Come tutte le storie, anche quella della letteratura è gravata da un pregiudizio difficile da sradicare. Minaccioso come una censura che, seppur mai decretata da alcun organismo di controllo, sortisce l’effetto di occultare interi campi di sapere dall’enorme valore critico-culturale, questo pregiudizio è l’idea secondo la quale l’intera produzione mondiale di documenti scritti può essere divisa in due gruppi ben distinti: da un lato uno spazio “alto”, dove troverebbero cittadinanza il romanzo borghese, la poesia colta e la saggistica speculativa di matrice accademica; dall’altro lato un territorio “basso”, all’interno del quale andrebbero automaticamente collocate tutte le opere di natura eminentemente tecnica insieme a qualunque spunto – dalle scritte sui muri agli stornelli improvvisati “a braccio” – di natura popolare e, spesso, anche a qualunque traccia linguistica subalterna nell’economia e, di conseguenza, anche nei contenuti e nello stile.
Città particolare Vienna: adagiata dove le pendici orientali delle Alpi digradano fino a incontrare le steppe ungheresi, lungo le alture costeggiate dal Danubio, la vecchia capitale dell’impero asburgico offre ai contemporanei una storia che suona come una condanna. La condanna a vivere se stessa come punto fermo di un confine culturale, una porta chiusa in faccia alle pressioni mediterranee, una roccaforte dall’interno della quale votarsi a una sorta di perpetua resistenza. Perché resistere è la parola d’ordine che i governanti austriaci, da secoli, ammansiscono al popolo. Una resistenza che ogni volta maschera le sue esigenze politiche ed economiche con una retorica da guerra santa, un linguaggio da soluzione finale accompagnato dalla puzza di zolfo con cui, immancabilmente, si avvolge l’avversario di turno nei panni del diavolo in persona.
Bastione cattolico nell’Europa orientale, per secoli, il grande impero di cui Vienna era capitale, ha edificato la sua identità consacrandosi a una duplice missione: la resistenza alla pressione ottomana e la lotta all’eresia protestante. Uno stato di guerra permanente che impedì alla corona d’Austria di abdicare dal suo ruolo di difensore della cristianità anche quando, con il XIX secolo, l’opposizione all’islamismo e al luteranesimo perde la sua pregnanza storica. In bilico tra nuove filosofie e concezioni strapaesane, allora, la Vienna di quegli anni è la città del principe Metternich, cabina di regia di una restaurazione convinta che una buona polizia avrebbe senz’altro potuto avere la meglio su quelle fantasie che un corso di nome Napoleone Bonaparte aveva esportato in mezza Europa. A cominciare da quella che era stata una delle conquiste più importanti della rivoluzione francese, l’emancipazione di milioni di individui costretti, fino ad allora, a subire la vergogna dei ghetti, la violenza dei pogrom, l’onta delle prediche forzate: gli ebrei.
Il disagio nella contemporaneità
Una transizione tutt’altro che semplice quella che, dall’ancien regime, avrebbe dovuto traghettare un continente intero verso la contemporaneità proponendo un nuovo modello di stato laico, fondato sui diritti di cittadini uguali di fronte alla legge. Un processo che, nell’Austria imperiale, fu più lento che altrove. Ancora nel 1848, infatti, il numero di famiglie di religione ebraica residenti a Vienna non poteva, per legge, superare le 200 unità. Solo nel 1867 una nuova legislazione, sancendo l’uguaglianza dei diritti civili, abrogò il numero chiuso e Vienna cominciò a popolarsi di ebrei che, attraverso l’esercizio delle arti liberali e delle professioni legate all’economia e alla cultura, furono gli animatori di ciò che ancora oggi molti storici ricordano con il nome di “età dell’oro di Vienna” anche se, come sottolinea Paolo Genesio: «Per lunghi periodi, fra il 1815 e il 1914, Vienna non fu d’oro più di quanto il Danubio fosse blu».
