chi «ha gettato l’ancora», leggere Valerio Marchi vuol dire, al contrario, essere dalla parte di chi «ci prova ancora»: a cambiare l’esistente, certamente, ma intanto a riappropriarsi di una lettura del reale che sia in grado di sbriciolare le lenti con cui “il nemico” impone i suoi discorsi, fonda i suoi poteri e legittima saperi addomesticati a usare e a consumare categorie utili soltanto a reprimere le insorgenze, sempre e comunque in costante corso.
Ecco, oggi, con i libri di Valerio sottobraccio, bisogna andare a Fermo, nelle Marche, e confrontarsi con il luogo in cui Amedo Mancini ha prima insultato una donna al grido di «scimmia africana», poi ammazzato il marito accorso in sua difesa. Soltanto la gente della strada, infatti, potrà avere i titoli necessari a contrattaccare prima chi ha osato definire Mancini «ultrà» e non «fascista» e poi, quando i servi del potere già gustano la loro vittoria ammirando gli striscioni con su scritto «siamo tutti Amedeo Mancini» apparsi sui muri di diverse città italiane, continuare a combattere per dire come no, non siamo affatto tutti Amedeo Mancini: il campo dell’onore in cui iscrivere valori degni di essere accettati nella strada come negli stadi, infatti, ingaggia la sfida con avversari meglio armati e, orgogliosamente, rivendica «preferisco essere sconfitto / nudo addosso a un muro / piuttosto che festeggiare la vittoria / protetto da uno scudo»; ci parla, il campo dell’onore in cui nascono gli eroi della strada, di un Carlo Giuliani e del suo estintore, da scagliare contro maniche di infami in divisa armati di pistola, e non certo di volgari aggressori di donne e rifugiati; ci parla, il campo dell’onore dove la working class mette in gioco le sue passioni, di una linea dove la parola d’ordine «divisi dai colori, uniti dai valori», è in grado di trasformare le scaramucce tra tifoserie avversarie in orde pronte a sfondare i cordoni dietro cui gli interessi padronali difendono se stessi: questo, e non altro, significa interpretare fino in fondo il rispetto per il proprio territorio e la propria appartenenza: «my class my pride», e dunque «con il razzismo non c’avete fregato / la colpa è del padrone / e non dell’immigrato».
Ancora, pensando a Valerio Marchi, vale la pena aggirarsi furenti tra le macerie dello scontro frontale tra i due treni che viaggiavano sul binario unico della linea Andria – Corato per cogliere un cambiamento epocale. Nel paese che a suo tempo non è stato in grado di interpretare, a livello collettivo e fino in fondo, le implicazioni politiche delle stragi di Ustica e del Cermis, e che dietro gli innumerevoli assassinii di massa provocati periodicamente dalle alluvioni, figlie delle tangenti pagate al dissesto idrogeologico dei nostri territori, si è troppo spesso limitato ad allargare le braccia con cattolica rassegnazione rispetto a una presunta volontà del «fato»; ebbene nel paese che in innumerevoli occasioni, quelle stesse braccia, le ha allargate anche per archiviare il continuo stillicidio di morti sul lavoro trincerandosi dietro l’ipotesi in fondo tranquillizzante della «disgrazia», questa volta, tra Andria e Corato, non ha più allargato le braccia, ma ha serrato i pugni, e ha puntato direttamente contro il governo la sua indignazione, parlando apertamente, e come è giusto, di «strage di stato».
Tra gli stessi lettori di Valerio Marchi, tra l’altro, soltanto una minoranza sa come sia proprio questo il campo in cui l’originalità del pensiero dell’autore – vale a dire la capacità di scardinare le cornici che impediscono di allargare l’analisi del contesto in cui prendono corpo i fenomeni di natura politica e sociale – abbia avuto modo di forgiarsi ed esercitarsi. Ci riferiamo, in particolare, al volume La morte in piazza, quando Valerio Marchi, indagando sulla strage di Brescia, fu tra i primi a interpretare correttamente lo stragismo fascista, inserendolo all’interno di quella «strategia della tensione» che tanta parte ha avuto e, in modalità diversa continua ad avere, nella storia contemporanea italiana.
Strategia della tensione, dunque. E moral panic, come Valerio Marchi spiega egregiamente in Teppa, raccontando del modo in cui, lungo tutta la storia dell’urbanizzazione e quindi dell’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, si siano sedimentate, intorno alla categoria del «giovane», status imperativi in grado di isolare, reprimere e condannare anticipatamente qualunque dissenso, sia questo insito nella condizione oggettiva dei soggetti o esplicitamente espresso da una loro esplicita presa di parola. In questo senso, quando si dice «giornalista terrorista» non si recita uno slogan, ma si scatta una fotografia se, guardando ancora ai fatti che si continuano a produrre a Fermo, a margine dell’arresto di Martino Paniconi e Marco Bordoni, accusati di una serie di attentati ai danni di strutture ricollegabili all’accoglienza dei migranti, assistiamo ancora una volta all’uso del termine «ultrà», collegato questa volta alla parola «anarchico».
Paniconi e Bordoni, dunque, sarebbero «ultrà» come Mancini, ma in più anche «anarchici». Il termine «ultrà», in questo contesto come in quello di Mancini, serve a ricondurre i fatti sul terreno della «devianza», impedendo una corretta visuale politica degli stessi. L’ultrà, in fondo, come spiega Marchi in Teppa, è uno dei folk devil per eccellenza, ma in altre occasioni, con il medesimo intento di spoliticizzare l’interpretazione dei fenomeni negando la conflittualità sociale connaturata agli stessi, altre categorie vengono in soccorso degli osservatori pronti ad addomesticare la realtà. Così, per esempio, quando Davide Cesare «Dax» e Renato Biagetti furono assassinati da fascisti armati di coltello a Milano e a Focene, alle porte di Roma, sui giornali entrambi i fatti vennero descritti come il tragico esito di «risse tra punk». Ma la voce «anarchico», insinuata dai giornalisti a proposito di Paniconi e Bordoni a Fermo, serve anche ad altro: crea un ponte psicologico in grado di trasferire la gravità dei fatti dal mondo dell’estrema destra, a cui tali fatti appartengono, direttamente al campo opposto, quello delle lotte sociali. E non a caso, all’indomani dell’arresto di Paniconi e Bordoni, in occasione dello sgombero, a Roma, dell’occupazione abitativa Point Break, a fronte di alcune bandiere antifasciste e di manifesti relativi ad assemblee pubbliche sul tema «decide la città» rinvenuti nella struttura, com’è stata definita tale occupazione?
