È il 5 settembre del 1974 quando per Roma e dintorni inizia a girare una notizia tanto allarmante quanto inaspettata: stanno sgomberando a San Basilio!
Chi, rispondendo all’appello, si precipita nel quartiere trova uno scenario da guerra civile. Come vere truppe d’occupazione, le forze dell’ordine hanno invaso la storica borgata romana ma, dopo aver allontanato una prima volta gli occupanti dalle proprie case, non possono impedire una nuova occupazione degli appartamenti la sera stessa.
Il Comitato di Lotta per la Casa, insieme a un fronte sempre più ampio di sodali, rinforza la difesa, ma il 6 la storia si ripete:
La polizia arriva la mattina in forze per effettuare lo sgombero in via Montecarotto, ma trova una resistenza organizzata all’innesto della via Tiburtina con via del Casale di San Basilio, dove nella notte era stata alzata una barricata. Iniziano gli scontri con lanci di lacrimogeni e ripetute cariche a cui i manifestanti rispondono con un fitto lancio di molotov e sassi. La polizia comunque riesce a transitare da via Nomentana, circonda le case e inizia un fitto lancio di lacrimogeni sparati anche sui balconi e si fa largo a colpi di manganello: una bambina di 12 anni rimane ferita. In alcuni appartamenti si verificano focolai di incendio (Massimo Sestili, “Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974”, in “Historia Magistra” n.1, 2009).
Le case sgomberate, in ogni caso, vengono nuovamente occupate nella stessa giornata. E proprio grazie alla determinazione di chi resiste, il 7, sabato, si respira aria di tregua, con gli avvocati di Movimento che riescono anche a recarsi in Prefettura per cercare di far ritirare l’ordinanza di sgombero. Potrebbe sembrare tutto finito, eppure è proprio la domenica il giorno atteso dalla polizia per sferrare l’attacco più feroce. Alle otto riprendono le operazioni di sgombero, ma non trova persone disponibili ad abbandonare ciò che hanno conquistato senza lottare. Intorno alle 17, addirittura, una donna di 24 anni imbraccia un fucile da caccia e, dalla finestra di casa, spara contro i poliziotti, ferendo un vicequestore. Alle 18, l’assemblea popolare riunita per cercare di capire il da farsi viene attaccata con i lacrimogeni: la reazione della folla è compatta e la celere, lanciata alla carica, perde la testa insieme alle sue posizioni.
È la guerra: il popolo da una parte, le forze dell’ordine dall’altra. Il quartiere è isolato, i pali della luce divelti, qualunque cosa utile a essere lanciata viene utilizzata allo scopo e i mezzi di trasporto, parcheggiati per provvedere alla deportazione degli sgombrati, vengono dati alle fiamme.
Le armi da fuoco, è vero, non sono soltanto appannaggio della polizia. Ma su questo versante, ovviamente, gli occupanti non possono competere con chi indossa la divisa. Si supplisce con il cuore e con la solidarietà. Le barricate chiamano e Roma risponde. La polizia, però, continua a sparare. Proiettili come se piovesse in via Fiuminata dove, a essere colpito al petto da una pallottola calibro 7,65, è un ragazzo con il casco rosso.
Quel ragazzo ha appena diciannove anni. Vive a Tivoli, dove milita nel Comitato proletario, un organismo di Autonomia Operaia. Suo padre fa il netturbino, la mamma è casalinga. Lui, dopo gli studi alla scuola alberghiera, aveva lavorato in diversi bar e ristoranti prima di provare a trasferirsi in Francia. Tornato in Italia, ci sarebbe stata una buona notizia ad aspettare la sua famiglia. Dopo una lunga attesa, finalmente era arrivata l’assegnazione di una casa popolare a Villa Adriana. Quell’8 settembre, prima di correre a San Basilio per difendere le case occupate, aveva aiutato con il trasloco… alle 19 e 15 circa si ritrova su un taxi, impegnato in una corsa disperato verso il Policlinico. Quando il mezzo arriva a destinazione è troppo tardi. Il ragazzo con il casco rosso è morto: si chiamava Fabrizio Ceruso; «per loro non eri nessuno», dice A Fabrizio Ceruso, una delle canzoni anonimamente dedicate al ragazzo di Tivoli:
Soltanto 19 anni per loro non eri nessuno / soltanto 19 anni e per loro non eri che uno / uno come tanti, un cameriere, un garzone d’officina / un operaio, un disoccupato un emigrante…
Nemmeno la data dell’omicidio di Fabrizio sembra frutto del «caso». L’8 settembre del 1943, con l’esercito italiano allo sbando, era stata la milizia popolare a tentare la resistenza contro i nazisti. A Tiburtino III, non lontano da San Basilio, la memoria del cadavere della popolana Caterina Martinelli, ammazzata dalle SS mentre con altre donne del quartiere assaltava un forno nel vano tentativo di conquistarsi il pane con cui sfamare la famiglia, riallaccia il legame con gli ideali di una Resistenza che, trasformata in lotta per la casa, significa davvero giustizia e libertà. E se Caterina Martinelli era diventata la martire della lotta contro la fame, dopo l’8 settembre del 1974 Fabrizio vive in ogni casa che viene occupata.
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Accettare, come effettivamente è avvenuto nelle aule dei tribunali, che la morte di Fabrizio Ceruso resti archiviata con un non luogo a procedere «essendo ignoti gli autori del reato» non significa solo trascurare le numerose testimonianze che individuano in un poliziotto che si inginocchia ed esplode quattro colpi l’autore del gesto. Significa, in una situazione di estrema gravità, provare a dimenticare la situazione repressiva vissuta dall’Italia nel corso del 1974: l’anno della strage di Brescia (28 maggio; 8 morti e 102 feriti) e del treno Italicus (4 agosto; 12 morti e 45 feriti); ma anche l’anno in cui la rivolta scoppiata nel carcere di Alessandria (9 maggio; 5 morti tra detenuti e ostaggi) viene soffocata nel sangue dall’assalto deciso e diretto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il tentativo di sgombero di San Basilio, in un simile clima, è un altro capitolo della strategia della tensione e, inaugurando la futura «linea della fermezza» adottata nella repressione dei fenomeni d’insorgenza sociale, segna la scelta di attaccare deliberatamente un movimento in crescita come quello della lotta per la casa nel tentativo di stroncarlo, impedendo all’autorganizzazione di diffondersi, alle famiglie coinvolte di predisporre una resistenza efficace e alle occupazioni abitative di moltiplicarsi. Analizzato in questi termini, il tentativo fallisce. Al contrario, a San Basilio fu proprio nel momento in cui il quartiere apprese dell’assassinio di Ceruso che la lotta si trasformò in una battaglia autenticamente popolare, senza distinzione alcuna tra occupanti e assegnatari. E, come recita Rivolta di classe, un’altra canzone popolare dedicata alla battaglia di San Basilio, «la casa si prende, la casa si difende» continuerà a essere lo slogan di qualunque episodio di riappropriazione:
La casa compagni si prende / l’abbiam gridato tante volte / e dopo la si difende / da padroni e polizia…
Le case, dunque, saranno occupate ancora, i diritti rivendicati, le conquiste sociali difese: «Sarebbe sbagliato», si scrisse allora, «“mitizzare” lo scontro di S. Basilio in quanto ancora episodio (anche se tra i più belli e i più profondamente radicati nella coscienza di classe) e non già acquisizione permanente di quel comportamento da parte del movimento per la casa».
Un’affermazione, proveniente dall’area dell’Autonomia Operaia, con cui si sottolineava come, partendo dall’abitare, fosse inevitabile arrivare allo scontro con strutture di potere disposte a tutto pur di non cedere un centimetro del proprio interesse alla classe contrapposta. E in effetti, ad appena un giorno di distanza dalla morte di Ceruso e dopo che, inferocita per l’omicidio del ragazzo di Tivoli, tutta San Basilio si era scagliata contro la polizia ingaggiando una guerriglia lotto per lotto, la Regione Lazio si decideva a riconoscere il diritto alla casa popolare a chiunque, vantando i necessari requisiti, avesse occupato un alloggio prima dell’8 settembre del 1974.
Per molti palazzinari simili provvedimenti rappresentavano – e rappresentano – un danno concreto. Il rischio di una perdita economica nel nome della quale si potrebbe tranquillamente tornare ad ammazzare ancora.
Cristiano Armati, Cuori rossi, Newton Compton, Roma, 2006.
Massimo Carlotto, San Basilio, in In ordine pubblico, a cura di Paola Staccioli, Fahrenheit 451, Roma 2005
Raimondo Catanzaro – Luigi Manconi, Storie di lotta armata, Il Mulino, Bologna 1985.
Gian-Giacomo Fusco, Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie: San Basilio come caso di studio, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2013.
Ubaldo Gervasoni, San Basilio: nascita, lotte e declino di una borgata romana, Edizioni delle Autonomie, Roma, 1986.
Sandro Padula, San Basilio, 8 settembre 1974: Fabbrizio Ceruso e la lotta per il diritto alla casa, in «Baruda.net», 8 settembre 2014.
Massimo Sestili, Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974, in «Historia Magistra», n.1, 2009.
Pierluigi Zavaroni, Caduti e memoria nella lotta politica. Le morti violente della stagione dei movimenti, Carocci, Roma, 2010.
A cura di «Progetto San Basilio – Storie de Roma» è in corso di preparazione un film documentario sui fatti del settembre 1974 intitolato La battaglia – San Basilio 1974
Quando, alla fine di agosto del 2006, i giornali romani aprirono le pagine di cronaca dando la notizia dell’arresto dei due “balordi” che, la notte tra il 26 e il 27, avevano ucciso a coltellate un ragazzo sul lungomare di Focene, il lettore distratto sarebbe passato oltre credendo di avere a che fare con la solita rissa tra ubriachi: un gruppo di giovani sovraeccitati dalla droga e dall’alcol che litigano nel parcheggio di una discoteca arrivando prima a riempirsi di botte e poi ad ammazzarsi tra di loro. Dei fatali esiti di una «rissa tra balordi», parlavano anche i commenti forniti a corredo della notizia: articoli scritti in punta di penna ma terribilmente preoccupati di specificare come la politica, con quel fattaccio, non avesse nulla a che fare: essendo la conflittualità sociale soltanto un brutto sogno vissuto negli anni Settanta e, oggi come oggi, completamente dimenticato.
La precisazione di un fatto da considerare (a priori) “assolutamente estraneo alla politica”, evidentemente, si rendeva necessaria non appena, tra le righe dei quotidiani impegnati ad analizzare l’accaduto, emergeva la biografia della vittima: Renato Biagetti, ventisei anni, fresco di laurea in ingegneria, tecnico del suono e grande appassionato di musica reggae. La notte tra il 26 e 27 agosto del 2006, era stato proprio l’amore per i ritmi afrogiamaicani a spingere Renato a mettersi in macchina insieme a Laura, la fidanzata, e a Paolo, il suo migliore amico, per spostarsi da Grotta Perfetta, dove viveva ed era nato, per arrivare fino al «Buena Onda» di Focene: una dance hall sulla sabbia ricavata all’interno di uno stabilimento che, di notte, dà spazio ai seguaci delle good vibrations come, di giorno, ospita i romani dediti al surf.
Con il caldo torrido che affligge una Roma ancora semideserta, è naturale spingersi sul litorale per trovare un po’ di refrigerio: Renato, Laura e Paolo, al Buena Onda, restano finché, intorno alle cinque del mattino, la luce tremolante delle stelle annuncia la fine della tregua concessa dal sole prima di un nuovo giorno. È in questo momento, mentre Renato e Paolo si siedono su un muretto e Laura recupera la macchina dal parcheggio, che un’automobile si affianca ai ragazzi. A bordo, il volto di due completi sconosciuti. Persone anonime che, abbassando i finestrini, si mettono a gridare: «E finita la festa? Sì? Allora ritornatevene a Roma, merde!».
Più che di un insulto, si tratta di una vera e propria dichiarazione di guerra. Nell’abitacolo della vettura degli aggressori, insieme ai lampi sinistri degli occhi, scintillano le lame. È a colpi di coltelli, infatti, che una volta scesi dalla macchina gli aggressori si avventano sui ragazzi. Paolo viene colpito e anche Laura è presa a pugni. Renato Biagetti, in modo particolare, è raggiunto al corpo da otto fendenti micidiali. Chi lo ha ridotto in quello stato scappa tentando di dileguarsi mentre, a soccorrere Renato, restano Laura e Paolo, ancora insieme al fidanzato e all’amico quando, d’urgenza, il ragazzo viene ricoverato in ospedale. Qui Renato riesce ancora a fornire a un carabiniere, giunto al suo capezzale, la sua ricostruzione dei fatti ma, purtroppo, sono proprio queste le sue ultime parole. Le profonde lesioni che ha subito fuori dal Buena Onda risultano fatali e, intorno a mezzogiorno, provocano la morte di Renato.
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Mentre Renato veniva accoltellato sulla spiaggia, diversi testimoni vedono i ragazzi che infieriscono con i coltelli e, quando gli aggressori scappano con la macchina, annotano il numero di targa e il modello della vettura. Stranamente questi riferimenti non consentono affatto ai carabinieri di mettere immediatamente le mani sugli assassini così gli aggressori riescono a far perdere le loro tracce risultando irreperibili per almeno tre giorni.
In questo lasso di tempo, ad ascoltare le testimonianze di Paolo e Laura, più che i giornalisti ci sono i compagni del centro sociale Acrobax: uno spazio pubblico autogestito ricavato all’interno delle pertinenze dell’ex cinodromo di Ponte Marconi; in questo momento, forse l’unico punto di riferimento per chi, alla resa dei conti, capisce come la morte di Renato Biagetti non sia certo frutto di una rissa ma, al contrario, l’esito di una crudele aggressione. È proprio un comunicato emesso dall’Acrobax a quarantotto ore dalla morte di Renato, infatti, a cui si deve il primo tentativo di arginare la disinformazione che sta piovendo sul cadavere del ragazzo assassinato:
“Non si è trattato di una rissa tra balordi all’uscita di una delle discoteche del litorale ma di uno dei tanti episodi che si iscrive dentro un clima sociale, politico e culturale determinato dalle destre in Italia. Non sappiamo chi sono questi delinquenti ma queste pratiche ci ricordano da vicino le tante aggressioni agli spazi sociali e alle persone che li attraversano che si sono ripetute a Roma e altrove”.
Parole che trovano una triste conferma nel momento in cui chi ha colpito Renato viene finalmente arrestato. Si tratta di due ragazzi di diciannove e sedici anni: Vittorio Emiliani, nativo di Focene, e G.A., ancora minorenne, originario di Nola. E se non bastassero le modalità squadristiche con cui i due hanno consumato la loro aggressione; se non fosse sufficiente sottolineare il pregiudizio che grava sullo stabilimento dove Renato ha trovato la morte, considerato a Focene un «ritrovo di zecche»; se non servisse parlare dell’impegno profuso da Renato in tutte le iniziative in cui la musica veicolava messaggi antirazzisti, antifascisti e antisessisti; se tutto questo non consente ancora di accedere alla dimensione politica da cui è scaturito l’omicidio di Biagetti, allora non resta che sollevare la maglietta di Vittorio Emiliani per mostrare a tutti la croce celtica che il ragazzo esibisce sul braccio, tatuata.
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Emiliani ha ucciso, eppure avere un morto sulla coscienza non basta a fargli ammettere le colpe di cui si è macchiato: «C’è stata la lite, questo lo ricordiamo – ammette di fronte ai carabinieri – ci siamo anche picchiati, ma non ricordiamo della coltellata che ha ucciso il ragazzo».
Gli inquirenti non insistono e mettono a verbale le dichiarazioni di Emiliani. Effettivamente la sua memoria deve funzionare davvero male visto che la «coltellata che ha ucciso il ragazzo» di cui parla non è stata soltanto una ma addirittura otto. Un aggravante di assoluto rilievo che non tarda ad emergere quando sul cadavere di Renato viene disposta una regolare autopsia. Osservando le ferite sul corpo di Biagetti, il patologo descrive bene l’efferatezza con cui sono state usate le lame:
“Due coltellate ebbero a raggiungere il bersaglio tangenzialmente alla superficie cutanea; due penetrarono a livello del gomito e dell’avambraccio di sinistra e, pertanto, possono essere interpretati come colpi limitati dall’azione di difesa, perché altrimenti diretti al cuore; due vibrate in rapida successione penetrarono la regione sovra iliaca sinistra; due attinsero l’emitorace sinistro e penetrarono profondamente nel torace producendo lesioni viscerali”.
L’arma del delitto, su indicazione dello stesso Vittorio Emiliani, viene ritrovata seppellita nei giardinetti di Focene. Secondo Paolo e Laura, anche il ragazzo minorenne che era con Emiliani ha partecipato all’aggressione armato di coltello: d’altronde come avrebbe potuto, il solo Emiliano, vedersela con Paolo e Laura riuscendo, nello stesso tempo, a vibrare otto fendenti contro Renato?
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Il caso di Renato Biagetti è particolarmente tragico ma tutt’altro che isolato. Un dossiercompilato dopo la morte del giovane tecnico del suono, non a caso, raccoglie informazioni riguardanti ben 134 aggressioni a sfondo razzista, omofobo e fascista compiute a Roma e nel Lazio tra il 2004 e l’estate del 2006. Una lettura assolutamente sconsolante, anche se limitata a una piccola scelta di episodi avvenuti nei primi mesi dell’anno in cui è stato ucciso Renato:
8 gennaio (Indymedia). Compagno aggredito da tre naziskin alle quattro del pomeriggio vicino San Giovanni in Laterano. Davanti alla fermata della metropolitana viene notato e uno di loro gli tira una testata in pieno volto che gli rompe il setto nasale, poi lo prende a calci.
[…] 13 gennaio (Indymedia). Intorno alle 3 e 30, dopo aver partecipato a un’iniziativa, tre ragazzi e una ragazza usciti dal centro sociale La Torre vengono aggrediti da parte di una decina di fascisti armati di bastoni e a volto coperto. Le ferite riportate dai quattro ragazzi hanno richiesto cure ospedaliere.
21 gennaio (Lazio.net). Dopo palesi intimidazioni, in un’imboscata viene aggredito e picchiato sotto casa da quattro fascisti con i caschi sul volto un redattore di Lazio.net, voce antirazzista e antifascista del tifo laziale.
22 gennaio (Indymedia). Due skin antirazzisti vengono accoltellati (alla gamba e al gluteo) alle 3 e 30 all’uscita del c.s. Ricomincio dal Faro dopo un concerto. I due o tre accoltellatori fanno parte di una banda di venti fascisti che scappano all’arrivo dei compagni attirati dalle urla.
28 gennaio (Indymedia). A Casal Bertone, nella notte, un gruppo di sette-otto fascisti armati di mazze aggredisce due giovani compagni del circolo prc. I due compagni, seriamente feriti, vengono soccorsi da alcuni cittadini. […]
14 marzo («la Repubblica»). Alle 19 e 30, alla sezione Aurelio dei Democratici di sinistra, viene trovata sullo zerbino una busta contenente cinque proiettili inesplosi e un foglio con il seguente testo: «Non fermerete le nostre idee. Adesso dovete tremare. Voi la stella a cinque punte, noi cinque proiettili. 10, 100, 1000 livornesi bruciati. Roma non è Milano. Fini boia, Rutelli infame, Veltroni boia».
[…] 7 aprile («l’Unità»). Fascisti, con la vernice nera e con una “z” sola, imbrattano la bacheca della sezione ds dell’Alberone: «Vi ammaziamo – firmato – Forza nuova». Poi attaccano i manifesti «Vota Alessandra Mussolini»”.
Dal momento che non riguardano persone morte, simili notizie fanno fatica ad essere divulgate e, se finiscono sui giornali, molto difficilmente superano la dimensione del classico trafiletto. Diluite negli spazi in genere riservati a reati come furti e rapine, le informazioni sulla violenza politica diventano difficilmente distinguibili da quelle sulla criminalità comune, generando lo stesso tipo di attitudine che, all’ennesima potenza, esplode nel corso del processo agli assassini di Renato: l’attitudine a negare, insieme alle idee, anche la dignità della vittima. Perché morire nel corso di una rissa tra balordi non è assolutamente uguale a essere uccisi in virtù di un’aggressione subita a causa della propria differenza morale ed esistenziale.
Eppure, da questo punto di vista, neppure il processo ha reso giustizia alla dinamica dei fatti di Focene. Vittorio Emiliani è stato riconosciuto colpevole di omicidio volontario e condannato a scontare quindici anni di reclusione. Una pena simile a quella inflitta al suo complice minorenne, condannato a quattordici anni e otto mesi. Nella motivazioni della sentenza, però, riaffiora lo spettro della «rissa tra balordi» senza alcuna allusione alla matrice politica dell’agguato: degno corollario di un dibattimento in cui gli osservatori non hanno potuto fare a meno di sottolineare alcune circostanze a dir poco strane. La deposizione che, poco prima di morire, Renato rende al carabiniere arrivato a sentirlo all’ospedale Grassi, per esempio, non venne verbalizzata dal militare: come mai?
Si tratta ancora di una dimenticanza o questa singolare perdita di memoria può essere ricollegata alle decisioni con cui i giudici impediscono sia all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia sia al comune di Roma di costituirsi parte civile nel corso del processo?
Renato Biagetti, come affermano gli avvocati della famiglia: «È stato colpito barbaramente con otto coltellate in un’aggressione caratterizzata da inaudita ferocia, conseguenza di un violento sentimento di avversione verso il comportamento, le scelte e lo stile di vita di Renato e dei suoi amici».
