Piero Bruno: passione e morte di uno studente comunista

22 novembre, giornata storta. Il cielo grigio promette la pioggia e il vento se la prende con chi passa per le strade di Roma, quasi urlando che è meglio per tutti restare a casa. Ci sono giorni, però, in cui la libertà non accetta di restare casa. Non lo accetta l’8 giugno del 1960, tra Catete e Bengo, quando alla notizia dell’arresto di António Agostinho Neto una folla di sostenitori del Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola (MPLA) si mette in marcia reclamando il rilascio del loro leader. E non lo accetta nemmeno in Italia, il 22 novembre del 1975, mentre un corteo di duemila persone affronta il freddo intenso per chiedere a gran voce il riconoscimento dell’indipendenza della nazione africana, uscita vincitrice dal confronto con il regime coloniale portoghese.
L’8 giugno del 1960 l’esercito di occupazione del dittatore lusitano António de Oliveira Salazar aveva aperto il fuoco sulla folla ammazzando trenta persone. A Roma, quindici anni dopo, dalla testa del corteo che si snoda tra piazza Santa Maria Maggiore e piazza Navona si sgancia un gruppetto di giovanissimi militanti di Lotta Continua. I duemila che hanno preso parte alla manifestazione continuano a gridare slogan contro l’imperialismo e a salutare, nell’Angola di Neto, un altro paese in cui il marxismo ha consentito di portare al potere un rappresentante del proletariato. Le parole d’ordine della manifestazione sono musica per le orecchie dei ragazzi che imboccano via Muratori: lì, all’incrocio con largo Mecenate, c’è il cancello dell’ambasciata dello Zaire, uno Stato che attraverso il governo del feroce Mobuto sostiene per conto degli Stati Uniti le forze che si oppongono ai movimenti popolari in Africa centrale. Nell’animo di quel pugno di manifestanti c’è la volontà di andare oltre gli slogan e per questo, istruiti dal servizio d’ordine di Lc, alcuni giovani stringono tra le mani biglie d’acciaio e bocce piene di benzina, l’ingrediente necessario per portare a termine un’azione dimostrativa; una “fiammata”, come si diceva negli anni Settanta, da accendere in faccia ai nemici della Repubblica popolare dell’Angola per fare arrivare fino in Africa il rumore del Movimento e la sua solidarietà.
Idee ambiziose, quelle che girano per Roma il 22 novembre. Idee destinate a restare sull’asfalto. Perché quando il gruppo di ragazzi arriva a intravedere il portone dell’ambasciata dello Zaire si sente gridare: «Eccoli! Eccoli!».
Non c’è nemmeno il tempo di indietreggiare. Un gruppo di poliziotti e carabinieri, appostato nelle vicinanze, inizia a sparare. Le bottiglie incendiare volano senza procurare danni. Viene lanciato qualche sasso e due macchine, trascinate in mezzo alla strada, sono rovesciate per evitare una carica. Per difendersi è troppo tardi: due manifestanti sono feriti alla testa ma, miracolosamente, riescono a mettersi in salvo rientrando nel corteo; un terzo, colpito alla schiena, si accascia: il suo nome è Piero Bruno. Sulla sua carta di identità c’è scritto che è nato a Roma l’8 dicembre del 1957.

Piero abita alla Garbatella insieme ai genitori e a due sorelle. Studia da elettrotecnico e ama tante cose: la musica, le immersioni subacquee e Barbara. La mattina varca il portone dell’istituto tecnico industriale Armellini, per il resto, oltre a frequentare la sezione di Lotta Continua della Garbatella: «Faceva ciò che era giusto fare: autoriduzioni nei lotti popolari, gruppi di studio per evitare bocciature, cortei, collettivi».
In via Muratori, Piero è solo un corpo che urla di dolore: qualcuno gli si avvicina tentando di metterlo in salvo ma neppure adesso, quando è palese che nessuno è più in grado di nuocere in alcun modo, viene dato l’ordine di far tacere le armi. Il soccorritore viene colpito a un braccio e le pallottole infieriscono ancora sul ragazzo steso a terra ferendolo nuovamente, questa volta al ginocchio. Tanto basta ai tutori dell’ordine per sentirsi finalmente padroni della situazione. Un agente senza divisa esce allo scoperto e il modo in cui tratta Piero non sfugge allo sguardo allibito di una signora affacciata alla finestra di casa sua, in via Muratori:

