Di cosa si parla quando si parla della guerra contro i poveri combattuta dal governo Renzi

Rispetto al 2004, pare che i furti negli appartamenti (lo dice il Censis) siano aumenti del 127%. Una stima comprensibile se si tenesse conto all’indiscutibile aumento della fame, riscontrabile anche “a occhio” in questo paese. Come reagire, quindi, al problema che, proprio sull’onda della fame, sta evidentemente spingendo sempre più persone verso l’opzione individuale dell’illegalità, magari a scapito dell’alternativa sociale offerta dalla lotta?

Il governo non ha dubbi: con la riforma del codice penale, la pena minima per i reati di “furto in abitazione e furto con strappo” (art. 624-bis) passa da uno a tre anni, con severe limitazioni nella valutazione di eventuali circostanze attenuanti. Il discorso è analogo anche per i reati di rapina e di rapina aggravata, la cui pena minima è innalzata, rispettivamente, a quattro e a cinque anni contro i tre e quattro anni previsti dal codice vigente.

Diverso, ovviamente, è ciò che si sta prevedendo per il reato di tortura, tornato “di moda” dopo la condanna emessa nei confronti della polizia italiana dalla Corte europea per i diritti umani per i fatti della scuola Diaz e velocemente espulso dalle luci della ribalta. In realtà, gli abusi consumati tra le quattro mura delle carceri e delle prigioni nostrane potranno continuare indisturbati, forti dei segnali lanciati dall’alto. La stessa Commissione Giustizia che usa il pugno di ferro per colpire ladri e rapinatori, infatti, indossa il guanto di velluto e, stravolgendo il testo elaborato dalla Camera, rigetta l’idea di raddoppiare i tempi di prescrizione e riduce da quindici a dodici anni il massimo della pena prevista per i torturatori.

Le scelte governative, da questo punto di vista sono coerenti: se i reati frutto della fame devono essere colpiti senza pietà riempendo le carceri con nuove masse di proletari, bisogna tutelare l’azione violenta e persino la tortura commessa dal personale in divisa per tenere sotto scacco i fenomeni di insorgenza sociale. Con il contributo del ministro Andrea Orlando, intanto, la guerra contro i poveri dichiarata dal governo Renzi continua.

L’articolo 5 del Piano Casa di Lupi e i militanti del Partito Democratico: ecco perché non potete non dirvi fascisti

Il 30 ottobre del 1922, dopo la marcia su Roma di alcune migliaia di militanti fascisti, il re Vittorio Emanuele III cedeva alle pressioni della piazza nera affidando a Benito Mussolini la presidenza del Consiglio.

Secondo i nostalgici si tratta del prologo della “rivoluzione fascista”: un evento che avrebbe consegnato all’Italia un ventennio di abiezione, la deportazione nei campi di sterminio dei cittadini di religione ebraica e degli oppositori del regime, l’annullamento di qualunque garanzia democratica e i milioni di morti della seconda guerra mondiale.

Si tratta, in effetti, di un periodo storico talmente cupo e scellerato che, nel corso del tempo, dopo aver dato una mano di vernice patriottica sui valori della Resistenza con l’obiettivo di annullare i valori di giustizia sociale che l’avevano animata, le narrazioni impegnate nel racconto e nell’analisi del fascismo hanno finito per rinchiudere gli anni di Mussolini all’interno di un paradigma dominato dall’eccezionalità: una parentesi senz’altro sconvolgente ma, a causa delle particolari condizioni che provocarono l’emersione del fenomeno, senz’altro irripetibile… ma è ancora possibile, oggi, accettare una simile visione delle cose?

Il 16 febbraio del 2014, Giogio Napolitano, nella veste di presidente della Repubblica, senza che il suo atto fosse suffragato da una qualche forma di consenso elettorale, prendeva atto della sfiducia ricevuta da Enrico Letta dalla direzione del suo Partito e conferiva l’incarico di formare un nuovo governo a Matteo Renzi, classe 1975, famoso per aver guidato un movimento detto “dei rottamatori” all’interno del Partito Democratico e per i discorsi pronunciati in manica di camicia… bianca: una sorta di divisa informale, da quel momento in poi adottata immancabilmente da tutti i sostenitori dell’ex sindaco di Firenze, non a caso detti “renziani”.

Se il vecchio Napolitano, novello Vittorio Emanuele III, guadagnava il soprannome di “Re Giorgio” grazie a un decisionismo più consono al vecchio regno d’Italia che non a una vera repubblica parlamentare, gli atti del nuovo governo Renzi non sono da meno e, immediatamente, si caratterizzano per un approccio a dir poco insofferente rispetto a quanto previsto dagli stessi dettami costituzionali.

In modo particolare, il governo Renzi si distingue per l’uso massiccio e disinvolto dello strumento del decreto legge: un dispositivo a cui l’articolo 77 di quel pezzo di carta straccia una volta chiamato Costituzione affida il ruolo di avere «effetto di legge» in frangenti di particolare necessità e gravità. Al contrario, e quindi contravvenendo alla stessa Costituzione, Renzi e i suoi ministri aggrediscono a colpi di decreti qualunque settore della vita pubblica e civile: dal lavoro, grazie al Jobs Act firmato da Poletti (DL n. 34 del 20 marzo 2014), alla cultura, con il decreto di Franceschini (DL n. 83 del 31 maggio 2014), fino ad arrivare alla casa grazie all’«interessamento» dello spietato Maurizio Lupi, oggi costretto alle dimissioni e sostituito dal fedelissimo di Renzi Graziano Delrio a causa del suo coinvolgimento in una brutta storia di tangenti e raccomandazioni, eppure confermato a suo tempo alle Infrastrutture e ai Trasporti anche dopo la defenestrazione di Enrico Letta.

Fatto passare con il tranquillizzante nome di «Piano-casa», il Decreto Lupi (DL n. 47 del 28 marzo 2014) reca il titolo di Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015 e, pur considerando: «L’attuale eccezionale situazione di crisi economica e sociale che impone l’adozione di misure urgenti volte a fronteggiare la grave emergenza abitativa in atto», e: «La necessità di intervenire in via d’urgenza per far fronte al disagio abitativo che interessa sempre più famiglie impoverite dalla crisi e di fornire immediato sostegno economico alle categorie meno abbienti che risiedono prevalentemente in abitazioni in locazione», finisce per sferrare un attacco senza precedenti a chi, nel corso degli anni, ha rappresentato l’unica, vera risposta al disagio abitativo, vale a dire i Movimenti per il Diritto all’Abitare. In che modo?

