Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte

LA MORTE DI STEFANO CUCCHI E LE ALTRE VITTIME DELLA LEGALITÀ IN ITALIA

Prendiamo un parlamentare come Carlo Giovanardi. Mettiamogli addosso quell’aria tipica di chi ha sempre impugnato il potere dalla parte del manico e riempiamogli la pancia con lo stesso ventre oscuro che, nel governo delle larghe intese di Matteo Renzi e del suo inquietante «Partito della Nazione», già «democratico», continua imperterrito a rappresentare.

Prendiamo un simile individuo e mostriamogli le fotografie di Stefano Cucchi, arrestato a Roma il 15 ottobre del 2009, tradotto in carcere e mai più uscito vivo. Mettiamo davanti ai suoi occhi il corpo di un Cristo-giovinetto, ridotto a uno scheletro di 37 chili. Ebbene, quelle stesse immagini, capaci di accendere di rabbia chiunque possa semplicemente dirsi «umano» in virtù della capacità di provare solidarietà, passando attraverso le lenti deformanti inforcate dall’ex democristiano e forzaitaliota diventano un giudizio senza appello: «Cucchi?», sentenzia Giovanardi, «è morto perché drogato» (cfr. «la Repubblica» del 9 novembre 2009)

Non sono mancate le persone perbene che, ascoltando simili bestemmie, hanno accusato il politico di infamità e sciacallaggio. Eppure il ragionamento di Giovanardi merita un’attenzione diversa, di tipo filosofico e morale. Ciò che Giovanardi opera, infatti, mentre definisce Stefano Cucchi «drogato», non ha soltanto a che fare con l’intorbidamento delle acque in cui la vicenda del giovane geometra nuota a livello processuale, né semplicemente con gli insulti necessari a processare e a condannare la vittima anziché i suoi assassini. Giovanardi, in modo cosciente e reiterato, opera un preciso atto di despecificazione: esclude, cioè, Stefano Cucchi e «quelli come lui» dalla comunità in cui sono inseriti, negando persino ai più elementari diritti umani di avere un qualche valore nei rapporti che la società «civile» intrattiene o è costretta a intrattenere con i soggetti despecificati.

Quando Giovanardi esclama «drogato», in sostanza, smette di parlare di Stefano Cucchi come di un ragazzo di Roma Est, amante del pugilato e con qualche problema di tossicodipendenza alle spalle, smette di pensare a una persona in carne, ossa, passioni e pulsioni, ma inizia a riferirsi a Cucchi quasi fosse un oggetto, un essere non pensante, una semplice cosa giunta chissà come a turbare una certa visione dell’ordine costituito e, per questo, meritevole di essere eliminata alla stregua di spazzatura.

Da qui, ovviamente, discende l’esplicito plauso di Giovanardi agli agenti, ai giudici e agli operatori sanitari responsabili del caso Cucchi, un piccolo esercito istituzionale che, al culmine di cinque anni d’indagini, dibattimenti e processi non può che cogliere i frutti della despecificazione di Stefano grazie a una sentenza che non lascia spazio al dubbio: tutti assolti; la morte del ragazzo di Tor Pignattara non è un omicidio, ma fa semplicemente parte dell’ordine naturale delle cose.

L’«ordine» e le «cose», d’altro canto, sono gli ingredienti immancabili di ogni processo di despecificazione: una sorta di cancro molto più esteso di quanto non faccia immaginare la sola, terrificante storia di Stefano Cucchi. Come si è difeso, per esempio, l’agente ripreso dalle videocamere a scalciare e a calpestare una ragazza inerme, «colpevole» di aver partecipato alla manifestazione indetta a Roma dai movimenti contro la precarietà e l’austerità il 12 aprile del 2014?

Le sue parole, pronunciate con il tono più ingenuo del mondo, saranno ancora nella memoria di tutti: «Credevo fosse uno zainetto» (cfr. «Corriere della sera» del 15 aprile 2014)

Questo affermò l’agente, ennesimo frutto dell’identico processo di despecificazione in grado di colpire un ragazzo di strada come Stefano alla stessa maniera con cui sono colpiti, e talvolta anche uccisi (un esempio per tutti: Carlo Giuliani) i militanti di un’opposizione sociale ormai completamente impossibilitata a riconoscersi, o a maggior ragione a delegare il proprio dissenso, a vecchie strutture politiche e/o sindacali, tutte ormai ricomprese in quel «Partito della Nazione» dove trovano spazio i presunti «democratici» renziani in compagnia dei Giovanardi di turno. Un assetto di potere che ricorre sistematicamente all’arma della despecificazione, costruendo il risultato ultimo della propria propaganda, cioè l’espulsione dei soggetti despecificati dal consesso civile, attraverso la programmazione di una serie di tappe intermedie, e precisamente: 1) individuazione dei folk devil, vale a dire dei «devianti» o presunti tali da utilizzare a mo’ di capro espiatorio a fronte dell’inasprarsi delle tensioni sociali e delle relative contraddizioni del sistema; 2) sistematica campagna diffamatoria ai loro danni; 3) varo di apposite leggi speciali, «utili» a fronteggiare un’emergenza che, alla resa dei conti, non passerà mai; 4) imposizione di una «legalità» utilizzata a mo’ di lista di proscrizione, un invito aperto alla repressione generalizzata del fenomeno preso di mira.