Ed è proprio in questo «violento sentimento di avversione verso il comportamento, le scelte e lo stile di vita» che si iscrivono i modi della violenza politica contemporanea. Nascondere la testa sotto la sabbia e negare l’insorgenza di una simile questione, da questo punto di vista, impedisce la nascita di un dibattito collettivo in grado di arginare un problema tutt’altro che superato. Succede così, nel secondo anniversario della morte di Renato, che il concerto indetto al Parco Schuster per commemorare il ragazzo, venga «festeggiato» da una nuova aggressione condotta a colpi di coltello. Ancora una volta, alle quattro del mattino, un piccolo gruppo di ragazzi che avevano aderito all’iniziativa viene circondato da dieci estremisti di destra mentre torna alla propria automobile. L’agguato, per fortuna, non provoca nuovi morti ma lascia sull’asfalto un ragazzo di ventisette anni con profonde lacerazioni alle coscia e altri due giovani con ferite causate da armi da taglio e da catene. Questa volta nessuno ha il coraggio di dire che «la politica non c’entra» eppure, confinata in qualche trafiletto, la notizia finisce soffocata nel marasma della cronaca, una ferita aperta nel cuore di una città tutt’altro che pacificata.
S’intitola Buttati giù, zingaro, eppure il libro di Roger Repplinger (Edizioni Upre Roma, 292pp, 12 euro) è molto di più di una biografia dedicata a uno dei più forti mediomassimi della storia del pugilato tedesco. La ricerca di Repplinger, infatti: riesce a mettere in parallelo quella che è stata la nascita e la diffusione sia della boxe che del calcio in Germania; analizza il modo in cui, partendo dal basso il pugilato e allargando il novero dei suoi praticanti da ciò che fu un’originaria élite borghese il calcio, questi sport divennero un fenomeno di massa, rappresentando il terreno ideale per la propaganda nazionalista e, presto, nazista; offre un contributo importante alla storia del “porrajmos”, l’olocausto sinto e rom, e costruisce un discorso in cui l’abominio hitleriano conosce un nuovo – e quanto mai necessario – atto di accusa a partire dalle vite sia del pugile sinto Johann Trollman che del calciatore “ariano” Tull Harder: esistenze a proposito delle quali il punto di contatto offerto dalla pratica sportiva non può che rafforzare quella differenza insanabile che separa le vittime dai loro carnefici.
Cercando di procedere con ordine, le prime pagine di Buttati giù, zingaro hanno a che fare proprio con un campo di calcio. O meglio, con un piazzale sul quale, in quel di Braunschweig, in Bassa Sassonia, un pugno di adolescenti di buona famiglia si dannano a rincorrere un pallone di cuoio, l’ingrediente principale dell’Association, come ancora ai primi del Novecento veniva chiamato in Germania il gioco del calcio. Il debito linguistico, evidentemente, è nei confronti dell’Inghilterra e della sua «Football Association», patria di un pallone che, in terra tedesca, trova proprio a Braunschweig uno dei territori più fertili, considerando che qui una prima squadra cittadina gioca partite di pallone già nel 1874.
Mentre la Federcalcio tedesca (DFB) vedrà la luce nel gennaio del 1900, è proprio l’origine inglese dello sport a rappresentare uno dei maggiori ostacoli alla sua diffusione. In tempi di montante nazionalismo, infatti, tutto ciò che proviene da Oltremanica viene guardato in modo a dir poco con sospetto. E il calcio, in modo particolare, con la sua connessa violenza di calci e colpi di testa da esibire di fronte a un pubblico incline a rumoreggiare selvaggiamente, viene visto come l’antitesi della ginnastica, cioè l’unica pratica sportiva, rigorosamente non competitiva, atta a esaltare gli ideali di sobria compostezza reputati connaturati ai valori del patriota tedesco.
Insieme al discorso ideologico, il calcio è ostacolato da problemi di ordine materiale. Per comprarsi maglia, calzoni, calze e scarpini, un operaio specializzato ha bisogno di investire una settimana di stipendio e non avrebbe ancora comprato il prezioso pallone di cuoio con la camera d’aria interna, da ungere di grasso a lungo se si vuole sperare di ottenere qualche rimbalzo.
Il giovane Tull Harder, da questo punto di vista, potrebbe permettersi ben più di un pallone. Eppure il benestante signor Fritz, suo padre, punisce severamente le partite clandestine giocate dal figlio attaccante, dispensando con generosità frustate su frustate e vedendo nella pratica dell’Association una sorta di tradimento al buon nome del Kaiser e a quello della Germania.
Sempre in Bassa Sassonia, un altro ragazzino inizia ad alternare le scorribande per le strade dei quartieri popolari alla fascinazione sportiva. Si chiama Johann Trollmann, ma genitori e fratelli usano per lui il nome «Rukeli» che, in romanes, potrebbe essere tradotto come «alberello». Merito della folta chioma nera e, soprattutto, di una struttura fisica forte e slanciata, una qualità che il giovane Trollmann non mancherà di mettere a frutto iniziando a frequentare una delle prime palestre di pugilato. Uno sport che, a differenza del calcio, non richiede agli atleti investimenti iniziali, essendo che i pugni ognuno se li porta da casa, anche se, come il football, sconta di fronte all’opinione pubblica conservatrice la stessa «colpa» di non poter essere considerato di origine tedesca. Anzi, quantomeno a causa di una pratica che richiede di mettere allo scoperto il corpo molto di più di quanto già non facciano le braghe dei giocatori di pallone, la boxe finisce nello stesso calderone razzista in cui i buoni borghesi di puro ceppo germanico infilano i marinai statunitensi e la loro musica jazz, come la boxe considerata foriera d’istinti bestiali e passionalità di bassa lega.
Presto, in ogni caso, le cose sarebbero cambiate tanto per il calcio quanto per la boxe. Il gioco del pallone, a caccia di popolarità, si mette a disposizione dell’incipiente militarizzazione e, in breve tempo, si «germanizza». Mentre s’inizia a parlare di fussball, e non più di football, le origini del gioco vengono rintracciate in certe vetuste pratiche degli antichi abitanti delle terre teutoniche e le reminiscenze inglesi spariscono. Quando, nel 1911, la DFB diventa una branca dell’ultranazionalista Lega della Gioventù Tedesca, per dire goal si usa il termine rete, il corner è diventato angolo e, il giudice di gara, si chiama arbitro, non più referee. Persino i ruoli dei giocatori non sono più gli stessi. Ora c’è il difensore, non il centre back, l’attaccante, non il centre forward, l’ala e non il wing forward: non semplici traduzioni, ma la resa linguistica di uno sport che trova nella similitudine con la guerra la sua ragion d’essere in Germania. E non certo a caso, nell’annuario della Federcalcio tedesca del 1913 si arriva a leggere: «Il tempo avanza con fragore di armi, con pugno d’acciaio distrugge tutto ciò che è diventato marcio e vecchio e concima con sangue e ossa la nostra terra per una nuova semina. Fanfare di guerra salutano il progresso che spinge in avanti la ruota del mondo. E tuttavia anche nel nostro Paese gli stupidi gridano: guerra alla guerra. Sarebbe pericoloso se il loro messaggio avesse successo tra il popolo. Rinunciamo al duro giudizio delle armi e di conseguenza saremo distrutti. Rallegriamoci se nella terra tedesca cresce nuovamente la voglia della lotta e diamo il benvenuto al più grande profeta di questa nuova epoca, lo sport».
Per il calcio, insomma, il dado della militarizzazione è tratto in fretta. E in fondo, già del 1909, ci aveva pensato Heinrich di Prussia, ammiraglio nonché fratello di Guglielmo II, a istituire il Deutschlandschild, campionato di calcio riservato alla marina imperiale. Con simili credenziali, per Tull Harder diventa molto più semplice inseguire la propria passione sportiva e, vinta l’opposizione paterna, il rampollo sassone può indossare la casacca dell’FC Hohenzollern e, già nel 1909, quella dell’Eintracht, prima di passare all’Amburgo, compagine di cui il centravanti sarà presto il giocatore più rappresentativo e la bandiera.
Nel 1914 Harder vede riconosciuto il proprio talento debuttando in nazionale e, grazie alle sue doti di decatleta, in un momento in cui lo specialismo non è la prima caratteristica della pratica sportiva, avrebbe persino potuto partecipare alle Olimpiadi se lo scoppio della prima guerra mondiale non avesse fatto saltare i giochi del 1916. Harder, allora, parte volontario per il fronte, rispondendo oltre che agli ideali con cui è stato educato anche alla chiamata proveniente dalla sua Federazione: «Addosso al nemico!», scrivono i funzionari del calcio tedesco rendendo esplicita l’equazione sport-nazionalismo-guerra. «In questa lotta infuocata dimostrate di essere veri sportivi, animati da coraggio, ardimento e ardente amore per la Patria. Attraverso lo sport siete stati allevati per la guerra, perciò addosso al nemico senza tremare».
Da parte sua, nato solo nel 1907, il pugile Johann Trollmann non avrebbe potuto cogliere il senso di simili parole. E se anche il piccolo Rukeli ha appena otto anni quando gli capita di affacciarsi in una palestra (semi-clandestina) di pugilato, in quel momento la boxe non potrebbe certo essere sventolata come un vessillo patriottico considerando che la sua pratica, fino al 1919, è addirittura vietata dalla polizia. Con la caduta del divieto, la prima palestra di Trollmann può trasformarsi in una vera squadra: la BC Heros Hannover. Era il 1922, due anni dopo la fondazione della “Federazione del Reich tedesco per la boxe amatoriale” ma con appena un anno di anticipo rispetto al tentato, e famigerato, putsch di Hitler, datato 9 novembre 1923. Il particolare è determinante non solo in senso generale, considerato che nel breve periodo di detenzione scontato dopo il fallimento del colpo di stato, l’ex caporale austriaco scriverà “Mein Kampf” esprimendo la sua incondizionata approvazione nei confronti del pugilato: «Se tutta la nostra spirituale alta società non fosse stata educata esclusivamente a raffinate regole di buone maniere, e avesse invece imparato a fare a pugni», sostiene Hitler, «non sarebbe mai stata possibile una rivoluzione tedesca di protettori, disertori e furfanti del genere».
Il vento che spirava sulla boxe, insomma, stava cambiando. Ma mentre Trollmann metteva a punto un approccio personale a questo sport, rivoluzionando uno stile pugilistico fino a quel momento rigido e legnoso con tecniche che in futuro si sarebbero potute ammirare nuovamente nel repertorio di un Muhammad Alì, il pugile capace di «danzare come una farfalla e colpire come un ape», il nazionalismo si impossessava anche nel ring, arrivando a parlare di un “pugilato tedesco” che, naturalmente, non è certo ben disposto ad accettare i trionfi di Rukeli, non più un grande campione, ma soltanto uno «zingaro» agli occhi dei nuovi fanatici della purezza della razza.
«Se una disciplina sportiva deve servire all’addestramento militare, all’educazione paramilitare, non può in nessun modo essere “giocosa”, “piacevole”, o soltanto “divertente”», si tuona nel volume La boxe fondamento dello spirito di lotta (1935). Perché: «Lo Stato popolare non ha il compito di allevare una colonia di esteti pacifici e di degenerati fisici. Non ritrova il suo ideale di umanità in piccoli borghesi per bene o in vecchie vergini virtuose, ma nella pugnace incarnazione della forza virile».
Grazie a questa nuova impostazione, il pugilato, da disciplina negletta, diventerà obbligatorio nella scuola di Hitler, mentre a Trollmann servirà a poco vincere incontri su incontri, né, a salvarlo, potrà essere la sua scelta di entrare – alla ricerca di una maggiore tutela – nel Boxclub Sparta Linden, affiliato alla “Lega degli atleti lavoratori tedesca” (AABD), la federazione dello sport popolare che, in quegli anni, rifiutava qualunque contatto con la controparte borghese anche se, proprio come la Federazione imperiale, si opponeva al professionismo.
Trollmann, in realtà, diventa professionista nel 1929, radunando un folto pubblico di ammiratori, incantati, in un periodo in cui gli incontri di boxe tendevano a ridursi a un testa contro testa condito da un diluvio di pugni ai fianchi, dal suo modo di combattere imprevedibile, pirotecnico e, al tempo stesso, terribilmente efficace. Sarebbe stato proprio grazie a questo stile che, il 9 giugno del 1933, Trollmann, insieme ai suoi 71,3 chili di peso, riesce a surclassare il beniamino dei sostenitori del “pugilato tedesco”, Adolf Witt, ammesso a combattere per il titolo dei pesi medi malgrado un peso di 77,9, di molto superiore ai 72,574 fissati come limite della categoria. Trollmann è incontenibile, ma il razzismo non conosce neppure il limite della decenza, malgrado tutti i cartellini dei giudici assegnassero la vittoria al suo avversario è Witt a essere proclamato vincitore. Accade nella Bockbierbrauerei di Berlino, dove si sfiora il tumulto: i sostenitori di Trollmann minacciano di linciare i responsabili dello scandalo, così l’incontro, a posteriori, sarebbe stato annullato. A nessun costo, insomma, uno «gipsy», questo recitava la scritta che provocatoriamente lo stesso Trollmann recava stampata sui suoi pantaloncini, doveva poter vantare la vittoria del titolo di campione tedesco. Per Trollmann, già capace di sfidare i suoi detrattori nazisti comparendo completamente ricoperto di farina bianca nel corso di un incontro, è l’inizio della fine. Per sopravvivere deve accettare combattimenti improvvisati in luoghi sordidi, poi è la sua stessa vita a essere ogni giorno più a rischio. Il dramma incombe su Trollman come sui 130.000 sinti e sui 1585 rom che vivono in Germania durante l’ascesa di Hitler, giudicati egualmente «Zigeuner» dall’apposito “Istituto di ricerca sull’igiene razziale e sull’eredità biologica”. Ognuno di loro, è a malapena un numero. E il numero 9841 sarà quello che lo stesso Trollman riceverà nel 1942, quando viene arrestato e deportato nel lager di Neuengamme. È qui che succede un episodio che ha dello straordinario. Mentre le SS, infatti, riconoscono nell’internato il campione di pugilato, iniziandolo a usare come un fantoccio per i loro «allenamenti», all’interno del lager si muove un comitato clandestino: «Trollman», pensa André Mandryxcs, capo della resistenza interna, «deve essere strappato al divertimento dei nazisti». Il suo esempio è troppo importante per chi, anche nelle condizioni disumane del campo, si organizza per rispondere alla barbarie hitleriana. Grazie al coraggio degli uomini della resistenza, dunque, Trollmann è fatto passare per morto, scambiato con un altro prigioniero effettivamente deceduto e quindi trasferito in un altro campo, quello di Wittenberge. Ad aspettarlo, ancora una volta, ci sarà la maledizione di sapere usare i pugni. Perché sarà la colpa di mettere KO un feroce kapò ciò che, nel corso del 1944, costerà la vita al grande campione. Responsabile del suo omicidio, avvenuto a randellate, un individuo di nome Emil Cornelius: criminale di guerra responsabile di molte atrocità all’interno del campo, se la caverà con qualche anno di galera, tornando in libertà nel 1961. Una sorte non troppo diversa da quella a cui, nel dopoguerra, andarono incontro gli innumerevoli nazisti con le mani sporche del sangue versato da milioni di ebrei, sinti, rom, omosessuali, oppositori politici.
Tra i criminali graziati a vario titolo dal tribunale di Norimberga e, quindi, dalla mancata denazificazione della Germania, anche il centravanti Tull Harder: perché è proprio nel campo di Neuengamme che le sorti opposte del pugile e del calciatore s’incrociano nell’indifferenza del massacro in corso. Mentre Trollmann, infatti, è solo un prigioniero tra i tanti, Harder, di professione assicuratore dopo una lunghissima carriera e la consolidata nomea di «gloria del calcio tedesco», fa parte di quella generazione convinta di dover addossare a un “nemico interno” la responsabilità della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale. Ed è, in effetti, un simile sentimento a spingere Harder ad arruolarsi nelle SS e, quindi, con il grado di Untersturmführer, a diventare comandante del lager in cui Trollmann si trova recluso.
Come tutti i nazisti, interrogato sulle sue responsabilità dai giudici di Norimberga, Harder si limiterà a balbettare di avere soltanto «obbedito agli ordini»… avessero avuto, simili individui, un briciolo della dignità e del coraggio dimostrato da un André Mandryxcs! Ma anche solo pensare di paragonare il sangue degli eroi alla squallida subumanità degli aguzzini è un insulto. Mandryxcs avrebbe trovato la morte nel corso di un bombardamento alleato quando la guerra era prossima a concludersi, Harder sarebbe stato invece arrestato nel 1945. Nel corso del processo tenterà di far valere il suo curriculum sportivo, le sue quindici presenze in nazionale e anche l’aiuto prestato durante la guerra a un ex arbitro ebreo. Condannato a quindici anni, sarà liberato già nel 1951, e, come scrive l’autore di “Buttati giù, zingaro”, Harder: «In occasione della sua presenza alle partite dell’HSV viene festeggiato dallo speaker e festeggiato dagli spettatori. (…) Riprende il suo lavoro con le assicurazioni e vive a Bendestorf. Il suo reddito è buono, riceve anche una pensione dallo Stato come ex Untersturmführer delle SS, a differenza dei sinti e dei rom che sono stati internati nei campi di concentramento. I tribunali tedeschi hanno stabilito che gli “zingari” non sono stati perseguitati dai nazionalsocialisti per ragioni razziali ma venivano deportati come criminali».
Un’amarezza sconfinata. Mitigata appena da un atto dovuto. Nel dicembre del 2003, infatti, i discendenti di Trollmann ricevono dalla Federazione una cintura da campione, mentre Rukeli si vede ufficialmente assegnare il titolo dei mediomassimi che gli era stato sottratto nel 1933. Ma se il combattimento di Trollmann, alla resa dei conti, può essere considerato un match lungo settant’anni, quello che oppone la verità e la giustizia alla volontà di cancellare con un colpo di spugna la storia nera del nazismo e del fascismo è ancora in corso. E troppi, ancora oggi, restano i debiti che non sono mai stati saldati.
Io lì non ci dovevo andare. Me lo avevano detto i miei colleghi sotto la doccia. Arrotolavano gli asciugamani e mi colpivano sulla schiena. E quando mi voltavo per vedere chi era stato giravano il dito indice, ridevano e facevano finta di niente: «Tu lì non ci puoi venire,» ripetevano, «perché sei stupido».
Erano tutti contenti di partire. Perché là pure a noi carabinieri di leva ci avrebbero pagato la giornata. E la mensa. E il posto dove dormire.
Qualcuno dei miei colleghi diceva pure che non c’era mai stato a Genova e già che c’era si sarebbe scopato qualche puttana. Magari una dei noglobal.
Io lì non ci dovevo andare. A fare il carabiniere. È che mio padre aveva un cugino che conosceva il maresciallo e allora mi hanno fatto passare. Anche se dicevano che non ci stavo tanto con la testa.
Poi un collega si è ammalato. E il comandante della caserma era convinto che dovevamo essere in tanti e allora mi ha mandato a dire che sarei salito anche io. Però dovevo stare attento perché mi volevano tirare i palloncini con il sangue infetto. E mettere le bombe nella macchina. Perché poi si volevano prendere tutto e a noi mandarci a casa.
Io comunque a casa non ci sto mica male. Conosco quelli del bar del mio paese. E loro non dicono che sono stupido.
Forse qualcuno lo dice. Ma solo perché mi sono fidanzato a una che era sposata e che aveva una bambina e quelli del bar pensano che le donne uno se le deve prendere nuove, come la macchine. No che prima le ha usate qualcun altro.
Ma a me lei piaceva. E anche la bambina.
Comunque sono partito. Con il pullman e tutti i colleghi.
Eravamo allegri.
Cantavamo.
Quelle canzoni non le conoscevo. Una diceva «faccetta nera», mi ricordo. Un’altra diceva «bella bionda apri le cosce». Un’altra ancora non la so ridire perché le parole erano in tedesco. Mi pare.
Quando siamo arrivati ci hanno fatto scendere e ci hanno detto di andarci a mettere la divisa.
Io mi sono trovato un posto vicino al muro nello spogliatoio. Così non potevano iniziare a darmi le botte con gli asciugamani. Ed ero contento perché avevamo pure un armadietto con la chiave. Che una volta avevo lasciato la roba nello spogliatoio e poi l’ho trovata tutta sporcata con la schiuma da barba.
Quando ci siamo vestiti ci hanno portato in una piazza. Non eravamo solo noi carabinieri, c’erano tutti. Quelli della guardia di finanza, quelli della polizia penitenziaria, pure quelli della forestale, c’erano. C’erano tutti.
E uno senza divisa, ma con la giacca e la cravatta, ci ha parlato. Ci ha detto che l’onore dell’Italia dipendeva da noi, che altrimenti le nostre donne avrebbero cominciato a fare l’amore con le cameriere e poi nelle chiese ci sarebbe finita la droga dove si mette l’acquasanta.
Alla fine tutti abbiamo urlato «sissignore». E siamo andati a prendere gli ordini al comando.
«Tanto tu sei stupido», mi ha detto un collega. E ce l’aveva con me soltanto perché il mio ordine diceva che dovevo stare di supporto, no fare le cariche proprio io. Invece il collega sbatteva il manganello nell’aria ed era tutto contento: «Perché a quelle zecche io glielo do sulla faccia così».
Intendeva dalla parte del manico. Perché fa più male il manganello dalla parte del manico. Ed è per questo che tutti lo usano in quel modo.
Come con il lanciagranate per i lacrimogeni. A me ne hanno dato uno e nella zona della Fiera mi hanno detto: «Spara!».
Io ho iniziato a sparare, e mi sono respirato un sacco di gas. Per questo io, durante il servizio, quasi nemmeno li ho visti quelli che stavano lì a Genova. Qualcuno sì. Mi sembravano ragazzini. Erano maschi e femmine in realtà. E una di loro, una femmina con lo zainetto, assomigliava alla figlia della mia fidanzata. L’ho riconosciuta subito, perché a lei voglio bene. Pure di più che se fosse figlia mia, anche se è diverso.
Non lo so se quella ragazzina si è fatta male oppure no. Mi dispiace se lei si è fatta male. Ma di sicuro mi sono fatto male io. Mentre sparavo i lacrimogeni non ci stavo proprio pensando che mi volevano tirare i palloncini con il sangue sieropositivo, e nemmeno che la mia fidanzata poteva fare l’amore con la cameriera perché da noi li lava lei i piatti e i panni, non c’è nessuna cameriera. Io sparavo solo i lacrimogeni, finché un ufficiale non è venuto da me e mi ha ordinato: «Levati di mezzo, che tu non sei capace».