La pietra nello scandalo è contenuta nell’articolo 5. Dove, alla voce «Lotta all’occupazione abusiva di immobili», si afferma senza mezzi termini che: «Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge». Tradotto in parole semplici, Lupi e il suo decreto pretendono di spingere nell’invisibilità e di escludere da ogni forma di welfare chiunque abbia preso parte a un’occupazione abitativa e/o viva in una casa occupata. Al di là dei previsti distacchi di acqua e luce, misure contrarie ai più elementari diritti umani più che agli stessi diritti politici di qualunque cittadino, privare una famiglia della residenza, nei fatti, rende impossibile anche produrre i semplici certificati Isee e, di conseguenza, rende impossibile, o comunque molto difficile, iscrivere i bambini alle scuole. Ancora, senza residenza, si incontrano difficoltà nell’accedere ai servizi di medicina di base e, essendo questa parametrata su base circoscrizionale, priva persino dell’assistenza domiciliare i disabili che ne hanno diritto. Una vera e propria operazione di macelleria sociale, insomma. Resa ancora più crudele dagli articoli 3 e 4, con cui si facilità lo smantellamento dell’edilizia residenziale pubblica attraverso la messa in vendita degli stessi alloggi popolari che il decreto pretenderebbe di tutelare!

Eleanor Roosevelt la Dichiarazione universale dei diritti umani
Eleanor Roosevelt con la Dichiarazione

Con la conversione in legge del Decreto Lupi, il governo Renzi, tra le altre cose, si assume la responsabilità storica di andare a infrangere persino la Dichiarazione universale dei diritti umani; uno di quei pezzi di carta – sottoscritto in pompa magna a Parigi nel 1948 – spesso sbandierati di fronte all’opinione pubblica se si tratta di vantare la presunta superiorità occidentale o, magari, di “esportare” la democrazia a suon di bombe, ma che nell’Italia guidata dal Partito Democratico è contraddetto senza mezzi termini. Come viene affermato dall’articolo 25 della Dichiarazione, infatti: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo (…) all’abitazione”.

Eppure, se il governo Renzi ha avuto modo di svelare la sua vocazione liberticida anche sui provvedimenti che sono andati a interessare settori nevralgici come la Scuola e la Legge Elettorale, la natura apertamente fascista della legge sulla Casa è confermata dalla vergognosa continuità storica tra il Decreto Lupi e la famigerata Legge 1092 del 6 luglio 1939, comunemente detta «legge contro la residenza» o «contro l’urbanesimo», che, nei fatti, aveva trasformato gli immigrati italiani in soggetti privi di qualunque diritto – dalla possibilità di iscriversi alle liste di collocamento a quella di ricevere assistenza sanitaria, fino all’esclusione dalle liste elettorali – e, per questo, esposti a qualunque ricatto anche in tema di salario e condizioni lavorative.

Come tante altre cose, la legge contro la residenza, non soltanto non venne abolita dal nuovo regime democratico, ma rappresentò una sorta di leva con la quale fare della povertà, più che una questione sociale, un problema di ordine pubblico. In questo modo, chiunque si fosse trovato a vivere una condizione di emergenza abitativa veniva semplicemente fatto sparire, smettendo, grazie al provvedimento, di esistere dal punto di vista legale e, di conseguenza, di non poter pretendere un giusto compenso da parte del datore di lavoro né di rivendicare il diritto alla casa.

Una situazione scandalosa, una vera e propria ferita aperta nel paesaggio democratico italiano ma anche, in passato, il territorio sul quale fu possibile cogliere un’importate vittoria. Il 10 febbraio del 1961, infatti, dopo anni di lotte e mobilitazioni che non mancarono di costare denunce penali e feriti in piazza, veniva finalmente abrogata la norma fascista che limitava il diritto alla residenza. Fu un successo epocale e testimoniò una maturità politica che, ancora oggi, merita di essere sottolineata. Che fosse possibile, infatti, condurre in porto una battaglia unitaria ricomponendo all’interno di un interesse di classe le spinte centrifughe che, strumentalizzando la paura della concorrenza tra lavoratori, ostacolavano, anche da sinistra, la liberalizzazione delle residenze, era un fatto tutt’altro che scontato. Per arrivare a tanto, evidentemente, fu determinante la spinta delle proteste popolari, ma anche l’intelligenza e la perseveranza di alcuni tra i migliori dirigenti del Partito Comunista e delle associazioni collegate alla sinistra istituzionale. Oggi, che con l’articolo 5 del Decreto Lupi si torna a calcare i passi già seguiti dal fascismo, abrogando il principio della libertà di residenza conquistato a prezzo di lotte molto dure, lo si fa con un governo guidato dal Partito Democratico, ma anche con l’indegno silenzio delle stesse associazioni egemonizzate dal PD, a cominciare dall’Anpi, a cui in passato l’identico provvedimento aveva fatto orrore.

Parliamo, evidentemente, di altri tempi e di personaggi di ben altra caratura morale rispetto alle mistificazioni odierne. Ma, allo stesso tempo, descriviamo una situazione in cui l’impostazione dittatoriale del governo Renzi riesce, grazie all’azione di polizia, ad arrivare anche dove i poteri locali sono costretti a cedere di fronte allo scandalo di famiglie lasciate senza acqua e senza luce dalla legge formulata dall’inquisito ex ministro Maurizio Lupi.

Da questo punto di vista, un altra data da segnalare sul calendario dell’orrore è quella del 7 luglio del 2014 quando, a Bologna, si apprende dell’apertura di: “Un’inchiesta contro il riallaccio dell’acqua all’occupazione abitativa di via Mario de Maria ordinata dal sindaco Merola lo scorso 23 aprile”; una situazione resa ancora più grave, come denuncia in un comunicato la bolognese Assemblea Occupanti e Comitato Inquilini Resistenti con Social Log, dal fatto che: “Solo poche settimane fa anche la vice-presidente Gualmini della regione Emilia Romagna, a seguito di un tavolo di contrattazione sulle nostre istanze di lotta, ha garantito pubblicamente l’indisponibilità a recepire l’articolo 5 all’interno del piano casa regionale”.

Ciò che accade è che anche dove, a livello locale, si tenta una mediazione istituzionale rispetto alle contraddizioni aperte dalla legge nazionale, è il potere centrale a intervenire in senso oltranzista, sbandierando un ridicolo vessillo di “legalità” e affidando il ripristino dell'”ordine” alla magistratura e alla polizia. Non è facile evitare di vedere in un simile modo di procedere, oggi particolarmente evidente nel caso bolognese, una strategia da intendere come prassi del governo Renzi: ridurre gli organi del potere periferico a puri fantocci, dominati nei fatti da magistrati, prefetti e poliziotti scelti con cura tra i fedelissimi del Partito della Nazione e quindi piazzati nei posti ritenuti “giusti” dal nuovo Duce fiorentino.