Per comprendere meglio questo percorso, si può senz’altro tornare sullo scandaloso caso Cucchi. La categoria di «devianza» utilizzata per giustificare l’omicidio di Stefano è quella di «drogato»; la campagna capace di scatenare la paura sociale non sulla droga in generale, ma sul contatto con la categoria di persone definibili tali al di là di ogni corrispondenza con un dato reale, è incessante; il semplice sospetto di possedere droga autorizza gli ufficiali di polizia giudiziaria a procedere con perquisizioni derogando dalla necessità di richiedere la relativa autorizzazione al magistrato ed eludendo in tutta tranquillità quello che dovrebbe essere un diritto costituzionale garantito a ogni cittadino.

Questa, nella fattispecie, è la legge speciale (cfr. Dpr 309/1990) responsabile della morte violenta di Stefano Cucchi. Ma è anche la strada imboccata sempre più spesso da un governo, quello del «Partito della Nazione», e da un intero sistema di potere, che continua a spacciare l’eccezionalità come norma, sospendendo il Diritto all’interno di ambiti sempre più estesi di vita pubblica e, in ultima analisi, riducendo masse di uomini e donne «a nuda vita», vale a dire, come nei campi di sterminio nazisti, completamente in balia dello sbirro di turno.

L’affermazione è forte?

Bisognerebbe chiederlo a Patrizia Moretti e parlare del barbaro assassinio di suo figlio, Federico Aldrovandi, assassinato a Ferrara da quattro agenti di polizia il 25 settembre 2005. Giovanardi ebbe modo di esprimersi anche sul corpo martoriato di Federico e anche in questo caso difendendo a oltranza gli agenti, coinvolti, secondo lui, una «fatalità» (cfr. «Il fatto quotidiano» del 26 settembre 2013). Mentre il Coisp, sindacato di polizia, ha avvertito in maniera talmente forte il clima di impunità che circonda le vittime della legalità da arrivare a importunare Patrizia Moretti sul suo posto di lavoro, senza che la cosa si concludesse con reali ripercussioni sulla carriera degli indegni capaci di tanto. Una sorta di nuova abitudine, quella inaugurata dal Coisp, subito adottata da altre sigle sindacali di polizia. Come il Sap, immediatamente pronto a festeggiare l’assoluzione degli indagati per l’assassinio di Cucchi come se si trattasse di un gol allo stadio e non della morte di un ragazzo. O come il Sappe, organizzazione degli agenti di polizia penitenziaria, che non appagata dalla sentenza di assoluzione arriva a querelare Ilaria Cucchi, sorella di Stefano.

D’altronde questa è la strada a cui porta la despecificazione. Gli assassini di Aldrovandi, se è per questo, avevano anche provato a giustificarsi sostenendo che Federico «sembrava un albanese» (cfr. «Il fatto quotidiano» del 9 novembre 2009). E quella dei migranti è un’altra, grande categoria di folk devil: demoni talmente spaventosi da generare, in tema di leggi speciali, quell’abominio che sono i moderni campi di concentramento detti CIE, per la prima volta dai tempi della Germania nazista luoghi in cui si può essere imprigionati non a causa di un reato effettivamente commesso, ma in virtù di una problematica burocratica inerente la regolarità dei propri documenti. I giornalisti delle testate più importanti, naturalmente, di fronte a tutto questo non perdono certo l’occasione per accaparrarsi la propria parte di vergogna e puntualmente, in cronaca nera, sottolineano sempre la nazionalità di chi ha commesso un delitto se il colpevole è un migrante. Ma è un effetto della globalizzazione. Prima i giornalisti si affannavano a specificare «calabresi» o «napoletani», ora ci si è allargati a «albanesi», «rumeni» o, magari, «senegalesi», come Chehari Behari Diouf, residente a Civitavecchia e freddato con una fucilata da un ispettore di polizia il 31 gennaio del 2009 al termine di un banale diverbio (cfr. «la Repubblica» del 1 febbraio 2009).

Gli esempi potrebbero sprecarsi e riempire un intero libro nero della polizia italiana. A tessere le fila insanguinate di questo discorso, da qualche tempo a questa parte, ci prova l’Associazione Contro gli Abusi in Divisa (Acad): una onlus organizzata dal basso e completamente indipendente forte di un numero verde (800 588605) a cui rivolgersi per trovare un sostegno legale e una possibilità di ascolto in caso di incontri troppo ravvicinati con appartenenti alle forze dell’ordine. Sono moltissimi i casi di vittime di abusi in divisa denunciati e sostenuti da Acad nel nome della verità e della giustizia. Ma il problema, come sempre, è politico, non certo di «ordine pubblico». Prendiamo il caso della persecuzione ai danni degli ultrà per esempio, una delle ultime forme resistenti e non omologate di aggregazione di massa. L’«ordine pubblico», in questo caso, ha consentito il varo, nell’indifferenza generale, di provvedimenti liberticidi come la «tessera del tifoso» o come l’estensione della flagranza di reato fino a quarantotto ore (!!!) dopo aver commesso i fatti contestati. Resta poco da stupirsi, allora, se quando ci scappa il morto questo sia proprio un tifoso di calcio, come Gabriele Sandri, assassinato lungo l’autostrada l’11 novembre del 2007. Chi prenderà mai le parti di un tifoso di calcio? Chi, di fronte alla diffamazione sistematica che colpisce la «teppa» dello stadio, non penserà che uno come Sandri, in fondo, non se la sia cercata?

