A chi, svegliandosi all’alba del primo giugno, si fosse sintonizzato su Raiuno e, alle 6 e 20 circa, vedendo una faccia conosciuta, avesse pensato di essere ancora addormentato, si può dire che no, non stava sognando: con la maglietta di “Roma si barrica”, c’era davvero Cristiano Armati. Intorno al dodicesimo minuto interviene nel programma “Il Caffè” di Raiuno per presentare “La Scintilla” e parlare di emergenza abitativa e di occupazioni, sostenendo la necessità di fermare le privatizzazioni per imporre un piano-casa degno di questo nome.
Categoria: Lotte sociali
Brescia, 28 maggio 1974. La strage di piazza della Loggia
Cresciuto nell’ambiente dell’estrema destra bresciana, Silvio Ferrari, ventuno anni appena, ha un piede nella redazione del periodico «Anno Zero» e l’altro dentro “La Fenice” di Giancarlo Rognoni. Tra le sue frequentazioni spiccano quelle con i sanbabilini milanesi: la manovalanza di un disegno in cui, attentato dopo attentato, fioriscono sigle come quella del Movimento d’Azione Rivoluzionaria (Mar) di Carlo Fumagalli e delle Squadre d’Azione Mussolini (Sam) di Giancarlo Esposti, organizzazioni eversive impegnate a seguire la scia dell’appena disciolto Ordine Nuovo (e del suo erede “Ordine nero”) e di Avanguardia Nazionale, ognuna con i suoi interlocutori (e i suoi finanziamenti) all’interno dei servizi segreti, ognuna costretta a guadagnare la propria sopravvivenza lottando contemporaneamente su due fronti: 1) in mezzo alla gente, con lo scopo di seminare indiscriminatamente morte e distruzione per favorire un intervento militare che favorisse l’avvento di un colpo di Stato; 2) all’interno del sistema, per spingere nella direzione di una soluzione “dura”, prevedendo l’instaurazione di un regime dittatoriale simile a quello installatosi nella Grecia dei Colonnelli e destinato a imporsi anche nel Cile di Pinochet; o, viceversa, per favorire un approccio “morbido” alla gestione politica italiana: un Paese nel quale i fermenti sociali si sarebbero potuti tenere sotto controllo anche acquisendo il controllo dei mezzi di informazione, limitando le garanzie sancite dalla Costituzione e invocando la necessità di riforme in grado di scambiare una democrazia di tipo parlamentare con un repubblica presidenziale.
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Esiste una fotografia che mostra il corpo di Silvio Ferrari orrendamente dilaniato. Uno scempio provocato da mezzo chilo di polvere da mina mescolato a mezzo chilo di tritolo. Sigillata all’interno di un pacco, la bomba, prima di esplodere, si trovava tra le gambe di Ferrari, evidentemente incaricato di trasportare l’ordigno per conto di qualcuno o di andare a piazzarlo chissà dove. Non si conoscono le intenzioni del giovane fascista né, tanto meno, è nota l’identità del mandante ma, alle tre di notte del 18 maggio 1974, il vespino di Ferrari è fermo a Brescia, in piazza del Mercato, quando salta in aria insieme al suo conduttore. La deflagrazione ha una forza in grado di rompere i vetri ai palazzi del quartiere, eppure l’iniziale ipotesi di uno scoppio accidentale durante il trasporto viene smentita dalla perizia disposta sull’esplosivo e sui resti del ragazzo:
È parere concorde dei periti che l’esplosivo fosse innescato con detonatore elettrico e l’accensione organizzata a tempo prestabilito mediante congegno a orologeria ottenuto con una sveglia di marca “Europa”. Sulle cause dello scoppio, la posizione di Silvio Ferrari e della motoretta, i periti ritengono che la Vespa non fosse in movimento. Il Ferrari era seduto sulla Vespa con il busto reclinato in avanti, le braccia appoggiate al manubrio e i piedi a terra. La perizia esclude che l’esplosione sia dovuta a un fatto accidentale. L’ordigno sarebbe invece esploso al momento prestabilito.
Detto in altri termini: Silvio Ferrari non è vittima di un “incidente” ma sarebbe stato assassinato.
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La notizia dell’esplosione avvenuta la notte del 18 maggio in piazza del Mercato è come una frustata su nervi già estremamente scossi. È dal 29 gennaio, quando tre ordigni innescati dalle Sam saltano contemporaneamente a Milano, che in Lombardia esplodono le bombe e si spara per le strade: numerosi militanti di sinistra sono feriti con le spranghe e i colpi di pistola nel corso di raid organizzati dagli ultras di estrema destra mentre le sedi delle loro organizzazioni vengono devastate. Gli attentati di marca neofascista provocano anche un morto a Varese, il 28 marzo, quando, in piazza Maspero, un fioraio perde la vita per la deflagrazione di una carica di esplosivo occultata tra i banchi del mercato.
La morte di Silvio Ferrari segna una misura già colma. Eppure, dopo la notte del 18 maggio, il tempo della paura non si limita a sfogare le sue ansie in piazza del Mercato ma, dichiarando guerra a tutta la società civile, continua a proferire minacce come quelle contenute in un volantino recapitato al «Giornale di Brescia» (ma, d’accordo con la Questura, mai pubblicato) e riferite a un sedicente “Partito Nazionale Fascista – sezione Silvio Ferrari”.
Brescia non ha altra scelta: la città insorge contro il terrore nero e il Comitato antifascista si mobilita. Al termine di una riunione a cui, con l’esclusione del Movimento sociale, partecipano tutte le forze dell’arco costituzionale e i sindacati, per la giornata di martedì 28 maggio viene indetto un sciopero e annunciata una manifestazione. L’occasione è talmente grave e importante da auspicare la più grande partecipazione popolare e questo è quello che chiedono a Brescia i rappresentanti del Comitato all’indomani dell’orrenda morte di Ferrari:
Cittadini bresciani,
ancora una volta il fascismo si manifesta nella nostra città e nella nostra provincia con i caratteri ripugnanti del terrorismo omicida, della provocazione e della violenza. Per richiamare i democratici all’unità e alla vigilanza antifascista, perché sia con fermezza colpita ogni trama fascista, perché oltre agli esecutori materiali della violenza siano assegnati alla giustizia i mandanti ed i finanziatori, il Comitato permanente antifascista indice per martedì 28 maggio ore 10 in piazza Loggia una manifestazione antifascista in concomitanza con lo sciopero generale proclamato dai sindacati. Partecipano Franco Castrezzati, a nome delle organizzazioni sindacali e l’on. Adelio Terraroli, a nome delle forze politiche.
Ore 9: concentramento a piazza Garibaldi – Porta Trento – piazza Repubblica. Ore 9 e 30: partenza cortei per piazza Loggia. Ore 10: comizio pubblico
(Testo del manifesto redatto dal Comitato unitario permanente antifascista di Brescia e sottoscritto da Dc – Pci – Psi – Pri – Cgil-Cisl-Uil – Anpi – Ffvv – Aned – Anppia – Acli – Cogidas).
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L’antifascismo chiama e Brescia risponde. Il 28 maggio nella “Leonessa d’Italia” scendono in piazza migliaia di persone: lavoratori, militanti di sinistra, ex partigiani e cattolici del dissenso decisi a far sentire la propria voce. Al contrario di quanto accade nel corso degli scioperi “normali”, questa volta non si incrociano le braccia per sostenere una rivendicazione di tipo salariale ma per protestare contro il rigurgito di violenza che sta tormentando la regione e per sostenere i valori della democrazia. Alle 10 il luogo in cui si deve tenere il comizio è già pieno da un pezzo ma, dalle vie adiacenti, i cortei partiti da piazza Garibaldi, Porta Trento e piazzale della Repubblica continuano ad alimentare la folla. Per l’occasione, in piazza della Loggia è stato allestito un grande palco ornato con il panno rosso e sormontato dalle bandiere tricolore, e, all’ora convenuta, gli altoparlanti cominciano a diffondere le parole di Franco Castrezzati della Cisl, deciso a tenere un discorso in cui l’episodio che ha visto protagonista il giovane Ferrari viene inquadrato all’interno di un più ampio e inquietante scenario nazionale:
Amici e compagni, lavoratori, studenti, siamo in piazza perché in questi ultimi tempi una serie di attentati di chiara marca fascista ha posto la nostra città all’attenzione preoccupata di tutte le forze antifasciste. Sono così venuti alla luce uomini di primo piano che hanno rapporti con gli attentatori di piazza Fontana e del direttissimo Torino-Roma, vengono pure alla luce bombe, armi, tritolo, esplosivi di ogni genere. Ci troviamo di fronte a trame intessute segretamente da chi ha mezzi e obbiettivi precisi. […] Si attenta alla vita umana che è un diritto naturale. Si innescano ordigni esplosivi contro sedi di partito, sindacati, cooperative, col proposto di intimidire. Il propellente à ancora una volta l’ideologia fascista. […] La nostra costituzione, voi lo sapete, vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto Partito fascista. Eppure il Moviemento sociale italiano vive e vegeta. Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della Repubblica Sociale Italiana, ordinava fucilazioni e ordinava spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e istituzionale.
A Milano…
«A Milano – avrebbe potuto continuare Castrezzati, riferendosi magari alle bombe del 1969 e alla strage di piazza Fontana – l’Italia è stata spinta sul baratro di una guerra civile da una carneficina senza precedenti che, accanto all’impiego di manovalanza fascista, lascia intravedere anche pesanti responsabilità da parte di importanti autorità dello Stato…».
Il sindacalista bresciano, però, non avrebbe mai avuto modo di completare il suo ragionamento. Sta parlando da pochissimi minuti quando, alle 10 e 12, l’aria viene raggelata da un rumore secco e assordante, simile a una fucilata. Istantaneamente, la piazza piomba in qualche secondo di silenzio irreale. Come se stesse trattenendo il fiato per prepararsi a un urlo spaventoso, la folla ammutolisce prima di sprofondare nel panico totale. C’è chi scappa, chi si dispera, chi, allucinato, resta immobile, con lo sguardo sbarrato:
Piazza della Loggia sembra una nave in tempesta, con la folla che ondeggia, prende a sussultare e poi a sbandare mentre bandiere e striscioni cadono a terra, la gente urla e molti fuggono. Sulla piazza, lungo i portici e davanti al cestino della morte è l’inferno: pezzi di gambe e di braccia, resti umani, feriti lievi e feriti gravi, persone agonizzanti, morti. C’è chi urla e chi si lamenta, i mariti cercano le mogli e le mogli i mariti, altri invocano il nome di un parente, altri ancora si aggirano come fantasmi con brandelli di vestiti tra le mani mentre qualcuno, muto, senza lacrime e senza espressione, fissa il vuoto (Giancarlo Feliziani, Lo Schiocco, Limina, Arezzo 2006).