Alla luce di simili considerazione, i valori dell’antifascismo trovano una compiuta necessità di dispiegarsi in forma diretta contro il Partito Democratico e le sue articolazioni. Mentre alle donne e agli uomini del PD ancora ciechi e sordi di fronte agli abusi compiuti da Renzi e dai suoi sgherri, ciechi e sordi di fronte al livello di violenza antipopolare di cui questo governo è colpevole; agli uomini e alle donne ancora organizzate all’interno di un Partito Democratico responsabile di scadere nell’abominio, insieme all’onta di essere detti senza mezzi termini fascisti e trattati come tali, non può che essere rivolto in forma di maledizione quanto scritto da Antonio Gramsci già nel 1917: “Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva (…). Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. (…) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

Dove comincia la Grecia? Dire NO significa organizzare la RESISTENZA o non significa nulla

Stiamo con la Grecia che dice NO.

Ma cosa succede davvero quando si dice NO?

Si è detto e si continua a dire NO in Val di Susa, per opporsi alla devastazione dell’Alta Velocità. E il risultato è stata la costruzione di un movimento di massa protagonista di una moltitudine di assalti ai cantieri della speculazione, episodi contraddistinti da generosità e coraggio, ma anche severamente puniti dall’apparato repressivo, attraverso leggi speciali e condanne esemplari. Per non parlare della violenza brutale della polizia.

Anche agli sfratti e agli sgomberi si dice NO. E si dice NO da tanto tempo, tutte le mattine, all’alba, formando picchetti che si oppongono all’abominio di famiglie con bambini piccoli buttati in mezzo alla strada a calci in culo dalla polizia. C’è un intero movimento che, in tutta Italia, si organizza per affermare concretamente il diritto all’abitare e per riprendersi ciò che affaristi senza scrupoli rubano in tutti i modi possibili e immaginabili. Anche, tra l’altro, concedendo alla polizia la licenza di manganellare senza pietà e di esplodere lacrimogeni ad alzo zero. I giudici vengono dopo le botte, ma non sono meno generosi dei poliziotti quando si tratta di dispensare misure restrittive e anni di galera.

Ancora, si è sempre detto NO allo sfruttamento sul lavoro, ed esiste la ferma intenzione di continuare a farlo. Insieme ai lavoratori della logistica, per esempio. Buttandosi sotto le ruote dei TIR quando si tratta di scioperare e ottenere il blocco delle merci. Resistendo ora e sempre alle feroci cariche della polizia…

Ecco: RESISTERE. Questa parola viene pronunciata raramente, eppure è di RESISTENZA che stiamo parlando quando si afferma la necessità di dire NO. Un NO senza RESISTENZA, infatti, non è una presa di posizione. Può essere un vezzo intellettuale, un modo per tenere buona la propria coscienza, un’opportunità per essere alla moda rispetto a idee di volta in volta assorbite dalla marea del politicamente corretto. Può essere tante cose un NO senza RESISTENZA. Perfino qualcosa di utile rispetto alla residua possibilità che ha l’opinione pubblica di influenzare scelte che vengono prese altrove… ma conta ancora qualcosa l’opinione pubblica?

Prendiamo una battaglia “democratica” come il referendum per l’acqua pubblica. La vittoria, teoricamente, ha arriso al NO alla privatizzazione, ma sono forse cambiate le cose? Oppure quel NO, spogliato dalla concretezza di una RESISTENZA, è stato bellamente ignorato da un processo di svendita dei beni pubblici che continua senza alcuna remora a violentare la volontà popolare?

E non è esattamente questo processo di svendita preteso dalle autorità economiche europee ciò che si sta mangiando la Grecia sempre più velocemente e che anche alle nostre latitudini non lascia alcuno spazio all’ottimismo?

La stessa situazione in cui è scivolato il governo Tsipras dopo aver acceso le speranze di molti, non sta dimostrando con la catastrofe economica scatenata dalle banche in Grecia come una reale alternativa vada organizzata prima di tutto sul piano materiale? Che non è una riforma o un accordo con i lupi della Troika ciò che risparmierà a interi popoli di sprofondare in quella barbarie così familiare alle bramosie del capitalismo?

Ma in ogni caso, se foste voi, qui o altrove, quei territori violentati dalle grandi opere inutili, dalle discariche e dalle trivellazioni; se foste voi quelle famiglie sfrattate o quei lavoratori ridotti alla fame, vi affidereste all’opinione pubblica? Sperereste in una riforma? Dareste importanza a qualche concessione padronale? E se oggi, in Grecia, fosse vostra la famiglia ridotta al prelievo massimo di 60 euro (i più fortunati!), quale credito sareste disposti a dare a un NO pronunciato altrove, con tanta indignazione, magari, eppure incapace di mettere in gioco alcunché?

La verità è che non è semplice sapere dove effettivamente inizi la Grecia. La Grecia è una metafora. E in molte case basterà alzare gli occhi verso lo scaffale dei libri e allungare una mano verso Omero o Platone per sprofondare in una cultura che è già nostra. Fuori da ogni metafora, però, la Grecia è ancora più vicina. Piange le lacrime dei bambini sfrattati ogni giorno e dei figli di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, vive le tensioni dei territori deturpati dalle grandi opere inutili e dannose o di un sistema-scuola ridotto al lumicino, manifesta lo scandalo del commercio di carne umana con i migranti accampati sugli scogli di Ventimiglia o, con i lavoratori della logistica, lotta senza tregua per rendere accettabile la propria condizione.

Non serve aspettare l’esito del referendum per schierarsi con la Grecia. Per strada, nelle piazze, le decisioni sono già state prese. La parola NO le riassume tutte.

Ma come sempre è stato sarà la RESISTENZA ad affermarle davvero mentre è nella RIAPPROPRIAZIONE che si nasconde il segreto di un’esistenza finalmente liberata dal ricatto della fame.

Tutto il resto sono chiacchiere che lasciano il tempo che trovano nel momento in cui, a servire davvero, sono parole finalmente degne di essere chiamate pietre.

Dante Di Nanni e il comandante Visone: dove vivono i partigiani?

La notte del 22 giugno, a Torino, un gruppo di ignoti si rende protagonista di un gesto infame e vigliacco. Con il classico favore delle tenebre viene stampato e affisso un volantino con il solo scopo di diffamare la memoria di Dante Di Nanni, eroe della Resistenza caduto a soli diciannove anni al culmine di un’azione antifascista in cui, cuore e fucile alla mano, sebbene gravemente ferito, seppe tenere in scacco per ore un nutrito corpo di camice brune e nere decise ad arrestarlo.

