“Se invece di legàto si dicesse légato, ecco che avrei trovato una rima con fégato”.
Si racconta che così rispose il poeta Giuseppe Giusti, celebre per la sua abilità nell’avere sempre la rima pronta, a qualcuno che, cercando di metterlo in difficoltà, gli propose di trovare una rima all’unica parola italiana che non ha un corrispettivo in rima, fegato, appunto. L’ho imparato a scuola e immagino sia per questo che mi è tornato in mente adesso, vedendo come, parlando della maestra di Torino, celebre per aver insultato un branco di celerini nel corso di una manifestazione antifascista, si insiste con il dire che mentre quelli che hanno torturato in modo atroce decine di persone a Bolzaneto (penetrando vagine e ani con manganelli e rendendosi responsabili di molti altri innominabili atti di crudeltà e tortura) sono stati promossi, lei viene licenziata; si insite con il dire che mentre quelli che hanno ammazzato a manganellate un ragazzino di Ferrara (“sembrava un albanese”, sostennero le divise per giustificarsi) sono stati ricollocati in servizio, lei viene licenziata; si insiste con il dire che mentre quelli che puntini puntini (inserire a piacere al posto dei puntini uno qualunque tra le molte centinaia di omicidi, spesso a sangue freddo, commessi nell’ultimo mezzo secolo contro militanti politici o migranti o ragazzi di strada o… puntini puntini), lei viene licenziata. Continua a leggere La rima con fegato. O sul perché è inutile attendersi che a essere “punite” siano le forze di polizia
Categoria: Riot
Piazza Verdi liberata
Mi succede / quando parto / per un posto, / pijo er treno / e finalmente / trovo er tempo / pe’ scrive / sulla carta / coll’inchiostro / quello che sento / che poi / è quello che penso.
Oggi / in direzione / di Bologna, / le parole / facevano / fatica / perché / se voi parlà / de Piazza Verdi / è il rispetto / che te fa / corre in salita.
Qui / quanta gloria c’è passata, / se parla de lotta / e quindi / de persone / che se so’ messe in gioco / pe’ trova’ / ‘na soluzione, / se no, / questo è poco / ma è sicuro / mo’ nun ce stavamo qui / a passà così le ore.
Adesso c’è chi ascolta / e c’è chi parla, / c’è chi beve / chi se bacia / e pure chi se fa’ ‘na canna, / ma pe’ fa’ cresce / tutta ‘sta passione / quarcuno qui / ha dovuto fa’ ‘na guerra cor padrone.
Me pare ieri / e invece guarda ‘n po’ / so quarant’anni, / er calendario / dice che stavamo ner ’77, / i fascisti s’affacciavano dalle fogne, / ma com’erano usciti / nelle fogne se sbrigarono
a tornacce.
Chiedetelo alle pietre de ‘sta piazza, / chiedetelo alle pietre, / addosso a ogni vetrina / spaccata / pe’ difenne ‘n partigiano / fucilato alle spalle / ‘na mattina.
Bandiere rosse / piansero quel lutto, / ma ora arzate l’occhi / e lo vedrete scritto / che ‘sta piazza nun è de Verdi, / ‘sta piazza è de Lo Russo, / un compagno nostro / che no / non è mai morto.
Ce stava pure lui qui l’altro giorno, / quanno da ‘sti pizzi ce voleva passa’ ‘n vigliacco, / er nome suo / scusate / non lo faccio / ‘ntanto lo sapete che se chiamo come er presidente der consiglio, / e je possa pijà ‘n corpo a quello stronzo / che a tutti e due non li manna a quer paese arzando ‘er braccio.
Erano i giorni / de piazza Verdi Barricata, / contro i fascisti / i razzisti / e l’infamoni, / quelli che fanno i sordi / sulla pelle de nonantri, / e che rideno si ner mare se rovesceno i barconi.
Perché dicono che i migranti vengono qui / e ce rubbeno ‘er lavoro, / ma maledetto è chi lo dice e maledetto è chi ce crede, / da Piazza Verdi Barricata / ner monno intero / s’è sparsa n’antra voce.
Ve ricordate de Ponte Stalingrado? / Sta sempre qui a Bologna / e dice «onore», / per chi
ha caricato puro li blindati / a mani nude / ma co’ la forza / che sta dentro a ‘n ideale.
Se chiama casa / lavoro / e reddito pe’ tutte e tutti / l’unica opera de cui ce ‘sta gran voja, / ce lo sa er popolo / che l’è annato a spiegà alle guardie / che a Piazza Verdi / hanno preso più
de quarche sveja.