Nel marasma generale, dalla voce aggrappata al microfono, sul palco degli oratori, vengono fuori frase intrise di fumo, avvertimenti acri come l’odore della paura e della polvere da sparo:
Aiuto… state fermi.
Compagni e amici, state fermi, calma. State calmi, state calmi, state all’interno della piazza, il servizio d’ordine all’interno della piazza, il servizio d’ordine faccia cordone all’interno della piazza. State all’interno della piazza. Lavoratori, all’interno della piazza. Il servizio d’ordine… state calmi, tutti sotto il palco, lasciate il passo alla Croce Bianca… sotto il palco, portatevi alla sinistra della piazza, alla sinistra della piazza, alla sinistra della piazza verso il palco, lavoratori… lascia… lasciate il passo, lavoratori… rechiamoci tutti in piazza della Vittoria, lasciate il passo alle macchine per il soccorso, tutti in piazza della Vittoria. Compagni, il senso di responsabilità in questo momento… andiamo in piazza della Vittoria, lasciate il passaggio alle macchine, lasciate il passaggio alle macchine…
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Sette etti di esplosivo nascosti in un cestino di rifiuti proprio sotto il porticato: questa è stata l’arma usata dei terroristi per provocare quello scempio di arti strappati dai corpi e sangue che devasta piazza della Loggia dopo l’attentato. Un’intenzione criminale favorita dall’inclemenza del tempo e dalla pioggia battente che, la mattina del 28 maggio, ha spinto i manifestanti ad accalcarsi dove era possibile trovare un riparo.
Per otto di loro, quell’intenso attimo di luce che precede l’urto di un’esplosione, è il confine che separa la vita dalla morte. La vita, nella fattispecie, è quella densa di impegni vissuta da Livia Bottardi, trentadue anni, professoressa attiva nella cgil Scuola. Livia, la mattina del 28, va in piazza anticipando di poco Manlio Milani, suo marito, un operaio. I due, da una parte all’altra dei portici, fanno in tempo a vedersi, a sorridersi, a farsi un cenno con la mano… ma dopo l’esplosione Manlio resta solo e gettarsi a capofitto nella folla che scappa via terrorizzata per trovarsi a stringere il corpo di Livia non serve a nulla. Manlio spera fino all’ultimo, continua ad abbracciare Livia anche sull’ambulanza ma… «Ormai è morta», sono le parole che non avrebbe mai voluto ascoltare, pronunciate da un’infermiera a testa bassa, nell’androne dell’ospedale.
Insieme a Livia, a Brescia cadono altri quattro insegnanti, tutti attivi all’interno del sindacato e amici tra di loro. Soltanto la sera prima della Strage, a cena con Livia e Manlio c’erano anche Clementina “Clem” Calzari e Alberto Trebeschi. Lei, trentuno anni, ragazza molto bella, non aveva avuto paura di affrontare i pregiudizi quando si era trattato di opporsi alla volontà del padre, convinto che per una ragazza non stesse bene proseguire gli studi, ed era diventata professoressa di latino. Lui, trentasette anni, laureato in fisica ed esperto di filosofia della scienza, è l’autore di un’importante ricerca intitolata Fisica e filosofia, redatta con la collaborazione della stessa Clementina. Tra le pagine del suo diario c’è una frase che resta a rappresentarlo meglio di un autoritratto: «Se mi andasse si perdere il sapore del travaglio intellettuale, in me rimarrebbe esclusivamente l’animale e questo rappresenterebbe il primo passo verso la morte, la vera morte che è quella dello spirito».
Coppia felice e innamorata, Clementina ed Alberto non avevano rinunciato alle proprie idee nemmeno quando si era trattato di sposarsi: erano disposti ad andare incontro alla madre di Clementina che non accettava l’idea di una convivenza ma la cerimonia che li avrebbe dichiarati marito e moglie non si sarebbe tenuta in chiesa bensì in municipio. Poi ci avrebbe pensato Giorgio a cementare la loro unione: un ragazzino che, a nemmeno due anni, è costretto a vedere i nomi di entrambi i genitori tra quelli delle vittime della Strage.
In questo macabro elenco c’è anche Luigi Pinto, venticinque anni, sposato con Ada, nato Foggia e arrivato a Brescia dopo aver lavorato in uno zuccherificio in Puglia e alla Sir di Porto Torres, in Sardegna. L’incarico di insegnante di Educazione tecnica, per lui, è un punto d’arrivo importante visto che il contatto con i giovani – insieme alla politica – è la cosa che lo appassiona di più. Quando arriva in ospedale, insieme a più di cento feriti, Luigi respira ancora: la sua tempra è forte e, a tratti, sembra che ce la possa ancora fare… invece morirà il primo di giugno, dopo tre giorni di coma.
Oltre a lavorare per la Cgil Scuola, Luigi frequentava il circolo di Avanguardia operaia, lo stesso in cui è di casa un’altra compagna del sindacato: Giulietta Banzi in Bazoli, trentaquattro anni, detta anche “Giulietta la rossa”, come la bandiera che adornerà la sua bara il giorno dei funerali. Sposata a un assessore della Democrazia cristiana anche se convinta sostenitrice del marxismo-leninismo, Giulietta, madre di due figli, insegna francese senza avere nessuna necessità di ricorrere ai formalismi autoritari che, troppo spesso, separano il professore dai suoi allievi. Allievi che, riuniti in assemblea subito dopo la notizia della carneficina, si dimostreranno perfettamente in grado di mettere in pratica il sapere appreso insieme alla loro insegnante inquadrando con lucida precisione i meccanismi nascosti dietro la bomba di piazza della Loggia: «Di fronte al tentativo di mistificare i connotati politici di questi caduti – sostengono gli studenti della Banzi – facendoli passare per individui casualmente coinvolti nella Strage, è necessario testimoniare l’impegno politico che li ha portati al sacrificio».
Gli studenti della Banzi hanno ragione. Perché l’impegno politico è esattamente ciò che tiene insieme non soltanto il gruppo degli insegnanti – tra l’altro spesso richiamati dalla stessa direzione della cgil in quanto accusati di “sorpassare a sinistra” le linee-guida del sindacato – ma anche gli altri caduti di piazza della Loggia.
Tra gli iscritti al sindacato, per esempio, c’è l’artigiano Bartolomeo Talenti detto Bartolo, cinquantasei anni: una mago nella manutenzione e nella riparazione delle armi, mestiere che aveva appreso direttamente dal padre; ma anche un militante talmente esperto da guadagnarsi tra i più giovani il soprannome di “papà”.
Ancora dalle fila del Partito comunista, con un passato nei Gruppi di azione partigiana, viene Euplo Natali: sessantanove anni e, alle spalle, un licenziamento provocato dal suo acceso antifascismo ma anche, dopo la Liberazione, l’orgoglio di avere rappresentato il Cln nella provincia di Brescia.
Anche l’operaio Vittorio Zambarda è iscritto al Pci praticamente da sempre: dopo una vita di lavoro durissimo, avrebbe dovuto iniziare a riscuotere la pensione. L’esplosione della bomba, però, non gli consentirà mai di andarsi a mettere in fila all’ufficio postale ma lo tormenterà con una lunga agonia, chiusa dal sopraggiungere della morte soltanto il 15 giugno, diciotto giorni dopo l’attentato.
Sono questi i morti provocati dalla bomba fascista di piazza della Loggia: «Non si chiamino vittime ma caduti consapevoli», si dirà di loro, per sottolineare come, a differenza delle altre stragi compiute dall’eversione nera in Italia, quella di piazza della Loggia non è stata pensata per colpire nel mucchio ma per abbattersi sui settori più progressisti dell’opinione pubblica. Come preciserà nel 1993 nella sua sentenza-ordinanza il giudice istruttore Giampaolo Zorzi, la strage di Brescia è quella «a più alto tasso di politicità nel novero delle stragi che hanno scandito la storia d’Italia dal 1969».
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Cosa c’è di peggiore della morte?
Non c’è niente di peggiore della morte. A parte il comportamento – a metà strada tra l’incompetente e il complice – di chi esisterebbe (polizia e magistratura inquirente) proprio per impedire che un fatto come quello di Brescia possa accadere o, al limite, per portare un contributo di verità alle ragioni più profonde di un simile lutto. Il comportamento a metà strada tra l’incompetente e il complice, passando in rassegna la gestione investigativa e giudiziaria della strage di piazza della Loggia, è quello della questura di Brescia e del dottor Aniello Diamare, uno dei suoi massimi dirigenti. Perché la bomba è esplosa da poco più di un’ora quando il funzionario, spinto da un lampo di follia o da chissà cosa, ordina ai pompieri di accorrere sulla scena del delitto per irrorare la piazza con potenti getti d’acqua. In questo modo piazza della Loggia viene tirata a lucido: dopo mezzogiorno non ci sarà più traccia del sangue versato e, naturalmente, nemmeno più traccia di qualsiasi reperto in grado di dispensare indizi sull’identità dei bombaroli e sugli autori della Strage.
Perché il vicequestore Diamare ordinò ai pompieri di lavare la Piazza?
L’attitudine delle forze dell’ordine a ripulire la scena del delitto, quando si tratta di stragi, più che un errore o una manifestazione di pura incompetenza è una specie di tradizione. Già nel 1944, a Palermo, quando un battaglione di soldati aprì il fuoco su una folla inerme, subito dopo l’eccidio si procedette a lavare via Maqueda e le strade circostanti. Ancora nel 1969, il giorno della strage di piazza Fontana, un altro ordigno inesploso venne immediatamente fatto brillare dagli artificieri di Milano con il risultato di distruggere per sempre una prova preziosa.