I giornali, sulla scia della relativa velina della questura, non hanno avuto remora alcuna, e incuranti delle reali idee politiche degli occupanti hanno scritto «anarchici», stabilendo così un legame implicito, in grado di dare l’impressione che i bombaroli di Fermo e gli occupanti di Roma fossero un qualcosa di simile… poi, in virtù di qualche grammo d’erba, hanno completato l’opera descrivendo Point Break come «una centrale di spaccio» e i suoi occupanti come «drogati», altra classica categoria di folk devil buona per tutte le stagioni e sempre utile quando si vogliono negare le istanze che parlano, per esempio, di diritto alla casa e di lotta alla precarietà, affossandole dentro un discorso di ordine pubblico e di criminalità comune.
Simili ragionamenti, ispirati da una lettura dei libri di Valerio Marchi vicina all’esperienza quotidiana, servono a spiegare come questo autore, negli ultimi anni, sia stato più presente che mai in quella scena che, tra antagonismo politico e organizzazione controculturale, continua a interrogarsi sul come, vivendo e lottando all’interno delle periferie, sia possibile ribaltare il «mondo di sopra». Dal 2014, anno di riedizione per i tipi della Red Star Press in collaborazione con Hellnation di Roberto Gagliardi del volume Teppa. Storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, da Vetralla (Cantina del Gojo) a Napoli (Mensa Occupata), da Pisa (Comitati di Quartiere) a Porto San Giorgio (CSOA Trenino) e Taranto (Taranto Antifascista), da Bari (Ex Caserma Liberata) a Lecce (No Racism Cup), da Cosenza (CS Rialzo e Sparrow) a Roma (CS Macchia Rossa, Esc, Tre Serrande, VIII Zona ed Ex51) e Bologna (Gateway, A Skeggia e Noi Restiamo), sono state innumerevoli le iniziative dedicate a Valerio Marchi.
E, entrando nel decennale della scomparsa, mentre il CSOA Scurìa di Foggia (oggi purtroppo sgomberato) intitolava a Valerio Marchi la sala del suo infopoint, Il derby del bambino morto è stato ripubblicato a cura di Wu Ming nella collana Quinto Tipo delle Edizioni Alegre. Così, se per Red Star Press, La morte in piazza ha conosciuto una nuova edizione con la collaborazione di Brescia Antifascista e la ristampa di Ultrà ha visto la luce per l’etichetta gemella Hellnation Libri, il CUA di Bologna ha dedicato a Valerio Marchi uno dei partecipati dibattiti ospitati dalla rassegna «Parole nel Pallone» e il FOA Boccaccio di Monza ha organizzato nel segno dello stesso Valerio Marchi la rassegna «I bravi ragazzi vanno in paradiso, quelli cattivi dappertutto». Il cantautore comasco Filippo Andreani, da parte sua, parla anche di Valerio Marchi in E Roma è il mare, una delle canzoni più belle del suo ultimo disco, La prima volta. In vista dell’autunno, inoltre, si annuncia sia la pubblicazione di una monografia completamente dedicata a Valerio che la riedizione delle sue altre opere per Red Star Press insieme alla ripresa, in quel di San Lorenzo e a cura di Sportpopolare.it con la collaborazione del Cinema Palazzo e dello storico «rude pub» Sally Brown, del Festival delle Controculture, da sempre pensato in suo onore. Un florilegio di libri, di iniziative, di prese di parola che trovano la loro ragione nell’urgenza con cui Valerio Marchi seppe trovare per strada, nelle periferie, tra la teppa, insieme agli skin e negli stadi di calcio, un’opportunità prima che un «problema» – ma anche un filo rosso in grado di guardare avanti e persino di negare la morte, affermando come Valerio sia sempre stato qui perché, in realtà, non è mai andato via.
T’hanno scritto che sei romena e te fai pure le foto mentre sorridi?
Un giorno arrivo al bar e prima che apro bocca per farmi dare una canadese, Tremolina, che al bar ci abita, subito mi dice: «Hai visto che ha fatto Carpano?».
Se a Carpano fosse capitato qualcosa di veramente, veramente brutto, lo avrei capito subito. Perché accanto al nome della persona, Tremolina, come si fa in questi casi, avrebbe aggiunto la parola “poro”. Usare le parole per dire della morte porta male a chi lo fa, quindi non sarebbe servito andare oltre, sarebbe bastato dire “hai visto che ha fatto er poro Carpano?” e avrei capito; come aveva capito la barista, che la canadese la tira fuori dal frigo senza che io aggiunga nulla al solo fatto di essere là…
Che ha fatto Carpano?
Me lo chiedo con la canadese in mano e il mento all’insù, per invitare chi avevo di fronte a spiegarsi meglio.
«Giù al cantiere, stava a lavorà, un manovale rumeno j’ha fatto rodè er culo, che ne so… l’ha preso a pizze e questo è cascato giù dar ponteggio…».
Rimanevo ancora in silenzio. Allora Tremolina aggiunge: «Stavano a dodici metri, mica cazzi».
E poi: «So arrivate le guardie e se lo so’ portato via».
Tiro un sorso di birra dalla bottiglia: «Ah»; poi mi metto una mano sulla faccia. Anche nominare ciò che rende romani porta male. Fare il gesto che significa essere stato carcerato può bastare. Però no, mi confida Tremolina: «Se lo so’ tenuto a bottega mezza giornata e l’hanno riportato a casa. Me sa che j’hanno dato i domiciliari».