Dante Di Nanni, la storia secondo gli infamiNel volantino non ci si permette soltanto di chiamare Di Nanni “Er Monnezza” ma, con un operazione di revisionismo di bassa lega, viene spacciata una versione alternativa della storia del gappista piemontese, ovviamente con l’intento di sminuire la statura di Dante e di colpire chi, nel suo nome, continua a portare avanti i valori che furono alla base della vittorioso insurrezione popolare del ’45, data a partire dalla quale l’Italia diventa quella repubblica nata dalla Resistenza e, contemporaneamente, il paese in cui il sogno di una reale giustizia sociale diventa un’eredità scomoda, da eliminare dal consesso civile con ogni mezzo necessario.

a.dantedinanniTra i mezzi utilizzati per infangare il nome dei partigiani, infatti, il vergognoso volantino torinese è in buona compagnia: eserciti di storici revisionisti, da moltissimi anni, lavorano con l’unico intento di: 1) ridurre l’epopea partigiana alle imprese di una banda criminale (cfr. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, 2005); o, in subordine, di: 2) annacquare il nerbo garibaldino della Resistenza con storie di suore, preti e madri che fanno scudo con il proprio corpo ai loro figli per dare l’idea che il movimento partigiano fosse un affare di tipo nazional-patriottico e non un progetto di matrice social-comunista intenzionato a cambiare l’esistente (cfr. Aldo Cazzullo, Possa il mio sangue servire, 2015).

Tornando al volantino torinese, la mano che merita di ricevere qualunque punizione per aver osato riprodurre le fattezze di Dante con un naso da pagliaccio, si basa su una polemica vecchia e, in modo particolare, su un articolo di Nicola Adduci per “Studi Storici” ripreso nel 2012 da “La Stampa”. Secondo Adduci, Di Nanni non sarebbe stato ucciso al culmine di una sparatoria, ma colpito mentre cercava di nascondersi da una pattuglia di nazifascisti. Notizie storiche in contraddizione con quella che, per eccellenza, è la testimonianza sulla morte di Dante Di Nanni, resa dal comandante Visone, al secolo Giovanni Pesce, nei libri Soldati senza uniformeSenza tregua. Come afferma il Comandante:

“Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l’ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola; da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L’ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c’è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio”.

Il comandante Visone
Il comandante Visone

A partire da queste parole, l’operazione di cui si fa portavoce il diffamatorio volantino torinese, non attacca soltanto Dante Di Nanni, ma lo stesso comandante Visone, venuto a mancare nel 2007 ma a lungo depositario, nonché difensore infaticabile, della memoria viva dei GAP piemontesi.

Al confronto con la levatura morale dei personaggi citati è evidente che le parole di chi ha bisogno di nascondersi nel buio per blaterare le sue diffamazioni hanno un valore pari alla dignità dei loro autori, quindi zero. Eppure, da tutta la vicenda, emerge una situazione che non tira in ballo soltanto il discorso sul trionfante revisionismo foraggiato dal mainstream italiano ai danni della Resistenza ma che, più modestamente, aiuta anche a fare i conti rispetto a cosa significa fare editoria oggi, almeno per conoscere meglio i soggetti a cui una parte importante della memoria del Paese viene affidata. Perché due importanti libri di Giovanni Pesce, vale a dire il citato Senza tregua insieme a Quando cessarono gli spari, fanno parte del catalogo Feltrinelli: una scelta editoriale che, evidentemente, è frutto di tempi molto diversi da quelli attuali. Infatti, rispetto a quanto accaduto a Torino, quale è stata la reazione della casa editrice di Milano?

Difficile dirlo con esattezza, eppure visitando la pagina FB di Giangiacomo Feltrinelli Editore, l’unica notizia reputata degna di nota il 23 giugno riguarda la visita del ministro Dario Franceschini alla sede dell’azienda di Inge Feltrinelli… strana coincidenza, ma considerando il ruolo del “Partito della Nazione” a cui appartiene lo stesso ministro nel percorso di revisionismo storico appena descritto, la domanda non è più “perché dalla Feltrinelli nessuno prende parola per denunciare la vergogna del volantino torinese?” ma “cosa ci fanno i libri del comandante Visone in quella casa editrice?”.

Ci sarà modo senz’altro di tornare sull’argomento, che non riguarda la Feltrinelli, ma che ha a che fare con l’importanza di costruire approdi utili all’autonomia di classe per fare in modo che lo stesso patrimonio del movimento operaio sia ciò che è: memoria viva e non certo merce da catalogo; la semplice occasione di vendere qualche copia, utilizzare la Resistenza come una foglia di fico di fronte alla residuale opinione pubblica (di lettori forti!) indisponibile a liquidare le vicende della guerra di Liberazione e poi non avere né le risorse culturali né gli interessi necessari a difendere autori e opere pubblicate.

Da questo punto di vista non c’è molto altro dire. Meno male, però, che Soldati senza uniforme non è un libro della Feltrinelli, essendo stato pubblicato proprio quest’anno dalla Red Star Press.

Dante Di Nanni: la targa commemorativa

Il carabiniere di Desenzano sul Garda: street art is not dead

Il carabiniere di Desenzano sul Garda

Quando tutto sembrava perduto. Mentre il segno dirompente della street art appariva sul punto di soccombere di fronte al duplice attacco scatenato sui ribelli dell’arte dall’apparato repressivo e dalle logiche dei benpensanti, da Desenzano sul Garda i teppisti dimostrano di avere ancora molte frecce nel loro arco e, con il favore delle tenebre, realizzano questo capolavoro, ficcando la colonnina dell’autovelox sopra la testa di un milite di bronzo, posato tra le strade della cittadina lombarda dallo zelo dell’Associazione Nazionale Carabinieri.

Gli storici dell’arte e i critici più attenti ammirano basiti il lavoro degli ignoti artisti. C’è chi sottolinea, soffermandosi sulla cappa di metallo calata sul volto bronzeo del militare, l’efficacia della rappresentazione dell’eterna lotta tra la “legalità” istituzionale e la “giustizia” popolare. Altri si spingono ancora oltre e affermano, analizzando l’opera, di come attraverso l’istallazione si sia voluto condensare un “non vedo – non sento – non parlo” a cui, come le celebri tre scimmiette con le mani sulla bocca, gli occhi e le orecchie, le forze dell’ordine si sarebbero votate, evitando di prendere qualunque posizione diversa da una presunta necessità di obbedire agli ordini a prescindere da ogni logica di umanità o buon senso.