Si tratta di stranezze più che sospette che, nel caso di piazza della Loggia, iniziano addirittura prima dell’esplosione della bomba. Ai bresciani abituati a partecipare alle manifestazioni, infatti, il 28 maggio non sfuggì il movimento dei carabinieri incaricati di svolgere il servizio di vigilanza che, poco prima dell’inizio del comizio, abbandonarono il loro solito presidio – collocato esattamente sotto i portici, nei pressi del cestino contenente l’ordigno – per schierarsi all’interno del cortile della Prefettura. Si potrebbe pensare a un gesto di buona educazione, compiuto dagli uomini al comando del vicequestore Diamare e del tenente Ferrari per dare modo a chi affluiva in piazza della Loggia di trovare un riparo… un presunto atto di distensione che è difficile interpretare come tale tenuto conto che, subito dopo l’esplosione e poco prima che gli idranti dei pompieri iniziassero ad annacquare l’inchiesta, i manifestanti superstiti vennero sgombrati dalla piazza a manganellate!
Come mai Diamare e Ferrari spostarono i loro uomini dal porticato di piazza della Loggia al cortile della Prefettura?
Per completare il profilo della Questura di Brescia si deve ancora aggiungere una cosa. Quando si tratta di esprimersi sulla natura della Strage, le prime dichiarazioni ufficiali, insieme alle tracce lasciate sulla Piazza, cercano di rimuovere anche la matrice politica dell’attentato: «Indaghiamo in tutte le direzioni – si sentenzia dalla Questura – ma chi può escludere che si sia trattato del gesto di un folle?» (citato in «Paese Sera» del 30 maggio 1974).
Per le questure italiane, l’attitudine a negare le responsabilità della destra relativamente agli episodi più sanguinosi degli anni di piombo, sembra essere una sorta di abitudine: un comportamento che, oltre a causare gravi perdite di tempo compromettendo l’esito delle investigazioni, priva i cittadini di una sponda istituzionale credibile, erodendo in maniera irreversibile qualunque idea di fiducia nei confronti dei rappresentanti del potere centrale.
Non a caso, una volta appresa la notizia della strage, tutta l’Italia insorge riversando la propria rabbia nelle strade e scagliandosi spesso contro le sedi del Movimento sociale e i luoghi di ritrovo della destra. A Brescia, in modo particolare, i fischi che sommergono le massime cariche dello Stato durante i funerali delle vittime di piazza della Loggia rappresentano in modo crudo ed eloquente una vera e propria chiamata in correità da cui, uomini come il presidente del Consiglio Mariano Rumor, il ministro Paolo Emilio Taviani e lo stesso presidente della Repubblica, Giovanni Leone, non riescono a sottrarsi. Con le mani tremanti, Leone dovrebbe essere a Brescia per esprimere la sua solidarietà ai familiari di Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Clementina “Clem” Calzari, Euplo Natali, Alberto Trebeschi, Luigi Pinto e Bartolomeo “Bartolo” Talenti, ma, una volta arrivato sul palco riservato alle autorità, troverà l’assessore della Dc Luigi Bazoli, il marito di Giulietta Banzi, pronto ad afferrarlo per il bavero e a dirgli senza mezzi termini: «Caro Presidente basta con queste cose… Dobbiamo smetterla, impedire, non possiamo più accettare che questo avvenga, basta… Non possiamo permettere che avvengano queste cose nel nostro Paese…».
Giovanni Leone non è certo l’interlocutore più adatto a raccogliere la domanda di moralità avanzata prepotentemente dalla piazza… i voti del Msi grazie ai quali, nel 1972, è stato eletto Presidente pesano come macigni nel momento in cui il «marchio di fabbrica» della destra eversiva si stampa in maniera indelebile sulla Strage. La pista nera – malgrado i tentennamenti iniziali e i tentativi con cui il «Secolo d’Italia» proverà ad attribuire l’attentato alle Brigate rosse – inizia velocemente a fornire i primi indizi: i gruppi di Ordine nuovo attivi in Veneto, il movimento neofascista bresciano insieme ai settori più retrivi del padronato cittadino diventano presto i luoghi in cui cercare per dare un nome e un volto agli assassini di piazza della Loggia.
Per chiudere il cerchio di una simile teoria mancano alcuni tasselli fondamentali, magari una testimonianza diretta come quella di Ermano Buzzi: un ex missino bresciano vicino sia agli ambienti della criminalità politica che a quelli della criminalità comune (ha precedenti per furto e ricettazione di quadri), arrestato con l’accusa di essere responsabile dell’esecuzione materiale della strage. Ad inchiodarlo, la testimonianza di un altro fascista di Brescia, Angelino Papa, secondo cui, la mattina del 28 maggio, Buzzi avrebbe preannunciato l’attentato dichiarando, prima dell’esplosione: «C’è la manifestazione antifascista… Gli facciamo lo scherzetto…».
Ermanno Buzzi, auto-proclamatosi “conte di Blanchery” dopo aver acquistato il titolo da un notabile napoletano, non è certo un personaggio benvoluto dai suoi camerati. Dopo il suo arresto lo stesso Giorgio Almirante avrà buon gioco nel scrollarsi di dosso le accuse che chiamano in causa il Movimento sociale accusando Buzzi di essere «un noto pederasta» e, conseguentemente, giustamente espulso dal suo partito essendo l’Msi «l’unico partito veramente anti-omosessuale».
L’omofobia di Almiranti e camerati, ostentata come se si trattasse di un valore e non di un serio problema psichiatrico, fa parte delle eterne contraddizioni della destra italiana: ammantata di virilità e machismo fino al punto di costruire per i suoi militanti un’ideale di tipo spartiata o tebano, una “società di maschi” in cui, come ai tempi di Patroclo e Achille, anche la sessualità – recuperata in chiave antiborghese – viene esperita all’interno del gruppo di “guerrieri” o “soldati politici” che dir si voglia. In questo contesto, Ermanno Buzzi può ben rispecchiarsi del gruppo neofascista più celebre del Nord Italia, quello dei sanbabilini, “ritratti dal vero” dalla penna di Alessandro Preiser, pseudonimo di un’ex militante nero:
Eurialo non tardò a far parte della ristretta chiostra nella quale tutti riconoscevano gli eroi da emulare e seguire […]. Raimondo Forzi: era il più legato a Eurialo […] e al pari di questi, pur non disdegnando di quando in quando rapporti omosessuali, era sostanzialmente eterosessuale. […] Corrado: […] non s’è mai saputo se gli piacessero più gli uomini o le donne. […] Ruggero detto Ruggerino: un femmineo fanciullo diciassettenne basso e smunto con lunghe anella more, si truccava, aveva meravigliose mani inanellate che avrebbero fatto invidia ad Anna Karenina, delicato, con voce che pareva un soffio leggero, uranista sentimentale. Stravedeva per Silvano, ma essendo questi troppo moralista si lasciava coinvolgere nelle avventure di droga e sesso di Ennio, Eurialo e Raimondo. […] Luca: sedicenne, appena più mascolino di Ruggerino, leggermente più alto di questi ma più basso d’Eurialo. Legato a Corrado insieme col quale si faceva adusare da Eurialo e Raimondo dalle tentazioni dell’hashish e non soltanto a quelle (Alessandro Preiser, Avene selvatiche, Marsilio, Venezia 2004).
Più concretamente, il problema di Ermano Buzzi con gli uomini che gestiscono il terrorismo nero non è l’omosessualità ma il suo presunto status di spia: un uomo dei servizi infiltrato tra i camerati dalla polizia, considerato responsabile di molte soffiate e anche di aver architettato la morte di Silvio Ferrari. Questa, almeno, è l’opinione che, di Buzzi, hanno i camerati di «Quex», la famosa rivista autoprodotta dai detenuti politici di estrema destra e utilizzata per ospitare notizie “di movimento” insieme a una rubrica dedicata agli infami in cui, senza mezzi termini, si fanno i nomi dei personaggi da eliminare. Tra gli ospiti di questa rubrica – definita «vagamente jettatoria» dagli stessi lettori – c’è proprio Ermanno Buzzi: il teste più importante per le indagini su piazza della Loggia che, inspiegabilmente, nell’aprile del 1981, viene trasferito nel carcere di Novara, cioè dietro le stesse sbarre in cui è ospitato Pierluigi Concutelli, capo militare del Movimento politico ordine nuovo nonché diretto estensore della rubrica di «Quex» e della condanna a morte per il discusso “conte”.
Nel carcere di Novara, Ermanno Buzzi ha le ore contate. A Concutelli, già noto con il soprannome di “Comandante” ma in carcere detto “Er Sentenza” in virtù delle esecuzioni portate a termine, bastano quarantotto ore per avvicinare Buzzi al passeggio… non appena questo succede, il 13 aprile del 1981, scocca l’ultima ora d’aria del conte di Blanchery. Su come sia possibile uccidere un uomo a mani nude dice la sua Pierluigi Concutelli, aiutato, nell’occasione, da un altro assassino fascista molto conosciuto dentro e fuori dal carcere:
Buzzi temeva per la sua vita e per i primi giorni non venne all’aria. Aveva paura, era terrorizzato dalle possibili ritorsioni. Dopo un po’ di tempo passato in cella senza uscire, si convinse che nessuno gli avrebbe fatto del male e scese in cortile. «Ah, ci sei anche tu,» disse rivolgendosi a me e diventando pallido come un cencio. Quando gli andai addosso cercò di fermarmi: «Prima mi picchi e poi ne parliamo? Prima fammi spiegare e poi, casomai, mi prendi a cazzotti». Non immaginava che l’avremmo ammazzato, era convinto che ci saremmo limitati a un semplice pestaggio di galera. […] Buzzi morì così, in un angolo del supercarcere di Novara, strangolato da me e da Mario Tuti. […] Io e Tuti chiamammo la guardia. Mario disse una cosa un po’ pesante: «Dovete far rimuovere dell’immondizia che è rimasta in cortile (Giuseppe Ardica – Pierluigi Concutelli, Io, l’uomo nero, Marsilio, Venezia 2008).
Chi, essendo perfettamente al corrente della condanna a morte emessa contro Ermanno Buzzi, decise di trasferire il super-testimone di piazza della Loggia nello stesso carcere di Pierluigi Concutelli?