«Ciaveva moje e tre figli», dice la barista. Ma parla del manovale romeno. Tarpano, a quarant’anni, abita ancora con la madre, nessuno gli conosce una ragazza, ma che è uno che si incazza facile lo sanno tutti. Devi esse’ scemo pe’ fa a cazzotti a dodici metri: se lo piji, chi cìai di fronte lo ammazzi – o vai a morì ammazzato te, per carità. Per le guardie, comunque, deve esse stato un incidente e quindi niente gabbio. Mejo pe’ Carpano.
S’è fatta una certa. E dentro al bar suona la musichetta del telegiornale. Edizione della sera. Parla di una ragazza morta sotto la metropolitana. Dice che è stata una prostituta. Dice che l’ha ammazzata con la punta di un ombrello.
Che strano, penso.
Di film ne ho visti tanti, ma in nessuno c’è mai stato un assassino che va in giro a fare i morti con l’ombrello.
Che strano, penso.
Se uno fa il falegname, il farmacista, il giornalista, il pescivendolo, il facchino, il fabbro, l’agente immobiliare, l’impiegato, il giocoliere, il tabaccaio, il contadino, il cavolo che gli pare, mica lo dicono falegname, farmacista, giornalista, pescivendolo, facchino, fabbro, agente immobiliare, impiegato, giocoliere, tabaccaio, contadino o il cavolo che gli pare se c’è un arresto.
Che strano, penso.
Se uno è italiano mica lo dicono se c’è un arresto.
Una volta sì, lo facevano. Dicevano calabrese, leccese, siciliano, foggiano e napoletano, pure se uno era di Salerno, di Avellino o di Caserta. Adesso hanno smesso. Dicono romeno se è bianco o senegalese se è nero.
E se dicono romeno o senegalese, poi è dura che aggiungano che «è stato un incidente», non importa più quello che è successo.
E infatti nemmeno questa volta lo fanno. Passano i giorni e di questa ragazza che chiamano prostituta si viene a sapere che ha preso la condanna più dura di tutta la storia della Repubblica italiana per un omicidio preterintenzionale. Al bar, se dici che a questa – che la chiamano prostituta – se la so’ bevuta così male, ai politichi che rubbeno, allora, che toccherebbe da’ faje?; tutti fanno a gara pe’ aggiunge che ce vorrebbe ‘n sacco de benzina co’ li politichi, pe’ daje foco a tutti insieme alla mejo anima de li mortacci loro…
Quella che chiamano prostituta intanto ‘sta al gabbio.
Poteva fa la fine de Carpano, che il reato mica era tanto diverso, però a lui non je l’avevano scritto sul giornale che era romeno.
Carpano, sul giornale, non ce l’hanno proprio messo. La ragazza che chiamano prostituta sì, e lei era finita pure in televisione se è per questo. Infatti, una volta che è uscita in semilibertà, si è fatta una foto al mare mentre sorrideva e così se la so’ bevuta n’antra volta.
Aoh, ma che sei de coccio?
T’hanno scritto che sei romena e te fai pure le foto mentre sorridi?
Prima gli italiani.
Che cosa significa?
Teso come il filo di uno stendipanni, un ragazzo indugiava davanti alle piante esposte al chiosco del fioraio. Combattuto tra la voglia di fare bella figura e quella di spendere poco, trasudava un imbarazzo completamente estraneo alle mutande appese a prendere il sole.
Cosa significa?
Niente. Ho appena visto un tipo così e ne sono stato colpito. Potrei scriverci un racconto o addirittura un romanzo con un simile incipit, no?
Ma visto che tanto ora c’è Facebook, ci sono i blog e ci sono i social network questa storia finisce qui.
Scritto sotto la forca: il ritorno di un capolavoro censurato dai tempi che corrono
Siete stati condannati a morte, ma non sapete quando la sentenza verrà eseguita. Però avete qualche foglio di carta velina e un mozzicone di matita. La vita siete consapevoli di esservela lasciata alle spalle nel momento in cui la Gestapo vi ha tratto in arresto eppure, anche tra il dolore atroce delle torture che avete subito, non avete dubitato neppure per un attimo di essere parte di un futuro di giustizia e libertà. Ora, quanto tempo passerà prima che il boia giunga a infilare il vostro collo in un cappio? Un’ora, un giorno, un mese? Non ha nessuna importanza. Ci sono i fogli di carta velina e un mozzicone di matita. E ai nazisti che si illudono di potervi strappare l’anima non smettete neppure per un attimo di ricordare che voi siete vivi e che i morti sono loro. Lo fate con un libro che è un capolavoro assoluto. Si intitola “Scritto sotto la forca” e lo ha scritto Julius Fučík, militante comunista ed eroe della Resistenza cecoslovacca. C’è stato un tempo in cui un simile libro consentiva a chi lo leggeva di fremere di indignazione e di trasformare la sua rabbia in impegno, quindi in azioni capaci di produrre cambiamenti: un filo rosso che legava l’autore ai suoi lettori in un sentimento simile a ciò che altri hanno definito “immortalità”. Poi quel filo si è spezzato, uno scrittore-partigiano come Fučík è stato dimenticato e così, se una volta eravamo nani arrampicati sulla schiena dei giganti, ora siamo nani che hanno iniziato a scavare sempre più in profondità quando già si credeva di avere toccato il fondo. A cosa abbiamo rinunciato dimenticando Fučík? A un’opera-cardine del canone di un’Europa orgogliosamente antifascista, che ha smesso di definirsi tale spacciandosi prima come “democratica” e poi rinunciando a qualunque questione ideologica: quello che conta è reprimere con la massima violenza possibile affinché gli stessi personaggi che incoronarono l’ascesa di Hitler o di Mussolini, le stesse ditte che si arricchirono costruendo forni crematori o grazie alle commesse di guerra, possano oggi continuare a devastare, saccheggiare, fare la guerra e fatturare… per questo un libro come “Scritto sotto la forca” non si stampava più, non si leggeva più, non faceva più discutere. Almeno fino a oggi. Mentre “Scritto sotto la forca” di Fučík ritorna e afferma che i libri non sono tutti uguali. Alcuni sono merce da consumare. Altri sono micce da accendere. A ciascuno la scelta.
