Intervista di David Frati per Mangialibri.com
Poeta, performer, romanziere, saggista, giornalista, editor, appassionato polemista politico: Cristiano Armati è una delle voci più interessanti della controcultura italiana ma il suo percorso ha fatto prima tappa anche nella casella della cultura, che non guasta mai. E’ nato il giorno dei morti del 1974, e a chi gli chiede cosa farà in futuro risponde che il futuro può aspettare. Altrimenti che razza di futuro è?
Cosa si capisce di un popolo e di un Paese studiando la storia dei suoi criminali?
Cultura, popolo, Paese… sono tutti concetti che non rimandano a qualcosa che esiste in natura ma che, attraverso il linguaggio, contribuiscono a ordinare il caos indistinto del mondo in cui viviamo. La criminalità, da questo punto di vista, è come un’immagine sfocata e distorta: una realtà che si tende a negare e a mistificare e che spesso viene utilizzata per tranquillizzare le coscienze, per scaricare su determinati individui – i criminali – quelle che sono le colpe del nostro stile di vita e del nostro sistema sociale. Scrivere la storia della criminalità, allora, significa raccontare il passato mettendosi dalla parte di chi ha perso, mettere il dito nelle piaghe di ferite profonde, vite umane spezzate, sfide destinate alla sconfitta, esistenze che si consumano nei sinistri segreti delle galere, amori profondi distrutti dalla sentenza di un tribunale. Ecco: quando, per raccontare la criminalità, si abbandonano i toni di condanna – accorati, comprensibili e spesso “complici” nel loro essere scontati – che caratterizzano le pagine dei giornali e i fotogrammi dei notiziari televisivi, ci si addentra in luoghi in cui un posto come l’Italia non è più il Paese del sole, della pizza, dell’amore per la mamma e del mandolino ma una nazione fondata sullo stragismo di Stato ed edificata attraverso gigantesche speculazioni edilizie, un Paese dove la povertà diffusa si è scontrata e si scontra con il continuo invito all’edonismo veicolato dai mezzi di informazione, un luogo in cui un ladro, un assassino, un rapinatore può diventare l’eroe maledetto della disperazione collettiva, protagonista di sogni proibiti eppure veri, oggetto di ammirazione e, in alcuni casi, addirittura oggetto di rivendicazioni politiche e identitarie. Non c’è dubbio, insomma, che studiano la storia della criminalità si può capire moltissimo del popolo e del Paese che la produce. Una conoscenza che, per forza di cose, si scontrerà con la dimensione confortante delle tante verità ufficiali e che, nel momento in cui riuscirà a mettere a fuoco l’istantanea di un luogo molto più simile a quello in cui abitiamo… ci ricorderà chi siamo, facendoci un po’ male.
Come nasce la voglia di raccontare questi sessant’anni di cronaca nera da Salvatore Giuliano a Lupo Liboni?
Protagonisti dell’immaginario collettivo, abitanti di film di successo e di canzoni popolari, ospiti fissi delle galere e dei tribunali, depositari di segreti inquietanti e di misteri, i criminali sono tra noi. Mi affascinava l’idea di mettere gli strumenti della narrazione al servizio di un’idea alternativa di storia e così ho scritto Italia criminale.
C’è un personaggio – tra tutti quelli di cui racconti le terribili gesta nel tuo libro Italia criminale – che ti ha colpito particolarmente?
Horst Fantazzini, il “rapinatore gentile”, Renato Vallanzasca, Danilo Abbruciati della banda della Magliana, Paolo Casaroli, Sante Notarnicola e Ugo Ciappina sono, dal mio punto di vista, i personaggi più interessanti del libro. Accanto a loro vorrei ricordare la figura di Jim Brown, uno strano bandito nero che, durante la seconda guerra mondiale, dissertò l’esercito degli Stati Uniti per mettersi alla testa di un gruppo di rapinatori toscani, specializzati nel depredare i camion a stelle e strisce lasciando sui luoghi del delitto una strana firma: gli autisti, infatti, venivano regolarmente ritrovati ammanettati a qualche palo, illesi ma completamente nudi. Un gesto provocatorio e difficilmente spiegabile senza fare riferimento alle future lotte di emancipazione dei neri americani, al black power e a Malcom X: un discorso estremamente affascinante se si pensa che non stiamo parlando di New York, Los Angeles e Chicago ma della campagna italiana anni ’40!
Perché le canaglie sono sempre un po’ simpatiche? A parte gli scherzi: da dove nasce il fascino del crimine secondo te? E perché i libri come Italia criminale (o come Roma criminale) hanno tutto questo successo?