I giudici, questo è evidente, non fanno parte delle eccezioni. Così quando i casi di vittime della legalità arrivano in tribunale i loro assassini o se la cavano o, comunque, finiscono per incassare condanne ai limiti del simbolico. Viceversa, le categorie demonizzate risultano permeabili e, con la loro indeterminatezza, hanno la tendenza a investire il corpo sociale nel suo complesso. Per questa ragione un ragazzo come Federico Aldrovandi ha potuto trovare la morte incrociando contemporaneamente la categoria di «drogato» e quella di «migrante»: perché i folk devil non finiscono mai negli archivi della storia, ma continuano a subire gli effetti della demonizzazione a cui sono sottoposti sovrapponendosi gli uni agli altri e, allo stesso modo, le leggi speciali che il loro allarme ha generato non finiscono mai per essere abrogate. La famigerata «Legge Reale», per esempio, in vigore dal 1975, continua a giustificare uno stato di eccezionalità risalente agli anni di piombo, colpendo indistintamente tutti i cittadini: basti pensare che, fino al 1989, sono stati conteggiati in 625 i casi di ferimenti e uccisioni direttamente connessi con la normativa in questione (cfr. 625. Libro bianco sulla Legge Reale, a cura del Centro di iniziativa Luca Rossi). Non che questo sia servito a invertire la rotta. Diventa materia di questi giorni l’accanimento con cui il governo Renzi continua a colpire l’opposizione sociale. Il caso più eclatante riguarda la persecuzione dei movimenti per il diritto all’abitare, investiti da un’apposita «Legge Lupi» che, tra le altre cose, con l’articolo 5, intima il divieto non soltanto di allacciare utenze vitali come luce e acqua, ma anche di prendere la residenza in stabili occupati. Sulla stampa, anche in questo caso, non trovano spazio le violazioni dei diritti umani insite nella normativa (migliaia di famiglie esposte alla possibilità di ritrovarsi senza acqua e luce) o i dubbi d’incostituzionalità del provvedimento (senza residenza diventa complesso o impossibile usufruire di cure mediche o iscrivere i bambini a scuola) né, ci mancherebbe altro, si fa mai cenno ai limiti che pure lo stesso diritto italiano pone alla proprietà privata nel momento in cui questa si oppone agli interessi generali (cfr. Art. 42 della Costituzione). Sui media mainstream, al contrario, trova spazio una serrata campagna contro le occupazioni abitative, e poco importa se si tratta di stabili abbandonati, vuoti, sottratti al degrado e alla speculazione: chi si mette in gioco in una prospettiva di cambiamento dell’esistente viene criminalizzato e trattato di conseguenza, incassando manganellate alla stregua di uno «zainetto» e/o condanne esemplari in sede processuale. La situazione, se non fosse drammatica, potrebbe anche essere considerata ironica. Se infatti si volesse rispondere con i fatti alla domanda su quale è stato, dagli anni Novanta fino ai giorni nostri, il gruppo responsabile dei delitti più gravi in Italia sarebbe molto difficile tirare in ballo drogati, militanti politici, migranti o tifosi di calcio ma si sarebbe costretti a parlare della «Uno Bianca», una banda completamente composta da poliziotti. Ai tempi, girava anche uno slogan: «La polizia italiana / non è mai stanca», recitava, «il giorno manganelli / la notte Uno Bianca». Sarebbe il caso di ricordarlo più spesso, questo slogan. Per iniziare a denunciare tutti i limiti e i pericoli insiti nel concetto di «legalità» e per capire come, quando la polizia è dappertutto, la giustizia finisca per non essere più da nessuna parte.

a.cucchi-cover_defCristiano Armati, Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte. La morte di Stefano Cucchi e le altre vittime della legalità in Italia, in Luca Moretti – Toni Bruno, Non mi uccise la morte. La storia di Stefano Cucchi, assassinato due volte dallo Stato italiano, Castelvecchi, 2014 (nuova edizione)

Come si (ri)diventa fascisti: lo stato di polizia del governo Renzi

Come si (ri)diventa fascisti. Il titolo è impegnativo, quindi ciò che sto per scrivere non sarà esaustivo. Al contrario, si basa su riflessioni precedenti rispetto alla data di oggi e intende andare oltre per indicare una soglia di pericolo – il fascismo, appunto – che al momento appare già varcata.

Torniamo all’oggi dunque, giovedì 22 maggio, e ricordiamoci di questa data. Che cosa è successo?

Il presidente del consiglio Matteo Renzi, a capo di un governo (il terzo di fila) mai votato da nessuno, ha scelto piazza del Popolo per chiudere la campagna elettorale con cui il Partito Democratico ha affrontato le imminenti elezioni europee.