*
Julius Fučík
SCRITTO SOTTO LA FORCA
Memorie di un condannato a morte della Resistenza antinazista
Il volto di Julius Fučík, come la sua firma, spesa per fomentare la ribellione contro l’invasione nazista della Cecoslovacchia, erano ben conosciuti dalla polizia hitleriana. Un motivo che avrebbe convinto molti ad abbassare la testa, a cercare di nascondersi, a fuggire, a fare qualunque cosa pur di non ritrovarsi tra le mani della Gestapo. Fučík, però, fa una scelta diversa. E in qualità di responsabile della stampa clandestina moltiplica i suoi sforzi a vantaggio del Partito Comunista e della resistenza cecoslovacca, convinto che nulla, nemmeno la propria vita, poteva essere più prezioso di un futuro dove la distruzione del nazismo sarebbe stata identica a una necessaria rivoluzione sociale. Arrestato a Praga dalla Gestapo nel 1942, il giornalista-partigiano viene torturato a lungo e brutalmente, è ridotto in fin di vita eppure non parla. Altri continueranno la lotta dopo di lui, fino alla vittoria, mentre per Fučík lo spettro della forca si avvicina. All’eroe della resistenza cecoslovacca non resta molto da vivere, ma può contare su un mozzicone di matita e su un mucchietto di sottilissimi fogli di carta velina. Ed è a questi fogli che Fučík consegna il suo capolavoro: un libro terribile e meraviglioso; un atto di amore nei confronti dell’umanità futura e, allo stesso tempo, per il nazismo, una condanna a morte senza appello.
Julius Fučík: figlio di un operaio metalmeccanico, nasce a Praga nel 1903 e, a soli dodici anni, collabora già con il periodico «Slovan». Nel 1921 s’iscrive al Partito Comunista Cecoslovacco, continuando a interessarsi di arte e letteratura. Membro della resistenza antinazista, viene arrestato dalla Gestapo nel 1942 e, dopo terribili torture e un processo-farsa, trasferito a Berlino, dove viene giustiziato l’8 settembre del 1943. Tradotto in decine di lingue, Scritto sotto la forca (Red Star Press) è considerato all’unanimità il suo capolavoro.
Piero Bruno: passione e morte di uno studente comunista
22 novembre, giornata storta. Il cielo grigio promette la pioggia e il vento se la prende con chi passa per le strade di Roma, quasi urlando che è meglio per tutti restare a casa. Ci sono giorni, però, in cui la libertà non accetta di restare casa. Non lo accetta l’8 giugno del 1960, tra Catete e Bengo, quando alla notizia dell’arresto di António Agostinho Neto una folla di sostenitori del Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola (MPLA) si mette in marcia reclamando il rilascio del loro leader. E non lo accetta nemmeno in Italia, il 22 novembre del 1975, mentre un corteo di duemila persone affronta il freddo intenso per chiedere a gran voce il riconoscimento dell’indipendenza della nazione africana, uscita vincitrice dal confronto con il regime coloniale portoghese.
L’8 giugno del 1960 l’esercito di occupazione del dittatore lusitano António de Oliveira Salazar aveva aperto il fuoco sulla folla ammazzando trenta persone. A Roma, quindici anni dopo, dalla testa del corteo che si snoda tra piazza Santa Maria Maggiore e piazza Navona si sgancia un gruppetto di giovanissimi militanti di Lotta Continua. I duemila che hanno preso parte alla manifestazione continuano a gridare slogan contro l’imperialismo e a salutare, nell’Angola di Neto, un altro paese in cui il marxismo ha consentito di portare al potere un rappresentante del proletariato. Le parole d’ordine della manifestazione sono musica per le orecchie dei ragazzi che imboccano via Muratori: lì, all’incrocio con largo Mecenate, c’è il cancello dell’ambasciata dello Zaire, uno Stato che attraverso il governo del feroce Mobuto sostiene per conto degli Stati Uniti le forze che si oppongono ai movimenti popolari in Africa centrale. Nell’animo di quel pugno di manifestanti c’è la volontà di andare oltre gli slogan e per questo, istruiti dal servizio d’ordine di Lc, alcuni giovani stringono tra le mani biglie d’acciaio e bocce piene di benzina, l’ingrediente necessario per portare a termine un’azione dimostrativa; una “fiammata”, come si diceva negli anni Settanta, da accendere in faccia ai nemici della Repubblica popolare dell’Angola per fare arrivare fino in Africa il rumore del Movimento e la sua solidarietà.
Idee ambiziose, quelle che girano per Roma il 22 novembre. Idee destinate a restare sull’asfalto. Perché quando il gruppo di ragazzi arriva a intravedere il portone dell’ambasciata dello Zaire si sente gridare: «Eccoli! Eccoli!».
Non c’è nemmeno il tempo di indietreggiare. Un gruppo di poliziotti e carabinieri, appostato nelle vicinanze, inizia a sparare. Le bottiglie incendiare volano senza procurare danni. Viene lanciato qualche sasso e due macchine, trascinate in mezzo alla strada, sono rovesciate per evitare una carica. Per difendersi è troppo tardi: due manifestanti sono feriti alla testa ma, miracolosamente, riescono a mettersi in salvo rientrando nel corteo; un terzo, colpito alla schiena, si accascia: il suo nome è Piero Bruno. Sulla sua carta di identità c’è scritto che è nato a Roma l’8 dicembre del 1957.
Piero abita alla Garbatella insieme ai genitori e a due sorelle. Studia da elettrotecnico e ama tante cose: la musica, le immersioni subacquee e Barbara. La mattina varca il portone dell’istituto tecnico industriale Armellini, per il resto, oltre a frequentare la sezione di Lotta Continua della Garbatella: «Faceva ciò che era giusto fare: autoriduzioni nei lotti popolari, gruppi di studio per evitare bocciature, cortei, collettivi».