Dopo una breve stagione di governo liberale, infatti, una vasta area di malcontento si coagulerà intorno ai nuovi partiti di massa di ispirazione cristiano-sociale e pangermanista. Questi, fautori di una politica demagogica e oscurantista, fecero di un acceso antisemitismo la loro bandiera, presentando come componente essenziale della propria linea di azione la lotta contro gli ebrei, considerati registi occulti di un gigantesco complotto che, dalla rivoluzione francese in poi, avrebbe operato per corrompere le radici spirituali dei popoli cristiani spianando la strada a una dominazione giudaica che una nutrita pubblicistica di matrice cattolica e razzista prometteva come terribile e imminente.
Così respirò Adolf Hitler
Anche il giovane Adolf Hitler, immigrato a Vienna in cerca di fortuna, unì le sue frustrazioni di imbianchino disoccupato all’ammirazione per il violento capo degli antisemiti viennesi: Karl Lueger che governerà Vienna dal 1895 al 1910 e di cui, il futuro dittatore, tesserà le lodi nel Mein Kampf (1926) salutandolo come «il più grande borgomastro tedesco di tutti i tempi».
Attraverso la vecchia via del pregiudizio antiebraico, in sostanza, l’antisemitismo nazista andava saldandosi con le opinioni di una chiesa cattolica che, lungi dal prendere le distanze dai cristiano-sociali, offre loro un ampio sostegno. Non a caso, anche in Italia, a pensarla come Adolf Hitler, troviamo un Alcide Degasperi che, dalle colonne di un giornale trentino, scrive: «In Austria […] spadroneggiava il liberalismo in tutte le sue forme. […] Vienna era completamente sotto il gioco degli ebrei. Giornalisti, si presentavano come l’indiscutibile opinione pubblica; industriali, tenevano gli operai cristiani in condizioni di schiavi; commercianti facevano con grandi bazar una spietata concorrenza ai piccoli negozianti indigeni; banchieri affamavano alla borsa dei cereali la classe dei contadini, e nei teatri e nelle scuole il loro spirito talmudico rovinava completamente la morale pubblica» (da «Il Domani d’Italia» del 15 maggio 1902).
D’altronde, come difensori de “la morale pubblica” e come irriducibili avversari de “lo spirito talmudico”, neppure le più alte gerarchie cattoliche vollero opporsi alle intenzioni omicide di Adolf Hitler. Questi, non appena preso il potere in Germania, raccolse anche la benedizione dei vescovi tedeschi visto che, sotto il suo spietato regime: «Il cristianesimo viene sostenuto, la moralità viene migliorata, la lotta contro il bolscevismo e l’ateismo viene condotta con successo».
Parola di mons. Berning, collega del vescovo Steinmann che, nel 1933, in occasione dell’esposizione della tunica di Cristo a Treviri, salutò la folla al grido di Heil Hitler spiegando poi che i vescovi tutti riconoscevano nel sanguinario aguzzino un baluardo contro «la peste della letteratura immorale».
Lo spirito talmudico e la letteratura immorale
La vena di forte pessimismo in campo sessuale che, a partire dalla speculazioni paoline, caratterizzerà il cattolicesimo, non trova nessun riscontro né nella Bibbia ebraica, né nell’Antico Testamento. Molti passi biblici, anzi, mostrano una forte spregiudicatezza in campo sessuale, offrendo al lettore narrazioni ricche di episodi dove perfino rapporti sessuali atipici o incestuosi vengono vissuti senza particolari drammi etici: dalle figlie di Lot che ubriacano il padre e, per soddisfare il loro desiderio di maternità, ci vanno a letto a notti alterne (Gen 19, 30-38), all’astuzia di Tamar, la vedova che, travestita da prostituta, inganna il suocero concependo un figlio con lui (Gen 38, 13-18). Un’autentica lode alle gioie sessuali, poi, è quella contenuta nei Proverbi, dove leggiamo: «Sia benedetta la tua sorgente; trova gioia nella donna della tua giovinezza; cerva amabile, gazzella graziosa, essa s’intrattenga con te; le sue tenerezze ti inebrino sempre; sii tu sempre invaghito del suo amore!» (Pro 5, 18-20).