L’appuntamento con il discorso del “capo”, previsto per le ore 19 arriva insieme alla desolazione di una piazza semivuota, animata con molta fatica da zelanti volontari (o dipendenti?) che si affannavano a distribuire ai presenti quante più bandiere del PD possibili.

Il tempo, come è sua natura, passa: i militanti piddini sperano che qualcun altro arrivi, e i loro desideri vengono esauditi soltanto a metà. In piazza, infatti, insieme ai quattro gatti del comizio c’è anche un buon numero di cittadini e cittadine qualunque: studenti, precari, disoccupati, migranti, lavoratori impossibilitati ad arrivare alla fine del mese… una rappresentanza, insomma, di quelle oltre dieci milioni di famiglie italiane costrette a (sopra)vivere al di sotto della soglia di povertà.

Quello che salta agli occhi, appena la piazza viene animata da queste nuove presenze, è la profonda differenza antropologica tra i nuovi arrivati e i militanti del PD. Da una parte, insieme a tutti i colori del mondo, si sprigionano odore di officina, di libri e di cucina, mentre le voci parlano di cantiere e di call center e i vestiti raccontano l’arte di arrangiarsi. Tra i militanti del PD, al contrario, si apprezzano le giacche comprate in centro e le hogan ai piedi, gli afrori di lacca per capelli e i volti distesi di chi non si sta ponendo né il problema del pranzo né quello della cena. Questa spaccatura, ormai definitiva e irreversibile, dei corpi che un tempo non lontanissimo ancora condividevano uno spazio genericamente definito “di sinistra” dovrebbe essere presa in considerazione più attentamente, ma quello che è sicuro è che a piazza del Popolo una simile differenza produceva dissonanze incapaci di passare inosservate. I primi ad accorgersene, gli impiegati della DIGOS, la polizia politica che, per l’occasione, è stata mobilitata in grande stile: le stesse lacche dei militanti piddini sui capelli, le stesse hogan ai piedi.

I poliziotti della politica, mentre Renzi ancora non si affaccia sul palco allestito per l’occasione, sono decine e decine; e gli uomini ai loro ordini, in divisa, con i caschi e i manganelli, molte centinaia. Si coordinano e, incordonati, si gettano addosso a chi è considerato “diverso” e le pelli degli africani e degli indios sono le prime a farne le spese, insieme a quelle di chi ha meno anni sulle spalle, ritenuto, probabilmente, “colpevole” di non indossare le orrende magliette arancioni con cui si pavoneggiavano i Giovani Democratici presenti al comizio.

Così, senza proferire parola, la polizia si scaglia su tutta questa massa di intervenuti, spinta a manganellate fuori dalla piazza, con l’ausilio di schiaffi e pugni di volenterosi militanti del PD, completamente a loro agio in questo ruolo di ausiliari di polizia, né per nulla ostacolati in questo compito da chi la divisa la porta per mestiere: altra circostanza foriera di inquietanti parallelismi con le abitudini delle vecchie squadracce in camicia nera, sempre all’opera sotto l’occhio compiacente delle forze dell’ordine “regolari”.

Attenzione perché stiamo parlando di donne, studenti giovanissimi e signori di mezza età maltrattati e picchiati dalla polizia nel centro di una piazza dove era in programma un comizio, eppure nessun militante PD ha pensato di potersi schierare al fianco del più debole e del perseguitato.

In ogni caso, la prima domanda, di fronte alla polizia che si abbatte su un comizio per aggredire una parte dei presenti, potrebbe o dovrebbe essere spontanea: sulla base di quale legge, regolamento, norma o disposizione si può impedire a dei comuni cittadini di essere nel luogo in cui sono nel momento in cui ci vogliono essere?

Perché forse è anche così che si (ri)diventa fascisti: affrontando le cerimonie ufficiali con una massiccia ondata di fermi preventivi, giustificati da nulla ma eseguiti nel nome del sospetto che alcuni “malintenzionati” possano rovinare con il loro intervento la festa preparata dal capoccia di turno. Senza dubbio durante il fascismo si procedeva anche in questo modo, ma non è il Ventennio l’unica epopea dittatoriale da cui trarre un precedente, anche Mobutu, in Congo, usava comportarsi così: e in Cile? o in Argentina?

La stessa, triste, gravissima cosa.

Di questo, adesso, bisognerebbe parlare. E questo è ciò che sarebbe utile leggere sui giornali: di uno stato europeo, l’Italia, in cui si è consumata a ciel sereno la pratica del fermo preventivo di massa, a totale arbitrio di uno schieramento misto di poliziotti in borghese, poliziotti in divisa e militanti del PD con la lacca sui capelli e le hogan ai piedi.

I numeri raccontano di 50 persone accusate di nulla eppure costrette con le buone, o più spesso con le cattive, a seguire le forze dell’ordine nelle caserme e nelle questure, affrontando uno stillicidio di ore dietro le sbarre, salvo poi essere rilasciati (mentre scrivo non si riesce ancora a capire se tutti) con un foglio che parla di “verbale di accompagnamento in ufficio”, visto che di altro non può proprio parlare.

Ma perché la pratica del fermo preventivo è ancora più grave di quello che sembra?