La “canaglia”, molto spesso, è qualcuno che alla resa dei conti si ritrova da solo a combattere contro tutto e contro tutti. Credo che sia questa situazione ad accendere la fantasia del “pubblico” e a muovere nella gente sentimenti, se non di pietà, almeno di simpatia. Le storie di criminalità, poi, sono sempre storie forti: storie di sesso e di sangue che si imprimono nella memoria e che – complice una scrittura poetica e intrigante (spero) – diventa emozionante ricordare anche attraverso la lettura di libri come “Italia criminale” e “Roma criminale”.
La maggior parte delle volte chi scrive di un argomento non ama leggerne: capita così che gli autori dei thriller più sanguinari siano fan della narrativa romance, o che degli storici adorino Stephen King. E’ così anche per te o il crimine ha appeal su di te anche come lettore?
Come lettore, in effetti, non mi sento appagato né dal thriller classico né dalla cronaca nera. Preferisco frequentare i romanzi di Charles Bukowski, Mohamed Choukri e Abasse Ndione. Ho una forte simpatia per la narrativa di Gianluca Morozzi e, per stare all’interno di un genere più simile a quello di “Italia criminale”, per i noir mediterranei di Bruno Ventavoli. L’esperienza letteraria più emozionante che ho vissuto negli ultimi tempi, però, è quella che mi viene dalla lettura delle poesie di Francesca Genti e del suo “Il vero amore non ha le nocciole”: versi romantici e di grandissima forza espressiva, una scrittura bellissima ma che, effettivamente, sarebbe difficile archiviare alla voce “letteratura criminale”.
Perché raccontare le storie delle vittime di quella che tu nel tuo saggio Cuori rossi definisci “la terza guerra civile italiana”? E soprattutto la voglia di raccontarne la quotidianità nascosta dietro al ritratto pubblico?
La voglia di raccontare le storie delle vittime, o meglio, dei caduti della sinistra italiana, mi è venuta in due momenti diversi. Intanto, mentre facevo le ricerche necessarie a scrivere “Roma criminale” e “Italia criminale”, mi sono imbattuto in molte tracce che, con grande parzialità, rimandavano a quella che era stata la vita delle innumerevoli persone – ce n’è per tutti: uomini, donne, vecchi e bambini – uccise da aggressioni neofasciste o dalle forze dell’ordine nel corso dei sessant’anni di storia della Repubblica Italiana. In un primo momento mi sono limitato a mettere da parte tutti i documenti e a pensare. Poi, quando ho iniziato a ritrovare i nomi dei “cuori rossi” scritti da mani ignote sui muri dei quartieri dove erano nati o delle vie dove hanno trovato la morte, ho capito che le loro storie non erano state dimenticate, al contrario, non solo vivevano nei ricordi dei tanti che gli erano stati vicini ma erano state trasformate in simboli che, con il passare del tempo, rimandavano agli stessi ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. Dietro i ricordi che era possibile associare ai “cuori rossi”, però, non si nascondevano soltanto discorsi sui massimi sistemi, al contrario, si agitavano ritratti più intimi: racconti di passioni e di scelte quotidiane, dettagli sui gusti letterari e musicali, abitudini, soprannomi e piccole o grandi manie… ecco, calandomi in questo magma di rabbia ed emozione, ho capito che sarebbe stato molto più interessante non limitarsi a raccontare il contesto generale a cui può essere imputata la morte dei “cuori rossi” italiani ma provare a parlare direttamente delle singole persone, nel tentativo di ascoltare ancora una volta la loro voce.
Le storie terribili di Cuori rossi rappresentano episodi – tragici ma legati a fatti contingenti – oppure elementi di una simmetria, tappe di un percorso comune nelle quali la casualità ha poco spazio?
Quando si viene uccisi da una pallottola esplosa dalle forze dell’ordine, non si viene uccisi dalla “casualità”, ma da un progetto che, in nome dell’ordine pubblico, non esita a criminalizzare ciò che in democrazia dovrebbe essere concepito come un “diritto”: manifestare il proprio dissenso, prima di tutto. Allo stesso modo, quando si viene uccisi da un’aggressione neofascista, non è il “caso” che toglie una vita. A togliere la vita, invece, è una cultura della sopraffazione che troppo spesso, dietro i concetti mistificati di “onore” o di “virilità” ha covato la pratica dell’attacco squadrista e la volontà di colpire tutto ciò che – posizioni politiche, preferenze sessuali o colore della pelle – poteva essere classificato come “diverso”. Se a tutto questo si aggiunge che sull’Italia pende un sistema di controllo sociale targato CIA – un vero e proprio piano di annientamento della sinistra elaborato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale – si capisce che la casualità, con le storie raccontate da “Cuori rossi”, non ha davvero nulla a che fare.
Cuori rossi, cuori neri… le differenze secondo te sono soltanto di schieramento oppure la linea di pensiero secondo la quale tutti i militanti in fondo sono uguali e ciò che li definisce è solo la dimensione della militanza in sé è un inganno?