In via Muratori, Piero è solo un corpo che urla di dolore: qualcuno gli si avvicina tentando di metterlo in salvo ma neppure adesso, quando è palese che nessuno è più in grado di nuocere in alcun modo, viene dato l’ordine di far tacere le armi. Il soccorritore viene colpito a un braccio e le pallottole infieriscono ancora sul ragazzo steso a terra ferendolo nuovamente, questa volta al ginocchio. Tanto basta ai tutori dell’ordine per sentirsi finalmente padroni della situazione. Un agente senza divisa esce allo scoperto e il modo in cui tratta Piero non sfugge allo sguardo allibito di una signora affacciata alla finestra di casa sua, in via Muratori:
Ho […] sentito che il ragazzo disteso per terra di lamentava e contemporaneamente ho visto un uomo in borghese sbucare attraverso i poliziotti che si è avvicinato di corsa al ragazzo, disteso per terra urlando, presso a poco «Ti pare questo il modo di ammazzare un collega» e ancora, «Cane, bastardo, carogna», ho quindi visto che l’uomo ha puntato la pistola verso il ragazzo disteso per terra, urlando «Ti ammazzo» e ho sentito il clic del grilletto. Il ragazzo ha gridato «No» ed ha fatto il gesto di coprirsi il volto con le mani. Quindi l’uomo, chinandosi sul ragazzo gli ha detto «ma io ti ammazzerei veramente» e lo ha scosso (dichiarazioni rese da una testimone alla competente autorità giudiziaria, 1975).
Piero Bruno, in realtà, non ha ammazzato nessuno. Eppure gli insulti non sono l’unica forma di mistificazione praticata quel pomeriggio dalle forze dell’ordine. L’ospedale San Giovanni è vicinissimo al luogo dell’agguato ma, anziché correre al pronto soccorso, si preferisce trascinare il ferito per decine di metri per fare in modo che il suo corpo finisca molto più vicino all’ambasciata dello Zaire e dare l’idea che i proiettili lo abbiano raggiunto mentre attaccava la polizia e non, come è accaduto, mentre tentava la fuga. Gli stessi bossoli, esplosi in una quantità così numerosa da formare un tappeto lungo la strada insanguinata, vengono raccolti in fretta: l’esatto ammontare del loro numero, in questo modo, non potrà mai più essere appurato.
Intanto si perde tempo prezioso. Sono soltanto le venti e trenta quando, con i proiettili in corpo e addosso il pallore dei morti, Piero Bruno entra in sala operatoria. Per “sicurezza” la polizia lo piantona come se fosse nelle condizioni di poter scappare da un momento all’altro. E lui, con un filo di voce, ha ancora la forza di sussurrare: «Ci penseranno i compagni a vendicarmi…».
Sono le sue ultime parole. Piero riesce a superare la notte ma, dopo due interventi chirurgici e il sopraggiungere di un blocco renale, nel pomeriggio del 23 novembre del 1975 smette di respirare. Gli mancavano soltanto quindici giorni. Poi avrebbe festeggiato il suo diciottesimo compleanno.
*
Ma chi ha ucciso Piero Bruno?
Quando questa domanda viene posta in relazione al nugolo di militanti di sinistra uccisi dalla polizia la risposta più caratteristica è il silenzio mentre depistaggi e forzature giuridiche sono la regola più che l’eccezione della via giudiziaria alla ricerca della verità su chi muore per motivi di “ordine pubblico”.
Il caso di Piero Bruno, da questo punto di vista, è diverso dagli altri ma allo stesso tempo più atroce. Molto semplicemente, infatti, è stato possibile risalire all’identità dei militi che, agli ordini del vicequestore Ignazio Lo Coco, aprirono il fuoco il pomeriggio del 22 novembre 1975. I loro nomi, con le loro testimonianze, sono ancora lì, insieme ai buchi sui palazzi di via Muratori, tra le carte di un’inchiesta aperta dalla Magistratura per fare luce sul caso.
Si tratta del sottotenente dei carabinieri Saverio Bossio: «Ho esploso due colpi di pistola in direzione di un gruppo di persone col volto coperto che si trovava alla fine di via Muratori dalla parte del quadrivio».
Della guardia di pubblica sicurezza Romano Tammaro: «Mi sono avvicinato a loro sulla destra, ed ho visto un ragazzo a terra e due che lo trascinavano. Ho preso la pistola ed ho esploso dei colpi a scopo intimidatorio. I colpi erano diretti a terra».
E del carabiniere Pietro Colantuono: «I colpi che ho sparato, stando in piedi, li ho esplosi con l’avambraccio ad angolo retto rispetto al braccio, e quelli che ho esploso da terra, con l’avambraccio verso l’alto sempre in direzione del gruppo di giovani».
All’appello manca soltanto un altro personaggio, il più importante e, in un processo virtuale, senz’altro l’imputato principale. Si tratta di Oronzo Reale: il ministro degli interni a cui si deve la paternità della legge che porta il suo nome.
La Legge Reale, approvata il 22 maggio del 1975, concede alle forze dell’ordine di utilizzare le armi da fuoco con estrema disinvoltura, rende possibile la perquisizione personale senza l’autorizzazione di un magistrato, prescrive l’arresto per chiunque sia trovato in possesso di “armi improprie” (lasciando alle forze dell’ordine la discrezionalità di decidere cosa possa essere considerato arma impropria) e reintroduce la misura del soggiorno obbligato per ragioni politiche già in auge nel periodo fascista. Le conseguenze di queste misure sono note: soltanto tra il 1975 e il 1990 sono almeno 685 le persone uccise sulla base della legge Reale e, tra queste, almeno 208 sono risultate colpevoli soltanto di non essersi fermate a un posto di blocco o, più tragicamente, si essersi trovate nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Qualsiasi momento, cioè, in cui la polizia perde la testa e spara.