Perché la pratica del fermo preventivo disegna, con la sua indeterminatezza, un’area grigia di sospensione del diritto: una zona dove non si punisce un reato specifico, ma in cui ad alcuni – poliziotti e militanti del PD oggi – si affida il ruolo di giudicare tra omologati e non omologabili, salvando i primi e arrestando “per sicurezza” i secondi.

Per questo, d’altro canto, sto scrivendo un pezzo intitolato “come si (ri)diventa fascisti”, perché il fermo preventivo non è che l’ennesimo dispositivo con cui si consente l’arbitrio poliziesco su quote di cittadinanza di volta in volta ritenute esterne al campo delle libertà personali. Il fermo preventivo, infatti, giunge al culmine di una lunga stagione che ha introdotto, con i CPT, i CARA e i CIE, la detenzione dei migranti per questioni di natura burocratica (la mancanza di documenti) e non per ragioni di materia penale; proseguendo poi, prendendo come scusa la “sicurezza negli stadi”, con la pratica delle schedature di massa (vedi tessera del tifoso) e l’abominio giuridico di poter essere arrestati “in flagranza di reato” addirittura dopo 48 ore dallo stesso; arrivando con il ministro Alfano – cioè con il governo Renzi – a vietare come se niente fosse ai cortei “violenti” (e chi lo decide?) la possibilità di manifestare; e sommando tutto questo alla grande massa di leggi speciali e di emergenza (la legge Scelba, la legge Reale, eccetera) sempre rimaste attive anche dopo che il periodo emergenziale o presunto tale finiva per essere archiviato nei libri di scuola.

Tra gli appunti dedicati al come si (ri)diventa fascisti, un altro dato va sottolineato in rosso. La principale caratteristica del fascismo, infatti, non era e non è soltanto l’impianto razzista delle sue leggi e il carattere censorio della sua informazione – tutte pratiche tra l’altro perfettamente rintracciabili nell’attuale sistema statale – ma anche, e per certi versi soprattutto, la natura corporativa della sua governance: un’amministrazione che nasconde dietro valori “superiori” – ce lo chiede l’Europa!, urla Renzi, come Mussolini gridava “ce lo chiede la Patria!” – la realtà di un comitato d’affari che agisce con la mediazione-fantoccio di sindacati gialli, cioè senza nessuna mediazione, sul conflitto sociale e sulle rivendicazioni di classe. Fascismo come sistema corporativo, dunque, allo stato delle cose rappresentato in maniera inquietante non soltanto dai regolamenti liberticidi del già menzionato Angelino Alfano; ma con decreti come quello di Maurizio Lupi, il famigerato “piano casa”, che dichiara guerra ai movimenti per il diritto all’abitare imponendo il distacco delle utenze e la revoca delle residenze agli “abusivi” mentre finanzia senza pudore i palazzinari e le banche con meccanismi dipinti come bonus-affitti o sostegno ai mutui; o come quello del ministro del lavoro Poletti, che se nel ruolo di presidente della Lega delle Cooperative promuoveva lo sfruttamento selvaggio della manodopera – in primo luogo i facchini – dell’Emilia Romagna, all’interno di un sistema in cui il “pubblico” diveniva sinonimo di “Partito Democratico” e in cui “Partito Democratico” sinonimo di gestione personalistica degli apparati statali, da ministro istituzionalizza in scioltezza la precarietà, consentendo senza ritegno, grazie al suo “jobs act”, il perpetuarsi di qualunque tipologia contrattuale, purché non garantita.

Le persone fermate in piazza o prima di arrivare in piazza oggi avrebbero portato davanti a Renzi esattamente tutto questo, e posto problemi inerenti un cambio radicale dell’esistente, a partire dall’affermazione di un principio: viene definito “diritto” tutto ciò che non può essere né venduto né comprato, né tantomeno fatto oggetto di speculazione affaristica. La casa, l’istruzione, la salute, il reddito e il lavoro sono diritti che, in questa fase, vengono attaccati da un capitalismo deciso a recuperare l’affanno proprio sulle spalle dei meno garantiti, il contrario dei sostenitori di Renzi ed esattamente uguali a coloro che la polizia dello stesso Renzi ha attaccato, manganellato e recluso a scopo preventivo, anche se le urla contro il governo della fame dell’ex sindaco di Firenze si sono sentite lo stesso.

Le ha sentite persino Roberto Giacchetti, parlamentare piddino e attuale vicepresidente della Camera, che attraverso twitter ha dichiarato: “la DIGOS ha in mano 1 pugnale trovato a terra durante i tafferugli. E non era un giocattolo”.

Ora, persino spulciando tutti i verbali di “accompagnamento in ufficio” che hanno colpito chi intendeva contestare Renzi, la questione del pugnale non compare. Se il parlamentare piddino non mente spudoratamente, tanto per infamare “a buffo” l’opposizione sociale e i movimenti antagonisti, è lecito pensare che la polizia si sia rivolta direttamente a lui, faccia da pretino, camice stirate di fresco e sigaro nelle mani… ma da quando la digos parla di corpi di reato con soggetti diversi da quelli prescritti dalla legge? Cioè con soggetti diversi da un PM o da un Giudice per le indagini preliminari?

Da quando stiamo (ri)diventando fascisti, sicuramente sì.