Negli ultimi anni, in Italia, si è assistito al trionfo della negazione della matrice politica della violenza: una negazione funzionale alla “corsa al centro” in cui si stanno impegnando tutti i partiti del così detto “arco costituzionale”. Su questo altare, però, è lo stesso spirito della Costituzione a essere sacrificato, dimenticando che l’Italia è prima di tutto una Repubblica nata grazie alla Resistenza. Credo che basti affermare questo per sottolineare come sia impossibile mettere i “rossi” e i “neri” sullo stesso piano. E non è certo un caso se, dietro l’etichetta di “rossi”, ci sia la grande tradizione del Movimento operaio e democratico, mentre la parola “neri” indica ancora oggi gli eredi di un regime responsabile di atroci efferatezze, a cominciare dalla complicità con le camere a gas della Germania hitleriana: si tratta di un punto sul quale è sempre necessario fare chiarezza, a meno che non si preferisca fare finta di niente e dimenticare…
Che effetto ti fa – a te che nasci come poeta e come romanziere – essere ormai percepito da decine di migliaia di lettori come giornalista-saggista?
È una domanda bella e complessa. Sopratutto è una domanda tutt’altro che ovvia. La differenza tra scrittura narrativa e scrittura saggistica, infatti, è senz’altro presente tra gli addetti ai lavori. Andando tra il “pubblico”, invece, ho avuto modo di scoprire che le cose stanno in maniera diversa e lo “scrittore” torna a essere semplicemente “colui che scrive”. Per quanto mi riguarda, comunque, le dimensioni della narrativa, della poesia e della letteratura d’inchiesta, non sono altro che diverse sfaccettature della stessa materia (e recuperando gli anni del mio impegno universitario posso aggiungere a queste categorie anche la scrittura etnografica… avrei un paio di saggi inediti sull’argomento!): la pubblicazione di una silloge di poesie piuttosto che di un articolo di critica letteraria può far pendere la percezione del tuo lavoro da una parte o dall’altra… ma dietro ci sono sempre io! E da questo punto di vista posso anticipare una novità: a febbraio, sempre per la Newton Compton, uscirà un mio nuovo libro di racconti. Si chiamerà “Roma noir” e sarà un libro di narrativa a tinte forti: chi mi ha seguito fino a qui troverà in questo volume qualche eco di “Italia criminale” e alcuni personaggi già tratteggiati in “Rospi acidi e baci con la lingua”. Chi ha creduto di potermi incasellare in una categoria precisa, forse, resterà deluso: ma per me è importante scrivere, non certo rivestire un ruolo!
Che peso ha Roma nella tua scrittura, nel tuo immaginario, nei tuoi interessi? Ti senti uno scrittore “romano”?
Roma ha un peso senz’altro notevole in quello che scrivo. Ma si tratta, com’è normale, di una “mia” Roma. Si tratta, in modo particolare, di una Roma sospesa tra le borgate della zona nord e i paesi della provincia: una città che, a livello narrativo, è stata messa spesso in ombra dagli innumerevoli racconti ambientati nei suoi quartieri più borghesi o ai margini del suo immenso patrimonio artistico. Nei miei libri, invece, la stazione degli autobus di Saxa Rubra diventa più importante del Colosseo e i portici delle case popolari di Nuovo Salario un luogo decisamente più vitale dei Parioli. Anche la lingua, ovviamente, ne risente e, tenendo presente queste coordinate, non ho problemi ad affermare che sì, mi sento uno scrittore “romano”.
Quanto c’è di autobiografico nel tuo Rospi acidi e baci con la lingua?
Moltissimo. Ma l’abitudine di scrivere di ciò che sento e vedo è la caratteristica principale della tradizione alla quale mi sento di appartenere: la tradizione del realismo sociale; un modo di intendere – e di vivere – l’estetica dell’arte che può essere rintracciato nei libri di autori come Pier Paolo Pasolini, Elio Vittorini o Cesare Zavattini, soltanto per limitarsi ai nomi di alcuni mostri sacri che mi sono particolarmente cari.
Sei spesso protagonista di reading poetici nei quali l’elemento musicale ha un peso non indifferente: vuoi parlarcene?
È vero, insieme al polistrumentista punk Romano Pasquini porto avanti uno spettacolo di speaking words che mi appassiona molto. Un reading sospeso tra l’immediatezza ritmica del rap e la grande scuola dell’ottava rima romana. Il testo che stiamo portando in giro per l’Italia in questo periodo si chiama “Tutta robba rubbata a Milano”: trenta minuti di amore, lotta e realtà post-urbana. Il nostro desiderio è quello di trovare il tempo e le energie per ampliare il discorso, coinvolgere altri performer e musicisti e arrivare a incidere un disco sperimentale.