Dentro all’università / ‘sta notizia / poco tempo fa è arrivata pure a ‘n professore, / uno che ‘nsegna – sì lo so, nun se sa come, / e che la guerra / secondo lui / a noi ce fa bene; / lo sai che c’è professo’? / Tu c’hai ragione / ma preparate a corre come ‘n matto, / perché l’unica guerra bona – te lo giuro / è quella che i poveri faranno contro l’oppressore.
Pijate / per esempio / gli occupanti, / quelli dell’Ex Telecom / giù alla Bolognina, / hanno passato ‘na giornata / – donne e omini / vecchi e ragazzini – / a combatte uniti ‘na battaglia / contro i giudici, / l’assessori, / i prefetti / e pure contro i cellerini.
La gente come noi non molla mai / è ‘na canzone / che canta l’occupante / e il facchino / che paura non ne ha / pure se in Emilia / lo tenevano a fa’ lo schiavo le cooperative der quattrino.
Un bel giorno / però / la musica è cambiata, / «Ah Poletti, mettitece te a caricà i TIR a tre euro all’ora!», / ce so’ i compagni e le compagne a fa’ er picchetto, / contro gli sfratti / oppure ‘ndo er lavoro nun è giusto, / ovunque finché nun arzamo er pugno / come alla Granarolo / quannè che avemo vinto.
Tutto questo / e mille cose ancora / deve raccontà / chi co’ l’occhi sua l’ha visto / dentro Social Log, al Crash, al Cua, al S.I. Cobas, al Cas / il desiderio che tanto grande ha fatto questo posto: / è la fame / e la sete di giustizia, / è quello che da sempre / s’è chiamato / «comunismo».
Per questo / voi / nun je credete / a chi sostiene che n’ammazza più la penna che la spada, / Piazza Verdi / ‘sta cosa qui / ce l’ha ‘nsegnata: / i geni nun cadranno mai dar cielo / se tutti insieme nun je damo ‘na spallata.
Perciò / scusateme se so’ venuto qui a parla’ romano, / ma che devo fa’? / Conosco solo questa lingua / e co’ lei lo dico a voce alta: / viva Bologna libera e meticcia!
Modena, Roma: ricordate che questo è Stato
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici…
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi
(Primo Levi)
Je suis Paris
- Infoaut: Valls forza sulla Loi Travail
- Clash City Workers: Cosa succede in Francia e cosa ha a che vedere con noi
Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?
Cosa succede quando la polizia interviene per sgomberare un’occupazione abitativa?
Qualcuno ha iniziato a parlare di riot porn per descrivere l’attrazione del “pubblico” nei confronti delle immagini dedicate agli scontri di piazza e ai tafferugli con le forze dell’ordine. Le cariche indiscriminate, le manganellate a persone inermi, le istantanee di poliziotti che calpestano o schiaffeggiano i fermati credendo, magari, di non essere visti, in realtà si sprecano e sono abbondantemente disponibili in rete e altrove, insieme alle riprese, molto più rare, di reparti costretti alla ritirata grazie a una controcarica o a un fitto lancio di oggetti.
Merito dell’imperante economia dei click: una caratteristica dell’informazione ai tempi di Internet, capace di attirare i giornalisti sui luoghi del conflitto sociale come le mosce sul miele. Perché in fondo la fotografia di una testa spaccata o l’istantanea di manifestanti presi a calci è una delle poche cose che, sulla colonna destra dei quotidiani on-line, riesce a reggere il confronto con le gallery dedicate ai gattini o alle donne nude. E anche perché, sovraesponendolo, il dolore finisce per decontestualizzarsi: il manifestante colpito dal lacrimogeno, i cadaveri di decine di migranti stipati in un camion, il gol in rovesciata di un campione dello sport, il lato B di una famosa attrice di Hollywood, l’arte di impiattare i dessert, sono soltanto tessere di un palinsesto e, in questo schema, rispondono alla necessità di andare incontro agli sfaccettati gusti degli spettatori, non certo alla reale esigenza di riflettere su ciò che accade e su perché accade.
Per questa ragione, dopo lo sgombero di un’occupazione abitativa, a scomparire non sono le immagini dell’eventuale resistenza offerta dalle famiglie buttate in mezzo alla strada. Nei corpi scomposti di chi oppone resistenza a un nemico tanto più forte, numeroso e meglio armato come quello rappresentato da interi battaglioni di polizia, infatti, si cerca di cristallizzare ciò che, grazie all’esposizione, palesa una sconfitta presentata come inevitabile. Piuttosto, dopo lo sgombero di un’occupazione abitativa, a scomparire sono le immagini che parlano di ciò che fanno le forze dell’ordine, lasciate sole con se stesse, degli averi degli occupanti e degli spazi che questi hanno faticosamente strappato al degrado, recuperandoli alle proprie umanissime esigenze.