Tutti, in ogni caso, sono concordi nell’affermare come da Desenzano sul Garda arrivi la necessità di affermare il senso autentico dell’arte di strada: quello di spezzare il monopolio dei significati detenuto dalle classi dominanti per imprimere sui muri e sugli arredi urbani un senso alternativo che, instancabilmente, ricorda come un altro mondo sia non solo possibile ma necessario.

Li chiameranno eroi. Gli sgomberi di Tiburtina e Ventimiglia, il movimento reazionario di massa e le forze di polizia

Non ho mai avuto familiarità né simpatia per quel mondo in divisa che, organizzato gerarchicamente, affronta in prima persona gli affari definiti «militari». Eppure ho cercato sempre di interessarmene, convinto che non sia affatto il caso che, a sinistra, si rinunci a costruire un punto di vista anche in tema di armamenti, esercito e ordine pubblico: a partire dalla fine della seconda guerra mondiale il fronte – rigorosamente interno – su cui le forze armate e le loro articolazioni vengono impegnate con maggior rigore.

Malgrado non siano mancati, infatti, i territori sui quali dislocare truppe con le scuse più fantasiose (una su tutte: la «missione di pace»), è proprio pensando alla popolazione civile, al suo contenimento e alla sua repressione che, oggi, tendono a essere organizzati gli uomini e i mezzi a disposizione tanto del ministero della Difesa quanto di quello degli Interni. Uomini e mezzi che, al di là delle loro classificazione, e quindi che si parli di esercito, polizia, carabinieri o guardia di finanza, rispondono in ogni caso a una logica di tipo militare, ereditando da questa sia il potenziale offensivo che un certo sistema di valori, a cominciare dal modo in cui considerare, e quindi affrontare, il proprio nemico.

I vecchi soldati, per esempio, utilizzavano l’espressione «il campo dell’onore» per definire il servizio nelle forze armate. E se l’onore poteva essere tirato in ballo anche al cospetto della bassa macelleria delle passate guerre «tradizionali», ciò riusciva in virtù di un’idea di nemico inteso come soggetto da abbattere ma, al tempo stesso, da rispettare. Una controparte speculare alla propria, all’interno della quale poteva anche succedere di identificare se stessi. A rendere «onorevole» lo scontro subentrava l’idea di un avversario in grado di nuocere e con il quale il confronto si giocava disponendo di una capacità offensiva perlomeno paragonabile: dove i rapporti di forza risultano sproporzionatamente a favore di una delle due parti in causa, infatti, non può esserci nessun onore.

Da quando il principale nemico dei militari viene pensato non più in divisa ma in abiti civili, il discorso sull’onore si è fatto complesso. Quando un poliziotto sgombera una casa occupata, per esempio, picchia selvaggiamente donne, vecchi e bambini; come può pensare a se stesso in termini di onore?

E in questi giorni, mentre le nostre forze dell’ordine, alla stazione Tiburtina o a Ventimiglia, si lanciano all’inseguimento di mamme con i lattanti tra le braccia e prendono a schiaffi uomini inermi, come si riesce a instillare tra la truppa quel discorso sull’onore che ha sempre avvallato le atrocità connesse all’attività militare?

Sono domande come queste, in fondo, che stimolano lo studio e l’osservazione di chi porta la divisa, dei suoi codici, dei suoi comportamenti. Perché nella realtà non esiste un confine a partire dal quale ciò che è di pertinenza civile diventa invece una competenza militare. Al contrario, i militari stanno iniziando a mettere in pratica quello che viene costruito da ormai molto tempo nella vita di tutti i giorni: un processo di despecificazione morale e fisica di categorie di «nemici» in realtà molto antiche, ma mai come ora oggetto di un simile odio. Non passa giorno, infatti, in cui su tutti i giornali e in televisione non vi sia una serrata propaganda riservata ai migranti: Rom, rifugiati politici, persone in fuga, non si fa alcuna differenza. Ciò che viene seminato ha a che fare con l’ordine pubblico e con l’invocazione di misure sempre più draconiane per far fronte all’«emergenza» o, come dicono molti usando non a caso un termine militare, con l’«invasione». Allo scopo si mettono in circolazione notizie false (una fra tutte: la bufala degli 80 euro al giorno incassate dai migranti) e gli episodi di cronaca nera vengono ingigantiti a dismisura (come è stato fatto con i pirati della strada di Primavalle): sullo sfondo c’è una gravissima crisi economica, e anche questa viene strumentalizzata per sostenere come la via d’uscita consista nel limitare i diritti di chi viene da fuori, senza considerare come simili provvedimenti finiranno per abbattersi sulla vita di chiunque. Ecco, intanto, un «nemico interno» pronto per l’uso: talmente demonizzato da aver perso le sue prerogative umane agli occhi di chi lo guarda; così pericoloso da far apparire come «bravi ragazzi» le truppe di squadristi che si muovono ai suoi danni con il beneplacito dei regolari corpi di polizia (è accaduto anche a Ventimiglia!). Un soggetto talmente pervasivo e ramificato da chiamare in causa immediatamente altri «demoni» da abbattere: dai migranti agli occupanti di case e da questi agli attivisti dell’opposizione sociale il passo è breve. Non più lungo, a ben vedere, da quanto ancora impedisce alla coscienza di una pericolosa maggioranza silenziosa di sfociare in un movimento reazionario di massa di tipo fascista. Quello stesso movimento reazionario di massa che, per gli sbirri bravi a spaccare la testa di persone disarmate, ha già in serbo il nome di «eroi».

Mafia Capitale: il film che non piacerà al Partito della Nazione

Guardo pochissima televisione. E non sono di tipo ideologico le questioni che mi tengono lontano dal piccolo schermo. Ma il fatto è che, con il suo corollario di situazione comoda e luce soffusa, per me la televisione significa prima di tutto sonno, a prescindere dall’interesse che possa nutrire per un determinato film o programma.

Al contrario, di natura squisitamente ideologica è l’avversione radicale che nutro nei confronti della televisione a pagamento. Non solo, infatti, Sky non mi ha mai avuto né mi avrà mai, ma non sono neppure poche le polemiche da pianerottolo in cui, con i miei vicini paytvdotati, ho sostenuto la tesi luddista secondo la quale l’unica televisione a pagamento buona è quella eventualmente ottenibile con una scheda criptata o altri mezzi pirata. Prima di tutto perché, veicolandosi attraverso l’etere o dipanandosi grazie a cavi ospitati dal sottosuolo, qualunque segnale televisivo utilizza per esistere l’aria e la terra, beni che in nessun caso mi sono mai immaginato di privatizzare; e in secondo luogo perché reputo la televisione a pagamento responsabile di quella grande confusione in cui è precipitato il «mondo di sotto» al quale appartengo, capace persino di scegliere di pagare il proprio intrattenimento a prezzo di rinunce fatte scontare ad alcune tra le tante cose, decisamente più belle, messe a disposizione dalla vita. Ogni volta che un abbonamento Sky viene sottoscritto, c’è un viaggio che muore; una giornata al mare da regalare alla propria famiglia in meno; una cena romantica perduta; una colossale sbornia in giro per locali con gli amici a cui si rinuncia a partecipare; libri, dischi e ogni altra sorta di occasioni ludiche e formative sottratte a se stessi per prendere parte in modo isolato a ciò che viene venduto come un’irrinunciabile esperienza collettiva, che si tratti di una finale di champions legue o di un kolossal trasmesso in prima visione.