Me lo ha preso lui il lanciagranate. E quando sparava, sparava dritto, così poteva colpire la gente in faccia.
«Qua siamo in guerra, cosa ti credi», mi spiegava.
E il mio compito era prendere i lacrimogeni e passarli a lui. Ma da quelli un po’ di gas usciva, e io me lo respiravo. È stato così che mi sono sentito male. Allora l’ufficiale ha perso la pazienza: «Sei un coglione», ha urlato. E mi hanno fatto salire sul gippone riservato agli ammalati.
Capirai. Io ero solo che contento di andarmene via. Se proprio potevo me ne sarei tornato a casa, al bar. Che mi mancava la mia fidanzata. E sua figlia.
Invece poi è successo. Non lo so se la colpa è stata del collega che mandava i messaggi con il cellulare, ma alla fine il gippone dove stavo è rimasto da solo, e intorno c’era tanta gente arrabbiata che ci lanciava le cose. Noi abbiamo provato a scappare, ma siamo rimasti incastrati addosso a uno di quei cosi dove la gente ci mette i vetri da buttare. E intorno che macello!
Ci tiravano i sassi, ci rompevano i vetri, sembrava ci volessero ammazzare, non me lo ricordo bene però. Io avevo respirato il gas. Avevo pure vomitato. Poi ho visto il sangue. Non lo so di chi era. E ho preso la pistola. E ho sparato in aria due volte. Ci ho messo un po’ perché non ero tanto capace a togliere la sicura, ma ho sparato in aria. E le cose si sono calmate. È arrivato pure un altro collega e finalmente mi hanno portato in ospedale. Lì mi hanno dato delle medicine, talmente tante medicine che mi veniva sonno, e se mi chiedevano qualcosa rispondevo piano, nemmeno io lo sapevo quello che dicevo. Quando proprio quasi dormivo mi hanno riportato in caserma. E li mi stavano aspettando. Tutti i colleghi. Sembravano felici. Hanno iniziato a battere le mani e a scandire in coro: «uno a zero per noi! uno a zero per noi!».
Allora, con una pacca sulla spalla, mi hanno informato che avevo ucciso un manifestante: «Benvenuto tra gli assassini», mi hanno salutato.
E da quel momento, ogni volta che uno di loro mi incontrava, mi indicava agli altri e avvisava: «State attenti, mi raccomando, non fate arrabbiare il cecchino».
Ma se io non sono mai stato capace a sparare!
Al poligono ero il peggiore di tutti, non ci prendevo proprio.
Ma ormai nessuno mi credeva. Mi hanno portato delle carte e io l’ho firmate: «Ti gestiamo noi, ricordatelo», venivano a raccomandarsi.
Ma cosa significa gestione?
Sono finito su tutti i giornali!
Mi hanno dato la colpa.
E mi hanno detto che non ero più buono per fare il carabiniere.
Capirai.
Io questo lo sapevo già.
E pure gli amici del bar, giù al paese, hanno cominciato a farmelo pesare. Secondo loro chi non è buono per il re non è buono nemmeno per la regina. E che la mia fidanzata mi ha lasciato se lo immaginavano tutti. Secondo loro una volta che è stata fatta la strada tutti i cani ci passano. E da lei ne erano passati tanti…
Ma io le volevo bene.
A lei.
E alla bambina.
Non lo sapevo che potevo fare qualcosa di male. Quando sono venuti a prendermi l’ho spiegato bene: «Non lo sapevo che potevo fare qualcosa di male».
Ma loro insistono.
Insistono che io la toccavo.
O che mi sono fatto toccare, non me lo ricordo.
Io ho respirato i gas e ho pure vomitato.
E poi ho sparato in aria, sono sicuro.
Sono sicuro, anche se con tutte le gocce che mi hanno fatto prendere non è facile essere sicuri. Non riesco nemmeno a capire se è vero quello che vedo davanti agli occhi quando li chiudo. Se è vero un ragazzo con il passamontagna che mi guarda e alza il braccio puntandomi addosso le tre dita unite a formare una pistola. Lui, quando chiudo gli occhi, arriva e fa: «Pum!».
«Carlo Giuliani è vivo e tu sei morto».
Ogni volta che chiudo gli occhi il ragazzo con il passamontagna me la ripete sempre questa cosa qua.
Racconto di Cristiano Armati tratto dal volume Per sempre ragazzo. Racconti e poesie a dieci anni dall’uccisione di Carlo Giuliani, a cura di Paola Staccioli, Tropea Editore, 2011.
Cresciuto nell’ambiente dell’estrema destra bresciana, Silvio Ferrari, ventuno anni appena, ha un piede nella redazione del periodico «Anno Zero» e l’altro dentro “La Fenice” di Giancarlo Rognoni. Tra le sue frequentazioni spiccano quelle con i sanbabilini milanesi: la manovalanza di un disegno in cui, attentato dopo attentato, fioriscono sigle come quella del Movimento d’Azione Rivoluzionaria (Mar) di Carlo Fumagalli e delle Squadre d’Azione Mussolini (Sam) di Giancarlo Esposti, organizzazioni eversive impegnate a seguire la scia dell’appena disciolto Ordine Nuovo (e del suo erede “Ordine nero”) e di Avanguardia Nazionale, ognuna con i suoi interlocutori (e i suoi finanziamenti) all’interno dei servizi segreti, ognuna costretta a guadagnare la propria sopravvivenza lottando contemporaneamente su due fronti: 1) in mezzo alla gente, con lo scopo di seminare indiscriminatamente morte e distruzione per favorire un intervento militare che favorisse l’avvento di un colpo di Stato; 2) all’interno del sistema, per spingere nella direzione di una soluzione “dura”, prevedendo l’instaurazione di un regime dittatoriale simile a quello installatosi nella Grecia dei Colonnelli e destinato a imporsi anche nel Cile di Pinochet; o, viceversa, per favorire un approccio “morbido” alla gestione politica italiana: un Paese nel quale i fermenti sociali si sarebbero potuti tenere sotto controllo anche acquisendo il controllo dei mezzi di informazione, limitando le garanzie sancite dalla Costituzione e invocando la necessità di riforme in grado di scambiare una democrazia di tipo parlamentare con un repubblica presidenziale.
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Esiste una fotografia che mostra il corpo di Silvio Ferrari orrendamente dilaniato. Uno scempio provocato da mezzo chilo di polvere da mina mescolato a mezzo chilo di tritolo. Sigillata all’interno di un pacco, la bomba, prima di esplodere, si trovava tra le gambe di Ferrari, evidentemente incaricato di trasportare l’ordigno per conto di qualcuno o di andare a piazzarlo chissà dove. Non si conoscono le intenzioni del giovane fascista né, tanto meno, è nota l’identità del mandante ma, alle tre di notte del 18 maggio 1974, il vespino di Ferrari è fermo a Brescia, in piazza del Mercato, quando salta in aria insieme al suo conduttore. La deflagrazione ha una forza in grado di rompere i vetri ai palazzi del quartiere, eppure l’iniziale ipotesi di uno scoppio accidentale durante il trasporto viene smentita dalla perizia disposta sull’esplosivo e sui resti del ragazzo:
È parere concorde dei periti che l’esplosivo fosse innescato con detonatore elettrico e l’accensione organizzata a tempo prestabilito mediante congegno a orologeria ottenuto con una sveglia di marca “Europa”. Sulle cause dello scoppio, la posizione di Silvio Ferrari e della motoretta, i periti ritengono che la Vespa non fosse in movimento. Il Ferrari era seduto sulla Vespa con il busto reclinato in avanti, le braccia appoggiate al manubrio e i piedi a terra. La perizia esclude che l’esplosione sia dovuta a un fatto accidentale. L’ordigno sarebbe invece esploso al momento prestabilito.
Detto in altri termini: Silvio Ferrari non è vittima di un “incidente” ma sarebbe stato assassinato.
*
La notizia dell’esplosione avvenuta la notte del 18 maggio in piazza del Mercato è come una frustata su nervi già estremamente scossi. È dal 29 gennaio, quando tre ordigni innescati dalle Sam saltano contemporaneamente a Milano, che in Lombardia esplodono le bombe e si spara per le strade: numerosi militanti di sinistra sono feriti con le spranghe e i colpi di pistola nel corso di raid organizzati dagli ultras di estrema destra mentre le sedi delle loro organizzazioni vengono devastate. Gli attentati di marca neofascista provocano anche un morto a Varese, il 28 marzo, quando, in piazza Maspero, un fioraio perde la vita per la deflagrazione di una carica di esplosivo occultata tra i banchi del mercato.
La morte di Silvio Ferrari segna una misura già colma. Eppure, dopo la notte del 18 maggio, il tempo della paura non si limita a sfogare le sue ansie in piazza del Mercato ma, dichiarando guerra a tutta la società civile, continua a proferire minacce come quelle contenute in un volantino recapitato al «Giornale di Brescia» (ma, d’accordo con la Questura, mai pubblicato) e riferite a un sedicente “Partito Nazionale Fascista – sezione Silvio Ferrari”.
Brescia non ha altra scelta: la città insorge contro il terrore nero e il Comitato antifascista si mobilita. Al termine di una riunione a cui, con l’esclusione del Movimento sociale, partecipano tutte le forze dell’arco costituzionale e i sindacati, per la giornata di martedì 28 maggio viene indetto un sciopero e annunciata una manifestazione. L’occasione è talmente grave e importante da auspicare la più grande partecipazione popolare e questo è quello che chiedono a Brescia i rappresentanti del Comitato all’indomani dell’orrenda morte di Ferrari:
Cittadini bresciani,
ancora una volta il fascismo si manifesta nella nostra città e nella nostra provincia con i caratteri ripugnanti del terrorismo omicida, della provocazione e della violenza. Per richiamare i democratici all’unità e alla vigilanza antifascista, perché sia con fermezza colpita ogni trama fascista, perché oltre agli esecutori materiali della violenza siano assegnati alla giustizia i mandanti ed i finanziatori, il Comitato permanente antifascista indice per martedì 28 maggio ore 10 in piazza Loggia una manifestazione antifascista in concomitanza con lo sciopero generale proclamato dai sindacati. Partecipano Franco Castrezzati, a nome delle organizzazioni sindacali e l’on. Adelio Terraroli, a nome delle forze politiche.
Ore 9: concentramento a piazza Garibaldi – Porta Trento – piazza Repubblica. Ore 9 e 30: partenza cortei per piazza Loggia. Ore 10: comizio pubblico
(Testo del manifesto redatto dal Comitato unitario permanente antifascista di Brescia e sottoscritto da Dc – Pci – Psi – Pri – Cgil-Cisl-Uil – Anpi – Ffvv – Aned – Anppia – Acli – Cogidas).
*
L’antifascismo chiama e Brescia risponde. Il 28 maggio nella “Leonessa d’Italia” scendono in piazza migliaia di persone: lavoratori, militanti di sinistra, ex partigiani e cattolici del dissenso decisi a far sentire la propria voce. Al contrario di quanto accade nel corso degli scioperi “normali”, questa volta non si incrociano le braccia per sostenere una rivendicazione di tipo salariale ma per protestare contro il rigurgito di violenza che sta tormentando la regione e per sostenere i valori della democrazia. Alle 10 il luogo in cui si deve tenere il comizio è già pieno da un pezzo ma, dalle vie adiacenti, i cortei partiti da piazza Garibaldi, Porta Trento e piazzale della Repubblica continuano ad alimentare la folla. Per l’occasione, in piazza della Loggia è stato allestito un grande palco ornato con il panno rosso e sormontato dalle bandiere tricolore, e, all’ora convenuta, gli altoparlanti cominciano a diffondere le parole di Franco Castrezzati della Cisl, deciso a tenere un discorso in cui l’episodio che ha visto protagonista il giovane Ferrari viene inquadrato all’interno di un più ampio e inquietante scenario nazionale:
Amici e compagni, lavoratori, studenti, siamo in piazza perché in questi ultimi tempi una serie di attentati di chiara marca fascista ha posto la nostra città all’attenzione preoccupata di tutte le forze antifasciste. Sono così venuti alla luce uomini di primo piano che hanno rapporti con gli attentatori di piazza Fontana e del direttissimo Torino-Roma, vengono pure alla luce bombe, armi, tritolo, esplosivi di ogni genere. Ci troviamo di fronte a trame intessute segretamente da chi ha mezzi e obbiettivi precisi. […] Si attenta alla vita umana che è un diritto naturale. Si innescano ordigni esplosivi contro sedi di partito, sindacati, cooperative, col proposto di intimidire. Il propellente à ancora una volta l’ideologia fascista. […] La nostra costituzione, voi lo sapete, vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto Partito fascista. Eppure il Moviemento sociale italiano vive e vegeta. Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della Repubblica Sociale Italiana, ordinava fucilazioni e ordinava spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e istituzionale.
A Milano…
«A Milano – avrebbe potuto continuare Castrezzati, riferendosi magari alle bombe del 1969 e alla strage di piazza Fontana – l’Italia è stata spinta sul baratro di una guerra civile da una carneficina senza precedenti che, accanto all’impiego di manovalanza fascista, lascia intravedere anche pesanti responsabilità da parte di importanti autorità dello Stato…».
Il sindacalista bresciano, però, non avrebbe mai avuto modo di completare il suo ragionamento. Sta parlando da pochissimi minuti quando, alle 10 e 12, l’aria viene raggelata da un rumore secco e assordante, simile a una fucilata. Istantaneamente, la piazza piomba in qualche secondo di silenzio irreale. Come se stesse trattenendo il fiato per prepararsi a un urlo spaventoso, la folla ammutolisce prima di sprofondare nel panico totale. C’è chi scappa, chi si dispera, chi, allucinato, resta immobile, con lo sguardo sbarrato:
Piazza della Loggia sembra una nave in tempesta, con la folla che ondeggia, prende a sussultare e poi a sbandare mentre bandiere e striscioni cadono a terra, la gente urla e molti fuggono. Sulla piazza, lungo i portici e davanti al cestino della morte è l’inferno: pezzi di gambe e di braccia, resti umani, feriti lievi e feriti gravi, persone agonizzanti, morti. C’è chi urla e chi si lamenta, i mariti cercano le mogli e le mogli i mariti, altri invocano il nome di un parente, altri ancora si aggirano come fantasmi con brandelli di vestiti tra le mani mentre qualcuno, muto, senza lacrime e senza espressione, fissa il vuoto (Giancarlo Feliziani, Lo Schiocco, Limina, Arezzo 2006).
Nel marasma generale, dalla voce aggrappata al microfono, sul palco degli oratori, vengono fuori frase intrise di fumo, avvertimenti acri come l’odore della paura e della polvere da sparo:
Aiuto… state fermi.
Compagni e amici, state fermi, calma. State calmi, state calmi, state all’interno della piazza, il servizio d’ordine all’interno della piazza, il servizio d’ordine faccia cordone all’interno della piazza. State all’interno della piazza. Lavoratori, all’interno della piazza. Il servizio d’ordine… state calmi, tutti sotto il palco, lasciate il passo alla Croce Bianca… sotto il palco, portatevi alla sinistra della piazza, alla sinistra della piazza, alla sinistra della piazza verso il palco, lavoratori… lascia… lasciate il passo, lavoratori… rechiamoci tutti in piazza della Vittoria, lasciate il passo alle macchine per il soccorso, tutti in piazza della Vittoria. Compagni, il senso di responsabilità in questo momento… andiamo in piazza della Vittoria, lasciate il passaggio alle macchine, lasciate il passaggio alle macchine…
*
Sette etti di esplosivo nascosti in un cestino di rifiuti proprio sotto il porticato: questa è stata l’arma usata dei terroristi per provocare quello scempio di arti strappati dai corpi e sangue che devasta piazza della Loggia dopo l’attentato. Un’intenzione criminale favorita dall’inclemenza del tempo e dalla pioggia battente che, la mattina del 28 maggio, ha spinto i manifestanti ad accalcarsi dove era possibile trovare un riparo.
Per otto di loro, quell’intenso attimo di luce che precede l’urto di un’esplosione, è il confine che separa la vita dalla morte. La vita, nella fattispecie, è quella densa di impegni vissuta da Livia Bottardi, trentadue anni, professoressa attiva nella cgil Scuola. Livia, la mattina del 28, va in piazza anticipando di poco Manlio Milani, suo marito, un operaio. I due, da una parte all’altra dei portici, fanno in tempo a vedersi, a sorridersi, a farsi un cenno con la mano… ma dopo l’esplosione Manlio resta solo e gettarsi a capofitto nella folla che scappa via terrorizzata per trovarsi a stringere il corpo di Livia non serve a nulla. Manlio spera fino all’ultimo, continua ad abbracciare Livia anche sull’ambulanza ma… «Ormai è morta», sono le parole che non avrebbe mai voluto ascoltare, pronunciate da un’infermiera a testa bassa, nell’androne dell’ospedale.
Insieme a Livia, a Brescia cadono altri quattro insegnanti, tutti attivi all’interno del sindacato e amici tra di loro. Soltanto la sera prima della Strage, a cena con Livia e Manlio c’erano anche Clementina “Clem” Calzari e Alberto Trebeschi. Lei, trentuno anni, ragazza molto bella, non aveva avuto paura di affrontare i pregiudizi quando si era trattato di opporsi alla volontà del padre, convinto che per una ragazza non stesse bene proseguire gli studi, ed era diventata professoressa di latino. Lui, trentasette anni, laureato in fisica ed esperto di filosofia della scienza, è l’autore di un’importante ricerca intitolata Fisica e filosofia, redatta con la collaborazione della stessa Clementina. Tra le pagine del suo diario c’è una frase che resta a rappresentarlo meglio di un autoritratto: «Se mi andasse si perdere il sapore del travaglio intellettuale, in me rimarrebbe esclusivamente l’animale e questo rappresenterebbe il primo passo verso la morte, la vera morte che è quella dello spirito».
Coppia felice e innamorata, Clementina ed Alberto non avevano rinunciato alle proprie idee nemmeno quando si era trattato di sposarsi: erano disposti ad andare incontro alla madre di Clementina che non accettava l’idea di una convivenza ma la cerimonia che li avrebbe dichiarati marito e moglie non si sarebbe tenuta in chiesa bensì in municipio. Poi ci avrebbe pensato Giorgio a cementare la loro unione: un ragazzino che, a nemmeno due anni, è costretto a vedere i nomi di entrambi i genitori tra quelli delle vittime della Strage.
In questo macabro elenco c’è anche Luigi Pinto, venticinque anni, sposato con Ada, nato Foggia e arrivato a Brescia dopo aver lavorato in uno zuccherificio in Puglia e alla Sir di Porto Torres, in Sardegna. L’incarico di insegnante di Educazione tecnica, per lui, è un punto d’arrivo importante visto che il contatto con i giovani – insieme alla politica – è la cosa che lo appassiona di più. Quando arriva in ospedale, insieme a più di cento feriti, Luigi respira ancora: la sua tempra è forte e, a tratti, sembra che ce la possa ancora fare… invece morirà il primo di giugno, dopo tre giorni di coma.
Oltre a lavorare per la Cgil Scuola, Luigi frequentava il circolo di Avanguardia operaia, lo stesso in cui è di casa un’altra compagna del sindacato: Giulietta Banzi in Bazoli, trentaquattro anni, detta anche “Giulietta la rossa”, come la bandiera che adornerà la sua bara il giorno dei funerali. Sposata a un assessore della Democrazia cristiana anche se convinta sostenitrice del marxismo-leninismo, Giulietta, madre di due figli, insegna francese senza avere nessuna necessità di ricorrere ai formalismi autoritari che, troppo spesso, separano il professore dai suoi allievi. Allievi che, riuniti in assemblea subito dopo la notizia della carneficina, si dimostreranno perfettamente in grado di mettere in pratica il sapere appreso insieme alla loro insegnante inquadrando con lucida precisione i meccanismi nascosti dietro la bomba di piazza della Loggia: «Di fronte al tentativo di mistificare i connotati politici di questi caduti – sostengono gli studenti della Banzi – facendoli passare per individui casualmente coinvolti nella Strage, è necessario testimoniare l’impegno politico che li ha portati al sacrificio».
Gli studenti della Banzi hanno ragione. Perché l’impegno politico è esattamente ciò che tiene insieme non soltanto il gruppo degli insegnanti – tra l’altro spesso richiamati dalla stessa direzione della cgil in quanto accusati di “sorpassare a sinistra” le linee-guida del sindacato – ma anche gli altri caduti di piazza della Loggia.
Tra gli iscritti al sindacato, per esempio, c’è l’artigiano Bartolomeo Talenti detto Bartolo, cinquantasei anni: una mago nella manutenzione e nella riparazione delle armi, mestiere che aveva appreso direttamente dal padre; ma anche un militante talmente esperto da guadagnarsi tra i più giovani il soprannome di “papà”.
Ancora dalle fila del Partito comunista, con un passato nei Gruppi di azione partigiana, viene Euplo Natali: sessantanove anni e, alle spalle, un licenziamento provocato dal suo acceso antifascismo ma anche, dopo la Liberazione, l’orgoglio di avere rappresentato il Cln nella provincia di Brescia.
Anche l’operaio Vittorio Zambarda è iscritto al Pci praticamente da sempre: dopo una vita di lavoro durissimo, avrebbe dovuto iniziare a riscuotere la pensione. L’esplosione della bomba, però, non gli consentirà mai di andarsi a mettere in fila all’ufficio postale ma lo tormenterà con una lunga agonia, chiusa dal sopraggiungere della morte soltanto il 15 giugno, diciotto giorni dopo l’attentato.