Ebbene, lasciate sole con se stesse, negli spazzi appena sgomberati, per prima cosa le forze dell’ordine si accaniscono contro i bagni. È un grande classico, ma sulla scia di una psichiatria insondabile gli uomini in divisa sembrano godere nel distruggere gabinetti e docce, quasi a voler implicitamente affermare che la loro controparte – uomini, donne, bambini… – non può davvero avere utilizzato un water o una vasca da bagno. Accade perché, se pensasse di fare tutto ciò che fa a uomini, donne e bambini, il personale in divisa finirebbe per abbandonare in massa il proprio servizio, da qui il bisogno di presentare il “nemico”, cioè il comune cittadino, come una sorta di animale, operare su di lui un’operazione di despecificazione fisica e morale utile al suo annientamento. Per questa ragione, le tazze del cesso degli spazi occupati, trasudando umanità, vengono immediatamente spaccate e divelte: la polizia afferma con quel gesto ricorrente che tutto ciò che ha fatto non lo ha fatto contro esseri umani e, considerando come né le cose né gli animali hanno mai usato i bagni, quei bagni non esistono, non devono esistere, quindi vengono distrutti.
Immancabile, dopo la devastazione dei servizi igienici, segue il bisogno da parte della polizia di marcare il territorio conquistato. Tradizionalmente tutto questo avviene pisciando sui vestiti degli sconfitti e sui loro letti. Cacare sui materassi, da parte della polizia, è un simbolo di vittoria e una modalità tipica di festeggiamento.
Una volta avvenuto tutto questo si può procedere alla spartizione del bottino: televisioni, macchine fotografiche e videocamere i beni più ambiti. Ma anche un bel paio di scarpe sparisce spesso e volentieri: avete mai visto degli animali girare provvisti di calzature?
E soprattutto, da che mondo e mondo, il saccheggio è il primo diritto concesso dalle stesse gerarchie di comando ai soldati dell’esercito invasore. Il tutto accade al di fuori e oltre ogni razionalità tecnica legata all’occupazione militare. Il furto è solo una piccola parte di ciò che accade in questi casi, considerando che lo stupro e la tortura vengono largamente praticati, segni indelebili della sopraffazione e punizione supplementare inflitta ai vinti.
Anche gli sgomberi delle occupazioni abitative parlano di guerra. In modo particolare parlano della guerra contro i poveri e della sopraffazione degli oppressori ai danni degli oppressi. E infatti immagini come quelle riprese dalla scena dello sgombero dello studentato occupato Degage non finiranno mai in una delle tante gallery dei quotidiani on-line. Perché mostrarle significherebbe ammettere l’odio brutale provato dalle forze dell’ordine nei confronti degli stessi cittadini che avrebbero il compito di tutelare (altro che “ripristino della legalità”!), riconoscendo in ultima istanza il corso – e l’aumento di intensità – di quella che è la nuova guerra civile italiana.
Carlo Giuliani e la morte di MP
Io lì non ci dovevo andare. Me lo avevano detto i miei colleghi sotto la doccia. Arrotolavano gli asciugamani e mi colpivano sulla schiena. E quando mi voltavo per vedere chi era stato giravano il dito indice, ridevano e facevano finta di niente: «Tu lì non ci puoi venire,» ripetevano, «perché sei stupido».
Erano tutti contenti di partire. Perché là pure a noi carabinieri di leva ci avrebbero pagato la giornata. E la mensa. E il posto dove dormire.
Qualcuno dei miei colleghi diceva pure che non c’era mai stato a Genova e già che c’era si sarebbe scopato qualche puttana. Magari una dei noglobal.
Io lì non ci dovevo andare. A fare il carabiniere. È che mio padre aveva un cugino che conosceva il maresciallo e allora mi hanno fatto passare. Anche se dicevano che non ci stavo tanto con la testa.
Poi un collega si è ammalato. E il comandante della caserma era convinto che dovevamo essere in tanti e allora mi ha mandato a dire che sarei salito anche io. Però dovevo stare attento perché mi volevano tirare i palloncini con il sangue infetto. E mettere le bombe nella macchina. Perché poi si volevano prendere tutto e a noi mandarci a casa.
Io comunque a casa non ci sto mica male. Conosco quelli del bar del mio paese. E loro non dicono che sono stupido.
Forse qualcuno lo dice. Ma solo perché mi sono fidanzato a una che era sposata e che aveva una bambina e quelli del bar pensano che le donne uno se le deve prendere nuove, come la macchine. No che prima le ha usate qualcun altro.
Ma a me lei piaceva. E anche la bambina.
Comunque sono partito. Con il pullman e tutti i colleghi.