Per questa ragione, qualche sera fa, trovatomi a casa solo e pensieroso e volendo sfogare questa solitudine e questi pensieri, mi sono seduto sul divano e ho acceso la televisione, sintonizzandomi sul canale pubblico chiamato «Rai Movie». In modo pressoché immediato, complice l’ora tarda, gli occhi hanno cominciato a chiudersi da soli, precipitandomi in uno stadio in cui facevo qualche difficoltà a capire se stavo dormendo, e quindi sognando, o se era il film in programmazione a mostrarmi ciò che comunque, a un certo punto, vedevo.

Occorre precisare che mi trovavo tipo in quarta serata, e che quindi il palinsesto del mio canale Rai stava raschiando il barile del suo magazzino-titoli offrendo un qualche B, C o D-Movie di cui non ricordo il titolo ma soltanto qualche pezzo di trama, simile, credo (non sono mai stato un cinefilo, ed è già tanto che non scriva «cinofilo»…), a decine di altri film simili. Un film dove, a un certo punto, una qualche accusa terribile viene lanciata da un gruppetto di cospiratori malvagi contro un innocente; con l’innocente che, smessi i panni del buon padre di famiglia e/o del marito affettuoso, lavoratore serio ed esemplare, si trasforma in una sorta di macchina da guerra per smentire le bugie di cui è vittima. Sottraendosi alla cattura da parte della polizia, allora, l’eroe in questione si munisce di armi da fuoco che inizia a usare senza risparmio, sgominando decine di cattivi o presunti tali. Alla stessa maniera, ingaggiando inseguimenti a rotta di collo con i tutori dell’ordine, provoca incidenti terrificanti, con TIR che sbracano negozi e automobili che volano tra i ponti. Dopo essere passato anche per gli esplosivi e le bombe a mano per trovare gli argomenti utili a dimostrare la propria innocenza, questo eroe riesce effettivamente nell’intento: non è colpevole di nulla, ma sono stati i cattivi, magari pure con qualche talpa nella polizia, a fabbricare le prove per incastrarlo; ora che tutto è chiaro non gli resta che ricevere calorose pacche sulla spalla insieme alle scuse ufficiali. I morti, i feriti, le devastazioni che ha provocato non contano più nulla: era suo diritto difendersi; raggiunto lo scopo, può tornare alla sua casa, dove c’è una moglie bellissima che lo aspetta, e sprofondare nuovamente nelle sue abitudini quotidiane.

Nemmeno il tempo di assaporare il finale di questo anonimo film, che, grazie al ponte d’oro costruito per me dal sonno, a scorrere sullo schermo sono le notizie del telegiornale. Si parla di Buzzi, di Carminati, di Mafia Capitale…

L’annunciatrice, con fare compunto, snocciola i dati forniti dalla magistratura: tot arresti, tot avvisi di garanzia, tot dimissioni di uomini politici delle più disparate appartenenze di partito eccetera eccetera. Di fronte a un’assenza, però, mi pare di tornare lucido e, all’improvviso, di non avere più sonno, ma, al limite, sempre e comunque voglia di sognare.

L’assenza, in questo come tutti gli altri spacci di notizie riguardo a Mafia Capitale, riguarda la domanda più importante, vale a dire: da dove, tutto questo, è cominciato?

Ebbene, il terreno di questa nuova generazione affaristico-criminale è quello, drammatico (non certo per loro), dell’emergenza abitativa, nella sua doppia veste di fenomeno di impoverimento generalizzato, con conseguenza perdita della casa e/o del reddito necessario a mantenersi un tetto sopra la testa, e di business dell’accoglienza, con particolare riferimento ai migranti e, in modo particolare, ai richiedenti asilo e a coloro che hanno acquisito lo status di rifugiato politico.

Si tratta, come è ovvio, di due facce dell’identica medaglia: la morte, avvenuta in Italia, di qualunque politica dedicata all’edilizia residenziale pubblica, con il conseguente azzeramento nella disponibilità di case popolari, a cui peraltro i rifugiati avrebbero pieno diritto (lo afferma, parlando di legalità, la Convenzione di Ginevra, sottoscritta dall’Italia nel 1951).

A parlare sono i numeri. In una città come Roma, l’incidenza dell’edilizia popolare sul patrimonio immobiliare è ferma oggi al 3%, ben quattro punti percentuali in meno rispetto a quanto toccato una trentina di anni fa, ma comunque ben lontano dalla media europea, che assegna alle case popolari valori intorno al 12%. Parliamo, in questo caso, di metropoli come Londra o Berlino, cioè di templi del capitalismo avanzato e non certo di paradisi del socialismo reale. Infatti è proprio in questa macroscopica differenza che si consuma la natura mafiosa del regime italiano. L’attacco alle case popolari, non a caso, è funzionale sia a drogare il mercato immobiliare a vantaggio di una cricca di palazzinari e di operatori del business finanziario della cartolarizzazione (la pratica di trasformare in cedole dal valore arbitrario quote di proprietà immobiliari: do you remember la crisi dei mutui subprime?) e, contemporaneamente, di un sottobosco travestito da cooperazione sociale (Buzzi&Co. sono solo la punta dell’iceberg) e pure verniciato di sinistra (o di solidarismo cattolico), interessato a rendere sistemica l’emergenza per continuare a fare affari affittando al comune per qualcosa come 2000 euro al mese ognuno i loculi in cui vengono intubate le famiglie ridotte a vivere in strada dopo aver perso lavoro e casa con la crisi.

a.timthumbIl sogno, di fronte a una simile situazione, è quella di una massa brutta, sporca e cattiva, in grado di coagularsi per scagliarsi compatta contro i suoi affamatori armata di un simbolo nuovo e antico allo stesso tempo: un bel palo appuntito; uno di quei semplici attrezzi utilizzati per somministrare il connesso supplizio dell’impalatura; ultimo mezzo di dissuasione per la congrega di politici corrotti e per tutti i corpi intermedi che hanno edificato il peculiare sistema di sfruttamento italiano, mafioso perché incapace di tenere conto persino di quel minimo di welfare altrove somministrato per tenere basso il conflitto sociale…