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Concutelli, nel futuro, continuerà a rivendicare la piena autonomia della decisione di assassinare Ermanno Buzzi. Quello che nemmeno “il comandante” tenta di smentire, però, è che la scelta di mandare “il conte” a Novara sia stata evidentemente compiuta da qualcuno che ha tutto l’interesse a sbarazzarsi dello scomodo camerata bresciano:
Siccome sapevano che con noi sarebbe finita male – dichiara Concutelli – ce l’hanno dato in pasto. A me qualcuno me l’ha fatto anche notare. Ma se io ho fame non sto a vedere chi mi dà da mangiare. Tu me lo mandi? Cazzi tuoi. Io non l’ho soppresso mica perché me lo hai detto te. È uno che già ho condannato io (intervista di Mario Caprara e Gianluca Semprini in Destra estrema e criminale, Newton Compton, Roma 2007).
Inutile specificare che lo stesso qualcuno che «ha dato in pasto» Buzzi a Concutelli è anche chi, all’interno delle istituzioni, ha contribuito a ostacolare l’inchiesta sulla Strage, provvedendo a cancellare le tracce e animando ogni sorta di mistificazioni. Nessuno sorpresa, quindi, che una verità giudiziaria sull’eccidio del 28 maggio non sia ancora venuta alla luce nel corso di quel calvario che è l’iter giudiziario della strage di piazza della Loggia. Nel 1979, la Corte di Assise di Brescia, basandosi sulle esternazioni di Angelino Papa, condanna Ermanno Buzzi all’ergastolo ma la sentenza viene ribaltata in Appello nel 1982, quando Buzzi, ormai assassinato a Novara, viene definito «un cadavere da assolvere» nelle motivazioni della sentenza. Da allora, per i fatti di piazza della Loggia sono stati spesi trentaquattro anni di indagini e 750.000 pagine di atti giudiziari: un materiale sufficiente a proiettare la torbida accusa di stragismo su tutto il neofascismo italiano e i collegati ambienti economico-militari in grado di alimentarlo. In modo particolare, risalgono al 1993 le dichiarazioni con cui Donatella Di Rosa, alias “Lady Golpe”, e suo marito, il tenente colonnello Aldo Micchittu, innescano l’inchiesta che culmina con la quinta istruttoria dedicata alla strage di Brescia.
Il nuovo processo è ancora in corso ma, vagliando le testimonianze di ex terroristi e collaboratori di giustizia, diventa sempre più chiaro che la decisione di colpire la manifestazione antifascista organizzata in piazza della Loggia nasce in un contesto fortemente condizionato dai “duri” dei servizi segreti e del così detto “Partito americano”: un’ala dell’Alleanza atlantica favorevole all’instaurazione di un regime militare fortemente antidemocratico, anticomunista e antipopolare. Non si tratta certo di un pugno di personaggi da avanspettacolo impegnati a vagheggiare un “golpe da operetta” ma di uomini estremamente pericolosi, in grado di poter contare sull’appoggio di poteri forti e dello stesso esercito italiano. Dopo lunghi anni di investigazioni, reticenze e mistificazioni, la quinta istruttoria entra nel vivo del dramma bresciano alla fine del 2007, quando il gup Lorenzo Benini chiede il rinvio a giudizio di un gruppo di persone accusate dei reati di strage, favoreggiamento e depistaggio. Si tratta di un pugno di vecchie conoscenze della criminalità politica italiana. Tra i presunti stragisti, infatti, ci sono nomi pesanti come quello del neonazista Delfo Zorzi: già condannato in primo grado per la strage di piazza Fontana e, a Mestre, capo della locale, agguerritissima cellula di Ordine Nuovo. Martino Siciliano, ex militante di on passato tra le fila dei collaboratori di giustizia e, oggi, iscritto insieme a Zorzi nel registro degli indagati. Secondo Siciliano, Zorzi:
Aveva un carattere molto forte, spesso duro, era molto manesco e privo di quelle reazioni che in molti di noi sorgevano alla vista del sangue durante i pestaggi. Zorzi infatti si occupava personalmente anche delle punizioni da infliggere ai camerati. Era chiuso, introverso, molto riservato. Portato quasi a una specie di misticismo. Fu lui a far scoprire ad altri camerati il buddismo (intervista di Gianni Barbacetto, E lei sa anche chi mise la bomba? Sì, fu Delfo Zorzi, in «Diario», 11-17 dicembre 1996).
Il “Samurai”, oggi, ha coronato il suo sogno mistico riparando il Giappone, dove, assunto il nuovo nome di Roi Hagen, vive al riparo da ogni richiesta di estradizione esercitando con enorme successo il mestiere di imprenditore nel campo della moda. Zorzi, questo è chiaro, non accetterà mai di sottoporsi al giudizio della magistratura italiana, le sole condanne che possono riguardarlo saranno eventualmente emesse in contumacia. È un peccato. Ripercorrendo la storia della strage di Brescia, il Samurai avrebbe potuto godere della compagnia di vecchi camerati come Carlo Digilio (deceduto in seguito a un ictus mentre aveva iniziato a rilasciare pesanti dichiarazioni ai magistrati), conosciuto con il soprannome di “Zio Otto” dai militanti di Ordine nuovo e con il nome in codice “Erodoto” dai militari della cia; come Carlo Maria Maggi, reggente di Ordine nuovo per il Triveneto; come Maurizio Tramonte, infiltrato dal sid in on con il nome in codice di “fonte Tritone”; o, addirittura, come Pino Rauti: attuale suocero del sindaco di Roma Gianni Alemanno, fondatore del Movimento sociale, di Ordine nuovo e, in tempi più recenti, protagonista delle avventure del partito della Fiamma, schierato a destra di Alleanza nazionale.
La lista degli indagati non finisce qui. E dagli ambienti più strettamente politici si sale ai piani alti delle istituzioni se, continuando a scorrere l’elenco delle coinvolte nella quinta istruttoria, ci si sofferma su Giovanni Maifredi, l’ex autista del ministro Taviani infiltrato in Ordine nuovo direttamente da un generale dei carabinieri: Francesco Delfino, uomo dei servizi segreti già condannato in via definitiva per truffa aggravata nell’ambito delle indagini sul sequestro dell’imprenditore bresciano Soffiantini. A completare questo desolante panorama, con l’accusa di intralcio all’autorità giudiziaria, favoreggiamente e depistaggio, insieme al neofascista Vittorio Pocci ci sono l’attuale parlamentare di Forza Italia Gaetano Pecorella e Fausto Maniaci, rispettivamente avvocati di Delfo Zorzi e Martino Siciliano.
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Incrociando le informazioni elargite a suo tempo da Lady Golpe con le dichiarazioni rilasciate da imputati come Carlo “Zio Otto” Digilio, il micidiale esplosivo utilizzato in piazza della Loggia sarebbe stato procurato da Delfo Zorzi e, via Milano, sarebbe finito nelle mani delle sam di Giancarlo Esposti, materialmente incaricate di compiere la Strage. Secondo Tramonte, invece, a collocare la bomba nel cestino sotto i portici sarebbe stato Giovanni Melioli, capo degli ordinovisti di Rovigo.
Se le conclusioni a cui arrivano Digilio e Tramonte sembrano diverse, a essere identico è l’ambiente che i due personaggi “informati sui fatti” evocano attraverso i loro racconti: un mondo in cui, nelle riunioni tenute per organizzare la Strage, diventa difficile distinguere i “soldati politici” dagli agenti dei servizi segreti, i rappresentanti dello Stato dagli avventurieri senza scrupoli. Recentemente, tra le altre cose, è emersa anche una nuova fotografia in cui, tra la folla di piazza della Loggia, sembra di ravvisare lo stesso Maurizio “fonte Tritone” Tramonte: una possibilità che renderebbe ancora più complicata l’interpretazioni dei fatti; sopratutto se si tiene conto di una cosa: sia Giovanni Melioli, sia Giancarlo Esposti, vale a dire i terminali del disegno stragista evocato da Tramonte e Digilio, non sono assolutamente in grado di aggiungere la loro testimonianze a quelle raccolte nel corso della quinta istruttoria. Giovanni Melioli, infatti, è stato ritrovato morto nel suo letto nel 1991, con mezzo chilo di cocaina al suo fianco. Giancarlo Esposti, da parte sua, è deceduto in circostanze ancora più sospette. L’illustre esponente delle Squadre d’Azione Mussolini, appena due giorni dopo la Strage, si trova accampato in località Pian di Rascino (provincia di Rieti). Insieme a lui, in una tenda mimetica, dormono i camerati Alessandro D’Intino e Alessandro Danieletti. Nei pressi, è parcheggiata una Land Rover traboccante di armi e di esplosivo (tra le altre cose, nella vettura sono stipati 560 detonatori, dieci chili di plastico, trecento metri di miccia e quaranta chili di esplosivo da cava!).
Alle sette del mattino del 30 maggio 1974, una pattuglia di carabinieri al comando del maresciallo Antonio Filippi, si avvicina all’accampamento. Quando Esposti si affaccia dalla tenda i militari gli chiedono: «Siete delle Brigate rosse?».
La domanda è retorica. Esposti farfuglia qualcosa – «Siamo radioamatori…» – poi mette mano alla pistola. I colpi del neofascista raggiungono in rapida successione i carabinieri Alessandro Jagnemma e Pietro Mancini. Ma la reazione rabbiosa di Esposti non basta a salvargli la vita. Crivellato dai proiettili del maresciallo Filippi, Esposti si accascia al suolo. Rantola. È ancora vivo. Filippi, però, ha ancora qualche colpo in canna. E la sua pistola, a questo punto, ha cura di avvicinarsi bene alla testa di Esposti prima di fare fuoco. Praticamente si tratta di un’esecuzione. Ma da cosa è stata provocata?
Forse soltanto da un eccesso di ritorsione. Un momento di rabbia che ha preso il sopravvento decidendo che Esposti voleva morire. Peccato solo che il maresciallo Filippi risulti attivo anche come agente del Sid. E che, insieme a Giancarlo Esposti, finiscano in una cassa da morto una grande quantità di segreti: memorie storiche che molti personaggi importanti hanno tutto l’interesse di non rivelare.
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Che cosa stava facendo esattamente Giancarlo Esposti nei boschi di Pian di Rascino? A cosa sarebbe dovuto o potuto servire l’arsenale che si trascinava dietro insieme alla Land Rover?