Eravamo allegri.
Cantavamo.
Quelle canzoni non le conoscevo. Una diceva «faccetta nera», mi ricordo. Un’altra diceva «bella bionda apri le cosce». Un’altra ancora non la so ridire perché le parole erano in tedesco. Mi pare.
Quando siamo arrivati ci hanno fatto scendere e ci hanno detto di andarci a mettere la divisa.
Io mi sono trovato un posto vicino al muro nello spogliatoio. Così non potevano iniziare a darmi le botte con gli asciugamani. Ed ero contento perché avevamo pure un armadietto con la chiave. Che una volta avevo lasciato la roba nello spogliatoio e poi l’ho trovata tutta sporcata con la schiuma da barba.
Quando ci siamo vestiti ci hanno portato in una piazza. Non eravamo solo noi carabinieri, c’erano tutti. Quelli della guardia di finanza, quelli della polizia penitenziaria, pure quelli della forestale, c’erano. C’erano tutti.
E uno senza divisa, ma con la giacca e la cravatta, ci ha parlato. Ci ha detto che l’onore dell’Italia dipendeva da noi, che altrimenti le nostre donne avrebbero cominciato a fare l’amore con le cameriere e poi nelle chiese ci sarebbe finita la droga dove si mette l’acquasanta.
Alla fine tutti abbiamo urlato «sissignore». E siamo andati a prendere gli ordini al comando.
«Tanto tu sei stupido», mi ha detto un collega. E ce l’aveva con me soltanto perché il mio ordine diceva che dovevo stare di supporto, no fare le cariche proprio io. Invece il collega sbatteva il manganello nell’aria ed era tutto contento: «Perché a quelle zecche io glielo do sulla faccia così».
Intendeva dalla parte del manico. Perché fa più male il manganello dalla parte del manico. Ed è per questo che tutti lo usano in quel modo.
Come con il lanciagranate per i lacrimogeni. A me ne hanno dato uno e nella zona della Fiera mi hanno detto: «Spara!».
Io ho iniziato a sparare, e mi sono respirato un sacco di gas. Per questo io, durante il servizio, quasi nemmeno li ho visti quelli che stavano lì a Genova. Qualcuno sì. Mi sembravano ragazzini. Erano maschi e femmine in realtà. E una di loro, una femmina con lo zainetto, assomigliava alla figlia della mia fidanzata. L’ho riconosciuta subito, perché a lei voglio bene. Pure di più che se fosse figlia mia, anche se è diverso.
Non lo so se quella ragazzina si è fatta male oppure no. Mi dispiace se lei si è fatta male. Ma di sicuro mi sono fatto male io. Mentre sparavo i lacrimogeni non ci stavo proprio pensando che mi volevano tirare i palloncini con il sangue sieropositivo, e nemmeno che la mia fidanzata poteva fare l’amore con la cameriera perché da noi li lava lei i piatti e i panni, non c’è nessuna cameriera. Io sparavo solo i lacrimogeni, finché un ufficiale non è venuto da me e mi ha ordinato: «Levati di mezzo, che tu non sei capace».
Me lo ha preso lui il lanciagranate. E quando sparava, sparava dritto, così poteva colpire la gente in faccia.
«Qua siamo in guerra, cosa ti credi», mi spiegava.
E il mio compito era prendere i lacrimogeni e passarli a lui. Ma da quelli un po’ di gas usciva, e io me lo respiravo. È stato così che mi sono sentito male. Allora l’ufficiale ha perso la pazienza: «Sei un coglione», ha urlato. E mi hanno fatto salire sul gippone riservato agli ammalati.
Capirai. Io ero solo che contento di andarmene via. Se proprio potevo me ne sarei tornato a casa, al bar. Che mi mancava la mia fidanzata. E sua figlia.
Invece poi è successo. Non lo so se la colpa è stata del collega che mandava i messaggi con il cellulare, ma alla fine il gippone dove stavo è rimasto da solo, e intorno c’era tanta gente arrabbiata che ci lanciava le cose. Noi abbiamo provato a scappare, ma siamo rimasti incastrati addosso a uno di quei cosi dove la gente ci mette i vetri da buttare. E intorno che macello!
Ci tiravano i sassi, ci rompevano i vetri, sembrava ci volessero ammazzare, non me lo ricordo bene però. Io avevo respirato il gas. Avevo pure vomitato. Poi ho visto il sangue. Non lo so di chi era. E ho preso la pistola. E ho sparato in aria due volte. Ci ho messo un po’ perché non ero tanto capace a togliere la sicura, ma ho sparato in aria. E le cose si sono calmate. È arrivato pure un altro collega e finalmente mi hanno portato in ospedale. Lì mi hanno dato delle medicine, talmente tante medicine che mi veniva sonno, e se mi chiedevano qualcosa rispondevo piano, nemmeno io lo sapevo quello che dicevo. Quando proprio quasi dormivo mi hanno riportato in caserma. E li mi stavano aspettando. Tutti i colleghi. Sembravano felici. Hanno iniziato a battere le mani e a scandire in coro: «uno a zero per noi! uno a zero per noi!».