La strada. Il luogo in cui le uniche storie che meritano di essere raccontate vedono la luce

La Red Star Press rassicura i lettori e li ringrazia per la solidarietà
Intervenuto, insieme a centinaia di altri compagni e compagne, in difesa delle circa 200 famiglie che il 7 aprile avevano occupato uno stabile abbandonato alla Montagnola (Roma), Cristiano Armati, direttore editoriale della Red Star Press, ha subito la carica della polizia riportando ferite (commozione celebrale suturata con sette punti e frattura dell’ulna) giudicate guaribili in trenta giorni.

a,manganelli.armatiTutta la redazione ne approfitta per ringraziare i tantissimi che, nel corso della giornata di ieri, si sono rivolti alla casa editrice per informarsi sullo stato di salute di Armati e per esprimere la loro solidarietà. Armati sta bene e neppure il gesso riesce a tenerlo lontano dalla tastiera e/o dalla strada, il luogo in cui le storie più belle, da sempre, vedono la luce.
Per questo rassicuriamo i nostri lettori, i prossimi volumi della Red Star – “Teppa” di Valerio Marchi e “Un fiore che non muore. La voce delle donne nella Resistenza” a cura di Ilenia Rossini – andranno in tipografia nei tempi previsti e saranno disponibili a partire dai primi giorni di maggio.

Il feticismo della guardia: guerre, uniformi e altre oscenità

C’era una volta un bastimento carico di uomini neri. Uomini razziati nel cuore del continente africano, legati uno all’altro con un cappio stretto intorno al collo, segregati nel buio delle stive, torturati e malnutriti: se sopravvivevano diventavano schiavi. Carne fresca che al mercato di Mkunazini si vendeva un tanto al pezzo: un dollaro per un bambino, dodici per una bella ragazza, di più per un uomo grosso e forte. Tutto questo, come ricorda il reporter Ryszard Kapuscinski (Ebano, Feltrinelli) succedeva a Zanzibar, l’isola maledetta, la “stella nera”, in pratica solo uno dei luoghi dove i mercanti portoghesi (e altri con loro e dopo di loro), grazie all’approvazione dei re e alla benedizione di dio, smerciavano gli schiavi diretti alle piantagioni degli Stati Uniti o del Brasile: schiavi che i mercanti chiamavano semplicemente “ebano”, sottolineando, con questo nome, come gli uomini resi oggetto del loro commercio non fossero altro che cose.

Ridotte a cose, le esistenze degli schiavi vennero condannate al lavoro brutale e coatto mentre, le manifestazioni delle loro menti, furono umiliate e negate. Fu allora, infatti, che le visioni del mondo e i saperi antichi e preziosi degli uomini africani resi schiavi vennero passate al vaglio della teologia cristiana e dello scientismo razzista anche se, ancora una volta, furono i mercanti portoghesi a trovare un nome ai comportamenti rituali e alle raffigurazioni di divinità che, derise in quanto reputate primitive e irrazionali, vennero indiscriminatamente archiviate sotto la voce “feticismo”. Così, quegli oggetti ai quali le popolazioni locali rivolgevano una particolare devozione, divennero “feticci” mentre i “feticisti” sarebbero stati gli adepti di un culto che i primi missionari, considerandolo frutto del demonio oppure esempio di degradazione umana, provarono con zelo a sradicare.

Feticismo, colonizzazione, cosificazione


Dal gergo dei mercanti
, attraverso le relazioni compilate da missionari e da viaggiatori, il termine portoghese “fetiço” venne tradotto in tutte le lingue europee. L’etimologia della parola, derivata dal latino “factitius” (artificiale), lasciava intendere che, di fronte al feticcio, si aveva a che fare con un oggetto prodotto mediante un procedimento tecnico, un procedimento che trasferiva all’oggetto il controllo di quelle qualità che la natura offre all’uomo come incerte: la fertilità della terra, la clemenza del tempo atmosferico, la capacità di procreazione.

Con questa accezione, il feticismo entrò a far parte della scienza delle religioni nella seconda metà del XVIII secolo grazie alla fortunata opera del magistrato francese Charles De Brosses il quale, raccogliendo le riflessioni operate da Hume nella sua Storia naturale della religione (1757), scrive Sul culto degli dei feticci o parallelo dell’antica religione egiziana con la religione attuale della nigrizia (1760; trad. it. Bulzoni, 2000), un libro che trasforma quelle che erano state le visioni preconcette di osservatori occidentali in un sistema religioso di senso compiuto e che, sostenendo una teoria evolutiva della storia umana, colloca tale sistema religioso sul gradino più basso dello sviluppo morale e materiale: quello dell’infanzia dell’umanità.
Stigmatizzando l’impostazione di De Brosses, l’etnologo Marcel Mauss (1907) negò ogni validità scientifica al concetto di feticismo, contribuendo in maniera decisiva a collocare la storia di questa idea sul versante del malinteso.