Sono questi i morti provocati dalla bomba fascista di piazza della Loggia: «Non si chiamino vittime ma caduti consapevoli», si dirà di loro, per sottolineare come, a differenza delle altre stragi compiute dall’eversione nera in Italia, quella di piazza della Loggia non è stata pensata per colpire nel mucchio ma per abbattersi sui settori più progressisti dell’opinione pubblica. Come preciserà nel 1993 nella sua sentenza-ordinanza il giudice istruttore Giampaolo Zorzi, la strage di Brescia è quella «a più alto tasso di politicità nel novero delle stragi che hanno scandito la storia d’Italia dal 1969».
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Cosa c’è di peggiore della morte?
Non c’è niente di peggiore della morte. A parte il comportamento – a metà strada tra l’incompetente e il complice – di chi esisterebbe (polizia e magistratura inquirente) proprio per impedire che un fatto come quello di Brescia possa accadere o, al limite, per portare un contributo di verità alle ragioni più profonde di un simile lutto. Il comportamento a metà strada tra l’incompetente e il complice, passando in rassegna la gestione investigativa e giudiziaria della strage di piazza della Loggia, è quello della questura di Brescia e del dottor Aniello Diamare, uno dei suoi massimi dirigenti. Perché la bomba è esplosa da poco più di un’ora quando il funzionario, spinto da un lampo di follia o da chissà cosa, ordina ai pompieri di accorrere sulla scena del delitto per irrorare la piazza con potenti getti d’acqua. In questo modo piazza della Loggia viene tirata a lucido: dopo mezzogiorno non ci sarà più traccia del sangue versato e, naturalmente, nemmeno più traccia di qualsiasi reperto in grado di dispensare indizi sull’identità dei bombaroli e sugli autori della Strage.
Perché il vicequestore Diamare ordinò ai pompieri di lavare la Piazza?
L’attitudine delle forze dell’ordine a ripulire la scena del delitto, quando si tratta di stragi, più che un errore o una manifestazione di pura incompetenza è una specie di tradizione. Già nel 1944, a Palermo, quando un battaglione di soldati aprì il fuoco su una folla inerme, subito dopo l’eccidio si procedette a lavare via Maqueda e le strade circostanti. Ancora nel 1969, il giorno della strage di piazza Fontana, un altro ordigno inesploso venne immediatamente fatto brillare dagli artificieri di Milano con il risultato di distruggere per sempre una prova preziosa.
Si tratta di stranezze più che sospette che, nel caso di piazza della Loggia, iniziano addirittura prima dell’esplosione della bomba. Ai bresciani abituati a partecipare alle manifestazioni, infatti, il 28 maggio non sfuggì il movimento dei carabinieri incaricati di svolgere il servizio di vigilanza che, poco prima dell’inizio del comizio, abbandonarono il loro solito presidio – collocato esattamente sotto i portici, nei pressi del cestino contenente l’ordigno – per schierarsi all’interno del cortile della Prefettura. Si potrebbe pensare a un gesto di buona educazione, compiuto dagli uomini al comando del vicequestore Diamare e del tenente Ferrari per dare modo a chi affluiva in piazza della Loggia di trovare un riparo… un presunto atto di distensione che è difficile interpretare come tale tenuto conto che, subito dopo l’esplosione e poco prima che gli idranti dei pompieri iniziassero ad annacquare l’inchiesta, i manifestanti superstiti vennero sgombrati dalla piazza a manganellate!
Come mai Diamare e Ferrari spostarono i loro uomini dal porticato di piazza della Loggia al cortile della Prefettura?
Per completare il profilo della Questura di Brescia si deve ancora aggiungere una cosa. Quando si tratta di esprimersi sulla natura della Strage, le prime dichiarazioni ufficiali, insieme alle tracce lasciate sulla Piazza, cercano di rimuovere anche la matrice politica dell’attentato: «Indaghiamo in tutte le direzioni – si sentenzia dalla Questura – ma chi può escludere che si sia trattato del gesto di un folle?» (citato in «Paese Sera» del 30 maggio 1974).
Per le questure italiane, l’attitudine a negare le responsabilità della destra relativamente agli episodi più sanguinosi degli anni di piombo, sembra essere una sorta di abitudine: un comportamento che, oltre a causare gravi perdite di tempo compromettendo l’esito delle investigazioni, priva i cittadini di una sponda istituzionale credibile, erodendo in maniera irreversibile qualunque idea di fiducia nei confronti dei rappresentanti del potere centrale.
Non a caso, una volta appresa la notizia della strage, tutta l’Italia insorge riversando la propria rabbia nelle strade e scagliandosi spesso contro le sedi del Movimento sociale e i luoghi di ritrovo della destra. A Brescia, in modo particolare, i fischi che sommergono le massime cariche dello Stato durante i funerali delle vittime di piazza della Loggia rappresentano in modo crudo ed eloquente una vera e propria chiamata in correità da cui, uomini come il presidente del Consiglio Mariano Rumor, il ministro Paolo Emilio Taviani e lo stesso presidente della Repubblica, Giovanni Leone, non riescono a sottrarsi. Con le mani tremanti, Leone dovrebbe essere a Brescia per esprimere la sua solidarietà ai familiari di Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Clementina “Clem” Calzari, Euplo Natali, Alberto Trebeschi, Luigi Pinto e Bartolomeo “Bartolo” Talenti, ma, una volta arrivato sul palco riservato alle autorità, troverà l’assessore della Dc Luigi Bazoli, il marito di Giulietta Banzi, pronto ad afferrarlo per il bavero e a dirgli senza mezzi termini: «Caro Presidente basta con queste cose… Dobbiamo smetterla, impedire, non possiamo più accettare che questo avvenga, basta… Non possiamo permettere che avvengano queste cose nel nostro Paese…».
Giovanni Leone non è certo l’interlocutore più adatto a raccogliere la domanda di moralità avanzata prepotentemente dalla piazza… i voti del Msi grazie ai quali, nel 1972, è stato eletto Presidente pesano come macigni nel momento in cui il «marchio di fabbrica» della destra eversiva si stampa in maniera indelebile sulla Strage. La pista nera – malgrado i tentennamenti iniziali e i tentativi con cui il «Secolo d’Italia» proverà ad attribuire l’attentato alle Brigate rosse – inizia velocemente a fornire i primi indizi: i gruppi di Ordine nuovo attivi in Veneto, il movimento neofascista bresciano insieme ai settori più retrivi del padronato cittadino diventano presto i luoghi in cui cercare per dare un nome e un volto agli assassini di piazza della Loggia.
Per chiudere il cerchio di una simile teoria mancano alcuni tasselli fondamentali, magari una testimonianza diretta come quella di Ermano Buzzi: un ex missino bresciano vicino sia agli ambienti della criminalità politica che a quelli della criminalità comune (ha precedenti per furto e ricettazione di quadri), arrestato con l’accusa di essere responsabile dell’esecuzione materiale della strage. Ad inchiodarlo, la testimonianza di un altro fascista di Brescia, Angelino Papa, secondo cui, la mattina del 28 maggio, Buzzi avrebbe preannunciato l’attentato dichiarando, prima dell’esplosione: «C’è la manifestazione antifascista… Gli facciamo lo scherzetto…».
Ermanno Buzzi, auto-proclamatosi “conte di Blanchery” dopo aver acquistato il titolo da un notabile napoletano, non è certo un personaggio benvoluto dai suoi camerati. Dopo il suo arresto lo stesso Giorgio Almirante avrà buon gioco nel scrollarsi di dosso le accuse che chiamano in causa il Movimento sociale accusando Buzzi di essere «un noto pederasta» e, conseguentemente, giustamente espulso dal suo partito essendo l’Msi «l’unico partito veramente anti-omosessuale».
L’omofobia di Almiranti e camerati, ostentata come se si trattasse di un valore e non di un serio problema psichiatrico, fa parte delle eterne contraddizioni della destra italiana: ammantata di virilità e machismo fino al punto di costruire per i suoi militanti un’ideale di tipo spartiata o tebano, una “società di maschi” in cui, come ai tempi di Patroclo e Achille, anche la sessualità – recuperata in chiave antiborghese – viene esperita all’interno del gruppo di “guerrieri” o “soldati politici” che dir si voglia. In questo contesto, Ermanno Buzzi può ben rispecchiarsi del gruppo neofascista più celebre del Nord Italia, quello dei sanbabilini, “ritratti dal vero” dalla penna di Alessandro Preiser, pseudonimo di un’ex militante nero:
Eurialo non tardò a far parte della ristretta chiostra nella quale tutti riconoscevano gli eroi da emulare e seguire […]. Raimondo Forzi: era il più legato a Eurialo […] e al pari di questi, pur non disdegnando di quando in quando rapporti omosessuali, era sostanzialmente eterosessuale. […] Corrado: […] non s’è mai saputo se gli piacessero più gli uomini o le donne. […] Ruggero detto Ruggerino: un femmineo fanciullo diciassettenne basso e smunto con lunghe anella more, si truccava, aveva meravigliose mani inanellate che avrebbero fatto invidia ad Anna Karenina, delicato, con voce che pareva un soffio leggero, uranista sentimentale. Stravedeva per Silvano, ma essendo questi troppo moralista si lasciava coinvolgere nelle avventure di droga e sesso di Ennio, Eurialo e Raimondo. […] Luca: sedicenne, appena più mascolino di Ruggerino, leggermente più alto di questi ma più basso d’Eurialo. Legato a Corrado insieme col quale si faceva adusare da Eurialo e Raimondo dalle tentazioni dell’hashish e non soltanto a quelle (Alessandro Preiser, Avene selvatiche, Marsilio, Venezia 2004).
Più concretamente, il problema di Ermano Buzzi con gli uomini che gestiscono il terrorismo nero non è l’omosessualità ma il suo presunto status di spia: un uomo dei servizi infiltrato tra i camerati dalla polizia, considerato responsabile di molte soffiate e anche di aver architettato la morte di Silvio Ferrari. Questa, almeno, è l’opinione che, di Buzzi, hanno i camerati di «Quex», la famosa rivista autoprodotta dai detenuti politici di estrema destra e utilizzata per ospitare notizie “di movimento” insieme a una rubrica dedicata agli infami in cui, senza mezzi termini, si fanno i nomi dei personaggi da eliminare. Tra gli ospiti di questa rubrica – definita «vagamente jettatoria» dagli stessi lettori – c’è proprio Ermanno Buzzi: il teste più importante per le indagini su piazza della Loggia che, inspiegabilmente, nell’aprile del 1981, viene trasferito nel carcere di Novara, cioè dietro le stesse sbarre in cui è ospitato Pierluigi Concutelli, capo militare del Movimento politico ordine nuovo nonché diretto estensore della rubrica di «Quex» e della condanna a morte per il discusso “conte”.
Nel carcere di Novara, Ermanno Buzzi ha le ore contate. A Concutelli, già noto con il soprannome di “Comandante” ma in carcere detto “Er Sentenza” in virtù delle esecuzioni portate a termine, bastano quarantotto ore per avvicinare Buzzi al passeggio… non appena questo succede, il 13 aprile del 1981, scocca l’ultima ora d’aria del conte di Blanchery. Su come sia possibile uccidere un uomo a mani nude dice la sua Pierluigi Concutelli, aiutato, nell’occasione, da un altro assassino fascista molto conosciuto dentro e fuori dal carcere:
Buzzi temeva per la sua vita e per i primi giorni non venne all’aria. Aveva paura, era terrorizzato dalle possibili ritorsioni. Dopo un po’ di tempo passato in cella senza uscire, si convinse che nessuno gli avrebbe fatto del male e scese in cortile. «Ah, ci sei anche tu,» disse rivolgendosi a me e diventando pallido come un cencio. Quando gli andai addosso cercò di fermarmi: «Prima mi picchi e poi ne parliamo? Prima fammi spiegare e poi, casomai, mi prendi a cazzotti». Non immaginava che l’avremmo ammazzato, era convinto che ci saremmo limitati a un semplice pestaggio di galera. […] Buzzi morì così, in un angolo del supercarcere di Novara, strangolato da me e da Mario Tuti. […] Io e Tuti chiamammo la guardia. Mario disse una cosa un po’ pesante: «Dovete far rimuovere dell’immondizia che è rimasta in cortile (Giuseppe Ardica – Pierluigi Concutelli, Io, l’uomo nero, Marsilio, Venezia 2008).
Chi, essendo perfettamente al corrente della condanna a morte emessa contro Ermanno Buzzi, decise di trasferire il super-testimone di piazza della Loggia nello stesso carcere di Pierluigi Concutelli?
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Concutelli, nel futuro, continuerà a rivendicare la piena autonomia della decisione di assassinare Ermanno Buzzi. Quello che nemmeno “il comandante” tenta di smentire, però, è che la scelta di mandare “il conte” a Novara sia stata evidentemente compiuta da qualcuno che ha tutto l’interesse a sbarazzarsi dello scomodo camerata bresciano:
Siccome sapevano che con noi sarebbe finita male – dichiara Concutelli – ce l’hanno dato in pasto. A me qualcuno me l’ha fatto anche notare. Ma se io ho fame non sto a vedere chi mi dà da mangiare. Tu me lo mandi? Cazzi tuoi. Io non l’ho soppresso mica perché me lo hai detto te. È uno che già ho condannato io (intervista di Mario Caprara e Gianluca Semprini in Destra estrema e criminale, Newton Compton, Roma 2007).
Inutile specificare che lo stesso qualcuno che «ha dato in pasto» Buzzi a Concutelli è anche chi, all’interno delle istituzioni, ha contribuito a ostacolare l’inchiesta sulla Strage, provvedendo a cancellare le tracce e animando ogni sorta di mistificazioni. Nessuno sorpresa, quindi, che una verità giudiziaria sull’eccidio del 28 maggio non sia ancora venuta alla luce nel corso di quel calvario che è l’iter giudiziario della strage di piazza della Loggia. Nel 1979, la Corte di Assise di Brescia, basandosi sulle esternazioni di Angelino Papa, condanna Ermanno Buzzi all’ergastolo ma la sentenza viene ribaltata in Appello nel 1982, quando Buzzi, ormai assassinato a Novara, viene definito «un cadavere da assolvere» nelle motivazioni della sentenza. Da allora, per i fatti di piazza della Loggia sono stati spesi trentaquattro anni di indagini e 750.000 pagine di atti giudiziari: un materiale sufficiente a proiettare la torbida accusa di stragismo su tutto il neofascismo italiano e i collegati ambienti economico-militari in grado di alimentarlo. In modo particolare, risalgono al 1993 le dichiarazioni con cui Donatella Di Rosa, alias “Lady Golpe”, e suo marito, il tenente colonnello Aldo Micchittu, innescano l’inchiesta che culmina con la quinta istruttoria dedicata alla strage di Brescia.
Il nuovo processo è ancora in corso ma, vagliando le testimonianze di ex terroristi e collaboratori di giustizia, diventa sempre più chiaro che la decisione di colpire la manifestazione antifascista organizzata in piazza della Loggia nasce in un contesto fortemente condizionato dai “duri” dei servizi segreti e del così detto “Partito americano”: un’ala dell’Alleanza atlantica favorevole all’instaurazione di un regime militare fortemente antidemocratico, anticomunista e antipopolare. Non si tratta certo di un pugno di personaggi da avanspettacolo impegnati a vagheggiare un “golpe da operetta” ma di uomini estremamente pericolosi, in grado di poter contare sull’appoggio di poteri forti e dello stesso esercito italiano. Dopo lunghi anni di investigazioni, reticenze e mistificazioni, la quinta istruttoria entra nel vivo del dramma bresciano alla fine del 2007, quando il gup Lorenzo Benini chiede il rinvio a giudizio di un gruppo di persone accusate dei reati di strage, favoreggiamento e depistaggio. Si tratta di un pugno di vecchie conoscenze della criminalità politica italiana. Tra i presunti stragisti, infatti, ci sono nomi pesanti come quello del neonazista Delfo Zorzi: già condannato in primo grado per la strage di piazza Fontana e, a Mestre, capo della locale, agguerritissima cellula di Ordine Nuovo. Martino Siciliano, ex militante di on passato tra le fila dei collaboratori di giustizia e, oggi, iscritto insieme a Zorzi nel registro degli indagati. Secondo Siciliano, Zorzi:
Aveva un carattere molto forte, spesso duro, era molto manesco e privo di quelle reazioni che in molti di noi sorgevano alla vista del sangue durante i pestaggi. Zorzi infatti si occupava personalmente anche delle punizioni da infliggere ai camerati. Era chiuso, introverso, molto riservato. Portato quasi a una specie di misticismo. Fu lui a far scoprire ad altri camerati il buddismo (intervista di Gianni Barbacetto, E lei sa anche chi mise la bomba? Sì, fu Delfo Zorzi, in «Diario», 11-17 dicembre 1996).
Il “Samurai”, oggi, ha coronato il suo sogno mistico riparando il Giappone, dove, assunto il nuovo nome di Roi Hagen, vive al riparo da ogni richiesta di estradizione esercitando con enorme successo il mestiere di imprenditore nel campo della moda. Zorzi, questo è chiaro, non accetterà mai di sottoporsi al giudizio della magistratura italiana, le sole condanne che possono riguardarlo saranno eventualmente emesse in contumacia. È un peccato. Ripercorrendo la storia della strage di Brescia, il Samurai avrebbe potuto godere della compagnia di vecchi camerati come Carlo Digilio (deceduto in seguito a un ictus mentre aveva iniziato a rilasciare pesanti dichiarazioni ai magistrati), conosciuto con il soprannome di “Zio Otto” dai militanti di Ordine nuovo e con il nome in codice “Erodoto” dai militari della cia; come Carlo Maria Maggi, reggente di Ordine nuovo per il Triveneto; come Maurizio Tramonte, infiltrato dal sid in on con il nome in codice di “fonte Tritone”; o, addirittura, come Pino Rauti: attuale suocero del sindaco di Roma Gianni Alemanno, fondatore del Movimento sociale, di Ordine nuovo e, in tempi più recenti, protagonista delle avventure del partito della Fiamma, schierato a destra di Alleanza nazionale.
La lista degli indagati non finisce qui. E dagli ambienti più strettamente politici si sale ai piani alti delle istituzioni se, continuando a scorrere l’elenco delle coinvolte nella quinta istruttoria, ci si sofferma su Giovanni Maifredi, l’ex autista del ministro Taviani infiltrato in Ordine nuovo direttamente da un generale dei carabinieri: Francesco Delfino, uomo dei servizi segreti già condannato in via definitiva per truffa aggravata nell’ambito delle indagini sul sequestro dell’imprenditore bresciano Soffiantini. A completare questo desolante panorama, con l’accusa di intralcio all’autorità giudiziaria, favoreggiamente e depistaggio, insieme al neofascista Vittorio Pocci ci sono l’attuale parlamentare di Forza Italia Gaetano Pecorella e Fausto Maniaci, rispettivamente avvocati di Delfo Zorzi e Martino Siciliano.
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Incrociando le informazioni elargite a suo tempo da Lady Golpe con le dichiarazioni rilasciate da imputati come Carlo “Zio Otto” Digilio, il micidiale esplosivo utilizzato in piazza della Loggia sarebbe stato procurato da Delfo Zorzi e, via Milano, sarebbe finito nelle mani delle sam di Giancarlo Esposti, materialmente incaricate di compiere la Strage. Secondo Tramonte, invece, a collocare la bomba nel cestino sotto i portici sarebbe stato Giovanni Melioli, capo degli ordinovisti di Rovigo.
Se le conclusioni a cui arrivano Digilio e Tramonte sembrano diverse, a essere identico è l’ambiente che i due personaggi “informati sui fatti” evocano attraverso i loro racconti: un mondo in cui, nelle riunioni tenute per organizzare la Strage, diventa difficile distinguere i “soldati politici” dagli agenti dei servizi segreti, i rappresentanti dello Stato dagli avventurieri senza scrupoli. Recentemente, tra le altre cose, è emersa anche una nuova fotografia in cui, tra la folla di piazza della Loggia, sembra di ravvisare lo stesso Maurizio “fonte Tritone” Tramonte: una possibilità che renderebbe ancora più complicata l’interpretazioni dei fatti; sopratutto se si tiene conto di una cosa: sia Giovanni Melioli, sia Giancarlo Esposti, vale a dire i terminali del disegno stragista evocato da Tramonte e Digilio, non sono assolutamente in grado di aggiungere la loro testimonianze a quelle raccolte nel corso della quinta istruttoria. Giovanni Melioli, infatti, è stato ritrovato morto nel suo letto nel 1991, con mezzo chilo di cocaina al suo fianco. Giancarlo Esposti, da parte sua, è deceduto in circostanze ancora più sospette. L’illustre esponente delle Squadre d’Azione Mussolini, appena due giorni dopo la Strage, si trova accampato in località Pian di Rascino (provincia di Rieti). Insieme a lui, in una tenda mimetica, dormono i camerati Alessandro D’Intino e Alessandro Danieletti. Nei pressi, è parcheggiata una Land Rover traboccante di armi e di esplosivo (tra le altre cose, nella vettura sono stipati 560 detonatori, dieci chili di plastico, trecento metri di miccia e quaranta chili di esplosivo da cava!).
Alle sette del mattino del 30 maggio 1974, una pattuglia di carabinieri al comando del maresciallo Antonio Filippi, si avvicina all’accampamento. Quando Esposti si affaccia dalla tenda i militari gli chiedono: «Siete delle Brigate rosse?».
La domanda è retorica. Esposti farfuglia qualcosa – «Siamo radioamatori…» – poi mette mano alla pistola. I colpi del neofascista raggiungono in rapida successione i carabinieri Alessandro Jagnemma e Pietro Mancini. Ma la reazione rabbiosa di Esposti non basta a salvargli la vita. Crivellato dai proiettili del maresciallo Filippi, Esposti si accascia al suolo. Rantola. È ancora vivo. Filippi, però, ha ancora qualche colpo in canna. E la sua pistola, a questo punto, ha cura di avvicinarsi bene alla testa di Esposti prima di fare fuoco. Praticamente si tratta di un’esecuzione. Ma da cosa è stata provocata?