Sempre sul divano, ormai in stato di trance per colpa della micidiale accoppiata sonno-telegiornale, non mi restava che assaporare un’altra notizia. Pare, infatti, che a Roma bisognerà starsene belli tranquilli, visto che papa Francesco I avrebbe deciso di proclamare il Giubileo…

L’idea è fantastica. Tant’è che già si parla di approfittarne per imporre il divieto di scioperare e di manifestare per non disturbare i necessari lavori, e poco importa se questi lavori toglieranno ulteriori risorse a ciò che spetterebbe all’emergenza abitativa: il modello Expo lo ha già insegnato, l’importante è accaparrarsi un posto da volontario – rigorosamente non pagato – con cui fregiare il proprio curriculum, per tutto il resto (nuove speculazioni immobiliari, colate di cemento ovunque e azzeramento di vigilanza grazie a qualche commissario a cui conferire poteri speciali) c’è Mafia Capitale; a cui sarebbe davvero più corretto togliere ogni connotazione etnica per iniziare a parlare compiutamente di Mafia Nazionale, e non certo per riferirsi alle organizzazioni vecchio stile di picciotti siciliani o calabresi, ma al Partito della Nazione, dove un simile sistema ha trovato la sua degna consacrazione… a che cosa è servito, altrimenti, il decreto con cui il fu ministro Lupi ha stabilito di privare della residenza chi vive in stabili occupati e di vendere le case popolari?

Inutile specificare, rimpallando tra il film su Rai Movie e uno a piacere tra i telegiornali di regime, che a differenza di quanto accaduto al povero eroe ingiustamente calunniato, coloro che in questi anni hanno attaccato concretamente il sistema mafioso e il business dell’accoglienza, vale a dire i militanti dei Movimenti per il Diritto all’Abitare, non si sono mai visti rimettere tutti i reati di cui sono stati accusati: dalla resistenza aggravata all’invasione di edificio, ogni denuncia è restata al suo posto, e giorno dopo giorno dispensa misure restrittive e anni di galera. È proprio qui, però, che l’idea di papa Francesco potrebbe rivelarsi davvero geniale, almeno per quella massa brutta, sporca e cattiva comparsa a un certo punto del sogno o della visione con tanto di palo appuntito in testa. L’idea di lanciare un grande, autentico Giubileo popolare. Come è stato scritto:

Secondo l’Antico Testamento il Giubileo portava con sé la liberazione generale da una condizione di miseria, sofferenza ed emarginazione. Così la legge stabiliva che nell’anno giubilare non si lavorasse nei campi, che tutte le case acquistate dopo l’ultimo Giubileo tornassero senza indennizzo al primo proprietario e che gli schiavi fossero liberati.

Adattando ai giorni nostri una simile prospettiva, il programma del prossimo Giubileo dovrebbe contemplare:

  • L’azzeramento di tutti i debiti nei confronti di Equitalia;
  • La regolarizzazione a tempo indeterminato di tutti i contratti atipici insieme a quella di tutti i lavoratori precari;
  • La nazionalizzazione di tutte le imprese che, in regime privatistico, erogano servizi utili alla collettività;
  • L’amnistia generalizzata a favore dei prigionieri dello stato italiano attualmente in carcere;
  • E, naturalmente:

La requisizione immediata di tutto il patrimonio immobiliare sfitto, direttamente proporzionale ai numeri dell’emergenza abitativa nonché sola misura in grado di fare fronte allo stato di crisi e di debellare Mafia Capitale o Nazionale che dir si voglia.

In alternativa, l’unica soluzione per combattere concretamente i mafiosi saldamente in sella è, come sempre, quella di occupare tutto. Espropriare gli espropriatori per tornare a disegnare una prospettiva di classe che è anche una prospettiva di salvezza rispetto alla barbarie che ci attende dietro l’angolo di un capitale boccheggiante e per questo feroce nella sua pretesa ristrutturazione. Occupare tutto, dunque. Per togliere di mezzo il mondo di sopra. E perché non si sta parlando di un film, ma della vita reale. L’unico ambito in cui, collettivamente, è decisivo tornare a ritagliarsi un ruolo da protagonisti.

Il 15 ottobre di Davide Rosci: tra repressione e dissociazione, note sul come e sul perché della galera oggi

Non lo so se è stato il destino a stabilire la data e l’ora di quanto accaduto per costringermi a riflettere. Di sicuro ciò che poteva succedere in un altro momento si è verificato ieri, sabato 6 giugno, mentre mi trovavo nella Sala da The di Porto Fluviale Occupato, a Roma, per partecipare alla presentazione del libro “Parole inarrestabili”, il volume curato da Matthias Moretti e dedicato alle lettere scritte dal carcere dai militanti italiani. I relatori non avevano neppure iniziato a parlare che da Teramo mi arriva un messaggio. Poche, spietate parole per dire: «Davide è stato arrestato e sta venendo portato in carcere. Di nuovo».

a.davide-rosciMi è crollato il mondo addosso. Davide, per chi non lo conoscesse, è Davide Rosci: antifascista teramano arrestato una prima volta per i fatti del 15 ottobre 2011, quando una massa impressionante di persone si scontrò con la polizia in piazza San Giovanni nel nome dei troppi diritti bruciati sull’altare di una guerra contro i poveri che, da quel momento in poi, si sarebbe continuata ad abbattere sul Paese con durezza sempre crescente. Neppure nei momenti più duri del suo primo periodo di detenzione Davide ha smesso di far sentire la sua voce: lo testimoniano, tra le altre cose, proprio le lettere raccolte in «Parole in arrestabili», il segno tangibile di come né la galera, né i domiciliari abbiano impedito all’attivista teramano di continuare ad animare la lotta e di partecipare attivamente al dibattito sui diritti e la giustizia sociale.