Ho […] sentito che il ragazzo disteso per terra di lamentava e contemporaneamente ho visto un uomo in borghese sbucare attraverso i poliziotti che si è avvicinato di corsa al ragazzo, disteso per terra urlando, presso a poco «Ti pare questo il modo di ammazzare un collega» e ancora, «Cane, bastardo, carogna», ho quindi visto che l’uomo ha puntato la pistola verso il ragazzo disteso per terra, urlando «Ti ammazzo» e ho sentito il clic del grilletto. Il ragazzo ha gridato «No» ed ha fatto il gesto di coprirsi il volto con le mani. Quindi l’uomo, chinandosi sul ragazzo gli ha detto «ma io ti ammazzerei veramente» e lo ha scosso (dichiarazioni rese da una testimone alla competente autorità giudiziaria, 1975).


Piero Bruno, in realtà, non ha ammazzato nessuno. Eppure gli insulti non sono l’unica forma di mistificazione praticata quel pomeriggio dalle forze dell’ordine. L’ospedale San Giovanni è vicinissimo al luogo dell’agguato ma, anziché correre al pronto soccorso, si preferisce trascinare il ferito per decine di metri per fare in modo che il suo corpo finisca molto più vicino all’ambasciata dello Zaire e dare l’idea che i proiettili lo abbiano raggiunto mentre attaccava la polizia e non, come è accaduto, mentre tentava la fuga. Gli stessi bossoli, esplosi in una quantità così numerosa da formare un tappeto lungo la strada insanguinata, vengono raccolti in fretta: l’esatto ammontare del loro numero, in questo modo, non potrà mai più essere appurato.
Intanto si perde tempo prezioso. Sono soltanto le venti e trenta quando, con i proiettili in corpo e addosso il pallore dei morti, Piero Bruno entra in sala operatoria. Per “sicurezza” la polizia lo piantona come se fosse nelle condizioni di poter scappare da un momento all’altro. E lui, con un filo di voce, ha ancora la forza di sussurrare: «Ci penseranno i compagni a vendicarmi…».
Sono le sue ultime parole. Piero riesce a superare la notte ma, dopo due interventi chirurgici e il sopraggiungere di un blocco renale, nel pomeriggio del 23 novembre del 1975 smette di respirare. Gli mancavano soltanto quindici giorni. Poi avrebbe festeggiato il suo diciottesimo compleanno.

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Ma chi ha ucciso Piero Bruno?

Quando questa domanda viene posta in relazione al nugolo di militanti di sinistra uccisi dalla polizia la risposta più caratteristica è il silenzio mentre depistaggi e forzature giuridiche sono la regola più che l’eccezione della via giudiziaria alla ricerca della verità su chi muore per motivi di “ordine pubblico”.
Il caso di Piero Bruno, da questo punto di vista, è diverso dagli altri ma allo stesso tempo più atroce. Molto semplicemente, infatti, è stato possibile risalire all’identità dei militi che, agli ordini del vicequestore Ignazio Lo Coco, aprirono il fuoco il pomeriggio del 22 novembre 1975. I loro nomi, con le loro testimonianze, sono ancora lì, insieme ai buchi sui palazzi di via Muratori, tra le carte di un’inchiesta aperta dalla Magistratura per fare luce sul caso.

Si tratta del sottotenente dei carabinieri Saverio Bossio: «Ho esploso due colpi di pistola in direzione di un gruppo di persone col volto coperto che si trovava alla fine di via Muratori dalla parte del quadrivio».

Della guardia di pubblica sicurezza Romano Tammaro: «Mi sono avvicinato a loro sulla destra, ed ho visto un ragazzo a terra e due che lo trascinavano. Ho preso la pistola ed ho esploso dei colpi a scopo intimidatorio. I colpi erano diretti a terra».

E del carabiniere Pietro Colantuono: «I colpi che ho sparato, stando in piedi, li ho esplosi con l’avambraccio ad angolo retto rispetto al braccio, e quelli che ho esploso da terra, con l’avambraccio verso l’alto sempre in direzione del gruppo di giovani».

All’appello manca soltanto un altro personaggio, il più importante e, in un processo virtuale, senz’altro l’imputato principale. Si tratta di Oronzo Reale: il ministro degli interni a cui si deve la paternità della legge che porta il suo nome.