Forse soltanto da un eccesso di ritorsione. Un momento di rabbia che ha preso il sopravvento decidendo che Esposti voleva morire. Peccato solo che il maresciallo Filippi risulti attivo anche come agente del Sid. E che, insieme a Giancarlo Esposti, finiscano in una cassa da morto una grande quantità di segreti: memorie storiche che molti personaggi importanti hanno tutto l’interesse di non rivelare.
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Che cosa stava facendo esattamente Giancarlo Esposti nei boschi di Pian di Rascino? A cosa sarebbe dovuto o potuto servire l’arsenale che si trascinava dietro insieme alla Land Rover?
Quello che è sicuro è che, a un certo punto, nel mese di maggio del 1974, Esposti decide di far perdere le proprie tracce. Testimone di questa scelta, il padre del ragazzo, a cui Esposti telefona dicendo di essere costretto a scappare «perché i carabinieri li avevano traditi» (citato in Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri, Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato, Einaudi, Torino 2000).
La domanda, allora, diventa: chi è, esattamente, che, almeno secondo Esposti, è stato tradito dai carabinieri?
La risposta è contrassegnata da una data precisa: il 9 maggio del 1974, alla vigilia di una scadenza referendaria – quella sul divorzio – che, di per sé, contribuisce a foraggiare polemiche, desideri di rivalsa, tensioni. Quel giorno, con un blitz spettacolare, i carabinieri arrestano decine di militanti del Movimento d’azione rivoluzionaria, un cartello che, in chiave anticomunista, tiene insieme fascisti, cattolici intransigenti, qualunquisti ed esponenti della “Maggioranza silenziosa”, altra corrente utilizzata per mobilitare l’opinione pubblica contro la sinistra di piazza. A finire in manette c’è anche il fondatore del Mar: Carlo Fumagalli, ideatore di un disegno destinato ad imporre, attraverso il terrore, una svolta politica catto-autoritaria. Mentre Fumagalli viene tradotto in carcere, il suo vice, Gaetano Orlando, riesce ad avvisare i camerati, consentendo la breve fuga di Giancarlo Esposti: una fuga che, considerato l’armamento di cui poteva disporre, non doveva servire semplicemente a sottrarsi alla giustizia. Al contrario, asserragliato a Pian di Rascino, Esposti sperava ancora che il piano di Fumagalli e soci, quella strategia responsabile dell’incredibile numero di attentati organizzati nel corso del 1974, potesse trovare il suo pieno compimento. A Pian di Rascino, in buona sostanza, Esposti aspettava lo scoccare dell’“ora X”: un segnale che avrebbe dovuto far entrare in azione altri commando simili a quello guidato dall’estremista milanese, pronti ad unirsi all’esercito e a prendere il potere.
Esposti, evidentemente, non stava tenendo conto di una cosa. Nei piani alti dei servizi segreti, tra i protagonisti delle trame occulte della storia Repubblicana, il vento stava cambiando. Gli stessi fascisti, con il loro rozzo culto della violenza e la loro ridicola ossessione per ideali politici ormai superati, sono visti come semplici ferri vecchi: un validissimo aiuto fino a quando la violenza è stata indispensabile per arginare la vocazione progressista dell’Italia ma, a questo punto della Storia, soltanto un ostacolo per un rinnovamento reazionario in grado di mettere in alto strategie di controllo molto più raffinate di quelle che passano per un attentato dinamitardo, un’aggressione squadrista o una sparatoria.
Certo. Smobilitare una rete di assassini, bombaroli e picchiatori costruita con un paziente lavoro di intelligence e cospicuamente finanziata non è facile. Come non è facile convincere tutti gli esponenti e tutti i militanti del «partito del Golpe» dell’avvenuto mutamento di rotta. Sono tante le camice nere poco desiderose di indossare il doppiopetto e numerosi i gruppi ancora votati all’azione violenta. Schegge impazzite che, con i vecchi sistemi, continuano a giocare alla guerra sporca, lasciando il proprio “marchio di fabbrica” sulla strage di Brescia e, ancora nel 1974, sull’esplosivo piazzato sul treno Italicus, saltato in aria all’uscita di una galleria all’altezza di San Benedetto Val di Sambro il 4 agosto dell’anno destinato a chiudere il ciclo di attentati inaugurati nel 1969 con i morti milanesi di piazza Fontana. A morire sull’Italicus, dilaniati dalla bomba o bruciati vivi nell’incendio seguito all’esplosione, furono dodici persone. Per tutti loro c’è un volantino firmato Ordine nero che, al grido di «Giancarlo Esposti è stato vendicato», rende completamente esplicita la natura ricattatoria della strage:
Abbiamo voluto dimostrare alla Nazione – scrivono gli attentatori – che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare. Vi diamo appuntamento per l’autunno. Seppelliremo la democrazia sotto un mare di morti.
«Seppelliremo la democrazia sotto un mare di morti», scrivono gli attentatori. E le loro parole, come tutta la storia dello stragismo di destra, vanno lette come se fossero indirizzate a due tipi diversi di interlocutori. Da un lato c’è il contenuto palese della rivendicazione: quella diretta corrispondenza tra significante e significato decriptabile da chiunque conosca i termini della lingua italiana. Poi c’è un livello esoterico del discorso, riservato agli iniziati: nella fattispecie gli esponenti delle diverse fazioni interne al sistema; come abbiamo scritto aprendo il capitolo sulla Strage di Brescia, i sostenitori della necessità del colpo di Stato cruento e i seguaci di nuove politiche di controllo delle masse che, seppur assimilabili ai loro avversari nella volontà di imprimere al Paese una svolta reazionaria, sono convinti della necessità di rispettare la forma democratica delle istituzioni (… la forma, non la sostanza!).
Nell’anno del Signore 1974, tra queste due fazioni è guerra aperta. Una lotta senza esclusione di colpi che, alla fine, vedrà prevalere i supporter dell’“ordine democratico” sui golpisti di vecchio stampo fascio-militare. Intorno alle strutture predisposte all’intimidazione, all’aggressione e alla strage, contro i bombaroli precedentemente assoldati dai servizi segreti si fa terra bruciata ed ecco, nel mese di maggio 1974, scattare improvvisamente le operazioni di polizia che stroncano la “carriera” di un Carlo Fumagalli, gli “incidenti” che provocano la morte di un Giancarlo Esposti o i “trasferimenti” che decretano l’assassinio di un Ermanno Buzzi. Dall’altra parte, però, chi sogna l’avvento di un nuovo duce non si rassegna ad abbandonare le leve del potere occulto e sferra colpi micidiali: la Strage di Brescia e la Strage dell’Italicus, i più gravi episodi terroristici del ’74, sono solo il frutto di questa guerra intestina; un frutto amaro fatto mangiare, più o meno indiscriminatamente, a tutta la popolazione italiana.
C’è ancora un problema, però. Affinché, alla fine del conflitto, i vincitori possano continuare a usare illegalmente e per i propri fini lo Stato e tutte le sue strutture, è necessario che tutto avvenga nel completo silenzio. Non è un caso, infatti, se il processo per la Strage di Brescia sia ancora in corso o se, per quanto riguarda l’Italicus, la preziosa testimonianza di una donna che potrebbe inchiodare all’istante gli attentatori di Ordine nero e il “Fronte nazionale rivoluzionario” di Mario Tuti, detto “il Caterpillar”, non venga minimamente presa in considerazione. Addirittura, il giudice che raccoglie le dichiarazioni della donna provvede a smentirne pubblicamente la validità e a suggerire, per la testimone, il ricovero in un ospedale psichiatrico!
Il nome di questo giudice è Mario Marsili. Di professione, oltre che magistrato, questo esponente delle istituzioni è genero di Licio Gelli, detto “il Venerabile”: un signore che, dalla sua tranquilla residenza in provincia di Arezzo, dà vita alla famigerata “Propaganda 2” (P2) una loggia massonica coperta, riservata a chiunque – militare, ricco imprenditore, magistrato, giornalista, eccetera – occupi un ruolo sociale particolarmente importante e delicato. Scopo ultimo dei fratelli, l’attuazione del Piano di rinascita nazionale, una sorta di manifesto dove i punti programmatici più importanti si chiamano accentramento e controllo dei mass media, riforma della Costituzione e, per quanto riguarda il sistema politico, repubblica presidenziale.
Qualsiasi osservatore, guardando alla realtà italiana (oggi e non del 1974!), non avrà difficoltà a rendersi conto di come gli auspici del Piano di rinascita nazionale siano ancora in corso. La loro progressiva attuazione è sotto gli occhi di tutti, specialmente in un periodo di cronica erosione della partecipazione popolare alla vita politica, di negazione di diritti soltanto apparentemente elementari (dal riconoscimento delle coppie di fatto alla xenofobia di Stato contro l’immigrazione) e di ascesa di figure istituzionali in grado di manovrare il Parlamento regolando l’attività legislativa sulle proprie esigenze personali…
E i caduti di piazza della Loggia? E le vittime dell’Italicus? E le centinaia di persone assassinate in innumerevoli altre occasioni – da piazza Fontana fino alla stazione di Bologna – da quell’intreccio perverso tra terroristi neofascisti, vertici dei servizi segreti e P2?
Il sospetto – terrificante – è che tutti. Tutti. Siano morti invano:
Per questo non riesco a riconciliarmi definitivamente con le istituzioni, le ritengo inevitabilmente responsabili della mancata giustizia. Lo Stato ci ha negato il diritto alla giustizia e alla verità ed è difficile, in questo contesto, ridare equilibrio alle norme della convivenza civile. A volte penso che quei corpi martoriati nelle stragi non riescano a riposare in pace, li immagino come dei fantasmi che vagano. Ho sognato Livia che continuava a girarmi intorno con una valigia in mano, quasi a ricordarmi che non ha trovato ancora un pezzo di terra su cui riposare, perché il pezzo di terra è il principio di giustizia che non hanno ricevuto né loro come morti, né noi vivi, testimoni della loro morte (Manlio Milani, marito di Livia Bottardi, vittima della strage di Brescia. In Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Rizzoli, Milano 2006).
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Brescia, 28 maggio 1974. La strage di piazza della Loggia, tratto dal volume Cuori rossi di Cristiano Armati
È incredibile come storie un tempo sulla bocca di tutti e persino in grado di sollecitare importanti mobilitazioni internazionali possano sparire senza lasciare alcuna traccia nella memoria collettiva.
Quella di Bruno Breguet è una di queste storie. Una storia degli anni Settanta, si potrebbe aggiungere, e il particolare, grazie al portato simbolico di cui resta capace l’evocazione di quel decennio, racconta già un pezzetto di verità. Perché se oggi non sappiamo più rispondere alla domanda «chi è Bruno Breguet?», la sopraggiunta ignoranza ha a che fare anche con la fretta con cui si è provveduto a sigillare con l’etichetta «anni di piombo» istanze, desideri, rivendicazioni, lotte e progettualità politiche inerenti a problemi in realtà più vivi che mai.
Prendiamo La scuola dell’odio di Bruno Breguet. Raccontando i suoi Sette anni nelle prigioni israeliane, l’autore non si limita a consegnarci un testo di grande forza emotiva né, il suo, è un semplice contributo alla letteratura concentrazionaria prodotta in ogni tempo e in ogni paese. Breguet, infatti, compone il suo testo nel «qui» e nell’«ora» di una fase particolare del cosiddetto conflitto «israelo-palestinese». Un «qui» e un «ora» dove, a ben vedere, la terminologia etnica oggi comunemente utilizzata per descrivere la «questione» ha uno diritto di cittadinanza pressoché irrilevante. Il conflitto di cui Breguet è protagonista, infatti, se trova nella Palestina il suo fronte geografico s’inserisce, in realtà, nell’ambito internazionalista della lotta di classe, parla il linguaggio sintetizzato da slogan come «Palestina libera Palestina rossa», supera una dialettica di tipo patriottico e, dopo aver denunciato l’oppressione di classe subita tanto dai palestinesi quanto dai proletari ebrei, incarna un capitolo dell’eterna guerra tra sfruttati e sfruttatori: quella guerra che, negli anni Settanta, veniva declinata attaccando le dinamiche neocoloniali, messe in pratica dallo stato di Israele in Medio Oriente come dalle potenze occidentali in tutte le parti del mondo. Per questa ragione persino l’elemento religioso, all’interno de La scuola dell’odio assume un ruolo marginale, diventando una componente problematica ma prima di tutto minoritaria e isolata delle lotte animate all’interno del carcere. Nella stessa istituzione totale vissuta da Breguet, inoltre, perfino la strategia, largamente utilizzata in qualunque carcere, di opporre i prigionieri lungo linee di tipo razziale per semplificare il loro controllo, non ha ancora avuto la meglio, motivo per il quale un detenuto comune ebreo ha molto più da spartire con un detenuto politico palestinese che non con una guardia carceraria israeliana. Una simile constatazione, in effetti, dovrebbe essere ovvia se si osserva la realtà dal punto di vista degli interessi oggettivi delle parti in causa; eppure finisce per risultare sacrilega oggi, quando i concetti di «etnia», «razza» e «religione» diventano i cavalli da battaglia con i quali negare il peso dell’unica differenza sostanziale, quella che continua a separare in modo insanabile chi sfrutta da chi viene sfruttato.
Eppure è proprio questo il campo in cui inserire le scelte di Bruno Breguet, nato a Muralto, cittadina della Svizzera italiana, nel 1950 e, non ancora ventenne, pronto ad arruolarsi tra le fila del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, diventando in seguito il primo membro «straniero» della resistenza palestinese a subire il carcere. Come d’altronde scrive lo stesso Breguet ne La scuola dell’odio, commentando le vicende successive al suo arresto avvenuto in territorio israeliano il 23 giugno del 1970, le ragioni della sua militanza discendono direttamente da un momento storico in cui: «L’analisi dell’imperialismo e del sottosviluppo permetteva di capire il legame tra l’impegno politico all’interno della metropoli capitalista e le lotte dei contadini dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina uniti insieme nella lotta contro la potenza del dollaro e contro le varie borghesie nazionali» (Bruno Breguet, La scuola dell’odio, Red Star Press, 2015).
Uno scenario, dunque, marcatamente internazionalista, «scomodo» già sul nascere per il modo in cui prometteva di sconvolgere i piani del mercato e del pensiero unico e, anno dopo anno, declassato come se si stesse parlando di una «moda culturale» e non della visione di un progetto di liberazione capace di coniugare la lungimiranza dell’analisi politica con i nobili ideali della giustizia sociale. Come scrisse dalla Svizzera il «Collettivo nazionale per la liberazione di Bruno Breguet», formatosi solo nel 1975: «Nei vivaci dibattiti che pure caratterizzarono l’inizio degli anni Settanta, un dato era generalmente acquisito: il declino del terzomondismo, da cui anche una scarsa considerazione per le azioni di solidarietà internazionale» (Appendice in Bruno Breguet, La scuola dell’odio, La Pietra, 1980).
Allo stesso Collettivo, il merito di aver velocemente colmato il ritardo rispetto alle azioni di solidarietà nei confronti del prigioniero ticinese, ma anche di aver mostrato le responsabilità degli stati europei nella definizione della situazione palestinese e, più in generale, il loro ruolo di protagonisti nel generale assoggettamento di popoli e territori agli interessi del capitalismo globale. Fu grazie al Collettivo Breguet se il nome del militante del Pflp s’impose sulla scena pubblica, arrivando a raccogliere il sostegno d’importantissime personalità della cultura in un appello internazionale alla sua liberazione. Per rendersi conto dell’eco assunto dalla notizia, basti dire che, a firmare per la libertà di Breguet, furono, tra gli altri, personaggi come Roland Barthes, Louis Althusser, Manuel Castells, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Michel Foucault, Jacques Le Goff, Edgard Morin, Jean-Paul Sartre, Simone De Beauvoir, Friedrich Dürrenmatt, Günther Grass, Noam Chomsky e, dall’Italia, Dario Fo, Franco Fortini e Alberto Moravia. Tutto ciò accadeva nel 1977, quando Breguet aveva già scontato i due terzi della pena a cui era stato condannato e quando, grazie anche alle pressioni internazionali, il militante ticinese avrebbe effettivamente riguadagnato la strada di casa insieme alla libertà.
Quella accennata fino a qui, però, è, in rapporto a Bruno Breguet, soltanto il pezzo della vicenda necessaria a spiegare la genesi de La scuola dell’odio e, nei fatti, coincide con la pubblicazione del libro, avvenuta per la prima volta nel 1980 grazie all’iniziativa della casa editrice milanese La Pietra. Guidata dall’ex partigiano Enzo Nizza, nome di battaglia «La Pietra», l’etichetta con cui uscì La scuola dell’odio è essa stessa frutto di una riflessione culturale e politica che, complice lo stretto rapporto tra Nizza e il «massimalista» Pietro Secchia, avrebbe abbracciato in un solo catalogo libri dedicati alla guerra partigiana e alle esperienze delle lotte di liberazione dei popoli oppressi.
L’eredità resistenziale e anticolonialista di Secchia, morto nel 1973, considerata la lungimiranza del partigiano piemontese ma anche le sue posizioni, con il tempo sempre più eretiche rispetto alla linea ufficiale del Partito Comunista prima di Togliatti e poi di Amendola, potrebbe e dovrebbe essere riscoperta e problematicizzata proprio a partire dalla pubblicazione di un testo come La scuola dell’odio in quella che fu la «sua» casa editrice. In quel periodo, tra l’altro, Breguet si trovava a Londra per proseguire gli studi di economia iniziati in carcere. Eppure non è l’arrivo nelle librerie italiane e ticinesi delle memorie dedicate ai suoi sette anni di carcere a salutare l’uscita di scena del militante svizzero. Il nome di Breguet, infatti, torna a circolare già nel 1982 quando, con il nome di battaglia di «Luca», viene arrestato a Parigi insieme a «Lilly», al secolo Magdalena Kopp, compagna di Ilich Ramírez Sánchez e appartenente all’Organizzazione dei Rivoluzionari Internazionali (Ori), la sigla del venezuelano, più conosciuto con il soprannome di «Carlos lo Sciacallo».
Accusato di aver progettato di minare con un’auto-bomba la sede di un giornale libanese, Breguet sconta tre anni e mezzo di prigione ma, dopo di allora, «esce dal giro» e, a parte un avvistamento a Damasco datato 1986, il suo nome non compare più in alcun rapporto, né si torna a parlare di lui sui giornali. Sappiamo solo che ha imparato il mestiere di carpentiere e che si è trasferito nella cittadina greca di Perdika, dove vive con la compagna Carol-Anne e Shona, la loro bambina. Sappiamo anche che transita spesso in Italia: Ancona, infatti, è una tappa obbligata del viaggio che da Perdika conduce in Ticino; e anche il 10 novembre del 1995 Breguet si trova nel capoluogo marchigiano quando, per quello che sembra un banale controllo dei documenti, l’ex membro del Fronte viene fermato mentre scende dal «Lato», il traghetto greco proveniente da Igoumenitsa. Fino a qui, nulla di strano:
Un breve controllo alla frontiera e Bréguet potrà ripartire con la sua famiglia verso la Svizzera. Lo fa ogni cambio di stagione, ma questa volta è diverso. I doganieri italiani lo fermano, lo tempestano di domande: sospettano che stia trasportando un carico d’armi. Gli chiedono di aprire il portabagagli, perquisiscono la macchina, frugano dappertutto; ma non trovano niente. «Lei è persona non gradita sul suolo italiano», gli dice un agente. «La sua famiglia può proseguire, lei invece non può passare». Bréguet riesce comunque a fare una telefonata. Chiama suo fratello a Lugano, gli spiega la situazione. Non è la prima volta che, arrivato alla frontiera italiana, viene respinto. Gli era già successo l’anno prima. Un bel fastidio, certo, ma niente di grave. «Se non avete mie notizie nel giro di tre o quattro giorni, significa che ci sono problemi», dice prima di riattaccare. Viene quindi imbarcato nuovamente sul «Lato» e rispedito in Grecia (Emanuele Midolo, La scomparsa di Bruno Breguet, «Agoravox.it», 8 marzo 2012).
Sarebbe stata, questa, l’ultima volta in cui viene visto Bruno Breguet. Lo stesso capitano del «Lato», pur affermando che il ticinese si trovava effettivamente sulla sua nave fino a poco prima dell’approdo, non riesce a capacitarsi della «sparizione» del passeggero. E infatti bisogna aspettare almeno fino al 2001 affinché, dopo un ritrovamento di ossa umane avvenuto a Drepano, un’altra località greca, si possa almeno ipotizzare che questi resti appartengano proprio a Bruno Breguet. La fosca previsione scoperchia una nuova, inquietante possibilità. Breguet sarebbe: «Deceduto in seguito a una “crisi cardiaca” all’interno di un’installazione militare a Kaposvár, sud dell’ Ungheria. La stessa fonte precisa: niente torture, si è trattato di “un incidente”» (Olimpio Guido, «Caro Obama, notizie su Bruno?», firmato Carlos, lo «Sciacallo», dal «Corriere della Sera» del 15 febbraio 2009).
Ai margini del mistero, si agitano le acque sporche dei servizi segreti e, senza trovare conferme definitive a nessuna ipotesi, si mette mano a uno scenario in cui trovano posto gli affari francesi in Algeria, la copertura di delicate informazioni rinvenute nella Germania Orientale negli archivi della Stasi, la possibile vendetta postuma dell’israeliano Mossad e un non meglio precisato coinvolgimento della Cia. Proprio all’agenzia statunitense, per esempio, fa riferimento anche Carlos nel 2009, indirizzando al neo-eletto presidente Obama una lettera aperta scritta nel carcere francese in cui sta scontando l’ergastolo: «Se Bruno è ancora vivo liberatelo», chiede il prigioniero al capo della Casa Bianca, «se è morto restituite le sue spoglie».
L’appello di Carlos non passa inosservato. E così il giallo sulla sparizione di Breguet torna di attualità nel 2012, quando Wikileaks inizia a pubblicare un pugno di mail provenienti dagli analisti della Stratfor (http://bit.ly/1F4dvS9), un carteggio in cui i collaboratori della compagnia d’intelligence texana fanno riferimento a uno scenario ancora più complesso, come quello che potrebbe riguardare le situazioni siriane e irachene, già attraversate dal gruppo di Carlos, e rispetto al quale la sparizione di Breguet potrebbe suonare come un avvertimento, affinché chi sa continui a non parlare. Ma a non parlare di cosa?