Con questi presupposti la sentenza di archiviazione pronunciata dal giudice istruttore in relazione alla morte di Piero Bruno nel 1976 è poco più di una formalità. A nulla serve un collegio difensivo che, nel tentativo di fare chiarezza sull’omicidio del ragazzo, arruola il senatore Umberto Terracini e Giuseppe Mattina, uno dei fondatori di Soccorso Rosso. Nelle aule in cui venne discusso il caso furono sostenute le teorie più assurde, come quella di un colpo di pistola che rimbalza sul terreno e, colpendo il ginocchio di Piero Bruno, impegnato in una torsione mentre lancia una molotov, si incunea nel suo corpo fino a risalire lungo la spina dorsale lacerandogli l’aorta. Una battuta di Dario Fo legata alle tante morti violente di quegli anni recita: «Non è la polizia che spara per uccidere, sono gli studenti che volano».
Ma c’è poco da ridere. Assolvendo i poliziotti che spararono a Piero il giudice sentenzia: «Se per gli interessi superiori dello Stato, congiuntamente alla difesa personale, si è costretti a una reazione proporzionata all’offesa, si può compiangere la sorte di un cittadino la cui vita è stata stroncata nel fiore degli anni, ma non si possono ignorare i principi di diritto».
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La storia, per fortuna, non si fa nelle aule dei tribunali. E se gli stessi giudici, avvolti nelle loro toghe lucide e nere, possono essere inappuntabili quando si tratta di applicare alla vita quotidiana le regole della legalità, la giustizia resta comunque un’altra cosa. Che si tratti di sensibilità, di utopia o di «istinto di classe», nella sentenza che archivia il caso di Piero Bruno di giustizia non c’è traccia. Per recuperare questo sentimento, lo stesso in cui eccellono i folli e i bambini, bisogna cercare altrove. Nelle parole «tu vivrai», per esempio. Cioè in un verso della poesia La libertà è un sogno scritta da Antonio Pinto, un soldato impegnato nella guerra d’indipendenza angolana commosso alla notizia di un compagno morto per la sua stessa causa in un Paese tanto lontano:
La libertà è sogno / sogno colmo di desiderio / lungo cammino di guerra e d’amore / percorso da gente di ogni terra / cammino di proletari, di guerriglieri.
È volontà ferma / di chi soffre, di chi vince / sul cammino del futuro, che è nostro.
Libertà è grido / è grido che tu hai gridato / arma che tu hai impugnato / sete che non hai saziato / vita che hai perduto.
Vermi ti rubarono la vita / vermi si nutrono ora del tuo corpo.
Ma tu vivrai!
E viva sarà la volontà nei cuori / che un altro mondo e gente vedranno / oltre il tuo esempio luminoso / vivrai!
Di te che lontano sei caduto per la nostra causa questo ci resta: / la libertà non è di un solo popolo / da te ci viene la forza / perché la lotta continui / fino alla vittoria finale.
Ancora nel corso delle celebrazioni per il trentennale, alla Garbatella si inaugura il murales realizzato dal CSOA “La Strada”: un affresco dove, al volto di Piero, si affianca quello di Carlo Giuliani, ucciso nel corso della protesta organizzata a Genova contro il G8 del 2001.
Si tratta di una connessione che non è dettata soltanto dal destino che, a distanza di tanti anni, riesce a iscrivere il nome di Piero Bruno e quello di Carlo Giuliani nello stesso libro nero della giustizia negata, ma anche dalla volontà di affermare la forza di una tradizione importante e fin troppo spesso dimenticata. La stessa tradizione che negli anni Settanta, per capire i propri morti, ricorreva alla memoria della Resistenza e che, se si trattava di parlare di ragazzi come Piero Bruno, non aveva dubbi: “nuovi partigiani”; questo è il loro vero nome.
La faccia della fiducia
Strana questa statistica sull’affidabilità, ho fatto le stesse domande al bar della coltellata vicino a dove abito e, parlando di notai, il discorso è finito subito, che “chi non è bono a chiude co’ ‘na stretta de mano vor dì che è ‘n mezzo ‘nfame. Allora artro che’r notaro, je ce serve ‘a spiritosa”.
Per quanto riguarda poi la fiducia, al primo posto si sono piazzati i rapinatori, “perché ce se po’ fidà de chi va a saltà ‘n bancone”, tallonati dai ladri, “quelli che vanno a lavorà ai Parioli, famo a capisse”, seguono a una certa distanza i pusher, perché un lavoro sicuro è vero che ce l’hanno, però “vabbè, so’ affidabili finché je conviene, ma a spigne so’ boni tutti”.
Ho provato a domandare delle forze dell’ordine, ma uno m’ha guardato brutto e ha sbraitato “forze dell’ordine lo dici a tu’ sorella”, allora ho lasciato perde. Pe’ vede’ dove se sarebbero piazzati banchieri, politici o assicuratori, lo confesso, m’è mancato er core.
Ogni volta che mi convocano in Questura
Ogni volta che mi convocano in Questura ne approfitto sempre per fermarmi dal vecchio Garibaldi. Il foglio firmato dall’incaricato di turno in tasca, esorcizzo le brutte parole che gli uomini in divisa dicono di me con la carta ammuffita dei libri vecchi e i ricordi di quando gli editori trattavano direttamente con i bancarellai, visto che ancora non esistevano né i promotori né i distributori. Tra piazza della Repubblica e la stazione Termini, c’è sempre qualche volume di autori che nessuno stampa più, dedicato a temi e soggetti che avrebbero fatto il loro tempo e che ora se ne stanno là, stipati in chioschi come quello di Garibaldi, insieme a pile di vecchie videocassette porno, a vinili improponibili e a un variopinto assortimento di oggetti di antiquariato.
«Lo sai che la Morante pretese che La storia venisse stampato in edizione economica perché voleva che il suo libro fosse accessibile a tutti?», mi chiede Garibaldi.