Allora, con una pacca sulla spalla, mi hanno informato che avevo ucciso un manifestante: «Benvenuto tra gli assassini», mi hanno salutato.
E da quel momento, ogni volta che uno di loro mi incontrava, mi indicava agli altri e avvisava: «State attenti, mi raccomando, non fate arrabbiare il cecchino».
Ma se io non sono mai stato capace a sparare!
Al poligono ero il peggiore di tutti, non ci prendevo proprio.
Ma ormai nessuno mi credeva. Mi hanno portato delle carte e io l’ho firmate: «Ti gestiamo noi, ricordatelo», venivano a raccomandarsi.
Ma cosa significa gestione?
Sono finito su tutti i giornali!
Mi hanno dato la colpa.
E mi hanno detto che non ero più buono per fare il carabiniere.
Capirai.
Io questo lo sapevo già.
E pure gli amici del bar, giù al paese, hanno cominciato a farmelo pesare. Secondo loro chi non è buono per il re non è buono nemmeno per la regina. E che la mia fidanzata mi ha lasciato se lo immaginavano tutti. Secondo loro una volta che è stata fatta la strada tutti i cani ci passano. E da lei ne erano passati tanti…
Ma io le volevo bene.
A lei.
E alla bambina.
Non lo sapevo che potevo fare qualcosa di male. Quando sono venuti a prendermi l’ho spiegato bene: «Non lo sapevo che potevo fare qualcosa di male».
Ma loro insistono.
Insistono che io la toccavo.
O che mi sono fatto toccare, non me lo ricordo.
Io ho respirato i gas e ho pure vomitato.
E poi ho sparato in aria, sono sicuro.
Sono sicuro, anche se con tutte le gocce che mi hanno fatto prendere non è facile essere sicuri. Non riesco nemmeno a capire se è vero quello che vedo davanti agli occhi quando li chiudo. Se è vero un ragazzo con il passamontagna che mi guarda e alza il braccio puntandomi addosso le tre dita unite a formare una pistola. Lui, quando chiudo gli occhi, arriva e fa: «Pum!».
«Carlo Giuliani è vivo e tu sei morto».
Ogni volta che chiudo gli occhi il ragazzo con il passamontagna me la ripete sempre questa cosa qua.
Racconto di Cristiano Armati tratto dal volume Per sempre ragazzo. Racconti e poesie a dieci anni dall’uccisione di Carlo Giuliani, a cura di Paola Staccioli, Tropea Editore, 2011.
Il 15 ottobre di Davide Rosci: tra repressione e dissociazione, note sul come e sul perché della galera oggi
Non lo so se è stato il destino a stabilire la data e l’ora di quanto accaduto per costringermi a riflettere. Di sicuro ciò che poteva succedere in un altro momento si è verificato ieri, sabato 6 giugno, mentre mi trovavo nella Sala da The di Porto Fluviale Occupato, a Roma, per partecipare alla presentazione del libro “Parole inarrestabili”, il volume curato da Matthias Moretti e dedicato alle lettere scritte dal carcere dai militanti italiani. I relatori non avevano neppure iniziato a parlare che da Teramo mi arriva un messaggio. Poche, spietate parole per dire: «Davide è stato arrestato e sta venendo portato in carcere. Di nuovo».
Mi è crollato il mondo addosso. Davide, per chi non lo conoscesse, è Davide Rosci: antifascista teramano arrestato una prima volta per i fatti del 15 ottobre 2011, quando una massa impressionante di persone si scontrò con la polizia in piazza San Giovanni nel nome dei troppi diritti bruciati sull’altare di una guerra contro i poveri che, da quel momento in poi, si sarebbe continuata ad abbattere sul Paese con durezza sempre crescente. Neppure nei momenti più duri del suo primo periodo di detenzione Davide ha smesso di far sentire la sua voce: lo testimoniano, tra le altre cose, proprio le lettere raccolte in «Parole in arrestabili», il segno tangibile di come né la galera, né i domiciliari abbiano impedito all’attivista teramano di continuare ad animare la lotta e di partecipare attivamente al dibattito sui diritti e la giustizia sociale.