La Legge Reale, approvata il 22 maggio del 1975, concede alle forze dell’ordine di utilizzare le armi da fuoco con estrema disinvoltura, rende possibile la perquisizione personale senza l’autorizzazione di un magistrato, prescrive l’arresto per chiunque sia trovato in possesso di “armi improprie” (lasciando alle forze dell’ordine la discrezionalità di decidere cosa possa essere considerato arma impropria) e reintroduce la misura del soggiorno obbligato per ragioni politiche già in auge nel periodo fascista. Le conseguenze di queste misure sono note: soltanto tra il 1975 e il 1990 sono almeno 685 le persone uccise sulla base della legge Reale e, tra queste, almeno 208 sono risultate colpevoli soltanto di non essersi fermate a un posto di blocco o, più tragicamente, si essersi trovate nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Qualsiasi momento, cioè, in cui la polizia perde la testa e spara.
Con questi presupposti la sentenza di archiviazione pronunciata dal giudice istruttore in relazione alla morte di Piero Bruno nel 1976 è poco più di una formalità. A nulla serve un collegio difensivo che, nel tentativo di fare chiarezza sull’omicidio del ragazzo, arruola il senatore Umberto Terracini e Giuseppe Mattina, uno dei fondatori di Soccorso Rosso. Nelle aule in cui venne discusso il caso furono sostenute le teorie più assurde, come quella di un colpo di pistola che rimbalza sul terreno e, colpendo il ginocchio di Piero Bruno, impegnato in una torsione mentre lancia una molotov, si incunea nel suo corpo fino a risalire lungo la spina dorsale lacerandogli l’aorta. Una battuta di Dario Fo legata alle tante morti violente di quegli anni recita: «Non è la polizia che spara per uccidere, sono gli studenti che volano».
Ma c’è poco da ridere. Assolvendo i poliziotti che spararono a Piero il giudice sentenzia: «Se per gli interessi superiori dello Stato, congiuntamente alla difesa personale, si è costretti a una reazione proporzionata all’offesa, si può compiangere la sorte di un cittadino la cui vita è stata stroncata nel fiore degli anni, ma non si possono ignorare i principi di diritto».

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La storia, per fortuna, non si fa nelle aule dei tribunali. E se gli stessi giudici, avvolti nelle loro toghe lucide e nere, possono essere inappuntabili quando si tratta di applicare alla vita quotidiana le regole della legalità, la giustizia resta comunque un’altra cosa. Che si tratti di sensibilità, di utopia o di «istinto di classe», nella sentenza che archivia il caso di Piero Bruno di giustizia non c’è traccia. Per recuperare questo sentimento, lo stesso in cui eccellono i folli e i bambini, bisogna cercare altrove. Nelle parole «tu vivrai», per esempio. Cioè in un verso della poesia La libertà è un sogno scritta da Antonio Pinto, un soldato impegnato nella guerra d’indipendenza angolana commosso alla notizia di un compagno morto per la sua stessa causa in un Paese tanto lontano:

La libertà è sogno / sogno colmo di desiderio / lungo cammino di guerra e d’amore / percorso da gente di ogni terra / cammino di proletari, di guerriglieri.
È volontà ferma / di chi soffre, di chi vince / sul cammino del futuro, che è nostro.
Libertà è grido / è grido che tu hai gridato / arma che tu hai impugnato / sete che non hai saziato / vita che hai perduto.
Vermi ti rubarono la vita / vermi si nutrono ora del tuo corpo.
Ma tu vivrai!
E viva sarà la volontà nei cuori / che un altro mondo e gente vedranno / oltre il tuo esempio luminoso / vivrai!
Di te che lontano sei caduto per la nostra causa questo ci resta: / la libertà non è di un solo popolo / da te ci viene la forza / perché la lotta continui / fino alla vittoria finale.

Ancora nel corso delle celebrazioni per il trentennale, alla Garbatella si inaugura il murales realizzato dal CSOA “La Strada”: un affresco dove, al volto di Piero, si affianca quello di Carlo Giuliani, ucciso nel corso della protesta organizzata a Genova contro il G8 del 2001.

Si tratta di una connessione che non è dettata soltanto dal destino che, a distanza di tanti anni, riesce a iscrivere il nome di Piero Bruno e quello di Carlo Giuliani nello stesso libro nero della giustizia negata, ma anche dalla volontà di affermare la forza di una tradizione importante e fin troppo spesso dimenticata. La stessa tradizione che negli anni Settanta, per capire i propri morti, ricorreva alla memoria della Resistenza e che, se si trattava di parlare di ragazzi come Piero Bruno, non aveva dubbi: “nuovi partigiani”; questo è il loro vero nome.