Anche se è impossibile condensare in un discorso unitario la trimillenaria storia ebraica, tendenzialmente, in campo sessuale, nell’ebraismo non trovò spazio l’elogio della castità che caratterizza il cattolicesimo. È nota, semmai, una convinzione tradizionale ebraica: quella secondo la quale, il sesso, ha il potere di invocare sugli amanti la discesa della Shekinah, la “divina presenza”, un triangolo santo dove Dio si unisce all’uomo e alla donna nel mistero della procreazione. Privo del peso angosciante del peccato originale, l’ebraismo pone il gesto di Eva al di là del frigido territorio della colpa, elevandolo a merito: il merito di aver donato all’umanità una storia da vivere fuori dalla monotonia asettica del giardino primordiale. Così, se i rabini sono soliti invitare i credenti a celebrare degnamente lo Shabbat accostando, alle gioie delle lodi a Dio, le più terrene gioie della camera da letto, fuori dall’ortodossia, con pregnante humor ebraico, tra le comunità americane risuona una divertente domanda: «How do you get a Jewish girl to stop fucking?» – «You marry her», (Come puoi fare per impedire a una ragazza ebrea di scopare? – La sposi…). E, tanto per sottolineare che farlo “alla missionaria” non è certo l’unica posizione consentita al credente, in quell’immenso monumento di cultura ebraica che è il Talmud, semplicemente è scritto: «Tutto quello che l’uomo vuole fare con la sua donna può farlo» (Nedarim, 20). Inoltre, anche in pieno Medio Evo, la Lettera sulla santità (XIII sec.), offre sprazzi di luce per un desiderio sessuale che i cattolici erano propensi a credere cosa da bestie più che da uomini e afferma: «Non bisogna affatto pensare che l’unione carnale sia di per sé qualcosa di scabroso e di brutto, anzi, quando avviene nel modo giusto si chiama conoscenza». Sottolineando che il modo creduto come “giusto” è quello che prevede la partecipazione paritaria degli amanti all’atto sessuale, tant’è che, scrive l’anonimo autore della Lettera: «Non è opportuno possedere una donna mentre questa dorme, perché così non sussisterebbe mutuo accordo, e il pensiero di lei non sarebbe concorde con quello di lui».
Il pregiudizio antiebraico nell’età della rivoluzione erotica.
Provando, con un audace salto nel tempo, a calare la ricca e complessa tradizione ebraica nella Vienna degli anni ’20 troviamo che, tra i disastri economici che la prima guerra mondiale lascia in eredità all’Austria, la modernità dell’ebraismo in materia sessuale si impasta con i pregiudizi antiebraici nel proporre alle masse la figura dell’ebreo come essere dissoluto e crapulone, sentina di vizi lussuriosi, individuo dedito alla corruzione dei giovani e allo stupro delle fanciulle attraverso il potere conferitogli dal denaro e dalla carta stampata, dispensatrice di oscenità e pornografia. Quando, nel 1923, il grande sessuologo tedesco Magnus Hirschfel, visitò Vienna per tenervi alcune conferenze, trovò l’opposizione di una corposa compagine nazista che tentò di assassinarlo a colpi di pistola. Gli animi erano resi feroci da una martellante campagna di disinformazione che aveva individuato in Hirschfel, ebreo e omosessuale, l’incarnazione di quella figura di “sabotatore sociosessuale” contro la quale i nazisti prima invocarono, poi realizzarono, la deportazione e lo sterminio.
Tra le “colpe” di Hirschfel, quella di chiedere a gran voce l’abrogazione dell’articolo 175 del codice penale prussiano (restato in vigore fino al 1968!) che recitava: «Un atto sessuale innaturale commesso tra persone di sesso maschile o da esseri umani con animali è punibile con la prigione. Può essere imposta la pena accessoria della perdita dei diritti civili».
Contro una simile discriminazione, Hirschfeld, insieme agli psicologi H. Ellis e A. Forel creò la “Lega Mondiale per la Riforma Sessuale”, testimonianza concreta del fatto che, lungi dal restare confinati nella camera da letto, le abitudini e le inclinazioni sessuali attraversano il corpo sociale evidenziando visioni del mondo scomode rispetto a un potere reazionario, pronto a punire con la deportazione e l’assassinio ogni lieve discostamento da un’idea, questa sì tutta malsana, di “normalità”.