Quello che è sicuro è che, a un certo punto, nel mese di maggio del 1974, Esposti decide di far perdere le proprie tracce. Testimone di questa scelta, il padre del ragazzo, a cui Esposti telefona dicendo di essere costretto a scappare «perché i carabinieri li avevano traditi» (citato in Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri, Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato, Einaudi, Torino 2000).
La domanda, allora, diventa: chi è, esattamente, che, almeno secondo Esposti, è stato tradito dai carabinieri?
La risposta è contrassegnata da una data precisa: il 9 maggio del 1974, alla vigilia di una scadenza referendaria – quella sul divorzio – che, di per sé, contribuisce a foraggiare polemiche, desideri di rivalsa, tensioni. Quel giorno, con un blitz spettacolare, i carabinieri arrestano decine di militanti del Movimento d’azione rivoluzionaria, un cartello che, in chiave anticomunista, tiene insieme fascisti, cattolici intransigenti, qualunquisti ed esponenti della “Maggioranza silenziosa”, altra corrente utilizzata per mobilitare l’opinione pubblica contro la sinistra di piazza. A finire in manette c’è anche il fondatore del Mar: Carlo Fumagalli, ideatore di un disegno destinato ad imporre, attraverso il terrore, una svolta politica catto-autoritaria. Mentre Fumagalli viene tradotto in carcere, il suo vice, Gaetano Orlando, riesce ad avvisare i camerati, consentendo la breve fuga di Giancarlo Esposti: una fuga che, considerato l’armamento di cui poteva disporre, non doveva servire semplicemente a sottrarsi alla giustizia. Al contrario, asserragliato a Pian di Rascino, Esposti sperava ancora che il piano di Fumagalli e soci, quella strategia responsabile dell’incredibile numero di attentati organizzati nel corso del 1974, potesse trovare il suo pieno compimento. A Pian di Rascino, in buona sostanza, Esposti aspettava lo scoccare dell’“ora X”: un segnale che avrebbe dovuto far entrare in azione altri commando simili a quello guidato dall’estremista milanese, pronti ad unirsi all’esercito e a prendere il potere.
Esposti, evidentemente, non stava tenendo conto di una cosa. Nei piani alti dei servizi segreti, tra i protagonisti delle trame occulte della storia Repubblicana, il vento stava cambiando. Gli stessi fascisti, con il loro rozzo culto della violenza e la loro ridicola ossessione per ideali politici ormai superati, sono visti come semplici ferri vecchi: un validissimo aiuto fino a quando la violenza è stata indispensabile per arginare la vocazione progressista dell’Italia ma, a questo punto della Storia, soltanto un ostacolo per un rinnovamento reazionario in grado di mettere in alto strategie di controllo molto più raffinate di quelle che passano per un attentato dinamitardo, un’aggressione squadrista o una sparatoria.
Certo. Smobilitare una rete di assassini, bombaroli e picchiatori costruita con un paziente lavoro di intelligence e cospicuamente finanziata non è facile. Come non è facile convincere tutti gli esponenti e tutti i militanti del «partito del Golpe» dell’avvenuto mutamento di rotta. Sono tante le camice nere poco desiderose di indossare il doppiopetto e numerosi i gruppi ancora votati all’azione violenta. Schegge impazzite che, con i vecchi sistemi, continuano a giocare alla guerra sporca, lasciando il proprio “marchio di fabbrica” sulla strage di Brescia e, ancora nel 1974, sull’esplosivo piazzato sul treno Italicus, saltato in aria all’uscita di una galleria all’altezza di San Benedetto Val di Sambro il 4 agosto dell’anno destinato a chiudere il ciclo di attentati inaugurati nel 1969 con i morti milanesi di piazza Fontana. A morire sull’Italicus, dilaniati dalla bomba o bruciati vivi nell’incendio seguito all’esplosione, furono dodici persone. Per tutti loro c’è un volantino firmato Ordine nero che, al grido di «Giancarlo Esposti è stato vendicato», rende completamente esplicita la natura ricattatoria della strage:
Abbiamo voluto dimostrare alla Nazione – scrivono gli attentatori – che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare. Vi diamo appuntamento per l’autunno. Seppelliremo la democrazia sotto un mare di morti.
«Seppelliremo la democrazia sotto un mare di morti», scrivono gli attentatori. E le loro parole, come tutta la storia dello stragismo di destra, vanno lette come se fossero indirizzate a due tipi diversi di interlocutori. Da un lato c’è il contenuto palese della rivendicazione: quella diretta corrispondenza tra significante e significato decriptabile da chiunque conosca i termini della lingua italiana. Poi c’è un livello esoterico del discorso, riservato agli iniziati: nella fattispecie gli esponenti delle diverse fazioni interne al sistema; come abbiamo scritto aprendo il capitolo sulla Strage di Brescia, i sostenitori della necessità del colpo di Stato cruento e i seguaci di nuove politiche di controllo delle masse che, seppur assimilabili ai loro avversari nella volontà di imprimere al Paese una svolta reazionaria, sono convinti della necessità di rispettare la forma democratica delle istituzioni (… la forma, non la sostanza!).
Nell’anno del Signore 1974, tra queste due fazioni è guerra aperta. Una lotta senza esclusione di colpi che, alla fine, vedrà prevalere i supporter dell’“ordine democratico” sui golpisti di vecchio stampo fascio-militare. Intorno alle strutture predisposte all’intimidazione, all’aggressione e alla strage, contro i bombaroli precedentemente assoldati dai servizi segreti si fa terra bruciata ed ecco, nel mese di maggio 1974, scattare improvvisamente le operazioni di polizia che stroncano la “carriera” di un Carlo Fumagalli, gli “incidenti” che provocano la morte di un Giancarlo Esposti o i “trasferimenti” che decretano l’assassinio di un Ermanno Buzzi. Dall’altra parte, però, chi sogna l’avvento di un nuovo duce non si rassegna ad abbandonare le leve del potere occulto e sferra colpi micidiali: la Strage di Brescia e la Strage dell’Italicus, i più gravi episodi terroristici del ’74, sono solo il frutto di questa guerra intestina; un frutto amaro fatto mangiare, più o meno indiscriminatamente, a tutta la popolazione italiana.
C’è ancora un problema, però. Affinché, alla fine del conflitto, i vincitori possano continuare a usare illegalmente e per i propri fini lo Stato e tutte le sue strutture, è necessario che tutto avvenga nel completo silenzio. Non è un caso, infatti, se il processo per la Strage di Brescia sia ancora in corso o se, per quanto riguarda l’Italicus, la preziosa testimonianza di una donna che potrebbe inchiodare all’istante gli attentatori di Ordine nero e il “Fronte nazionale rivoluzionario” di Mario Tuti, detto “il Caterpillar”, non venga minimamente presa in considerazione. Addirittura, il giudice che raccoglie le dichiarazioni della donna provvede a smentirne pubblicamente la validità e a suggerire, per la testimone, il ricovero in un ospedale psichiatrico!
Il nome di questo giudice è Mario Marsili. Di professione, oltre che magistrato, questo esponente delle istituzioni è genero di Licio Gelli, detto “il Venerabile”: un signore che, dalla sua tranquilla residenza in provincia di Arezzo, dà vita alla famigerata “Propaganda 2” (P2) una loggia massonica coperta, riservata a chiunque – militare, ricco imprenditore, magistrato, giornalista, eccetera – occupi un ruolo sociale particolarmente importante e delicato. Scopo ultimo dei fratelli, l’attuazione del Piano di rinascita nazionale, una sorta di manifesto dove i punti programmatici più importanti si chiamano accentramento e controllo dei mass media, riforma della Costituzione e, per quanto riguarda il sistema politico, repubblica presidenziale.
Qualsiasi osservatore, guardando alla realtà italiana (oggi e non del 1974!), non avrà difficoltà a rendersi conto di come gli auspici del Piano di rinascita nazionale siano ancora in corso. La loro progressiva attuazione è sotto gli occhi di tutti, specialmente in un periodo di cronica erosione della partecipazione popolare alla vita politica, di negazione di diritti soltanto apparentemente elementari (dal riconoscimento delle coppie di fatto alla xenofobia di Stato contro l’immigrazione) e di ascesa di figure istituzionali in grado di manovrare il Parlamento regolando l’attività legislativa sulle proprie esigenze personali…
E i caduti di piazza della Loggia? E le vittime dell’Italicus? E le centinaia di persone assassinate in innumerevoli altre occasioni – da piazza Fontana fino alla stazione di Bologna – da quell’intreccio perverso tra terroristi neofascisti, vertici dei servizi segreti e P2?
Il sospetto – terrificante – è che tutti. Tutti. Siano morti invano:
Per questo non riesco a riconciliarmi definitivamente con le istituzioni, le ritengo inevitabilmente responsabili della mancata giustizia. Lo Stato ci ha negato il diritto alla giustizia e alla verità ed è difficile, in questo contesto, ridare equilibrio alle norme della convivenza civile. A volte penso che quei corpi martoriati nelle stragi non riescano a riposare in pace, li immagino come dei fantasmi che vagano. Ho sognato Livia che continuava a girarmi intorno con una valigia in mano, quasi a ricordarmi che non ha trovato ancora un pezzo di terra su cui riposare, perché il pezzo di terra è il principio di giustizia che non hanno ricevuto né loro come morti, né noi vivi, testimoni della loro morte (Manlio Milani, marito di Livia Bottardi, vittima della strage di Brescia. In Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Rizzoli, Milano 2006).
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Brescia, 28 maggio 1974. La strage di piazza della Loggia, tratto dal volume Cuori rossi di Cristiano Armati
La Scintilla: dalla Valle alla metropoli, una storia antagonista della lotta per la casa
Un momento, dunque, di dibattito collettivo aperto a partire dalle esperienze che il libro racconta (dalla rivolta di San Basilio alle lotte di oggi), per valutare le strade finora percorse e trovare quelle percorribili, perché si continui a ragionare come tenere viva quella scintilla che vediamo accendersi nel Bronx di Torrevecchia, nelle fabbriche SDA, nei boschi della Val di Susa, nelle periferie e nei centri delle nostre città e far sì che si propaghi e diventi un incendio.