Quello che è accaduto ieri, quando Davide è stato nuovamente tradotto in carcere, da un punto di vista tecnico riguarda il cumulo di vecchie condanne incassate in virtù dell’antifascismo militante scelto come vessillo dalla sua adorata curva teramana. Ma intanto pesa su di lui anche la sentenza della Cassazione e la conferma, decisa dei giudici, della condanna a sei anni, già incassata da Rosci nel momento in cui veniva riconosciuto colpevole del reato di «devastazione e saccheggio». Un argomento su cui è lo stesso Davide a intervenire attraverso la sua pagina Facebook, facendo il punto sulla situazione in cui versa una parte importante degli imputati del 15 ottobre e richiamando chiunque operi, viva e pensi in un ambito ancora definibile come “di sinistra” a dare concretezza ai valori della solidarietà:
Il girone dantesco dove sono finito pare essere per il momento senza uscita. Ieri infatti la corte di Cassazione ha confermato per me, Mauro e Cristian le pene stabilite dalla corte d’appello mentre per Marco è stata annullata la sentenza e rimandata in secondo grado. Di questo festeggiamo. C’è poco da dire e purtroppo nulla da fare quindi per il momento l’unica cosa su cui soffermarsi è riflettere su ciò che è stato e organizzarsi su ciò che sarà. A livello politico giovedi ho fatto una piccola analisi e penso che di più non vada detto mentre a livello umano e personale per me da ora sarà tutto diverso. A breve la condanna passerà definitiva e le prospettive sono o tornare dentro oppure trovare un lavoro stabile e sperare che non mi rompano ulteriormente il cazzo. Le porte, per uno che come me è uscito dal carcere, non sono di certo spalancate quindi approfitto di questo post nella speranza di trovare qualche anima pia, che si imbatte nel leggere queste righe, di tenermi presente qualora venisse a conoscenza di un qualsiasi impiego. Penso di aver dato tutto alla causa e spero di poter dare ancora tanto ma per il momento devo restare lucido ed evitare di diventare carne da macello. Nonostante tutto e tutti sempre a testa alta e con il sorriso sulle labbra. Passerà anche questo…
Per chi fosse ancora all’oscuro della piega profondamente reazionaria su cui si sta avvitando l’Italia del Partito della Nazione di Matteo Renzi, l’imputazione di «devastazione e saccheggio» è un residuo del fascista Codice Rocco, una norma ereditata dall’ordinamento repubblicano e, da Genova 2001 in poi, malgrado fosse nata per fronteggiare uno scenario di tipo militare, usata sistematicamente per annichilire l’espressione del dissenso politico, trasformando la realtà di reati minori, come per esempio il danneggiamento di una vetrina, in condanne esemplari: «Vale più una vetrina rotta o una vita spezzata?», ci si è chiesti tante volte riflettendo su un omicidio come quello di Carlo Giuliani, restato sostanzialmente impunito mentre dall’altra parte della barricata si andavano sprecando gli anni di galera.
Oggi, però, la domanda da farsi è un’altra, per cercare intanto di capire come mai, anche a fronte di una conflittualità sociale imparagonabile ai livelli del passato, la stretta repressiva si fa sempre più forte. Ed è inevitabile, tentando un’analisi degli scenari in corso, che una simile domanda rischi di lasciare l’amaro in bocca. Perché se carcere e repressione possono essere, come sono sempre stati, il corollario con cui la grande proprietà affronta le fasi di ristrutturazione del Capitale (condizioni esistenziali e lavorative sempre più dure producono fenomeni di insorgenza diffusi anche se non sempre organizzati), dall’altro lato della barricata ciò che accade non può essere liquidato semplicemente bestemmiando contro giudici, padroni e poliziotti vari, ma riguarda tutte e tutti noi. Quello che succede se e quando si spalancano le porte del carcere, infatti, riguarda in modo assolutamente diretto la solidarietà che si costruisce fuori e dentro l’istituzione repressiva, e chiama in causa in maniera ancora più importante un altro concetto: quello di unità.
Ora che la condanna per Davide Rosci è andata definitiva, infatti, diventa complicato smettere di ricordare ciò che successe all’indomani del 15 ottobre del 2011, quando a sinistra – o in una «certa» sinistra – si fece a gara per dissociarsi, stigmatizzare e, superando persino giudici e poliziotti, condannare senza alcun processo i protagonisti degli scontri. Tra i pezzi di cui la condanna di Davide in Cassazione è composta ci sono anche quelle dissociazioni!