Se Magnus Hirschfield fu costretto dagli eventi a riparare in Francia per sfuggire alla persecuzione, nella Vienna degli anni ’20, un grande giornalista e scrittore di origine ebraica, Hugo Bettauer, sosteneva esplicitamente la necessità di operare nel costume sociale e sessuale una vera e propria “rivoluzione erotica”: una battaglia contro l’ipocrisia e la misoginia, quella sostenuta da questo coraggioso pioniere della cultura erotica, una storia che infiammò Vienna, prima della nuova preistoria nazista, in un’appassionata e tragica lotta in favore della libertà.
La straordinaria vita di Hugo Bettauer
Hugo Bettauer era nato nel 1872 a Baden, una cittadina a sud di Vienna, da una famiglia ebraica di origine ucraina. Convertitosi al protestantesimo a diciotto anni, Bettauer, per sfuggire alla coscrizione obbligatoria, riparò prima a Zurigo, poi negli Stati Uniti. Come giornalista, fu corrispondente da Berlino per diversi giornali americani prima di essere espulso dalla Germania in virtù delle sue inchieste spregiudicate. Da liberale radicale, Bettauer era aperto al positivismo e fece presto propria l’idea secondo la quale, scopo principe dell’intellettuale, è quello di educare le masse. Non a caso, fatto ritorno nella natia Vienna, Bettauer svolse un’attività molto intensa nel campo della divulgazione dell’educazione sessuale. Sorprendendo la censura austriaca con impianti modernissimi, nel 1924, Bettauer inaugura il primo numero di ciò che può essere considerata la madre di tutte le riviste erotiche contemporanee, il settimanale intitolato «Er & Sie. Wochenschrift für Lebenskultur und Erotik» (Lui e lei. Settimanale di cultura di vita ed erotismo).
Dalle colonne di «Er & Sie», Bettauer forniva ai lettori intrattenimento e informazione erotica, inventava rubriche di annunci per “cuori solitari” e, contemporaneamente, avanzava ardite rivendicazioni sociali, come la battaglia a favore del diritto di voto alle prostitute, mostrando, più in generale, la volontà di sottrarre l’erotismo dal dominio della vita matrimoniale, riconoscendo alle donne un’autonomia in campo sessuale che certamente non era quella che il costituendo regime nazionalsocialista andava pensando per loro. Il primo numero della rivista, di 12 pagine, stampato in 20.000 copie andò letteralmente a ruba mentre il secondo numero, di 16 pagine, superò addirittura le 60.000 copie vendute: un risultato straordinario!
Andò a finire che, giunti al numero cinque, la polizia fece irruzione nella redazione della rivista, sequestrando il settimanale e impedendone la prosecuzione. L’accusa mossa a Bettauer era quella di induzione alla prostituzione e, naturalmente, quella di pornografia.
Bettauer colpisce ancora… ma i nazisti non stanno a guardare
Mentre i giornali cristiano-sociali alzavano i toni della polemica antiebraica augurando al “pornografo” la morte come giusta punizione del suo tentativo di sedurre la gioventù attraverso la pubblicazione di fogli peccaminosi, lo stesso Bettauer non se ne restava certo con le mani in mano. Beffando ancora una volta la censura, iniziò la stampa di un nuovo periodico chiamato orgogliosamente «Bettauers Wochensrift. Probleme des Lebens» (La rivista di Bettauer. Problemi di vita) che fece immediatamente propria la causa della legalizzazione dell’aborto. Mentre anche questa nuova iniziativa editoriale firmata Bettauer andava a gonfie vele, l’impegno sociale del grande giornalista viennese non si limitava certo alla carta stampata. Basti dire che, una volta alla settimana, il suo ufficio in Lange Gasse si apriva per il ricevimento di tutti coloro che, cercando assistenza, si rivolgevano a Bettauer non solo per questioni di carattere sessuale ma anche per i gravi problemi di disoccupazione e di carenza di alloggi che affliggevano Vienna.