«Sì…», annuisco. Lo so. E so anche che i processi faranno il loro corso e, nel giro di un certo numero di anni, si tramuteranno in condanne: diffamazione a mezzo stampa, adunata sediziosa, invasione di edificio, resistenza… Io però, ogni volta che mi convoca la Questura, continuo ad approfittarne per passare tra la stazione Termini e piazza della Repubblica e fermarmi una mezz’ora dal vecchio Garibaldi. Lì un’idea per la riedizione di qualche libro scomparso dalla circolazione eppure ancora necessario la trovo sempre. In fondo lavoro nell’editoria. E ne approfitto per festeggiare ogni denuncia mettendo in cantiere la nuova edizione di un vecchio classico della lotta di classe.
PS: ringrazio l’insopprimibile puzza di piscio che, stagnando tra i chioschi, aiuta i vecchi marchettari e i tossici ancora in circolazione a impedire ai fighetti a caccia di luoghi esotici di invadere la zona trasformandola in un posto… di classe. Cioè della loro classe.
Attenti al cinghiale
Una volta, per i fattacci di cronaca nera, la stampa aveva già bello è pronto il colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica. E questo, immancabilmente, era l’extracomunitario.
Tutti ricorderanno ancora, tanto per fare un esempio eclatante, quanto accaduto a Novi Ligure nel 2001, quando lo sgozzamento di una madre di famiglia e di suo figlio fece immediatamente scattare una caccia all’albanese… salvo scoprire poi che, ad uccidere a coltellate la mamma e il figlio era stata la giovane Erika, cioè la figlia e la sorella delle vittime, insieme ad Omar, il suo fidanzatino.
Alla stessa maniera, ad Erba, in provincia di Como, lo sterminio avvenuto a colpi di spranga e di coltello di un’intera famiglia, cane compreso, fu immediatamente addossato a Azouz, “colpevole” principalmente di essere tunisino. Solo in un secondo tempo si decise di accettare la realtà per quello che era, e di riconoscere gli autori della strage negli italianissimi Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi: una placida coppia di mezza età, “tranquilla” come possono esserlo in tante.
La macabra lista che stiamo compilando, in ogni caso, potrebbe essere allungata, e davvero di molto. L’elemento di novità rispetto all’oggi, però, sta nel salutare il rientro nella lunga lista dei “folks devil” – cioè in quelle categorie sociale stereotipate appositamente per scaricare su chi vi viene inserito le colpe di qualunque male – di un elemento che si credeva dimenticato tra le pagine di un bestiario medioevale, quando si gridava terrorizzati al pericolo incarnato da caproni con il tronco umano, lupi e draghi capaci di volare e di sputare fiamme. Ebbene, ai nostri giorni, all’extracomunitario, al tossicodipendente, al militante politico e all’ultrà, tanto per nominare un po’ di categorie buone per far scattare cacce alle streghe e invocare leggi speciali, si aggiunge un simpatico mammifero dotato di zanne e di orgoglio da vendere, appartenente alla famiglia degli ungolati e comunemente noto con il nome di “cinghiale”.
Come sempre, quando si ha la coscienza sporca, le persone “per bene” non si accontentano di aver distrutto interi territori, devastato gli habitat naturali e lasciato al degrado e all’abbandono porzioni di città già edificate per fini meramente speculativi. Ora, essendo che il cinghiale non intende lasciarsi estinguere tanto facilmente, gridano al pericolo e sostengono che quella dei cinghiali è una questione di “ordine pubblico”.
Bene, gli autonomi che, dalla Val Susa a Niscemi, assaltano le reti dei cantieri delle grandi opere inutili e dannose o gli ultrà ancora impegnati a fronteggiare i battaglioni della celere, per non parlare dei rifugiati che travolgono i confini, da oggi hanno un alleato in più: il cinghiale.
E non è certo un alleato di poco conto se si tiene conto del curriculum mitologico ed etologico di questo essere potente e meraviglioso. Un animale bellissimo che intanto, dalle parti di Frosinone, ha già avuto bisogno di trovarsi un bravo avvocato. A Ferentino, infatti, alla notizia del ritrovamento di un cadavere con ferite “sospette”, si è subito gridato “è stato un cinghiale! è stato un cinghiale!”.
Peccato solo che ancora non risulta che il re dei boschi abbia l’abitudine di utilizzare un fucile a pallettoni contro le sue prede!
E peccato anche che, anziché operare una quanto mai opportuna messa in discussione dei rapporti tra uomo (cioè tra imprese devastatrici e nocive) e ambiente, si stia invocando il massacro dei cinghiali, con la Coldiretti che, per il 29 settembre, ha addirittura convocato una manifestazione a Roma per protestare contro questi animali e dei danni di cui sarebbero responsabili. Asserzione che, priva di qualunque retroterra analitico rispetto alle modalità di sfruttamento di campi e boschi, non suona poi troppo diversa dalle frasi con cui si ricorda sempre che “gli stranieri ci rubano il lavoro”.
Intanto, mentre a Ferentino si è stati costretti ad ammettere che l’autore dell’omicidio, pur essendo ancora ignoto, non appartiene di certo alla famiglia degli ungulati, alle folle di benpensanti abituati a imboccare sempre la via più corta e comoda per spiegare le ragioni del male da cui siamo circondati, così come a chi è sempre alla caccia del pretesto buono per addossare a un capro espiatorio le storture di un intero sistema: ebbene, a tutta questa razza di ipocriti con la coscienza sporca non resta che dedicare una canzone e un monito. La canzone l’ha scritta Fabrizio De Andrè. Ma il monito è: “attenti al cinghiale!”.
Vota Casamonica!
I coccodrilli già non è che siano una bellezza. Ma quando piangono fanno proprio schifo. E ora che donna Vera Casamonica, insieme al figlio Vittorino, è stata ricevuta con tutti gli onori a “Porta a porta” dal cimbellano Bruno Vespa, gli ultrà della legalità a senso unico, i perbenisti ipocriti, i servi dell’austerità in conto terzi non è che semplicemente piangono: si disperano.