Milano pulisce ancora
Tanti discorsi sulla libertà di espressione e il diritto alla critica sono improvvisamente svaniti nel nulla. “Colpevole” della grande amnesia collettiva seguita al delirio securitario andato in scena a Milano dopo il primo maggio, un po’ di sana street art e un pugno di artisti concordi nel definire Expo per quello che è: una truffa in grande stile, rappresentabile attraverso le centinaia di sfumature di cazzo prescelte dagli autori chiamati a raccolta da Guerrilla Spam & Hogre per demistificare la retorica renziana del grande evento.
I politici che credevano di potersela cavare con due spicci per parlare di riqualificazione urbana, scoprono l’acqua calda. E cioè che l’arte non è nata per arredare la tavola dei potenti. E che la street art appartiene ai vandali: gli eternamente infamati, spesso arrestati, a volte oggetto di colpi di pistola esplosi dalle guardie contro di loro… sono sui muri alla stessa maniera in cui i “teppisti” sono per le strade. Anche la circostanza è la stessa: parliamo sempre del primo maggio; e il comune di Milano, mentre patrocinava la rimozione delle scritte “Carlo Vive”, comparse dopo il passaggio della manifestazione, provvedeva anche a “ripulire” la città dalle opere su cui troneggiava forte e chiaro il motto “No Expo”.
Se mai ce ne fosse stato bisogno, ecco dimostrata tutta la pretestuosità dei discorsi contro la “violenza” del corteo del primo maggio. E così come non esistono manifestanti buoni e manifestanti cattivi, non è neppure vero che esiste un modo “civile” di esprimere il proprio dissenso. Tutto ciò che colpisce nel segno, infatti, viene ridotto al silenzio e censurato.
D’altronde, se non viene diffamata e oscurata, che protesta è?
EXPO non è finito: un orizzonte dopo la rivolta del primo maggio
Era il 3 maggio del 1886 quando, a Chicago, negli Stati Uniti, una folla di lavoratori in sciopero si assembrava davanti ai cancelli della fabbrica di macchinari agricoli McCormick. Il presidio, nato sulla scia di uno sciopero indetto il primo maggio per rivendicare la giornata lavorativa di otto ore, viene brutalmente attaccato dalla polizia che, aprendo il fuoco sulla folla, uccide due operai, ferendone molti altri. Sulla scia dell’indignazione,il giorno seguente, cioè il 4 maggio, la stessa folla si riversò in piazza Haymarket, dove dopo l’esplosione di un ordigno la polizia inizia a sparare all’impazzata, uccidendo altre undici persone e colpendo con il “fuoco amico”anche un gran numero di agenti. Come se non bastasse, al termine di un processo-farsa, la corte chiamata a giudicare i fatti di Haymarket condannò a morte sette sindacalisti. Uno di loro, August Spies, prima di salire sul patibolo ammonì i suoi boia: «Verrà il giorno», disse loro, «in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che strangolate».
E furono quelle voci, in effetti, a trovare eco in tutto il mondo, seminando tra chiunque si trovasse dalla parte degli sfruttati la coscienza del sacrificio dei “martiri di Chicago”. Anche in Italia la notizia dell’esecuzione di Spies e dei suoi compagni non passò inosservata e a Livorno,addirittura, il popolo inferocito attaccò le navi statunitensi ancorate al porto e, in seguito, la questura, dove si diceva che il console americano si fosse rifugiato.
Da quel momento in poi la tragedia di Haymarket sarebbe stata parte di una storia collettiva di portata globale. Tant’è che non solo il primo maggio diventò pressoché ovunque la data in cui celebrare i lavoratori e le loro conquiste, ma anche gli eventi del 1886 finirono per essere considerati come il frutto sanguinoso di una conquista, parte di un processo grazie al quale una civiltà più giusta riusciva a guadagnare terreno sulla barbarie.Tant’è che nessuno storico, fino a oggi, si sarebbe mai sognato di disconoscere il valore dei sindacalisti di Chicago né, a maggior ragione, l’importanza sacrosanta di una causa che ha portato a battersi e a morire una moltitudine di lavoratori: avanguardia del progresso civile o, seguendo le complicate torsioni di senso con cui si è arrivati a descrivere il presente per modificarlo in chiave conservatrice e neocorporativista, banda di pericolosi black bloc, branco di spaccavetrine,bestie assetate di violenza, cretini e – tanto per colmare la misura – se non infiltrati addirittura fascisti.
Tutto questo accade nel 2015, mentre a Milano si inaugura la contemporanea edizione dell’Esposizione Universale e, per farlo, si sceglie proprio la data del primo maggio, costringendo il mondo del lavoro a concedere deroghe definitive rispetto a una giornata ancora teoricamente considerata festa nazionale. La cosa, di per sé, non è certo strana: Expo, infatti,vorrebbe essere per i suoi mandanti – il Partito della Nazione e il suo duceMatteo Renzi – l’arco sotto il quale far passare il trionfo di un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla speculazione edilizia, la distrazione d’ingenti somme di denaro pubblico, la santificazione delle multinazionali dello sfruttamento selvaggio delle persone e dell’ambiente e, quindi, l’annullamento definitivo di quel patto a cui, per il tramite della contrattazione, si era dato mandato di regolare il faticoso ed eternamente conflittuale rapporto tra capitale e lavoro.
Dall’inaugurazione di Expo in poi – tutto ciò è estremamente chiaro – il lavoro sarà soltanto una sorta di elargizione demandata nei modi e dei tempi all’iniziativa padronale, alle sue esigenze e alle sue necessità.Mentre per tutto il resto, di fronte alle residue alzate di testa dei lavoratori, ci sarà il licenziamento selvaggio o, spesso e volentieri, la forza brutale della polizia.
Fuori dal mondo del lavoro il discorso non cambia. La rapina che inizia in “fabbrica” (che si tratti dei call center o delle reception diExpo non fa nessuna differenza) prosegue nei territori, sia con lo strumento della devastazione e della privatizzazione delle risorse naturali (a cominciare dall’acqua), sia con l’imposizione di prelievi pesantissimi ai danni delle magre finanze dei lavoratori, grazie al monopolio delle pigioni, all’azzeramento dei programmi di edilizia popolare pubblica e, di conseguenza, attraverso l’arma degli sfratti.
È sulle macerie di un simile laboratorio di macelleria sociale che Expo sta edificando le sue fortune, affilando le armi di una propaganda senza precedenti, a sostegno della quale tutti i mezzi d’informazione parlano come in passato è stato fatto solo per descrivere le gesta delle truppe imperiali lanciate alla conquista dell’Abissinia. Ed è sulle stesse macerie che l’opposizione sociale è chiamata a raccogliere le sue forze e a costruire una resistenza né semplice né di breve durata. Se è vero come èv ero che Expo ha voluto mistificare le reali necessità di un corpo sociale stremato dalla povertà (cioè dalla prima arma che il padronato rivolge contro le classi subalterne per piegarle ai suoi scopi), rinchiudendo le legittime aspirazioni al cambiamento dentro le esigenze di una vetrina scintillante,allora spaccare quella vetrina è stato giusto, sia in termini metaforici che in termini reali. Eppure non è ancora questa la cosa più importante, né il campo in cui è necessario concentrare i propri sforzi. La cosa più importante,infatti, è sottolineare come Expo non è finito. E non è finito non solo perché il tributo preteso dal governo Renzi si estenderà sul Paese per ulteriori sei mesi, ma perché è lo stesso modello che Expo impone ad aver costruito una nuova cornice di “normalità” con la quale confrontarsi e che è necessario spezzare. Basti dire che, annunciando l’organizzazione del prossimo giubileo romano, è già stata ventilata da parte del governo la possibilità di porre un blocco degli scioperi nel nome di un superiore interesse nazionale…
Le contraddizioni di Expo, insomma, non possono essere denunciate né tantomeno superate nel corso di una sola giornata: le multinazionali che sponsorizzano l’evento resteranno ai loro posti, lo stesso faranno le condizioni imposte ai lavoratori e anche la volontà di sottoporre a un feroce revisionismo la storia della lotta di classe è determinata a compiere nuovi passi avanti. Da questo punto di vista, mentre ogni occasione sarà buona per denunciare gli abomini targati Expo organizzando momenti di confronto pubblico sempre più importanti, è anche necessario iniziare a muoversi immediatamente verso un orizzonte preciso, all’interno dei sei mesi di durata che si è data l’esposizione milanese. Alla chiusura del carrozzone, infatti, il simbolo diExpo, la scultura nota con il nome di “Albero della Vita”, vorrebbe essere ricollocata in un luogo-simbolo della storia italiana. Con una mossa tutt’altro che innocente, i leader renziani hanno annunciato di voler trasferire l’istallazione direttamente a piazzale Loreto, vale a dire nel luogo in cui la repubblica nata dalla Resistenza celebrò nel 1945 il trionfo dell’insurrezione popolare e la distruzione del fascismo. Impedire, a cominciare da adesso, che tutto ciò possa accadere non significa soltanto lottare per la permanenza di un simbolo nella storia di domani. Significa anche riappropriarsi della sovranità popolare che, salendo sulle montagne o combattendo nelle città, offrì la migliore dimostrazione di come un altro mondo sia davvero possibile.
In questo modo diventa più semplice rispondere alla domanda che tutti si sono fatti dopo il primo maggio No Expo andato in scena a Milano,considerando che al di là delle vetrine rotte, della manifestazione moltitudinaria e dei contenuti anticapitalisti portati in piazza, contro il progetto politico renziano che, sul modello del corporativismo fascista,continua a pretendere di subordinare i diritti sociali agli interessi della nazione (cioè dei padroni), l’unica cosa giusta resta quella di non fare neppure un passo indietro.
Il diritto di critica secondo Matteo Renzi
Chi dice che ogni protesta è legittima purché “si esprima civilmente” intende dire che per conservare i propri privilegi è disposto a tutto, anche a spaccare la testa a manganellate a una ragazzina.
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Bologna, 3 maggio 2015: dopo le polemiche sulle “violenze” nel corso della manifestazione No Expo di Milano, la polizia carica violentemente un gruppo di manifestanti, decisi, in occasione della visita di Matteo Renzi, ad esprimere tutto il proprio dissenso contro la guerra ai poveri promossa dal governo del Partito Democratico e, in modo particolare, contro la terrificante riforma chiamata “Buona Scuola” dagli esperti del marketing assoldati dal PD.