Per questa ragione, il 10 marzo del 1925, non fu difficile per Otto Rothstock, un odontotecnico venticinquenne, recarsi nella redazione della rivista e chiedere di poter parlare con herr doktor. Entrato nell’ufficiò di Bettauer, Rosthock tirò fuori la pistola sparando cinque colpi contro il giornalista. Poi, chiusa dall’interno la porta dello studio, aspettò semplicemente l’arrivo della polizia. Bettauer sarebbe morto dopo dieci giorni di agonia ma Rosthock aveva dalla sua parte Walter Riehl, avvocato nazista che assunse gratuitamente la difesa dell’imputato, trasformando il processo in una campagna antisemita e riuscendo a ottenere, per l’omicida, il riconoscimento della semi-infermità mentale e una condanna a soli 18 mesi. D’altronde, quando venne chiesto a Rosthock: «Perché l’hai fatto?»
L’imputato rispose solo: «Desideravo salvare i giovani dalle insidie tese loro da gente come Hugo Bettauer».
Vienna, la città senza ebrei
Dopo i turchi e i protestanti, dunque, come insegna l’omicidio di Hugo Bettauer, furono gli ebrei a incarnare la necessità viennese di avere un nemico da combattere, un demonio da annientare. Così, quella che, ancora negli anni ’20, sembrava solo una perniciosa fantasia, con l’annessione dell’Austria alla Germania (1938) diventava una tremenda realtà: la tremenda realtà di una città senza ebrei. Gli scritti di Bettauer, allora, dovettero suonare come tristemente profetici: ma quanti viennesi ricordarono quello che il loro concittadino scriveva già nel 1922 quando, per satireggiare il montante antisemitismo, veniva dato alle stampe il romanzo Die Stadt ohne Juden (La città senza ebrei)?
Ispirato dalla lettura di alcuni graffiti razzisti letti in un bagno pubblico di Vienna, ne La città senza ebrei Bettauer costruisce l’utopia negativa di una Vienna dove un’ordinanza espelle, pena la morte, tutti i cittadini di “origine mosaica”. Partito dall’Austria anche l’ultimo ebreo, Vienna precipita rapidamente in un baratro di povertà e provincialismo: chiudono i teatri, falliscono le banche e le attività commerciali, la moda è ridotta al loden e agli scarponi chiodati mentre le belle fanciulle viennesi, ripensando ai loro galanti e audaci corteggiatori ebrei, illanguidiscono nel ricordo e si struggono di nostalgia. In breve, la cacciata degli ebrei, si trasforma nella rovina di Vienna fino al punto che imponenti sommosse popolari costringono il governo a tornare sui propri passi e a richiamare in patria tutti gli ebrei espulsi che, rientrando in città, verranno accolti con manifestazioni di giubilo e grandi feste. Se il sottotitolo originale del fortunato romanzo di Bettauer recitava «Un romanzo di dopodomani», nella traduzione americana, più realisticamente, compariva la dicitura «un romanzo dei nostri tempi».
Tempi duri quelli che avrebbero aspettato l’Austria e il mondo intero, gli stessi che avrebbero consumato la tragedia della shoah e ridotto Vienna a una città stupida e di secondaria importanza. Una città che, ammazzati i pensatori illustri come Bettauer, costrinse alla fuga o alla morte oltre 180.000 israeliti, rinunciando al grande valore della differenza e privandosi delle intelligenze di uomini come Stefan Zweig, Joseph Roth, Gustav Mahler, Arthur Schnitzler, Ludwig Wittgenstein, Elias Canetti, Karl Krauss e Sigmund Freud…
«Da questo autentico salasso di energie nei vari campi della medicina, della letteratura, delle arti figurative, della musica, dell’economia, del diritto», osserva Luigi Reitani, «Vienna non si è ancora ripresa». E intanto, oggi che un mondo nuovo reclama i diritti forgiati da una società che si configura come multietnica e pluriconfessionale, nei sinistri palazzi del potere viennese, sospinto dal nazionalismo del FPO, cieco di fronte al passato, torna a risuonare contro tutti i presunti “diversi” un grido scellerato: “Resistere!”