Quello che è accaduto ieri, quando Davide è stato nuovamente tradotto in carcere, da un punto di vista tecnico riguarda il cumulo di vecchie condanne incassate in virtù dell’antifascismo militante scelto come vessillo dalla sua adorata curva teramana. Ma intanto pesa su di lui anche la sentenza della Cassazione e la conferma, decisa dei giudici, della condanna a sei anni, già incassata da Rosci nel momento in cui veniva riconosciuto colpevole del reato di «devastazione e saccheggio». Un argomento su cui è lo stesso Davide a intervenire attraverso la sua pagina Facebook, facendo il punto sulla situazione in cui versa una parte importante degli imputati del 15 ottobre e richiamando chiunque operi, viva e pensi in un ambito ancora definibile come “di sinistra” a dare concretezza ai valori della solidarietà:

Il girone dantesco dove sono finito pare essere per il momento senza uscita. Ieri infatti la corte di Cassazione ha confermato per me, Mauro e Cristian le pene stabilite dalla corte d’appello mentre per Marco è stata annullata la sentenza e rimandata in secondo grado. Di questo festeggiamo. C’è poco da dire e purtroppo nulla da fare quindi per il momento l’unica cosa su cui soffermarsi è riflettere su ciò che è stato e organizzarsi su ciò che sarà. A livello politico giovedi ho fatto una piccola analisi e penso che di più non vada detto mentre a livello umano e personale per me da ora sarà tutto diverso. A breve la condanna passerà definitiva e le prospettive sono o tornare dentro oppure trovare un lavoro stabile e sperare che non mi rompano ulteriormente il cazzo. Le porte, per uno che come me è uscito dal carcere, non sono di certo spalancate quindi approfitto di questo post nella speranza di trovare qualche anima pia, che si imbatte nel leggere queste righe, di tenermi presente qualora venisse a conoscenza di un qualsiasi impiego. Penso di aver dato tutto alla causa e spero di poter dare ancora tanto ma per il momento devo restare lucido ed evitare di diventare carne da macello. Nonostante tutto e tutti sempre a testa alta e con il sorriso sulle labbra. Passerà anche questo…

a.davide2_16447_10200140132423331_814482995048554580_nPer chi fosse ancora all’oscuro della piega profondamente reazionaria su cui si sta avvitando l’Italia del Partito della Nazione di Matteo Renzi, l’imputazione di «devastazione e saccheggio» è un residuo del fascista Codice Rocco, una norma ereditata dall’ordinamento repubblicano e, da Genova 2001 in poi, malgrado fosse nata per fronteggiare uno scenario di tipo militare, usata sistematicamente per annichilire l’espressione del dissenso politico, trasformando la realtà di reati minori, come per esempio il danneggiamento di una vetrina, in condanne esemplari: «Vale più una vetrina rotta o una vita spezzata?», ci si è chiesti tante volte riflettendo su un omicidio come quello di Carlo Giuliani, restato sostanzialmente impunito mentre dall’altra parte della barricata si andavano sprecando gli anni di galera.

Oggi, però, la domanda da farsi è un’altra, per cercare intanto di capire come mai, anche a fronte di una conflittualità sociale imparagonabile ai livelli del passato, la stretta repressiva si fa sempre più forte. Ed è inevitabile, tentando un’analisi degli scenari in corso, che una simile domanda rischi di lasciare l’amaro in bocca. Perché se carcere e repressione possono essere, come sono sempre stati, il corollario con cui la grande proprietà affronta le fasi di ristrutturazione del Capitale (condizioni esistenziali e lavorative sempre più dure producono fenomeni di insorgenza diffusi anche se non sempre organizzati), dall’altro lato della barricata ciò che accade non può essere liquidato semplicemente bestemmiando contro giudici, padroni e poliziotti vari, ma riguarda tutte e tutti noi. Quello che succede se e quando si spalancano le porte del carcere, infatti, riguarda in modo assolutamente diretto la solidarietà che si costruisce fuori e dentro l’istituzione repressiva, e chiama in causa in maniera ancora più importante un altro concetto: quello di unità.

Ora che la condanna per Davide Rosci è andata definitiva, infatti, diventa complicato smettere di ricordare ciò che successe all’indomani del 15 ottobre del 2011, quando a sinistra – o in una «certa» sinistra – si fece a gara per dissociarsi, stigmatizzare e, superando persino giudici e poliziotti, condannare senza alcun processo i protagonisti degli scontri. Tra i pezzi di cui la condanna di Davide in Cassazione è composta ci sono anche quelle dissociazioni!

Le stesse dissociazioni che, dopo il primo maggio, scegliendo di cadere nel tranello dei “buoni” e dei “cattivi”, non hanno mancato di vibrare contro la parte più conflittuale del corteo No Expo: un evento che, se è indubbiamente diverso rispetto al 15 ottobre (e d’altronde come possono, a distanza di anni, prodursi fenomeni uguali?), finisce per essere simile proprio nella volontà di molti di prendere le proprie distanza dalla massa, incuranti di come un simile atteggiamento – indegno umanamente prima che politicamente – sia il primo mandante di ciò che, portato poi nelle aule dei tribunali, si traduce in anni di galera. Il resto della partita, questo è evidente, è sempre in piazza che deve essere giocata: il terreno in cui i diritti continuano a conquistarsi a spinta e dove il conflitto costruisce attraverso la partecipazione la legittimità delle sue pratiche.

Altrimenti di cosa è che si parla quando si dice che per liberare tutt* occorre lottare ancora?

DAVIDE LIBERO! TUTTE E TUTTI LIBERI!

Per scrivere a Davide, indirizzare la corrispondenza a:

Davide Rosci – Casa Circondariale di Teramo, Strada Comunale Rotabile Castrogno, 64100 Teramo

La scuola dell’odio a Firenze

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Con la sua storia di lunga durata, la lotta per l’indipendenza della Palestina riflette prospettive di portata internazionale e spinge a riflettere sull’imperialismo a partire dai mutamenti a cui anche le strategie di dominio vanno incontro. A dimostrarlo, la preziosa testimonianza di Bruno Breguet raccolta nel libro “La scuola dell’odio. Sette anni nelle prigioni israeliane” (Red Star Press), al centro del dibattito organizzato venerdì 12 giugno con Cristiano Armati, curatore del volume, negli spazi del Centro Popolare Autogestito Firenze Sud (Via Villamagna 27/A).

*

Militante ticinese del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Bruno Breguet ha appena vent’anni quando, nel 1970, viene arrestato ad Haifa dalle autorità israeliane. Accusato di svolgere attività terroristica per conto del Fronte, Breguet viene percosso e torturato a lungo prima di essere trasferito nel carcere di Ramleh dove, per ben sette anni, rimarrà a disposizione dei suoi aguzzini, che riservano ai prigionieri politici i trattamenti più duri senza riuscire ad avere la meglio sulla determinazione con cui i militanti riescono a lottare perfino dietro le sbarre di una cella di sicurezza.
Nella prigione, Breguet continuerà la sua battaglia, rifiutando di scendere a patti con i servizi segreti e, in seguito, organizzando sommosse, preparando piani di evasione e tentando sempre e comunque di comprendere, attraverso lo studio, la natura dei mostri generati da una società divisa in classi nel contesto della guerra di conquista condotta ai danni della Palestina dall’imperialismo israeliano.

Leggi la postfazione di Cristiano Armati a “LA SCUOLA DELL’ODIO” >>