Anche solo provare a rispondere a questa domanda sarebbe un compito troppo gravoso rispetto a questo testo: una postfazione che saluta il ritorno in libreria de La scuola dell’odio di Bruno Breguet. Eppure, come il classico messaggio lanciato in mare chiuso dentro una bottiglia, questo libro, a distanza di trentacinque anni rispetto alla sua prima edizione, sembra dirci qualcosa di più ampio rispetto alla terribile situazione vissuta dall’autore nelle prigioni israeliane. Ci dice, per esempio, che la guerra alla Palestina continua più crudele che mai. E ci obbliga a notare come, dalla Libia alla Siria, ciò che fu il socialismo arabo, il «mondo perduto» dal quale ha parlato Bruno Breguet, sia stato sistematicamente travolto dai feticci etnici e religiosi, agitati, con la maldestria degli apprendisti stregoni, dalla politica estera occidentale, indignata soltanto adesso per l’avvento della bandiera nera dello Stato Islamico: quell’Isis, Is o Isil che, a mo’ di nemesi storica, arriva a radicalizzare quelle stesse linee etniche e religiose sistematicamente preferite a Ovest di Raqqa, la capitale del Califfato, ai frutti di libertà e di uguaglianza offerti dalla lotta di classe.
Al libro di Brequet va riconosciuto il merito di aver intuito il problema quando questo non esisteva ancora nei termini drammatici di oggi. Se, da questa semplice osservazione, sarà possibile ricavare ulteriori spunti di riflessione rispetto a una realtà che certamente non è più quella del 1977 spetta ai lettori giudicarlo.
Se dovessi ridurre ciò che so della storia a quello che ho visto con i miei occhi, allora Sandro Pertini è il nonno che tutti avrebbero voluto avere, il vecchio partigiano che tra i reali di Spagna e il cancellierato tedesco se non fa il gesto dell’ombrello poco ci manca mentre, l’11 luglio del 1982, la nazionale italiana segna tre reti a quella della Germania Ovest e se ne torna a casa con la Coppa del Mondo.
Altro che le «notti magiche» di otto anni dopo, quando l’Italia, ospitando i campionati del mondo di calcio, dovette accontentarsi di decine di operai morti costruendo gli impianti, di una manciata di grandi opere inutili, di una mascotte orribile chiamata «Ciao» dai geni del marketing, di un fiume di tangenti finite nelle tasche dei soliti noti e pure di essere eliminata in semifinale dall’Argentina. Il 1982 resta un momento in cui ha un certo peso poter dire «io c’ero» visto che, titolo mondiale a parte, nel momento in cui Rossi, Tardelli e Altobelli infilavano la porta di Schumacher e Pertini esultava in tribuna, in Italia sarebbe stato difficile misurarsi con la realtà senza lasciarsi sopraffare dallo straniamento. In un lasso di tempo incredibilmente breve, infatti, nell’ideale passaggio di testimone tra decenni, la democristiana «strategia della tensione» sarebbe trasecolata in una non certo meno sanguinosa berlusconiana «strategia della finzione», e così l’eskimo avrebbe lasciato il posto al moncler, la funzione sociale delle piazze sarebbe stata assorbita dai centri commerciali e la massa, più che alle manifestazioni, ci si sarebbe stupiti di meno a vederla in coda davanti a un fast food. Benvenuti negli anni Ottanta, possiamo dire oggi, rievocando il mito della «Milano da bere» e osservando, come se fossimo in un laboratorio, l’ideologia del «lavoro-guadagno, pago-pretendo» andare a occupare spazi dell’immaginario precedentemente riservati a quei progetti collettivi di cambiamento dell’esistente comunemente detti «lotta di classe». Il «Drive in», dunque, e non Stato e Rivoluzione di Lenin. E il disimpegno, piuttosto che un diffuso attivismo politico e sociale, diventano il paradigma con cui misurarsi senza aspettare il 9 novembre del 1989 e la caduta del Muro di Berlino per celebrare la morte del socialismo, la sconfitta delle grandi narrazioni e il trionfo del capitalismo interplanetario: unico dispensatore di valori e sola guida del presente e del futuro… cioè, per restare nella storia e nella familiarità con la quale i vincitori la scrivono, sola guida anche del passato.
D’altro canto, questo fanno i vincitori. Nei momenti di trionfo innalzano verso il cielo archi e obelischi. Ma quando le cose vanno meno bene, quando il calendario segna sotto la data 2014 guerre più o meno sporche diffuse in tutto il pianeta, precarietà generalizzata di masse enormi di persone ovunque, catastrofi ecologiche in corso senza soluzione di continuità e regresso accertato di diritti a lungo dati per scontati (nel 2014, nel cuore dell’Occidente, si torna tranquillamente a morire di fame), ecco che la storia arriva in soccorso degli stessi vincitori, per affermare senza tema di essere smentita come le cose, se non sono andate sempre così, sono andate molto peggio quando non erano loro – i vincitori – a tessere i fili del discorso.
Eppure, nel 1982, il vecchietto che, viaggiando sull’aereo di ritorno dalla Spagna si faceva immortalare nell’atto di giocare a scopone in coppia con Causio contro Zoff e Bearzot, di discorso ne aveva fatto un altro, affermando, al cospetto del Senato della Repubblica: «Egli è un gigante della storia».
Era il 6 marzo del 1953 e Sandro Pertini si riferiva a Giuseppe Stalin.
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Non saprei dire se assistere alla sconfitta della Germania Ovest avesse avuto per Pertini anche il sapore dell’ennesima rivincita. In fondo era contro le truppe di occupazione di quel paese che il partigiano, chiamando il popolo italiano intero all’insurrezione, aveva urlato: «Ponete i tedeschi di fronte a un dilemma: arrendersi o perire!».
Certo, nel 1982 ricordare i giorni di fuoco vissuti da Pertini come da moltissimi altri all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale non era più né facile, né politicamente conveniente. Eppure è proprio l’esperienza della guerra partigiana antifascista che, nei decenni, aveva legato persino oltre la politica – considerando che il pertiniano Partito socialista di unità proletaria fu tutto tranne che bolscevico – un uomo come il Presidente della Repubblica italiana alla figura di Giuseppe Stalin e al miracolo compiuto dalla sua Unione Sovietica, capace di trasformarsi da paese sottosviluppato in potenza industriale nel giro di una manciata di anni e, grazie a questo sforzo, senz’altro conseguito a caro prezzo, capace anche di reagire all’esercito più maledetto e potente della storia, aggredendolo con le unghie, i denti e l’acciaio forgiato dai suoi operai fino ad annientarlo definitivamente, arrivando a far sventolare la bandiera rossa sul tetto del Reichstag di Berlino il 2 maggio del 1945.
La canzone degli Stormy Six, in seguito cavallo di battaglia della Banda Bassotti, sarebbe stata scritta soltanto nel 1975 ma sembra già di sentirla cantare nelle piazze di tutta Europa: «Sulla sua strada gelata / la croce uncinata lo sa / d’ora in poi troverà / Stalingrado in ogni città».
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L’uomo che il 2 maggio del 1945 issa la bandiera rossa con la falce e il martello sul palazzo del Reichstag non è soltanto un soldato sovietico. Si chiama Abdulkhakim Ismailov e viene dalla remota regione del Daghestan. Già reduce dalla terrificante battaglia di Stalingrado, nel corso della «grande guerra patriottica» viene ferito per ben cinque volte, scegliendo sempre e comunque di tornare al fronte per combattere. E lui, morto nel suo letto il 17 febbraio del 2010 alla bella età di novantatré anni, è soltanto uno dei milioni di volti anonimi per cui scegliere di pubblicare oggi una selezione di opere scelte di Stalin può acquistare un senso forse inaspettato. Si tratta, in effetti, di provare a tracciare un percorso che ha poco a che fare con l’idea di «riabilitare Stalin» o, tantomeno, di esaltare le conclusioni a cui arriva l’autore di Questioni del leninismo. Un percorso che, al contrario, ripartendo dalla sorte dello stalinismo, mostra alcuni dei come e dei perché il patrimonio dell’intero movimento operaio internazionale sia stato aggredito e dilapidato fino al punto di essere ridotto alla stregua di un fossile, una canzone intonata da vecchi nostalgici mentre la nave del capitalismo affonda senza che nessuno trovi la forza necessaria a invertire la rotta. Dove saremo oggi se questa forza, settanta anni fa, non fosse stata nelle braccia di una moltitudine di Abdulkhakim Ismailov? E soprattutto, considerando il punto in cui siamo arrivati, rinunciando di riappropriarci di quella stessa forza, dove rischiamo seriamente di finire domani?
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Spendiamo due parole per chiarire, oltre l’evidenza di ciò che viene messo nero su bianco, il contesto in cui si manifesta la necessità di curare una selezione di opere scelte di Stalin. Questa antologia, infatti, fa parte della collana «I Libretti Rossi», nata nel 2011 e, dopo una serie di vicissitudini editoriali, felicemente approdata alla Red Star Press. Al suo interno, fino a ora, hanno trovato spazio raccolte di citazioni e testi dedicati alla Resistenza, al risorgimento garibaldino, a Vladimir Lenin, Friedrich Engels, Fidel Castro e Mao Tse-tung. Volendo continuare fino a offrire una visione la più estesa possibile delle teorie e delle lotte nate sul fronte degli ideali di fraternità, giustizia e libertà, sarebbe stato possibile escludere l’Unione Sovietica, la Rivoluzione d’Ottobre e, di conseguenza, anche Giuseppe Stalin?
La domanda è retorica considerando ovviamente negativa la risposta che è stata data in sede di coordinamento redazionale e il relativo libro che stringete tra le mani in questo momento. Ma, a essere negativa, è anche la risposta a una domanda meno scontata, uno dei grimaldelli attraverso i quali negli ultimi settant’anni la demonizzazione di Stalin ha finito per coincidere con la demonizzazione dell’intera cultura rivoluzionaria, in tutte le sue forme e sfaccettature. La domanda sotto accusa, quindi, diventa: è possibile addossare a Stalin l’intero destino dell’Unione Sovietica insieme a tutte le scelte politiche compiute dallo stato socialista per difendere se stesso dall’aggressione fascista quando si è trattato di combattere le truppe tedesche e dal «nemico interno» quando l’attacco ha riguardato chiunque fosse sospettato di deviazionismo?
Qui l’Abdulkhakim Ismailov che pianta la bandiera sovietica sul Reichstag fa un gesto incredibilmente simile a quello compiuto dall’esultante Pertini nella finale Italia – Germania Ovest, scoprendo nei due quei «compagni d’una massa operaia. / Proletari di corpo e di spirito» capaci di schierarsi dalla parte giusta nella buona e nella cattiva sorte, senza sospettare che, nel 1990, il vecchio palazzo del Reichstag perdesse il diabolico portato simbolico che emanava dalle sue pareti fino al punto di tornare a ospitare le sedute del Parlamento della Germania, riunificata all’indomani della caduta del Muro.
L’atto, in quel momento, passò assolutamente inosservato. Un’amnesia collettiva allucinante che, se avesse riguardato la storia italiana, sarebbe stato possibile paragonare alla visione di un uomo politico a cui, dopo Mussolini, fosse stato concesso di arringare la folla parlando dai balconi di Palazzo Venezia a Roma. E questo non per gridare allo scandalo individuando un rapporto di continuità tra la Germania unita di Helmut Kohl e il Terzo Reich di Hitler (anche se l’evento la dice lunga sul cuore nero dell’Unione Europea), ma proprio per parlare della formidabile operazione di lavaggio collettivo dei cervelli e delle coscienze portato avanti immediatamente dopo la fine della guerra mondiale. Che la deriva nazifascista covi costantemente tra la cenere del capitalismo, rappresentando una modalità tipica della periodica ristrutturazione a cui è costretto, infatti, è cosa nota. Ma intanto, isolando e assolutizzando la figura di Stalin, estraendola dal suo contesto come si fa con un dente marcio dalla bocca, è stato possibile astrarre il singolo personaggio dalla massa enorme che ha sostenuto urbi et orbi la politica sovietica, facendo del comunismo in Russia non più il formidabile risultato del protagonismo delle masse diseredate, ma l’esito imprevisto delle azioni di un folle, una specie di satrapo orientale capace di impossessarsi dello sterminato territorio dell’ex Impero degli zar grazie a un’astuta e criminale combinazione di realpolitik e feroce repressione.
La stessa identica cosa, secondo gli autori di questa storia (cioè secondo i «vincitori»), sarebbe accaduta anche in Germania, dove Hitler diventa la controparte di Stalin, una figura altrettanto isolata e altrettanto avulsa dalla realtà sociale in cui si muove, un altro pazzo sanguinario protagonista, al pari del «dittatore» sovietico, di quella stagione drammatica chiamata «Novecento» e caratterizzata dal tentativo di ideologie totalitarie in fondo identiche come nazismo e comunismo di distruggere il sistema di preziose garanzie democratiche donate al popolo dai governi liberali.
Oltre a essere una bestemmia che grida vendetta di fronte agli uomini, la sovrapposizione di nazismo e comunismo attraverso la sovrapposizione di Hitler e Stalin, personalizzando in maniera ridicola eventi epocali e di massa (con buona pace del rigore della lettura materialista della storia, autentica conquista intellettuale a disposizione dell’umanità), ha reso possibile, per quanto riguarda la stagione dei fascismi europei, di evitare a intere collettività nazionali come quelle italiana e tedesca di fare realmente i conti con se stesse, di procedere come se nulla fosse con le mancate epurazioni dei personaggi chiave del fascismo e del nazismo dai ruoli di potere occupati e, in una manciata di anni, di essere riassorbite e integrate dagli ex nemici della seconda guerra mondiale nell’orbita atlantica, questa sì pronta senza problemi a «perdonare» fascismo e nazismo – che pure ha la responsabilità di aver generato – pur di non concedere nessun tipo di terreno al socialismo reale.
Al contrario, l’operazione di riduzione del comunismo a Stalin, insieme a tutta la retorica da «libro nero» sui crimini commessi sotto l’egida della falce e martello, non offre nessun credito alle differenze sostanziali tra Stalin e Trockij, non si interessa alle polemiche che separarono i bolscevichi dai luxemborghisti, non prende in esame le lacerazioni tra la frazione stalinista e gli esponenti della «nuova opposizione unificata» o le deviazioni tra impostazione leninista e interpretazione stalinista, non parla di anarchici, di spartachisti, di femministe, di comunisti cubani o titini ma, facendo di tutta l’erba un solo fascio, va ben oltre e, urlando «dagli al comunista!» con il fanatismo dei cacciatori di streghe, supera di gran lunga i confini dell’Unione Sovietica stringendo in un abbraccio mortale i movimenti di liberazione dei popoli oppressi, i militanti di base di ogni tempo e di ogni paese, la fondamentale rivoluzione epistemologica di Marx ed Engels fino ad arrivare, con un’azione senza precedenti di «despecificazione politico-morale», ad escludere dalla comunità civile e quindi a screditare, attaccare, imprigionare e, non di rado, anche a uccidere, chiunque mostri idee e stili di vita non omologati. Quale parola, in fondo, viene utilizzata dai benpensanti per radunare in un ideale campo di concentramento minoranze etniche e capelloni, fumatori di marijuana e omosessuali, attivisti dei centri sociali e intellettuali non allineati?
Sotto quale parola la pancia fascista dei regimi democratici e liberali riunisce lo spauracchio impersonificato da «froci, negri, drogati, capelloni ed ebrei»?
La parola è sempre la stessa: «comunisti».
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Se devo dire come la penso su Stalin, confesso di considerare la vittoria ottenuta sull’esercito nazista con la conseguente affermazione dello stato sovietico come un fatto decisivo, in grado di sopravanzare le mie tendenze libertarie e di mettere in secondo piano le suggestioni trockijste assorbite studiando la vita e le opere dell’ex comandante dell’Armata rossa. Eppure non ho difficoltà ad affermare che tra le pagine de Il libro rosso di Stalin non c’è nessuna volontà di seguire Domenico Losurdo nell’impostazione e nelle conclusioni del suo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008). In questo testo, relativamente celebre (considerando che solo una nicchia legge questo tipo di pubblicazioni, ma questo è precisamente parte del problema), Losurdo prende in esame la figura di Stalin tentando di separare la storia dalla leggenda, ciò che è accaduto realmente in Unione Sovietica da ciò che sarebbe stato raccontato dalla propaganda anticomunista. Le intenzioni, dunque, sono senz’altro condivisibili, eppure, senza entrare nello specifico del lavoro di Losurdo o commentare i suoi esiti, la postura de Il libro rosso di Stalin non è quella assunta da qualcuno che si prepara a una formidabile guerra di cifre e documenti né, a maggior ragione, incarna lo spirito «burocratico» di chi, a colpi di citazioni, intendesse avere la meglio nell’ambito di un confronto dialettico sulla «vera» ortodossia marxista-leninista e su di chi meriti di ricadere un’eredità tanto illustre. Se per questo genere di scontri, infatti, può sempre esserci tempo, molto di meno è il tempo ancora a disposizione, se non per formare un vero «fronte unico» anticapitalista, almeno per provare a impostare un dibattito a partire da informazioni reali e non da notizie recuperate di terza mano e/o dalle stesse fonti di propaganda anticomunista.
Ecco, giunto alla soglia dei quarant’anni, la mia idea di tempo non fa più nessuna difficoltà a identificarsi nella forma di una clessidra. E se ogni singolo granello che, passando attraverso la strozzatura scivola irrimediabilmente nel bulbo inferiore, è prezioso come la vita stessa, diventa faticoso sostenere confronti con chi non ha mai pensato di alimentare le proprie opinioni dedicando alla verifica delle stesse i granelli di sabbia a sua disposizione. Senza scomodare il motto maoista secondo il quale «chi non ha fatto inchiesta non ha diritto di parola», insomma, Il libro rosso di Stalin potrà perlomeno sortire l’effetto di offrire una fonte di prima mano alla riflessione collettiva. E questo mi sembra già un primo, piccolo risultato.
Un secondo risultato, forse più importante, è di natura strettamente polemica e riguarda il diffuso atteggiamento di moltissimi che, pur collocandosi in un campo genericamente di sinistra, scuotono perennemente la testa in tutte le occasioni in cui, vuoi attraverso l’arma dello sciopero, vuoi grazie allo strumento dell’occupazione sociale o abitativa o in virtù del ricorso al conflitto di piazza, un movimento sembra indicare possibili strade al cambiamento dell’esistente. Che fare?
Questo particolare genere di «sinistri» lo sa benissimo. Se soffia il vento di rivolta, il loro compito è quello di scuotere la testa. Dotti come sono, citano il «complesso di Saturno» e, ricorrendo all’immagine mitologica del padre che divora i figli, teorizzano come inevitabile il destino di ogni rivoluzione: quello di essere tradita dall’istituzionalizzazione della stessa avanguardia rivoluzionaria senz’altro, «come Stalin», sempre, irrimediabilmente pronta a varare grandi purghe contro potenziali rivali nella corsa al potere e, per scrupolo, anche a imporre al popolo misure degne del peggior stato di polizia.
Risultato di questo diffuso modo di ragionare?
Meglio non fare mai nulla. Restare con le «mani pulite» anche se nel mondo tutt’altro che rivoluzionario o rivoluzionato in cui viviamo l’oppressione cresce, seconda soltanto alla disoccupazione, alla fame e a una qualità della vita sempre più bassa per tutte e tutti.
Di fronte a questi dati di fatto, personalmente, preferisco rischiare ogni sorta di cambiamento: non è l’opzione individualistica del coraggio, ma il riflesso oggettivo di un interesse di classe a impormelo. In virtù di questo stesso interesse, preferisco rischiare persino di ritrovarmi a portare il nome di Trockij o Bucharin nella Mosca degli anni Trenta, preferendo riconoscermi nel primo piuttosto che nel secondo ma avendo sotto gli occhi la realtà dei tanti proletari che, nell’Europa del 2014, si ritrovano già a fare da bersagli mobili alla guerra contro i poveri che la «crisi» del Capitale ha scatenato contro di loro.
Un altro punto, qui, vale la pena di essere sottolineato. Chiunque sogni un sistema capace di risparmiare all’individuo lo sforzo di esercitare il proprio libero arbitrio al cospetto dell’angoscia insita in ogni scelta, probabilmente, che lo sappia o meno, abita già il loculo di qualche cimitero. Ai vivi resta la responsabilità di scegliere e di schierarsi. E quindi di sporcarsi le mani.
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Un altro libro, quello dell’ex maoista belga Ludo Martens, affronta Stalin in termini decisamente antitetici rispetto ai soliti, largamente utilizzati da quella formidabile arma del potere che è il luogo comune. Il lavoro di Martens, pubblicato in italiano dalla casa editrice Zambon nel 2004 e intitolato Stalin. Un altro punto di vista, esamina in oltre trecento pagine i temi caldi delle tesi antistaliniste passando in rassegna il testamento di Lenin, la collettivizzazione forzata, la burocrazia imperante, l’eliminazione della vecchia guardia bolscevica, il mito dell’industrializzazione e le presunte collusioni con la Germania. Un particolare estremamente interessante, però, Martens, partito in gioventù da posizioni notoriamente e accesamente antistaliniste, lo rivela già nell’introduzione quando afferma:
Tutte le organizzazioni comuniste e rivoluzionarie in tutto il mondo sentiranno l’obbligo di riesaminare le opinioni e i giudizi che esse hanno formulato sull’opera di Stalin dopo il 1956. Nessuno può sottrarsi a questa evidenza: quando, dopo trentacinque anni di denunce virulente dello «stalinismo», Gorbačëv aveva realmente eliminato tutte le realizzazioni di Stalin, si è constatato che Lenin era diventato di colpo «persona non gradita» in Unione Sovietica. Seppellendo Stalin, anche il leninismo è stato sotterrato. Riscoprire la verità rivoluzionaria sul periodo dei pionieri è un compito collettivo che compete a tutti i comunisti del mondo. Questa verità rivoluzionaria scaturirà dal confronto delle fonti, delle testimonianze e delle analisi. (…) La classe il cui interesse fondamentale consiste nel mantenere il sistema di sfruttamento e di oppressione ci impone quotidianamente il suo punto di vista su Stalin. Adottare un altro punto di vista su Stalin significa guardare il personaggio storico di Stalin con gli occhi della classe opposta, quella degli sfruttati e degli oppressi.