04.Feticcio1Un malinteso che, se riletto attraverso il Discorso sul colonialismo del poeta martinicano Aimé Césaire (1955; trad. it. Lilith, 1999), rende il feticismo un miraggio, un pregiudizio nato all’interno di rapporti – quelli tra colonizzato e colonizzatore – che: «trasformano il colonizzatore in pedina, in maresciallo, in guardia-ciurma, in frusta e l’indigeno in strumento di produzione». Poiché tra colonizzatore e colonizzato, continua Césaire: «c’è posto solo per il lavoro duro, l’intimidazione, la pressione, la polizia…»; allora, conclude il poeta: «Adesso tocca a me porre un’equazione: colonizzazione=cosificazione».

Uomini e cose

Rinchiudendo le credenze degli indigeni africani tra le sbarre della categoria feticismo, i colonizzatori crearono una realtà, quella di un’umanità stupida e barbara, e, allo stesso tempo, prescrissero i modi con cui affrontarla, suggerendo la necessità di un domino territoriale che sottraesse ai suoi legittimi abitanti tutte quelle ricchezze che essi, nell’opinione degli stessi colonizzatori, non sarebbero stati capaci di sfruttare in maniera razionale.

Certo è che, esplorata alla luce di questa prospettiva, la riduzione al feticismo delle culture africane suona come grottesca e paradossale. “Feticiste”, infatti, non sono tanto le credenze dei gruppi umani che attribuiscono una forza magica e sacrale agli oggetti del loro culto. Feticisti, piuttosto, sono i comportamenti degli stessi colonizzatori che, nei confronti degli indigeni, operarono quel “doppio scambio” che nel suo Fascino. Feticismo e altre idolatrie (Feltrinelli), il filosofo Ugo Volli riconosce come la faccia buia dei rapporti di potere occultati dal fascino ambiguo delle cose. Perché, proprio nel comportamento dei colonizzatori, vediamo il modo in cui: «ciò che dovrebbe essere soltanto una cosa inerte» – la frusta: simbolo dei colonizzatori e del loro ruolo – «si presenta con i caratteri più intensi della vita e del potere,» mentre: «ciò che è vivo e riguarda la persona» – gli indigeni soggetti alla colonizzazione – «risulta ridotto a puro oggetto, cosa fra le cose».

03.Feticcio9Attraverso le riflessioni di Ugo Volli, in sostanza, vediamo come il feticismo degli schiavisti europei si abbatta sui popoli africani attraverso il superamento di un confine: quello che separa gli uomini dalle cose. La schiavitù, da questo punto di vista, è un’autentica “deprivazione dell’umano”, una pratica che, se ebbe modo di sfogare la sua ferocia in oltre quattrocento anni di impunito esercizio sul territorio africano, allo stesso tempo non garantì alla placida Europa l’immunità dai terrificanti effetti di ritorno del mostro che essa aveva creato. 

Arriviamo, così, ai campi di concentramento nazisti e, risalendo la corrente del dramma fino alla contemporaneità, tocchiamo i campi che, nella ex Jugoslavia, sono stati allestiti nel nome della pulizia etnica e sulla scia di quell’azione disumanizzante che l’Europa praticò in Africa senza poter fare a meno di insegnarla a se stessa. «E così, un bel giorno,» commenta Césaire: «la borghesia viene svegliata da un formidabile contraccolpo: le gestapo si danno da fare, le prigioni si riempiono, i torturatori inventano, rifiniscono, discutono intorno ai cavalletti». Quello che veniva preparato, attraverso il nazismo, era il tragico epilogo di una volontà di dominio fondata, come nel caso della colonizzazione, sull’elezione di una parte del genere umano a razza eletta; l’abbattimento di ogni distinzione tra l’uomo e l’oggetto era ciò che, nella schiavitù come nel nazismo, sarebbe stato celebrato.

Quando il potere indossa l’uniforme

Numerosi intellettuali hanno riflettuto sulla barbarie del nazifascismo e sulla crudeltà della colonizzazione e della schiavitù rinvenendo, in questi tristi periodi storici, l’inserimento coatto di interi popoli e intere culture all’interno delle strutture di uno spietato dominio sado-masochista. Basti ricordare, a tal proposito, il terribile Doveri di violenza, dello scrittore maliano Yambo Ouologuem o, per restare tra i militari, il pluricensurato Salò di Pier Paolo Pasolini. Il film di Pasolini, in maniera particolare, mette in scena una sorta di iconografia funebre che ha nelle impeccabili divise, negli stivali tirati a lucido, nelle lucenti decorazioni di guerra, i suoi luoghi centrali. La sbirraglia nazifascista, d’altra parte, ha curato in maniera ossessiva le uniformi, nascondendo dietro le croci al merito l’incredibile villania di massacri che, spesso e volentieri, vennero perpetuati ai danni dell’inerme popolazione civile.

02.Feticcio6La questione delle uniformi, tra quelle sollevate dai problemi della guerra, potrebbe sembrare una materia futile e scontata essendo, le uniformi, un semplice mezzo di distinzione, un modo per distinguere un esercito da un altro. Oltre questa considerazione tecnica, però, lo studio della storia degli eserciti europei mostra come, le uniformi, furono tutt’altro che la prima preoccupazione degli stati nel momento in cui questi equipaggiavano i loro eserciti. Al contrario, il problema dell’uniformità dell’esercito – come il problema del feticismo – si pose come tale soltanto nel corso del XVIII secolo e, come mostra la storica Sabina Loriga in un libro (Soldati, Marsilio) dedicato al più antico esercito italiano, quello piemontese: «ci vollero molti anni perché la divisa, distribuita per la prima volta nel 1671, diventasse un elemento caratteristico e insieme scontato della vita militare». 