Teppismo, ultima bandiera
Scrivi degli ultrà
la vita da teppista
non dici verità
bastardo giornalista
Non mi ricordo più come sono diventato ultrà. A me, allo stadio, non mi ci ha mai portato mio padre: non è per onorare la sua memoria che seguo il calcio. Il calcio, per me, non è nemmeno tanto un fatto di cori o di bandiere e, se penso al campo da gioco, di colori e di profumi è l’ultima cosa di cui parlo. Ho una fede, certo. E questa è salda. Credo in dei principi ben precisi, ma non ho voglia di dire esattamente quali. Perché ci sono cose di cui si può parlare e altre per cui le parole non servono a nulla: per capirle occorre esserci. Ma,sopratutto, occorre fare.
È a questo ultimo genere di cose che appartengo. Domenica dopo domenica le ritrovo negli occhi del compagno che ho accanto ma anche nello sguardo del nemico che ho davanti. Una scintilla che illumina il buio del calcio moderno con gli echi di un principio inderogabile: «Preferisco essere sconfitto nudo addosso a un muro che festeggiare la vittoria protetto da uno scudo».
È questo il terreno sul quale io gioco la mia partita. Ed è sempre da questo terreno che io, domenica dopo domenica, torno a casa vincitore.
Su questo terreno gli arbitri non si possono corrompere, i vestiti che hai addosso non hanno nessuna importanza e nemmeno i soldi significano niente. Il coraggio, al contrario, qui non ha prezzo. E la lealtà è la merce più ricercata.
Su questo terreno nessuno è tenuto ad abbassare la testa e non esiste né sì né sissignore; basta un cenno di intesa per rinnovare un accordo mai scritto: «Non un passo indietro»; sono questi i termini del patto.
Grazie alla fede, domenica dopo domenica, prima e dopo la partita, diventa possibile sostenere uno scontro impari. Da una parte la legge, con le armi, i cani, le macchine blindate, i lacrimogeni e i manganelli. Dall’altra il cuore: forte anche quando non ha niente.
Non mi vergogno di dirlo perché è vero. Chi indossa una divisa non lo accetto e neppure lo rispetto. Troppe volte ho visto gli uomini della legge caricare i miei fratelli a tradimento. Troppe volte li ho visti, in dieci contro uno,tirare calci fino a spaccare le facce, rompere le costole, spezzare i denti.
La mia lotta, in fondo, è simile a quella delle minoranze oppresse o a quella dei partigiani che combattono nelle zone occupate dagli eserciti: «10, 100, 1000 Nassiriya» ero io che lo cantavo. E non avevo certo paura di diventare l’unico a essere considerato delinquente.
Domenica dopo domenica, insieme ai miei fratelli, ho combattuto per l’Iraq, per l’Irlanda del Nord, per il Kurdistan, per il Libano, per la Serbia, per il Delta del Niger e per la Palestina. E nessuno di noi, nel corso della lotta, ha mai preso in considerazione l’opportunità di potersi arrendere.
D’altronde è normale. La principale differenza tra noi e chi indossa una divisa è solo questa: loro agiscono nel nome di un posto fisso e dei soldi; noi lo facciamo per continuare a guardarci in faccia senza vergognarci.
Chi indossa una divisa lo capisce e ci teme. Sa che per partire non abbiamo bisogno di ricevere istruzioni: conosciamo perfettamente la città e i piani che seguiamo non vengono dall’alto, ma sono già nella nostra testa. Come avremmo fatto,altrimenti, a ritrovarci tutti nello stesso posto – allo stadio Olimpico – tre ore prima della partita Roma-Cagliari, prevista per le ore venti e trenta?
La notizia,data nella mattinata, parlava di uno scontro tra tifosi dalle parti di Arezzo. Raccontava di una macchina di laziali che incrocia un gruppo di juventini e di un ragazzo ucciso da un colpo di pistola. Cercavano di confondere le acque e di farci credere che i tifosi si fossero uccisi tra di loro… in realtà, quello che era successo, ci era stato chiaro immediatamente: a sparare e ad uccidere era stato un agente.
C’è solo una categoria di persone che rispetto ancora meno di chi porta una divisa. Ed è la categoria di chi, per professione, mente. Li chiamano giornalisti, ma per noi sono tutti pennivendoli. E come correvano! Correvano gettando sull’asfalto le loro telecamere maledette e le loro macchine fotografiche bugiarde. Correvano malgrado le pance cascanti, piene di notizie false e brutti sentimenti. Pensavano di accanirsi su di noi anche in una giornata come questa:di rinchiuderci come le scimmie nelle gabbie dei loro giornaletti, di chiamarci beceri e violenti, di infamarci e insultarci a loro piacimento. In una giornata come questa no, non glielo abbiamo concesso: abbiamo corso più forte di loro,li abbiamo raggiunti e a più di qualcuno abbiamo rotto la macchina fotografica e la telecamera insieme alla testa.
Un nostro fratello era stato ucciso dalla polizia e la nostra rabbia, radunati fuori dai cancelli dello stadio, stava crescendo come il mare in tempesta. Quando a Catania, poco tempo prima, era morto uno di loro, un ispettore, il calcio era stato fermato completamente. Mentre adesso che a uccidere un tifoso era stato un poliziotto che fine avevano fatto i discorsi sul rispetto della vita umana?
Chi comanda non ha ritenuto opportuno sospendere le partite in programma perché per loro i tifosi non sono nient’altro che merce.
Si sbagliano. E lo abbiamo scritto sugli striscioni: «La nostra coscienza non si lava con dieci minuti di ritardo».
Alla pattuglia dei carabinieri fermi a Ponte Milvio glielo abbiamo fatto capire bene. Abbiamo gridato «assassini! assassini!» e li abbiamo fatti fuggire con un fitto lancio di pietre.
In queste circostanze non conviene muoversi tutti insieme. Il grosso del gruppo è restato compatto a presidiare la zona dello stadio mentre, a turno, drappelli più piccoli sono scattati per la caccia al poliziotto. Sul Lungotevere abbiamo usato delle transenne di ferro per bloccare il traffico e, per armarci, abbiamo sradicato dall’asfalto i segnali stradali. In pochi minuti abbiamo distrutto vetrine e rovesciato cassonetti. È servito per guadagnare tempo, seminare il panico e spingerci verso l’interno: «Non ne possiamo più delle divise blu – no al governo – no alla pay tv».
In via Flaminia vecchia abbiamo preso a sassate una stazione dei carabinieri e dato fuoco alle vetture parcheggiate all’esterno. «Non c’è niente di più bello di una caserma che brucia»: basta una bottiglia piena di benzina per scatenare l’inferno.
In via Guido Reni, all’Accademia di polizia, abbiamo distrutto l’insegna e infranto i vetri antiproiettile e, bruciando ciò che potevamo, abbiamo urlato: «Merde! Merde!».
Veloci come il vento ci siamo dileguati. E abbiamo portato via lo stendardo del corpo: dato alle fiamme insieme a un’altra macchina della polizia, in piazza dei Giochi Delfici.
La città era nostra. Ma noi siamo diversi, il potere non ci interessa. Noi siamo i lupi che si nascondo tra le pecore: possono braccarci, catturarci, diffidarci o ucciderci… domenica dopo domenica torneremo comunque branco, lo facciamo sempre. Gente come noi oggi ha colpito a Roma, ma lo ha fatto anche a Milano, a Taranto, a Bergamo… ovunque con la stessa gioia di riscoprirsi ultrà: padroni di niente – chiaro – ma servi di nessuno. Liberi, seppur in fuga, tra i tornanti della panoramica che si arrampica su Monte Mario. Arditi quanto basta per accostare la macchina e, con la vernice azzurra della bomboletta, sfidare chi non crede in niente con uno slogan destinato a durare: «Teppismo ultima bandiera».
Primo Maggio: quello che si dice
Si dice che grazie alle “violenze” al primo maggio di Milano, le ragioni del No Expo siano state completamente oscurate. Infatti, prima di ieri, queste ragioni erano all’ordine del giorno, venivano affrontate con correttezza dalla stampa ed esposte con chiarezza dalla televisione generalista, che invitava gli esponenti dell’opposizione sociale a dibattiti e ad approfondimenti, talmente ascoltati da essere quasi riusciti ad annullare l’evento.
Si dice anche che grazie alle “violenze” al primo maggio di Milano, ora l’intero Movimento si trovi sotto attacco, esposto alle sevizie della polizia e della magistratura, pronta a usare come un ariete l’arma più micidiale del codice (fascista) di procedura penale: il reato di devastazione e saccheggio. Infatti, prima di ieri, questo stesso reato non era mai stato usato, né per colpire i partecipanti al vertice contro il G8 di Genova e neppure, più recentemente, per processare i partecipanti alla manifestazione del 15 ottobre utilizzando un imputazione che prevede pene fino a quindici anni. Alla stessa maniera, per colpire il movimento No Tav, la magistratura non si era certo sognata di trattare quattro ragazzi accusati di aver danneggiato un compressore alla stregua di pericolosi mafiosi, imponendo loro un isolamento degno di quanto previsto dal famigerato 41bis.
Si dice persino che da questo momento in poi, considerate le “violenze” al primo maggio di Milano, nessuno vorrà più scendere in piazza. Infatti prima di ieri le piazze erano traboccanti di folle decise a riconquistare i propri diritti, né si stava cercando, visto il surplus di partecipazione, di giocare la delicatissima partita con la quale – magari passando per errori e sbandamenti – tentare di rompere la stagione del reflusso e riconquistare una necessaria ricomposizione di classe. E poi basta guardare quanto accaduto a Cuba con il Movimento 26 Luglio, in Russia con i Soviet o a Parigi con la Comune: quando si registrano episodi di violenza popolare le piazze si svuotano, è la storia che lo insegna.
Insomma, si dicono tante cose. Una in più non farà la differenza, è tanto semplice battere i tasti di un computer, pare che anche molte scimmie siano in grado di farlo… intanto Expo non è ancora finito. Mentre fino a prova contraria solo la lotta paga.