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Tra tutte le narrazioni conosciute da chi scrive, quella che con più verità ha saputo guardare a Stalin «con gli occhi della classe degli sfruttati e degli oppressi» di cui parla Martens, non è contenuta, a mio parere, negli studi rigorosi di un saggista o nei comizi di un esponente del ceto politico ma appartiene alla voce sommessa di un «poeta contadino», il lucano Rocco Scotellaro. Giovane sindaco socialista di Tricarico, all’indomani della morte di Stalin Scotellaro scrive:
L’uomo che vide suo padre calzare
gli uomini e farli camminare
imparò da quell’arte umile e felice
la meraviglia di servire l’uomo.
L’uomo che crebbe nell’esule villaggio
imparò il coraggio di farsi riconoscere
e di crescere non lontano dai potenti della terra.
L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini
imparò dal fascino della notte
il chiarore del giorno.
Quell’uomo muore. Attorno attorno
alla ceppaia gigantesca che è
agili frullano i vivai che piantò nel mondo.
Ogni uomo che dà agli uomini amore profondo
e il pane e le scarpe e le case e le macchine
può dire chi era Stalin e la ragione del mondo.
Come il padre di Stalin, anche il padre di Scotellaro faceva il calzolaio. Ma non è questo il punto. Il punto è che credere di trattare Stalin, il comunismo e l’Unione Sovietica come elementi riducibili a un’indagine storica tutta di carta e di inchiostro, di risoluzioni emesse dal Partito e di inoppugnabili documenti, significa tagliare fuori dal discorso l’impatto impalpabile eppure potentissimo che la figura di Stalin ebbe sui lavoratori di tutto il mondo. Questo impatto, misurabile con la forza della suggestione e l’ampiezza dei ricordi che si ha la fortuna di aver vissuto prima che con il rigore delle fonti, ha disegnato una comunità internazionale di donne e uomini con la faccia sporca e le mani di pietra. Sono i lavoratori. Gli stessi che alle nostre latitudini si riconoscevano per gli occhi scintillanti di dignità e per un motto, una specie di grido di guerra, spontaneo e genuino, naturalmente antifascista e assolutamente impermeabile rispetto all’approccio intellettualistico che caratterizza tanta parte del dibattito su Stalin, la sua figura, la sua eredità. Quel motto, quel grido di guerra, quel confine internazionale in cui si raccoglieva una patria completamente alternativa alle mistificazioni nazionaliste, fatta di gente che con orgoglio di appartenenza posso dire «mia», affermava di «volere tutto» quando scandiva le parole «Ha da venì Baffone».
Ed essendo che personalmente non nutro alcuna ambizione nell’esercitare rispetto a questa comunità (tutt’altro che «immaginaria» vista la sua capacità di incidere sul reale) un’opzione politica capace di distinguermi dalla massa a cui sono sempre appartenuto, è per gli occhi e le mani di chi ha voluto e continua a «volere tutto» che Il libretto rosso di Stalin ha trovato una buona ragione di essere editato.
Postfazione al volume Il libro rosso di Stalin. Storia, politica, rivoluzione: opere scelte del padre del socialismo sovietico, a cura di Cristiano Armati, Red Star Press
«Sì, il Messico è in preda al caos e alla disgregazione. Ma la responsabilità non è dei peones senza terra; la responsabilità è di coloro che seminano odio e disgregazione inviando armi e denaro, vale a dire delle Compagnie petrolifere americane e inglesi in lotta tra loro». John Reed
Quando, sul finire del 1913, John Silas “Jack” Reed supera l’esile confine che divide ilMessico dagli Stati Uniti, il paesaggio politico che si staglia di fronte al suo taccuino da cronista è mutevole come i mulinelli di sabbia che il vento sparpaglia nel deserto. È dal 1876, infatti, che la presidenza di Porfirio Díaz provoca in tutto il Paese ondate di furioso malcontento. Ma ciò che era cominciato con tutte le caratteristiche dei classici pronunciamientos – vale a dire lotta maturata in ambienti militari per questioni inerenti la pura e semplice presa del potere – era sfociato in una lotta di lunga durata, capace di raccogliere, oltre all’indignazione dei clubs liberali, genuine energie popolari, e di gettare sul piatto della contesa questioni sociali di fondamentale importanza, a partire dagli eterni e mai risolti problemi della terra e della libertà.
La storia, in una girandola di omicidi politici e di precipitose fughe all’estero alla ricerca di esili dorati, racconta che alla dittatura di Díaz, dopo la parentesi della presidenza di Francisco Madero, accusato di tradimento dai rivoluzionari per la sua incapacità di varare un programma radicale di ridistribuzione della proprietà fondiaria, sarebbe seguita la tirannia di Victoriano Huerta, destinato alla sconfitta malgrado l’appoggio degli Stati Uniti e degli interessi di una nazione già a quei tempi abituata a considerare l’intero continente americano come una propria pertinenza economica e amministrativa. Sarebbe giunto, quindi, il 1917 di Venustiano Carranza, con la prima costituzione al mondo a riconoscere precisi diritti ai lavoratori, ma anche, nel 1919, con l’omicidio – di cui Carranza fu mandante – del glorioso Emiliano Zapata: colui che pronunciò la memorabile frase «è meglio morire in piedi che vivere in ginocchio»; ispiratore dell’odierno Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (cfr. Alessandro Ammetto, Siamo ancora qui. Storia indigena del Chiapas e dell’Esercito Zapatista di LiberazioneNazionale, Red Star Press, 2014); un leader contadino portatore di un’idea precisa di rivoluzione. La stessa idea che lo spinse a rifiutare la poltrona presidenziale dichiarando «non combatto per questo, combatto per le terre, perché le restituiscano» e, con lo stesso spirito, ad animare quella straordinaria esperienza di democrazia diretta che fu la Comune di Morelos, capace di tradurre il futuro «tutto il potere ai soviet» con l’indigeno «tutto il potere ai pueblos».
La tensione messicana alla giustizia sociale, in realtà, venne puntualmente stemperata nel sangue dei complotti e diluita attraverso riforme come quelle varate nel 1920 da Alvaro Obregón, puntuale artefice dell’omicidio del suo predecessore.
Se dopo l’assassinio dello stesso Obregón, datato 1928, e la salita al potere di Plutarco Elías Calles e del suo Partito rivoluzionario istituzionale, ilMessico avrebbe guadagnato la fisionomia riconoscibile ancora oggi (il Pri governerà il Paese latinoamericano per oltre settant’anni), quella stessa fisionomia avrebbe consentito una relativa tranquillità soltanto a patto di rinunciare a risolvere una volta per tutte le atroci contraddizioni tra capitale e lavoro (tra grandi latifondisti, multinazionali straniere e contadini senza terra) e di giustificare i sacrifici imposti dalla modernizzazione con una gestione a dir poco autoritaria delle problematiche sociali, in genere dipinte come questioni di puro e semplice ordine pubblico.
Dove non arrivala realtà storica, però, è la leggenda che continua a prendere parola. E questa parola, nel caso del Messico, assume nomi dai contorni mitici e un grande cantore. Nomi come quello di Francisco “Pancho” Villa, tra i principali artefici dell’insurrezione messicana, raccontata come nessun altro da un cronista capace di rivoluzionare il mestiere del giornalista per dare alla cronaca un «vero» spessore letterario: John Reed.
Per le azioni di Francisco “Pancho” Villa, uno dei massimi esponenti dell’arte della guerra partigiana, il soldato del popolo che costrinse gli Stati Uniti a impiegare, oltre a nutrite truppe regolari, dirigibili e aerei da guerra nel vano tentativo di stanarlo, lasciamo che sia il libro di Reed a parlare. L’immagine dell’eroe nazionale e la figura del «bandito sociale», allora, si stempereranno all’avventurosa realtà di un combattente «amico dei peones» per una ragione semplice e fondamentale; addirittura in virtù di ciò che continua a rappresentare uno dei principali agenti di cambiamento mai presi in considerazione dagli storici di ogni tempo e Paese: l’istinto di classe.
A partire da questo punto, però, e al di là della formidabile narrazione contenuta in Messico in fiamme, è la biografia di John Reed a parlare per quello che è stato l’incredibile lavoro – e l’ancor più incredibile vita – di un uomo capace di essere contemporaneamente un grande intellettuale e un militante di rara generosità. Un uomo, come racconta l’amico e collega Albert Khys Williams, che il destino aveva scelto di far nascere il 22 ottobre del 1887 a Portland; vale a dire nella «prima città americana dove gli operai si rifiutarono di caricare munizioni per l’esercito di Kolciàk, durante l’intervento occidentale contro la giovane Unione Sovietica» (A. K. Williams, John Reed in J. Reed, America in fiamme, Editori Riuniti, 1970).
Si trattava,evidentemente, di un segno premonitore rispetto a ciò che sarebbe stata la personalità dello scrittore, fatto sta che, prosegue Williams: «[John Reed] odiava la furbizia e l’ipocrisia. Invece di mettersi dalla parte dei ricchi e dei potenti preferì esserne avversario […]. Fu perseguitato, battuto a morte,cacciato dall’impiego. Ma i suoi nemici non ebbero mai la soddisfazione di vederlo capitolare».
Chi meglio di un«partigiano della parola» (che quando è animata da fame e sete di giustizia accompagna l’azione, non vive al di fuori di questa), insomma, poteva calarsi in una situazione come quella Messicana per restituire ai lettori di allora e di oggi il senso di una guerra di classe che arrivò a sfiorare il milione di morti e che davvero, per utilizzare un’espressione di Fidel Castro (vedi Il libretto rosso di Cuba, Red Star Press, 2013), grazie all’eroismo dei battaglioni di contadini capitanati da Villa o da Zapata arrivò a dimostrare che «così lottano i popoli quando vogliono conquistare la loro libertà: lanciano pietre contro gli aerei e capovolgono i carri armati»?
Nessuno, in effetti, avrebbe potuto scrivere i libri di John Reed, né ricalcare le sue orme. Come ricorda ancora Williams, Reed fu:
«Un pellegrino delle grandi strade del globo.[…] Come l’uccello della tempesta egli era presente dovunque accadesse qualcosa di importante.
A Patterson, uno sciopero di operai tessili si trasforma in un uragano rivoluzionario: John Reed è nel cuore della tormenta.
Nel Colorado, gli schiavi di Rockefeller escono dalle loro fosse e si rifiutano di farvi ritorno malgrado i manganelli e le mitragliatrici delle guardie armate: John Reed è al fianco dei rivoltosi.
Nel Messico, i peones oppressi levano la bandiera dell’insurrezione e, al comando di Villa, marciano sulla capitale: John Reed, a cavallo, avanza tra le loro file.
[…] Scoppia la guerra imperialista. Dovunque tuona il cannone John Reed accorre: in Francia, in Germania, in Italia, in Turchia, nei Balcani, in Russia».
Questa succinta lista di luoghi ed avvenimenti significativi si riflette, naturalmente, nella bibliografia dell’autore, dove – senza che questo elenco sia completo – trovano spazio opere come Messico in fiamme, pubblicato per la prima volta sulla rivista «Metropolitan» nel 1914, La guerra nell’Europa Orientale (Pantarei, 1997; ed. or. 1915), i tanti racconti (Avventura e Rivoluzione,Red Star Press, 2014), gli scritti politici (Red America, Nova Delphi, 2012) e quel grande capolavoro che è I dieci giorni che sconvolsero il mondo, una cronaca in presa diretta della rivoluzione sovietica che Lenin in persona, nell’introduzione alla prima edizione americana (1919), raccomandò di leggere «ai lavoratori di tutti i paesi».
In Patria, mentre gli Stati Uniti venivano pervasi da sempre più massicce ondate di nazionalismo fascistoide e anticomunismo, John Reed si ritrovò spesso a pagare la colpa delle proprie idee. D’altro canto lo stesso Communist Labor Party, che Reed aveva contribuito a fondare rompendo con l’ala moderata del Partito socialista, era stato costretto alla clandestinità dalle autorità statunitensi. Le stesse che, processando Reed per I dieci giorni che sconvolsero il mondo, si sentirono rispondere «non desidero altro» alla domanda sulla possibilità di un «accadimento» paragonabile a quello sovietico sul territorio americano.
Il rumore di una simile affermazione suonò come un sasso scagliato nell’oscuro cuore di cristallo dello scintillante american dream. Perché a parlare era il figlio ribelle della buona borghesia americana: un giornalista affermato e ormai noto in tutto il mondo, una firma corteggiata dei giornali più prestigiosi, un autore di successo che, in ogni caso, non aveva nessuna intenzione di essere tranquillizzato dal benessere e di chiudere gli occhi di fronte alla «guerra» (Reed usava proprio questo termine) che il capitale conduceva contro i lavoratori statunitensi e di ogni parte del mondo. Non è dunque un caso se, nel settembre del 1919, John Reed è nuovamente in viaggio. La sua destinazione è l’Unione Sovietica, la patria della Rivoluzione che lui stesso ha contribuito a raccontare ai russi con I dieci giorni che sconvolsero il mondo, ma anche il luogo dove valeva la pena di ritornare con l’idea di scrivere un nuovo libro dedicato a quelli che sarebbero stati i successi del socialismo e, in qualità di membro del comitato esecutivo, per partecipare, a Mosca, ai lavori del secondo congresso dell’Internazionale comunista, e, a Baku, nel Caucaso, al primo congresso dei popoli orientali.
Tra i due appuntamenti c’è un nuovo arresto, dopo i ben venti (!) fermi subiti negli Usa, ora è la polizia finlandese a trattenerlo, mentre gli Stati Uniti, terrorizzati da ciò che Reed avrebbe potuto dire e fare sul suolo patrio, gli negano il visto necessario a rimettere piede… a casa sua!
Un paradosso per chi, come John Reed, doveva una parte importante del suo talento letterario proprio alla capacità di essere «a casa sua» ovunque si trovasse. E di essere in grado, ovunque si trovasse, di scoprire e di affratellarsi alle sofferenze dell’umanità ribelle, e di immedesimare se stesso e la sua scrittura alle lotte in corso. Una carica di immenso valore umano, artistico e politico che, il 17ottobre del 1920, sarà costretta a chiudere gli occhi nell’adorata Mosca, dopo aver contratto il tifo nel corso del viaggio a Baku e aver spossato il proprio fisico nel corso dei continui e faticosissimi spostamenti. John Reed aveva appena trentatré anni. E naturalmente non aveva mai dato credito a chi gli consigliava il riposo dopo che, nel 1917, una delicata operazione lo aveva costretto all’asportazione di un rene. Gli Stati Uniti erano appena entrati nel primo conflitto mondiale e John Reed, ancora in ospedale, commentava il suo esonero dal servizio militare dichiarando: «La perdita di un rene può dispensarmi dal servire la guerra tra due popoli. Ma non mi dispensa dal servire la guerra tra le classi».
Per questo sarebbe semplice e oltremodo giusto ricordare John Reed attraverso la sua sepoltura, sulla Piazza Rossa, nelle mura del Cremlino. Dove su un blocco di granito sono state incise le parole «John Reed, delegato alla III Internazionale, 1920». Eppure il senso del modo in cui Reed intese la sua esistenza può essere recuperato proprio tra le pagine di Messico in fiamme. In un passaggio brevissimo dove, dopo essersela vista brutta, John Reed si rende conto di come l’unica scrittura per cui vale la pena di impegnarsi sia quella che implichi un vissuto partecipato e reale. Prima vivere, poi scrivere, dunque. Magari con i fischi delle pallottole ancora nelle orecchie. E un quaderno stropicciato nelle tasche sul quale appuntare: «Bene, questa è certamente una esperienza. Ho qualcosa da raccontare».
Postfazione al volume Messico in fiamme di John Reed, a cura di Cristiano Armati, Red Star Press, 2013
Si potrebbe parlare del 10 ottobre del 1868 e sostenere di trovarsi in quel di Yara, la cittadina della provincia di Oriente dalla quale Carlos Manuel de Céspedes y Quesada aveva lanciato il famoso «grido» con cui si invitavano tutti i cubani a imbracciare le armi e a lottare per l’indipendenza. Non fosse stato chiaro in quel momento, ci avrebbe immediatamente pensato Antonio Maceo, il «Titano di bronzo», uno dei comandanti del primo esercito rivoluzionario, a precisare che «la libertà non si mendica, ma si conquista con il filo del machete».
In realtà, quasi un secolo divide il periodo glorioso in cui a Cuba si iniziava a combattere per abolire la schiavitù e per cacciare gli spagnoli rispetto al momento in cui un pugno di giovani male armati, capitanati dall’avvocato Fidel Alejandro Castro Ruz, decide di assaltare la caserma Moncada e la stazione militare di Bayamo con l’intenzione di incitare il popolo e l’esercito alla ribellione, sconfiggere il dittatore Fulgencio Batista, instaurare un governo rivoluzionario e, finalmente, grazie all’adozione di precise misure politiche ed economiche, dare un senso compiuto alla tanto sospirata «indipendenza» e alla così a lungo agognata «libertà».
I giorni di Fidel Castro sono quelli successivi al 26 luglio del 1953 quando, alle 5 e 15 del mattino, era stato lanciato il coraggioso attacco agli obbiettivi militari prescelti e quando, subito uno sfortunato rovescio, il manipolo di ribelli era stato costretto a organizzare una veloce ritirata, braccato dai soldati di Batista, immediatamente pronti a uccidere e a torturare, a sparare colpi a bruciapelo su prigionieri inermi ma anche a cavare occhi e a strappare testicoli per ottenere impossibili confessioni pur di mantenere un regime fondato sul più bieco nepotismo e sulla corruzione dilagante e generalizzata dei pochi approfittatori a cui appartenevano le leve del potere.
Sconfitti, ma come si vedrà niente affatto vinti, i resti della piccola avanguardia castrista – cioè il nocciolo duro del Movimento «26 luglio» – si ritroveranno, rigorosamente isolati, nelle celle di un carcere e quindi, in momenti diversi, alla sbarra degli imputati nel tribunale improvvisato all’interno della Sala delle Infermiere dell’Ospedale «Saturnino Lora» di Santiago di Cuba, il luogo in cui Fidel pronuncerà il discorso divenuto famoso in tutto il mondo con il titolo di La storia mi assolverà.
In realtà, nella Sala delle Infermiere, tutto sembrava sapientemente e violentemente orchestrato dal regime affinché la voce del malcontento popolare raccolta dal Movimento «26 luglio» fosse soffocata nel silenzio insieme alle istanze della parte più progressista della gioventù cubana; quella «Generazione del Centenario» che, a cento anni dalla nascita di José Martí, era pronta a battersi per pretendere le conquiste sociali già annunciate da «L’Apostolo» dell’indipendenza, ma, nei fatti, disattese da governi asserviti al proprio tornaconto personale oltre che al giogo dei nuovi padroni statunitensi e agli interessi dei vari potentati economici e mafiosi, colpevoli di aver trasformato Cuba in un bordello a cielo aperto, sempre pronto a soddisfare i voraci appetiti dei corrotti signori locali e/o dei ricchi turisti e uomini d’affari nordamericani.
Così, mentre le multinazionali della frutta prosperavano sulle spalle dei contadini e le aziende statunitensi del telefono e dell’elettricità pretendevano dalla popolazione cubana tariffe triple rispetto a quelle applicate nella madrepatria, a Cuba una fascia sempre più ampia di sottoproletariato urbano e rurale pativa la fame, sopravvivendo a stento in capanne senza né acqua né luce o in misere baraccopoli mancanti di tutto, preda dell’analfabetismo di massa e della piaga endemica della disoccupazione.
La situazione – gravissima – non poteva certo definirsi «casuale». Al contrario, non era altro che la diretta conseguenza della realtà neocoloniale: un assurdo sistema che rapinava (e continua a rapinare) i paesi come Cuba delle loro materie prime per poi derubarli una seconda volta, rivendendo a prezzi maggiorati il frutto delle lavorazioni industriali eseguite esternamente. In teoria si tratta di un perfetto strumento di sfruttamento e di dominio, nella pratica – come è stato dimostrato – soltanto una feroce «tigre di carta», capace di perpetuarsi a patto di mantenere (a spese dei dominati) un implacabile esercito di dominatori e, a livello ideologico, di spacciare come «giusto», «normale» o «naturale» ciò che, in realtà, è il frutto amaro dello sfruttamento e dell’arbitrio.