Ecco, allora, i pantaloni bianchi, il giustacuore azzurro, la sciarpa azzurra intrecciata d’oro: «anche grazie a tanta armonia cromatica,» spiega la Loriga, «la divisa permetteva di segnare l’uniformità della truppa: fili di corpi della stessa altezza, visi e baffi uniformi».
Attraverso l’azione di questa nuova politica militare, in sostanza, il difforme elemento umano che compone l’esercito viene eliso dall’uniformità delle nuove divise, simulacri del potere di vivere o, come direbbe Foucault, di respingere nella morte. 

Un’operazione feticista in piena regola, dunque, quella che attraverserà le caserme del XVIII secolo e che si soffermerà sui corpi dei soldati per addomesticarli alle esigenze di una nuova gerarchizzazione sociale che, se restituirà al mondo il soldato in uniforme, segregherà il soldato nei cordoncini e nelle mostrine della sua stessa divisa, lo distinguerà in maniera irriducibile dal civile e lo preparerà, già nel corso del XIX secolo, a rendersi responsabile dei più grandi massacri mai ricordati nella storia dell’umanità. Massacri che, in massima parte, saranno destinati ad abbattersi sulla popolazione civile: uomini, donne e bambini privi di quei “caratteri intensi della vita e del potere” che “il feticismo della guardia” toglie alla gente comune e riconosce all’uniforme. 

Il fascino della divisa, il feticismo della guardia

«Anche le donne che sostengono di non badare che al fisico d’un uomo,» scriveva Proust ne La strada di Swann, «vedono in quel fisico l’emanazione di una certa vita. È la ragione per cui s’innamorano dei militari, dei pompieri: l’uniforme le rende meno esigenti per il viso; credono baciare sotto la corazza un cuore diverso, avventuroso e dolce».

Tuttavia Anna, una giovane ragazza moldava, non si è innamorata di nessuno, semplicemente: «Per cento dollari potevano fare di me ciò che volevano, arrivavano ubriachi a qualsiasi ora, pagavano e facevano di tutto. Volevo chiedere aiuto ad uno dei tanti soldati che mi hanno portata a letto ma loro pagavano, volevano solo una cosa e non ascoltavano» (Dall’Avvenire del 2.2.2001). I soldati di cui parla Anna sono i militari della Kfor, la forza Nato che deve avere una bizzarra idea della pace visto che, la sua presenza nei Balcani, più che alla causa della pace ha giovato, fin’ora, alla causa dello sfruttamento della prostituzione.

Come i loro colleghi della Kfor, anche alcuni militari del contingente italiano di stazza a Massaua, impegnati a garantire la difficile pace tra Etiopia ed Eritrea, sembrano vivere “il fascino della divisa” che indossano limitandosi ad utilizzare l’Altro (il civile) come una cosa: coinvolti in un giro di prostituzione infantile che prevedeva orge con bambine di 10, 11 anni sono stati privati della libera uscita per punizione. D’altronde, protestava il funzionario Farkhan Haq: «quando nella scorsa primavera è scoppiato un caso simile (…) e che coinvolgeva soldati del contingente olandese, la commissione era formata esclusivamente da funzionari delle Nazioni Unite» (Da La Repubblica del 25.08.2001).

Funzionari che, negli ultimi tempi, si sono trovati a fronteggiare una serie documentata (oltre 1500 testimonianze) e agghiacciante di accuse che puntano il dito contro i campi profughi e contro i caschi blu in missione di pace in Africa Occidentale. Questi barattavano il cibo, le tende e gli altri aiuti umanitari con il sesso dei loro spesso piccolissimi assistiti: «L’indagine ha anche appurato le cifre pagate dagli operatori: una ragazza liberiana ha ottenuto 10 centesimi di euro; in Guinea alcuni caschi blu avrebbero pagato 5 euro» (Nota UNHCR-Save the Children del 27.2.02).

Cifre, queste pagate dai militari moderni, che farebbero invidia a un negriero di tre secoli fa, segno che il feticismo della guardia concede soltanto quel tanto che basta alla sopravvivenza dei mezzi di riproduzione (del proprio piacere) e in questo, tale forma di deprivazione dell’umano, non si discosta dal feticismo delle merci di cui parlava Marx quando criticava l’attitudine capitalistica a presentare i rapporti tra le persone e le classi sociali, non come rapporti tra uomini, ma come rapporti tra cose. 

Rapporti che negli ultimi tempi sono tornati a stabilire limiti sempre più angusti all’essere umano visto che non si fanno scrupolo di trasformare nelle cifre statistiche previste dalle “guerre preventive” a cui si demanda il compito di “esportare la democrazia” quelle che, nella realtà, sono persone morte nel corso delle sviste di “bombardamenti chirurgici” dei quali si racconta che sono stati dolorosi ma inevitabili. Inevitabili proprio perché questo fa il feticismo della guardia: dispensa guerre, uniformi e altre oscenità.