Sgomberiamo EXPO! Come, quando e soprattutto perché
Venerdì 8 maggio. Perché no. Anche questa poteva essere una data buona per inaugurare Expo. Che cosa sarebbe cambiato in fondo? Gli speculatori si sarebbero messi in tasca comunque la loro bella fetta di soldi pubblici, il residuo verde lombardo avrebbe in ogni caso smesso di vedere un domani, e il lavoro gratuito, sancito dal Jobs Act, diventava lo stesso una cosa “normale” grazie all’impiego di una moltitudinaria avanguardia di forzati dello stage. Neppure la burinaggine della neolingua imposta da Renzi e dal suo Partito della Nazione avrebbe risentito di un’inaugurazione spostata appena di qualche giorno. Milano, in ogni caso, (ma quel che è peggio anche i nostri cervelli) si sarebbe riempita di portaborse e leccaculi tutti casa & conference call, chiesa & best practies, mazzette & spendig review…
Per quale motivo, dunque, insistere sulla data del primo maggio, arrivando anche allo scontro aperto con la residua fetta di lavoratori che si ricorda – incredibile! – come quella del primo maggio non sia proprio una data come le altre?
La risposta, purtroppo, è tristemente semplice. Cioè: il primo maggio non è una data come le altre! Il primo maggio è lo sbiadito ricordo di un tempo in cui le lotte degli sfruttati di tutto il mondo riuscirono a imporre il primato politico e morale dei lavoratori sulla scena pubblica, cristallizzando il loro protagonismo in una “festa”, che tutto dovrebbe essere tranne una semplice celebrazione, rappresentando piuttosto un’occasione di rilancio, un modo per restare all’attacco sul fronte dei diritti e del progresso. Ebbene, malgrado il primo maggio dei nostri tempi sia una ricorrenza dove il senso originario sopravvive in forme alquanto appannate, è come se nella memoria ancestrale del regime oggi incarnato da Renzi si sia conservata la memoria di altre stagioni; il ricordo indelebile di incubi davvero vissuti dai padroni di ogni tempo e ogni paese, dal giorno in cui Spartaco, capeggiando una ribellione di schiavi, osò sfidare le legioni dell’Impero Romano, per arrivare all’assalto al Palazzo d’Inverno o, facendo un passo indietro nella cronologia, ai giorni in cui sulla Comune di Parigi sventolò uno straccio rosso scelto come bandiera.
L’oligarchia renziana, evidentemente, sente ancora il potenziale dell’ostilità popolare alla maniera delle bestie selvatiche braccate nel bosco: perché si può dire tutto, ma è proprio la gente come Renzi e i suoi mandanti europei a sapere bene come in realtà loro sono e restano semplici “tigri di carta”; a essere davvero potente, si sarebbe detto in altri momenti, è il popolo. E allora perché non frustrare la consapevolezza di ciò che si può ottenere costruendo dal basso il proprio futuro sovrapponendo alla festa dei lavoratori una “bella” celebrazione dell’affermazione planetaria del grande capitale come l’inaugurazione di Expo? D’altro canto, come hanno già fatto sapere al volgo, quando Expo chiuderà la baracca e i burattini andranno a compiere i loro saccheggi altrove (a Roma, per esempio, ci sarà il Giubileo…), il grottesco “albero della vita”, vale a dire la scultura-simbolo del grande evento milanese, non verrà installata in un posto qualunque, ma addirittura a piazzale Loreto. Sì, proprio lì, esattamente nel luogo in cui settanta anni fa un’insurrezione popolare fece giustizia del corporativismo fascista, aprendo nuovi scorci di cielo al sole dell’avvenire. Renzi, evidentemente, sa bene che non spegni il sole se gli spari addosso. Per questo preferisce soffocare il senso stesso della storia del passato imponendo un’altra costruzione di senso a ciò che determinati luoghi e determinati giorni possono continuare a rappresentare in futuro. Oggi, questo evidentemente va riconosciuto, le forze che si oppongono al revisionismo integrale non solo della storia ma del destino dell’umanità su questa terra, vale a dire le forze del fronte anticapitalista, possono apparire deboli e stanche rispetto a ciò che pure sono state. Ma proprio per questo vale davvero la pena opporsi con tutto il cuore a Expo e alla sua inaugurazione. In fondo – anche in questa epoca oscura – abbiamo il dovere di fare il modo che il futuro continui a non essere mai scritto, dopo di che, se non toccherà a noi vedere “sbocciare mille fiori”, sappiamo come dentro una semplice scintilla continua comunque a conservarsi tutto il fuoco del mondo.
E che solo la lotta paga.
SGOMBRIAMO EXPO!
Lotta di classe e prospettive di salvezza: perché tanto odio? Perché abbiamo smesso di dire vogliamo tutto!
Ogni giorno masse di uomini e di donne aprono gli occhi e si scoprono a disagio con se stessi e con il mondo. Stanno male, ma non sanno dire bene il perché. Nel profondo del loro disagio, in realtà, si agita perenne lo spettro delle preoccupazioni economiche, l’ansia di non essere in grado di garantirsi un futuro degno di questo nome o quella, ancora peggiore, di non poter contribuire alla felicità dei propri figli o delle persone che amano; l’ansia, concreta, di non riuscire a pagare l’apparecchio per i denti al proprio bambino, di acquistargli gli occhiali di cui ha bisogno, di versare la quota per la gita scolastica o di saldare il tecnico che deve aggiustare la caldaia, quando il problema non è direttamente con il padrone di casa a cui si devono le minacce di sfratto. Una simile situazione, con il suo vissuto collettivo e la sua stratificazione generazionale, basta e avanza per rispondere alla domanda “perché tanto odio?” che possiamo farci osservando il crudele nervosismo da cui siamo assediati. Un “perché tanto odio?” di fronte al quale è facile restare attoniti se si ascolta la facilità con cui, tanto i politici quanto le persone della strada, augurano ai migranti di morire in mare o ai rom di essere bruciati vivi insieme ai loro figli. Che poi, a ben vedere, si tratta degli stessi politici e delle stesse persone della strada secondo cui gli omosessuali, ammessa e non concessa la libertà di coltivare nel privato la propria “perversione”, non dovrebbero avere alcun diritto di esporsi sulla scena pubblica e nemmeno il diritto di camminare mano nella mano o baciarsi, pena il legittimo risentimento di chi li osserva, e che se li aggredisce sono loro “che se la sono andata a cercare”. All’interno di questa linea di pensiero, tutt’altro che isolata, le stesse donne restano, se stuprate o uccise, quelle “che se la sono andata a cercare”… essendo “tutte puttane” a meno che non si parli delle proprie madri, sorelle o mogli, vale a dire a meno che tutte le donne non accettino di vivere all’interno di ruoli patriarcali nemici della propria voglia di esprimersi nei mille modi che ognuna può fare propri rispetto alle mille possibilità conosciute e a tutte quelle ancora da scoprire, cominciando, magari, proprio da quella possibilità che porta a denunciare la stessa “puttanofobia” come uno dei mali sociali da cui siamo irrimediabilmente afflitti. La domanda, in ogni caso, resta la stessa: “perché tanto odio?”. E la domanda si fa tanto più atroce quanto più ci si rende conto che la risposta, rispetto a quella massa di uomini e donne che tutte le mattine aprono gli occhi solo per scoprirsi in perenne disagio con se stessi e con il mondo, esiste da sempre. Tanto è chiara questa risposta, infatti, che i numerosi veli religiosi imposti a originarie rivendicazioni di carattere sociale e alle prospettive di libertà dei popoli oppressi, oggi – grazie all’insaziabile sete di capri espiatori da cui siamo animati – fa gridare all’estremismo islamico e lo addita come nemico pubblico numero uno, fa tranquillamente accettare persino la prospettiva di una guerra mondiale pur di non provare ad affrontare una semplice verità; pur di non provare ad articolare questa risposta primordiale. E questa risposta, censurata dalle sovrastrutture che accecano la coscienza di tutti, ha a che fare esattamente con quella tranquillità rispetto alla quale dovrebbe essere possibile affrontare il presente e il futuro e passa per una società dove la casa, la salute e la scuola siano la cornice di un percorso costruito in comune e garantito, insieme al diritto inviolabile al reddito e alla dignità, quando, al contrario, ci si ritrova in una situazione in cui è la stessa sopravvivenza – letteralmente – a essere messa in discussione. La risposta al disagio sociale ed esistenziale, al disagio che è esistenziale proprio perché è sociale, e che è sociale in quanto affonda le sue radici nell’economia differenziale in cui viviamo; questa risposta esiste da sempre e si chiama lotta di classe: vale a dire capacità di affidare alle proprie difficoltà responsabilità chiare, responsabilità figlie di quella divisione tra ricchi e poveri alla quale si è accettato di delegare l’accesso ai diritti più elementari e che, ogni giorno, condanna alla paura della morte fisica e sociale le stesse masse di cui stiamo parlando. Con la lotta di classe, quando la mattina si aprono gli occhi, non si ha voglia di affogare migranti, cacciare islamici o bruciare rom. Né, all’affannosa ricerca di un capro espiatorio, si viene rosi dalla necessità di sentirsi superiori agli omosessuali se eteresessuali, alle donne se si è uomini o ai neri se si è bianchi. Con la lotta di classe si stabilisce una volta per sempre che gli uomini e le donne sono nati uguali di fronte alla felicità di cui è intessuto il mondo, e ci si muove con l’obbiettivo di riconquistarla in tutte le sue forme e attraverso tutte le opportunità – molte ancora sconosciute – che sono capaci di offrirci le nostre menti e i nostri corpi. La lotta di classe è la strada del nuovo umanesimo in quanto uccide il capro espiatorio che ognuno sente la necessità di vedere nell’altro e perché indirizza l’odio direttamente alla fonte del male: verso il sistema padronale, fonte di abominio e di disagio generalizzato. Ognuno può scoprire autonomamente chi è che ha l’interesse di spostare questo odio dalla lotta di classe alle tante sfumature di presunta “diversità” di volta in volta additate come nemiche del popolo. E anche chiedersi come mai, dal razzismo all’uguaglianza di genere, persino quei diritti cosiddetti “a costo zero”, dal matrimonio gay allo ius soli, restano – in una società divisa in classi – tanto combattuti e tanto osteggiati da risultare negati a tutti gli effetti. La morale della favola? Difficile trovare mezze misure. Combattere il razzismo o la disuguaglianza di genere è l’obiettivo di qualunque vita degna. Ma per farlo davvero, alla domanda “cosa vogliamo?” bisogna inevitabilmente tornare a rispondere: “tutto!”.