Questa è la situazione in cui, dopo settantasei giorni di isolamento, il 16 ottobre del 1953, Fidel Castro prende la parola. Il Pubblico Ministero si è già espresso spendendo appena qualche minuto per chiedere nei confronti del leader del Movimento «26 luglio» ben ventisei anni di carcere. Che una simile pretesa si fondi su un testo di legge contrario alla stessa Costituzione cubana, stravolta dopo il colpo di Stato di Batista del 10 marzo del 1952, non sembra avere nessuna importanza. E che esercitare il proprio diritto alla difesa all’interno di un finto tribunale, circondato da militari armati fino ai denti, sia quanto meno una beffa, non crea alcun problema al regime di Batista, per il quale il processo a Castro e al «26 luglio» è soltanto l’ultimo atto di un copione repressivo già messo in scena con successo. Invece, messo con le spalle al muro, Castro non accetta neppure per un minuto di vestire i panni della vittima predestinata. Al contrario, il futuro Líder Máximo della rivoluzione cubana capovolge i termini della questione e, da accusato, si trasforma in accusatore, ridicolizzando la giurisprudenza di Batista insieme ai suoi strumenti di dominio e alla sua ideologia totalitaria. In questo modo, la liquidazione dell’opposizione diventa l’inizio della fine per la dittatura che regge le sorti dell’Isola: un passaggio che sarebbe un grave errore considerare di semplice natura retorica, venendo a fondarsi, all’interno del discorso di Castro, su una strategia ben precisa, destinata a demolire le armi dell’avversario e, contemporaneamente, a indicare una precisa alternativa politica per la gestione dei destini di Cuba. Rispetto a questo discorso, i punti salienti de La storia mi assolverà, riguardano:
– Le forze messe in campo dal nemico
Non ha nessuna importanza, nota Castro, che il regime di Batista possa contare sulla protezione di un esercito ben armato e ben addestrato, e su un servizio di spionaggio foraggiato con milioni di pesos. La storia (non solo) cubana – insieme all’attualità della protesta sociale in America Latina – insegna che un esercito più numeroso di quello di Batista, cioè l’esercito spagnolo, è già stato sconfitto da cubani disposti a lottare persino a mani nude oltre che a colpi di machete. Perché: «Così lottano i popoli quando vogliono conquistare la loro libertà: lanciano pietre contro gli aerei e capovolgono i carri armati!».
– La definizione delle parti in lotta
La visione castrista è quanto mai chiara. Il campo della battaglia è diviso tra due schieramenti. Da una parte l’esigua minoranza degli oppressori e i loro sostenitori, cioè: «Quegli strati agiati e conservatori della nazione sempre pronti a inchinarsi davanti al padrone di turno fino a spaccarsi la fronte per terra»; dall’altra la stragrande maggioranza degli oppressi, vale a dire l’intero «popolo», che si definisce come tale – superando qualunque mistica reazionaria fondata sul «sangue», sulla «lingua» e sul «territorio» – proprio nel momento in cui riconosce se stesso all’interno di una «comunità in lotta».
– I limiti della legalità
Il processo al «26 luglio», da un punto di vista strettamente giuridico, è di per sé frutto di un paradosso. Come è possibile infatti che un regime – quello di Batista – apertamente fondato sulla violazione della Costituzione cubana, stravolta dal colpo di Stato del 10 marzo, si possa permettere di giudicare nei termini della legge chi a quella Costituzione si richiama e che quella Costituzione difende? E come possono i rappresentanti di un pugno di sfruttatori ergersi a pontefici della voce della massa di sfruttati; processare cioè quello stesso «popolo» a cui tutti i poteri dovrebbero essere costituzionalmente demandati?
– Il diritto alla ribellione
È il passaggio a cui Fidel Castro dedica maggiore energia, evidentemente sulla scia della convinzione che sconfiggere l’ideologia del nemico sia più difficile che avere la meglio su un esercito di uomini armati. Compiendo l’impresa, l’arringa di Castro si trasforma in un saggio di storia del diritto costituzionale che, partendo dagli albori greco-romani, si spinge fino alle dottrine politiche contemporanee. L’analisi di Castro è estremamente interessante perché tutta protesa a cogliere i passaggi che, storicamente, consentono di dare corpo al diritto alla ribellione. Da San Tommaso, che nell’ambito del conflitto tra Chiesa e Impero riconosceva ai sudditi la possibilità di ribellarsi ai tiranni se i loro ordini si fossero posti contro la legge di Dio, fino al Thomas Paine padre dell’indipendenza degli Stati Uniti, che invitava alla ribellione chiunque si trovasse assoggettato a un regime nemico del principio dell’uguaglianza degli uomoni, passando per i riformatori luterani, i monarcomani liberali e gli illuministi. Pensatori estremamente diversi, ma legati a uno stesso filo rosso e a un’identica considerazione. Perché tutti coloro che a vario titolo hanno contribuito a dare corpo al motto «ribellarsi è giusto» – che facessero riferimento a Dio, alla Libertà o all’Umanità – lo hanno fatto concependo le loro dottrine all’interno di un orizzonte più vasto di quello strettamente teoretico e speculativo. Un orizzonte «più vasto» abbracciato anche da Castro che, nel suo discorso, dopo aver ripercorso le principali tappe di quella che è stata la lotta mai conclusa per la liberazione della schiavitù dell’uomo sull’uomo, attraversa i concetti di «Patria» e di «Popolo» – eredità fondamentale delle lotte sociali e anticoloniali sudamericane – per arrivare a indicare l’unica prospettiva rivoluzionaria degna di questo nome: il Socialismo.
*
Nell’Accademia, come nel senso comune, accade spesso di sentire parlare della rivoluzione cubana e della stessa biografia di Fidel Castro alla luce di alcune fasi, contrassegnate da date precise. In modo particolare, il 2 dicembre del 1961, dopo aver sventato alla Baia dei Porci un colpo di Stato organizzato dalla cia (17 aprile 1961) e dopo aver nazionalizzato le raffinerie statunitensi che rifiutavano di raffinare il petrolio importato dall’Unione Sovietica, Castro parla alla Nazione definendo se stesso «marxista-leninista» e dichiarando «comunista» la natura della Rivoluzione.
Questo discorso, in sostanza, rappresenterebbe lo spartiacque tra un Castro animato da una sorta di socialismo utopistico di stampo quasi mazziniano e il Castro comunista contro il quale si scagliano i tanti detrattori reazionari, sempre pronti a gettare fango addosso alla rivoluzione cubana. Sconfessare i miopi demolitori del mito del comunismo tropicale, magari citando gli straordinari progressi cubani in tutti i campi del vivere civile, non è l’obbiettivo di questa introduzione. Più interessante, invece, è rileggere La storia mi assolverà per notare, dalla giusta distanza prospettica, come l’approdo di Cuba al socialismo non derivi in maniera diretta né dalle particolari condizioni geopolitiche degli anni della guerra fredda, né da una successiva elaborazione teorica compiuta dal Líder Máximo. Al contrario, proprio questo è «l’orizzonte» a cui tende il percorso rivoluzionario della Cuba di Castro, con una chiarezza talmente luminosa da rendere La storia mi assolverà un perfetto manuale pratico di avvicinamento al socialismo reale, una vera e propria guida alla realizzazione concreta di quanto pensato da Friedrich Engels in persona che, nel lavoro di preparazione alla redazione de Il Manifesto del Partito comunista, afferma chiaramente:
Prima di tutto la rivoluzione del proletariato introdurrà una costituzione democratica, e con questo strumento favorirà il dominio politico diretto o indiretto della classe operaia. (…) La democrazia sarebbe del tutto inutile per il proletariato se non venisse usata immediatamente come strumento per avanzare ulteriori rivendicazione che intacchino direttamente la proprietà privata e garantiscano l’esistenza al proletariato. Di queste misure, le più importanti, per come già adesso suggerisce la situazione vigente, sono le seguenti: 1. Limitazione della proprietà privata mediante imposte progressive, forti imposte di successione, abolizione della successione per via collaterale (fratelli, figli di fratelli ecc.), prestiti forzosi, eccetera. 2. Espropriazione graduale dei proprietari fondiari, degli industriali, dei proprietari di ferrovie e degli armatori navali, in parte mediante la concorrenza dell’industria nazionalizzata, in parte direttamente, tramite indennizzo in titoli di stato. (…) 7. Aumento delle fabbriche nazionali, delle officine, delle ferrovie e delle navi, dissodamento di tutti i terreni incolti e miglioramento di quelli già dissodati, nella stessa proporzione con la quale aumentano i capitali e gli operai a disposizione della nazione. 8. Educazione di tutti i ragazzi, a cominciare dal momento in cui possono fare a meno delle prime cure materne, in istituti nazionali e a spese della nazione. Educazione e lavoro di fabbrica insieme. 9. Costruzione di grandi palazzi sui terreni nazionali, destinati ad abitazioni collettive per comunità di cittadini impegnati nell’industria o nell’agricoltura, unificando in questo modo i vantaggi sia della vita cittadina che di quella rurale, senza condividere l’unilateralità e gli svantaggi di tutti e due i modi di vivere. 10. Demolizione di tutte le abitazioni e di tutti i quartieri malsani e malcostruiti. (…) Ovviamente tutte queste misure non possono essere attuate in un solo momento. Ma l’adozione di uno qualunque di questi provvedimenti comporterà sempre l’introduzione dell’altro. Una volta compiuto il primo assalto radicale contro la proprietà privata, il proletariato sarà costretto ad andare sempre più avanti, a concentrare sempre più nelle mani dello stato tutto il capitale, tutta l’agricoltura, tutta l’industria, tutti i trasporti, tutti gli scambi (Friedrich Engels, Il libretto rosso dei Comunisti, Red Star Press, 2012).
È Engels che scrive, eppure sembra di sentire Fidel Castro che parla nella Sala delle Infermiere. Nel momento in cui, sviluppando il ragionamento su cui si poggia la difesa per i fatti del 26 luglio, il Líder enuncia il «programma del Moncada», spiegando le celebri «cinque leggi rivoluzionarie» a cui si sarebbe uniformata la nuova politica cubana:
La prima legge rivoluzionaria restituiva al popolo la sovranità e proclamava la Costituzione del 1940 quale vera legge suprema dello Stato. In attesa che il popolo avesse deciso di modificarla e agli effetti della sua entrata in vigore e della condanna esemplare di tutti coloro che l’hanno tradita (…). La seconda legge rivoluzionaria concedeva la proprietà inconfiscabile e inalienabile della terra a tutti i coloni, i subcoloni, i fittavoli, i mezzadri e gli abusivi (…). La terza legge rivoluzionaria accordava agli operai e agli impiegati il diritto di partecipare al trenta per cento degli utili di tutte le grandi imprese industriali, commerciali e minerarie, zuccherifici inclusi (…). La quarta legge rivoluzionaria concedeva a tutti i coloni il diritto di partecipare agli utili della raccolta della canna da zucchero nella misura del cinquantacinque per cento (…). La quinta legge rivoluzionaria ordinava la confisca dei beni dei colpevoli di peculato e dei loro aventi causa o degli eredi relativamente ai beni ottenuti per testamento o ab intestato dalla dubbia fondatezza. (…) Queste leggi sarebbero state proclamate immediatamente e, una volta terminata la lotta e svolto un esame minuzioso del loro contenuto e dei loro effetti, sarebbero seguite un’altra serie di leggi e di norme fondamentali come la riforma agraria, la riforma della scuola e la nazionalizzazione del trust elettrico e del trust telefonico, con la restituzione al popolo delle eccedenze illegali che i monopoli hanno continuato a riscuotere con le loro tariffe e il versamento al fisco di tutte le somme estorte alla finanza pubblica.
Questo è il cuore del discorso di Castro, più che di una difesa, in effetti, si tratta di una rivendicazione per quanto accaduto il 26 luglio e, cosa ancora più importante, è questo il punto che segna la fondamentale differenza qualitativa tra la rivoluzione castrista e i conflitti per l’indipendenza e la libertà combattuti fino a quel momento a Cuba. Perché il Programma del Moncada è la base che consentirà a Castro e ai compagni del Movimento «26 Luglio» di passare dall’ammirevole e coraggioso socialismo di un Martí o di un Chibás ad un’altrettanto coraggiosa, ma concreta, azione rivoluzionaria. Un cambiamento reale che, non a caso, permetterà al «26 Luglio» di guadagnare una volta per tutte la giustizia sociale, inseguita dai cubani dai tempi della lotta per l’abolizione della schiavitù, e l’indipendenza politica, che per molte società sudamericane, schiacciate dall’ombra del gigante statunitense, resta ancora un mito. Allo stesso modo, il Programma del Moncada è l’orizzonte in cui tutto il celebre discorso castrista sulla rivoluzione e sulla libertà acquista senso. Il palco ideale sul quale, oggi come allora, è possibile affermare che «ribellarsi è giusto», sfidando i sempre severi giudici delle lotte sociali con una splendida affermazione: «Condannatemi pure. La storia mi assolverà».
Capita, incontrando alcuni libri, di rendersi conto che leggerli (o magari, come in questo caso, scrivere per loro conto un’introduzione) non significa avere a che fare con la carta e l’inchiostro, ma con delle realtà in grado di assumere una consistenza addirittura fisica: presenze che sarebbe più giusto assimilare a dei vecchi amici piuttosto che a delle voci bibliografiche da mettere al sicuro in qualche schedario.
Naturalmente è più facile che una simile identificazioni scatti quando il libro in questione, anziché discendere da un programma accademico, venga direttamente dalla strada, proprio come Dal nulla sorgemmo. La legione romana degli Arditi del Popolo, scritto da Valerio Gentili.
«Venire dalla strada», in questo caso, è un’espressione che non ha nulla di metaforico. E oggi, a oltre tre anni di distanza dalla pubblicazione della prima edizione del volume (2009), posso tranquillamente raccontare che io stesso ebbi modo di conoscere questo testo, prima che attraverso la sua lettura, grazie a una serie di manifesti che a un certo punto – ostentando il simbolo del teschio con il coltello tra i denti in campo nero – invasero diversi quartieri romani, a partire da San Lorenzo.
Incuriosito da sempre da tutto ciò che dicono i muri, risalii al progetto implicito in quell’attacchinaggio – riproporre all’attenzione della sinistra italiana il patrimonio rimosso del combattentismo progressista – e arrivai a conoscere Valerio Gentili: giovane storico «d’area» con il quale, in qualità di editor, iniziai una collaborazione che avrebbe prodotto, oltre a Dal nulla sorgemmo, anche Roma combattente (Castelvecchi, 2010), Bastardi senza storia (Castelvecchi, 2011) e Antifa. Storia contemporanea dell’antifascismo militante europeo (Red Star Press, 2013).
Nulla di strano, dunque, se tornare a scrivere di quello che fu l’esordio letterario di Valerio Gentili possa significare – sovrapponendo parole vecchie e nuove – rievocare quel malcelato senso di appartenenza già provato di fronte alla visione del teschio con il coltello. In modo particolare, la lettura di Dal nulla sorgemmo ha sempre richiamato alla mia memoria un’immagine difficile da mettere a fuoco. Catturato dalla prosa asciutta e dal rigore mostrato dall’autore di questo libro bello e necessario, approfondivo la conoscenza di uomini e simboli dai contorni leggendari ma, seppur rapito dalle tante informazioni inedite contenute nel volume, continuavo a pensare al luogo e al tempo in cui questa immagine, evidentemente ridotta a un ricordo seppellito nell’inconscio, doveva essersi materializzata forte e chiara davanti ai miei occhi.
Avvincente come un romanzo in cui il lettore capace di rispettare il patto narrativo non può fare a meno di immedesimarsi nelle situazioni descritte dall’autore, Dal nulla sorgemmo, vale a dire la storia delle prime formazioni armate che strenuamente si opposero al fascismo, lega in un discorso coerente l’avventura fiumana di Gabriele D’Annunzio e dei suoi legionari insieme al freddo intenso delle trincee della prima guerra mondiale, il clima di povertà e disperazione precedente il periodo di scioperi e repressione noto come «il biennio rosso» e l’avvento della violenza delle camice nere di Mussolini, finanziate dagli industriali, sottovalutate dai partiti della sinistra istituzionale e appoggiate dal grosso delle forze di polizia. Talmente è vivido il racconto di Valerio Gentili che, tra le pagine del suo libro, sembra di sentire crepitare le mitragliatrici utilizzate dai fascisti per assaltare le case del popolo, le leghe contadine e le sedi dei giornali dissidenti. Un’aggressione brutale e indiscriminata contro ogni luogo o persona decisi a opporsi all’ordine voluto dal Duce che, oggi, sarebbe più facilmente scivolata nel dimenticatoio se, a ostacolarla con più coraggio che mezzi, non ci fosse stata l’abnegazione e spesso il sacrificio estremo di una strana razza di soldati anarchici, repubblicani e comunisti – gli Arditi del Popolo – capaci di non confondere la necessità di obbedire agli ordini propria di qualunque sistema gerarchico con il pericolo di trasformarsi in servi di un potere volgare e assassino: un regime capace, tra le altre cose e al pari del complice nazista, di rinchiudere uomini, donne e bambini in vagoni piombati diretti ai campi di sterminio (ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici… le loro grida continuano a pesare come macigni sulla coscienza di chi ancora oggi si propone come erede di quella stagione sanguinaria) annullando qualunque «garanzia democratica» con la forza e il terrore.
Malgrado il tremendo potenziale offensivo a disposizione, le «forze del male» in camicia nera avrebbero conosciuto una clamorosa sconfitta quando, serrati i ranghi, l’esercito popolare dei Partigiani sarebbe stato in grado di rispondere alla violenza colpo su colpo e persino a sostenere vittoriosamente scontri in campo aperto. Grazie a questo, nella «Repubblica democratica fondata sul lavoro» non ci sarebbe dovuto più essere nessuno spazio né per il fascismo né per i fascisti: relitti sociali con i quali si è troppo a lungo creduto di aver chiuso i conti per sempre.
La realtà, purtroppo, è molto diversa dalla buone intenzioni. E se le affermazioni elettorali dell’estrema destra europea – Francia, Grecia, Inghilterra, Ungheria… – sono sotto gli occhi di tutti, la nuova edizione del libro di Valerio Gentili non si limita a osservare il fenomeno del cosiddetto «neofascismo», ma, scavando tra le pieghe di ciò che accade stabilisce un inquietante parallelismo. Perché se gli Arditi del Popolo, sulla scia del proprio valore morale e militare, non ebbero particolari problemi nel rompere il monopolio fascista della violenza, furono comunque costretti a incassare il disprezzo e la mancata collaborazione di tutti i partiti della sinistra istituzionale che, con la lodevole ma isolata eccezione di Gramsci, contribuì in modo decisivo al tramonto di quell’esperienza. Allo stesso modo, dopo la seconda guerra mondiale e dopo un periodo di relativa tenuta del fronte antifascista, l’opposizione di piazza agli eredi di Mussolini ha conosciuto un progressivo isolamento, fino a diventare appannaggio quasi esclusivo di una nuova generazione di ribelli di strada – i militanti dell’Antifa – armati di passione e coraggio, ma sistematicamente accusati di teppismo, balordaggine e superficialità delle formazioni istituzionali. Anche in Italia, da questo punto di vista, fanno storia i titoli «rissa tra ubriachi» con cui i mezzi di informazione – e i più importanti rappresentanti dell’«arco costituzionale» con loro – si sono affrettati a bollare gli omicidi di antifascisti come Davide Cesare «Dax» (Milano, 16 marzo 2003) o Renato Biagetti (Roma, 27 agosto 2006): volgari testimonianze di come, entrando nel nuovo millennio e affrontando, insieme a una crisi economica epocale anche il ritorno di fiamma delle ideologie più reazionarie, la pratica antifascista si ritrovi a vivere una nuova stagione di isolamento e marginalità, consumata nel nome diell’inesistente pace sociale necessaria a chi si è fatto alfiere dell’imperante ideologia dei «sacrifici».
Contro una simile prospettiva, non resta che tornare ai capitoli finali di Dal nulla sorgemmo. Tra gli stessi passaggi in cui – mentre l’epopea degli Arditi volge al termine e i boia in camicia nera, nelle loro prigioni, innalzano i cavalletti per estorcere con le pinze arroventate e i fili elettrici impossibili confessioni ai loro fieri oppositori – l’immagine a cui affidare il ruolo di introdurre un libro così importante, assume finalmente una consistenza concreta. All’improvviso, infatti, mi sono ricordato di un sentiero arrampicato tra le montagne della provincia di Cuneo: un tratturo ammorbidito dall’erba, come se la Natura stessa volesse ancora aiutare il suo segreto a sfuggire alla vista del passante occasionale o della spia. In questa località, amena soltanto all’apparenza, la consistenza della terra battuta cede d’un tratto il passo alla solidità della pietra viva, infilzando uno scalino dopo l’altro fino alla sommità di un monte. Qui, dove l’aria è rarefatta dall’alta quota e il cielo perennemente terso, la sacralità del luogo è affidata a un circolo di croci di legno, tese sulla serenità della valle sottostante come sentinelle. Si tratta delle tombe di un gruppo di partigiani caduti nel corso della guerra di Resistenza, come direbbe Piero Calamandrei, uomini «che volontari si adunarono per dignità e non per odio. Decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo». Tra di loro, ugualmente segnalato da una croce ma a differenza degli altri privo persino del conforto di un nome, c’è un partigiano ricordato da una targa che si limita a dire «tedesco anonimo»: un soldato dell’esercito del male che, evidentemente, non ebbe paura di gettare alle ortiche la sua uniforme per continuare a combattere dalla parte giusta. La sua lezione, affidata a quel sacrario della provincia di Cuneo, andrebbe trasferita nei tribunali di guerra in cui i tanti aguzzini fascisti e nazisti insistono a scrollare le spalle di fronte alle loro responsabilità, continuando a ripetere di avere solo «obbedito agli ordini»; quasi pretendendo, con simili scuse, non soltanto il perdono, ma anche il riconoscimento di un’inesistente dignità.
A pensarci bene gli Arditi del Popolo di cui parla Valerio Gentili sono simili al soldato tedesco senza nome venuto a morire tra montagne tanto lontane da casa sua: combattenti che ebbero la capacità e la forza di disobbedire agli ordini rifiutandosi di diventare la manodopera del terrore al servizio di forze antipopolari ma che, malgrado tutto, faticarono a trovare posto in quella tradizione di giustizia e libertà a cui dovrebbe continuare a ispirarsi la Repubblica italiana. Le ragioni del sostanziale silenzio su una simile esperienza, mai valorizzata come avrebbe meritato, sono tante. A Valerio Gentili e al suo Dal nulla sorgemmo va il plauso di averle ripercorse insieme alle vite e alle avventure degli eroici protagonisti di quell’esperienza. Una storia da conoscere e da fare propria. Affinché nessuno possa ancora pensare di giustificare l’abominio. E affinché molti possano continuare a disobbedire agli ordini.
Introduzione al volume Dal nulla sorgemmo. La Legione Romana degli Arditi del Popolo di Valerio Gentili, Red Star Press