Le stesse dissociazioni che, dopo il primo maggio, scegliendo di cadere nel tranello dei “buoni” e dei “cattivi”, non hanno mancato di vibrare contro la parte più conflittuale del corteo No Expo: un evento che, se è indubbiamente diverso rispetto al 15 ottobre (e d’altronde come possono, a distanza di anni, prodursi fenomeni uguali?), finisce per essere simile proprio nella volontà di molti di prendere le proprie distanza dalla massa, incuranti di come un simile atteggiamento – indegno umanamente prima che politicamente – sia il primo mandante di ciò che, portato poi nelle aule dei tribunali, si traduce in anni di galera. Il resto della partita, questo è evidente, è sempre in piazza che deve essere giocata: il terreno in cui i diritti continuano a conquistarsi a spinta e dove il conflitto costruisce attraverso la partecipazione la legittimità delle sue pratiche.
Altrimenti di cosa è che si parla quando si dice che per liberare tutt* occorre lottare ancora?
DAVIDE LIBERO! TUTTE E TUTTI LIBERI!
Per scrivere a Davide, indirizzare la corrispondenza a:
Davide Rosci – Casa Circondariale di Teramo, Strada Comunale Rotabile Castrogno, 64100 Teramo
Teppismo, ultima bandiera
Scrivi degli ultrà
la vita da teppista
non dici verità
bastardo giornalista
Non mi ricordo più come sono diventato ultrà. A me, allo stadio, non mi ci ha mai portato mio padre: non è per onorare la sua memoria che seguo il calcio. Il calcio, per me, non è nemmeno tanto un fatto di cori o di bandiere e, se penso al campo da gioco, di colori e di profumi è l’ultima cosa di cui parlo. Ho una fede, certo. E questa è salda. Credo in dei principi ben precisi, ma non ho voglia di dire esattamente quali. Perché ci sono cose di cui si può parlare e altre per cui le parole non servono a nulla: per capirle occorre esserci. Ma,sopratutto, occorre fare.
È a questo ultimo genere di cose che appartengo. Domenica dopo domenica le ritrovo negli occhi del compagno che ho accanto ma anche nello sguardo del nemico che ho davanti. Una scintilla che illumina il buio del calcio moderno con gli echi di un principio inderogabile: «Preferisco essere sconfitto nudo addosso a un muro che festeggiare la vittoria protetto da uno scudo».
È questo il terreno sul quale io gioco la mia partita. Ed è sempre da questo terreno che io, domenica dopo domenica, torno a casa vincitore.
Su questo terreno gli arbitri non si possono corrompere, i vestiti che hai addosso non hanno nessuna importanza e nemmeno i soldi significano niente. Il coraggio, al contrario, qui non ha prezzo. E la lealtà è la merce più ricercata.
Su questo terreno nessuno è tenuto ad abbassare la testa e non esiste né sì né sissignore; basta un cenno di intesa per rinnovare un accordo mai scritto: «Non un passo indietro»; sono questi i termini del patto.
Grazie alla fede, domenica dopo domenica, prima e dopo la partita, diventa possibile sostenere uno scontro impari. Da una parte la legge, con le armi, i cani, le macchine blindate, i lacrimogeni e i manganelli. Dall’altra il cuore: forte anche quando non ha niente.
Non mi vergogno di dirlo perché è vero. Chi indossa una divisa non lo accetto e neppure lo rispetto. Troppe volte ho visto gli uomini della legge caricare i miei fratelli a tradimento. Troppe volte li ho visti, in dieci contro uno,tirare calci fino a spaccare le facce, rompere le costole, spezzare i denti.
La mia lotta, in fondo, è simile a quella delle minoranze oppresse o a quella dei partigiani che combattono nelle zone occupate dagli eserciti: «10, 100, 1000 Nassiriya» ero io che lo cantavo. E non avevo certo paura di diventare l’unico a essere considerato delinquente.
Domenica dopo domenica, insieme ai miei fratelli, ho combattuto per l’Iraq, per l’Irlanda del Nord, per il Kurdistan, per il Libano, per la Serbia, per il Delta del Niger e per la Palestina. E nessuno di noi, nel corso della lotta, ha mai preso in considerazione l’opportunità di potersi arrendere.
D’altronde è normale. La principale differenza tra noi e chi indossa una divisa è solo questa: loro agiscono nel nome di un posto fisso e dei soldi; noi lo facciamo per continuare a guardarci in faccia senza vergognarci.
Chi indossa una divisa lo capisce e ci teme. Sa che per partire non abbiamo bisogno di ricevere istruzioni: conosciamo perfettamente la città e i piani che seguiamo non vengono dall’alto, ma sono già nella nostra testa. Come avremmo fatto,altrimenti, a ritrovarci tutti nello stesso posto – allo stadio Olimpico – tre ore prima della partita Roma-Cagliari, prevista per le ore venti e trenta?