Le ragioni di questa ondata di isterica tristezza, mascherata da indignazione sulle pagine dei giornali, sono semplici. Salita in quel regno dei venditori di fumo e pentole che è la trasmissione di Vespa, Vera Casamonica sbaraglia la concorrenza: parla alla pancia dei telespettatori meglio di qualunque deputato grillino e, soprattutto, si dimostra più brava di Renzi, superando senza fatica il ducetto di Rignano in termini di indici di ascolto (14,56% contro 14,16% è il risultato a favore della famiglia romana), trasformando l’opzione Casamonica in un progetto politico di gran lunga più convincente di quello targato PD.
Con intelligenza, Vera Casamonica ha preso atto della debacle a cui sono andati incontro i referenti governativi che hanno consentito alla famiglia di prosperare nei lunghi anni di Mafia Capitale e, in modo corretto, non ha certamente letto nelle indagini che hanno travolto gli Ozzimo, i Venafro e gli Odevaine (tutti uomini del PD, of course) il sussulto di una giustizia da sempre impegnata a combattere i poveri e a omaggiare i potenti, ma l’esigenza inequivocabile di una ristrutturazione che, a livello Europeo, ha bisogno di razionalizzare e di mettere a valore persino il florido sottobosco di mazzette connaturato al vecchio sistema. Da oggi in poi, questo è quello che ha capito Vera Casamonica, i banchieri, gli sfruttatori e i palazzinari di serie A intendono appropriarsi di qualunque forma di economia sommersa, trasformando – come avviene con strumenti tipo il Jobs Act (e infatti non c’era anche il ministro Poletti alla famosa cena con Buzzi dove presenziavano anche i Casamonica? Sì, c’era…) – ciò che era sempre stato considerato «nero» in sistemi di sfruttamento perfettamente legali, ma del tutto conformi alle modalità del rigore pretese dalla fase attuale.
Di fronte a un simile pericolo, donna Vera ha agito con rigore e, dai funerali di don Vittorio Casamonica fino alla partecipazione a “Porta a porta”, non si è mai preoccupata di dissimulare o, opportunisticamente, di occultare le differenze tra il sistema Casamonica e il mondo garantito dalla politica ufficiale, giustamente convinta di poter trionfare, come di fatto ha trionfato nel salotto di Vespa, nel confronto tra le possibilità offerte dal sistema Mafia e la via antipopolare connaturata al Parlamento e alla intera sovrastruttura ideologica.
Quello che Vera Casamonica afferma tra le righe del suo linguaggio è che oggi la Mafia è l’unica forma di opposizione organizzata alla spietata tecnocrazia europeista, forte di una proposta che, tra cavalli e formiche, è in grado di offrire una modalità credibile di welfare al nulla messo in campo dalle politiche attuali.
Prendiamo per esempio l’inchiesta che, seguita con grande clamore dagli organi di informazione, sta accompagnando il processo pubblico ai Casamonica dopo lo “scandalo” dei funerali di don Vittorio: «Il racket dell’“agenzia Casamonica”», titola oggi il renziano «la Repubblica», parlando della “vergogna” di case popolari controllate dal clan e affittate a 150 euro al mese… come fa una simile affermazione a risultare credibile, a superare in termini di gradimento la proposta di donna Vera quando a Roma i Caltagirone, i Toti o i Parnasi per darti un tetto da mettere sopra la testa della tua famiglia ti chiedono dieci volte di più?
Questi ultimi, tra l’altro, non hanno neppure bisogno degli spezzapollici, perché in caso di insolvenza ricorrono direttamente ai plotoni della celere, che arrivano all’alba nelle casa delle famiglie che hanno perso il lavoro per manganellare, distruggere e buttare in mezzo alla strada gli sfrattati senza alcuna pietà e senza che a livello comunale venga offerta alcuna soluzione alternativa.
Un altro che ha da ridire sui Casamonica è Alfonso Sabella che, in una dichiarazione raccolta da Silvia Fumarola per «la Repubblica» del 10 settembre 2015, accusa: «Dietro la simpatia un po’ burina di Vera Casamonica si celano violenza e prepotenza, un mondo fatto di usura, del dolore di tante vittime…».
E perché, caro (si fa per dire) Sabella, cosa si cela dietro al tuo, di mondo?
Sei l’uomo che ha guidato la repressione durante il G8 di Genova: davvero pensi di poter dire qualcosa di vagamente credibile (o di riscuotere una minima forma di semplice rispetto) con le mani sporche del sangue di Carlo Giuliani, ammazzato in piazza, e di quello versato nella scuola Diaz e a Bolzaneto da centinaia di ragazze e ragazzi, torturati per ore?
Insomma, il confronto tra Vera Casamonica e i suoi accusatori istituzionali è improponibile. Bruno Vespa lo ha evidentemente capito e, con la consueta capacità di offrire i sui servizi al potente di turno, è restato fedele a se stesso, offrendo ai Casamonica la stessa compiacenza già assicurata a Renzi, a Berlusconi e, prima di loro, agli stessi uomini che, da un lato, sedevano in parlamento per discettare di legalità e di rispetto delle istituzioni, mentre poi baciavano in bocca i mafiosi e, di fatto, costruivano lo stesso sistema che oggi permette a Vera Casamonica di rilanciare se stessa sulla scena politica per continuare a essere ciò che è: il terminale violento e corruttivo di uno Stato che appalta alla criminalità forme di controllo e di sfruttamento funzionali al mantenimento di un ordine che la lotta di classe vorrebbe, al contrario, capovolgere e distruggere. Perché se fosse garantito il diritto alla casa popolare, se fosse conquistata una sicurezza sociale poggiata sulle solide basi del lavoro, della sanità e della scuola, se si fermasse la devastazione legata alle grandi opere e ai grandi eventi, è evidente che non ci sarebbe più spazio né per i Casamonica, né per i Caltagirone, né per i Renzi. Di sicuro, all’appello, mancherebbe pure Bruno Vespa. Perché a quanto pare la rivoluzione non ha l’abitudine di andare in diretta televisiva. Figuriamoci a “Porta a porta”.