La notizia,data nella mattinata, parlava di uno scontro tra tifosi dalle parti di Arezzo. Raccontava di una macchina di laziali che incrocia un gruppo di juventini e di un ragazzo ucciso da un colpo di pistola. Cercavano di confondere le acque e di farci credere che i tifosi si fossero uccisi tra di loro… in realtà, quello che era successo, ci era stato chiaro immediatamente: a sparare e ad uccidere era stato un agente.
C’è solo una categoria di persone che rispetto ancora meno di chi porta una divisa. Ed è la categoria di chi, per professione, mente. Li chiamano giornalisti, ma per noi sono tutti pennivendoli. E come correvano! Correvano gettando sull’asfalto le loro telecamere maledette e le loro macchine fotografiche bugiarde. Correvano malgrado le pance cascanti, piene di notizie false e brutti sentimenti. Pensavano di accanirsi su di noi anche in una giornata come questa:di rinchiuderci come le scimmie nelle gabbie dei loro giornaletti, di chiamarci beceri e violenti, di infamarci e insultarci a loro piacimento. In una giornata come questa no, non glielo abbiamo concesso: abbiamo corso più forte di loro,li abbiamo raggiunti e a più di qualcuno abbiamo rotto la macchina fotografica e la telecamera insieme alla testa.
Un nostro fratello era stato ucciso dalla polizia e la nostra rabbia, radunati fuori dai cancelli dello stadio, stava crescendo come il mare in tempesta. Quando a Catania, poco tempo prima, era morto uno di loro, un ispettore, il calcio era stato fermato completamente. Mentre adesso che a uccidere un tifoso era stato un poliziotto che fine avevano fatto i discorsi sul rispetto della vita umana?
Chi comanda non ha ritenuto opportuno sospendere le partite in programma perché per loro i tifosi non sono nient’altro che merce.
Si sbagliano. E lo abbiamo scritto sugli striscioni: «La nostra coscienza non si lava con dieci minuti di ritardo».
Alla pattuglia dei carabinieri fermi a Ponte Milvio glielo abbiamo fatto capire bene. Abbiamo gridato «assassini! assassini!» e li abbiamo fatti fuggire con un fitto lancio di pietre.
In queste circostanze non conviene muoversi tutti insieme. Il grosso del gruppo è restato compatto a presidiare la zona dello stadio mentre, a turno, drappelli più piccoli sono scattati per la caccia al poliziotto. Sul Lungotevere abbiamo usato delle transenne di ferro per bloccare il traffico e, per armarci, abbiamo sradicato dall’asfalto i segnali stradali. In pochi minuti abbiamo distrutto vetrine e rovesciato cassonetti. È servito per guadagnare tempo, seminare il panico e spingerci verso l’interno: «Non ne possiamo più delle divise blu – no al governo – no alla pay tv».
In via Flaminia vecchia abbiamo preso a sassate una stazione dei carabinieri e dato fuoco alle vetture parcheggiate all’esterno. «Non c’è niente di più bello di una caserma che brucia»: basta una bottiglia piena di benzina per scatenare l’inferno.
In via Guido Reni, all’Accademia di polizia, abbiamo distrutto l’insegna e infranto i vetri antiproiettile e, bruciando ciò che potevamo, abbiamo urlato: «Merde! Merde!».
Veloci come il vento ci siamo dileguati. E abbiamo portato via lo stendardo del corpo: dato alle fiamme insieme a un’altra macchina della polizia, in piazza dei Giochi Delfici.
La città era nostra. Ma noi siamo diversi, il potere non ci interessa. Noi siamo i lupi che si nascondo tra le pecore: possono braccarci, catturarci, diffidarci o ucciderci… domenica dopo domenica torneremo comunque branco, lo facciamo sempre. Gente come noi oggi ha colpito a Roma, ma lo ha fatto anche a Milano, a Taranto, a Bergamo… ovunque con la stessa gioia di riscoprirsi ultrà: padroni di niente – chiaro – ma servi di nessuno. Liberi, seppur in fuga, tra i tornanti della panoramica che si arrampica su Monte Mario. Arditi quanto basta per accostare la macchina e, con la vernice azzurra della bomboletta, sfidare chi non crede in niente con uno slogan destinato a durare: «Teppismo ultima bandiera».
La strada. Il luogo in cui le uniche storie che meritano di essere raccontate vedono la luce
Tutta la redazione ne approfitta per ringraziare i tantissimi che, nel corso della giornata di ieri, si sono rivolti alla casa editrice per informarsi sullo stato di salute di Armati e per esprimere la loro solidarietà. Armati sta bene e neppure il gesso riesce a tenerlo lontano dalla tastiera e/o dalla strada, il luogo in cui le storie più belle, da sempre, vedono la luce.