Primo Maggio: e se la faccia ce la mettessimo tutti e tutte?

Noi le facce non le mettiamo“Noi le facce non le mettiamo”. Dopo la notizia dei dieci arresti eseguiti ieri tra Italia e Grecia ai danni di persone sospettate di aver animato la protesta del Primo Maggio No Expo, non sono mancati i mezzi di informazione indipendente che, per rispondere alla scelta forcaiola (la solita) del “Corriere della Sera”, immediatamente pronto a pubblicare le facce dei presunti black bloc, si sono affrettati a marcare una differenza: da un lato c’è il diritto e uno straccio di deontologia professionale, dall’altro fogli padronali stile “Corriere della Sera”.

Non c’è alcun dubbio che continuare a far pesare sempre e comunque a giornalisti come quelli in forza a il “Corriere” l’evidenza delle loro malefatte sia cosa buona e giusta, anche se è altrettanto innegabile come rinfacciare ai mezzi di informazione la propria natura di servitori del potere abbia lo stesso sapore scontato della scoperta dell’acqua calda.

Restando sul terreno della vetrina infranta dell’Expo milanese, davvero chi, da sinistra, ha speso parole di fuoco e di fiamme contro il “blocco nero” non aveva alcuna idea che i propri distinguo, i propri attacchi, il proprio giocare la partita dei “buoni” contro quella dei “cattivi”, si sarebbe tradotta prima in una strumentalizzazione, poi in una giustificazione ideologica non soltanto rispetto agli arresti, ma anche rispetto all’eccezionale durezza che si stanno meritando gli arrestati?

“Anche chi ha contestato democraticamente l’inaugurazione di Expo”, è scritto tra le righe di tutti i giornali e si legge dietro le fotografie di tutti gli arrestati, si è schierato compatto contro i “soliti teppisti”. A testimoniarlo, un esempio su tutti: l’articolo con cui il “Corriere della Sera” ha anticipato – evidentemente e ovviamente ben informato dalla Questura, di cui è abituale velina – gli arresti rispetto ai quali oggi ci si esprime. Come?

Passando in rassegna commenti ed opinioni, emerge o (1) la contestazione del reato di devastazione e saccheggio, residuato bellico del fascista Codice Rocco, pensato per situazioni di guerra e quindi assolutamente inappropriato per episodi come Expo2015 e, più indietro nel tempo, Genova2001; o (2) la condanna della gogna mediatica a cui la stampa main stream si è abbandonata con gusto orgiastico.

Per quanto riguarda la contestazione del reato di devastazione è saccheggio, si potrebbe dire che la battaglia utile alla sua cancellazione sarebbe cosa buona e giusta nella misura in cui potrebbe lavorare a una sempre utile ricomposizione di classe, evidenziando come le contraddizione per cui si scontano dieci anni per un bancomat rotto sono inaccettabili alla luce del governo ladro e mafioso che siamo costretti a subire. Eppure… se è opinione corretta e comune che dietro il famigerato reato di devastazione e saccheggio vi sia prima di tutto una forzatura, considerando che in punta di diritto quella legge non parla delle situazioni a cui viene applicata oggi, chissà cosa si potrebbero inventare – visto che di arbitrio stiamo parlando – una volta abrogata!

Forzatura per forzatura, tolta la devastazione e il saccheggio, potrebbero arrivare con lo stesso arbitrio le accuse di tentato omicidio anche per aver lanciato una bottiglietta di plastica vuota, o di associazione a delinquere per essere in possesso della tessera di una biblioteca… considerazioni che portano direttamente al secondo punto della questione, quello che ha a che fare con la condanna – più o meno di maniera – della gogna mediatica a cui i sospetti black bloc sono stati esposti, ovviamente senza che per loro abbia mai avuto alcun valore il “garantismo” di cui tanti si riempiono la bocca. Questo solo per dire che di fronte a fenomeni di insorgenza sociale non si può pretendere di avere salva la coscienza compartimentando la propria indignazione: è assurdo pensare di condannare pezzi di Movimento e addirittura additarli (alle attenzioni della Questtura) per poi stupirsi della durezza della repressione (“Ma come, dieci anni per una vetrina!”) o della connessa gogna mediatica (“Ma come, pubblicano i volti dei sospettati in dispregio delle garanzie democratiche!”). Per dirla in altri termini, rispetto ai fenomeni di insorgenza sociale, o si è dalla parte della soluzione che questi auspicano, o si è parte del problema, difficile pensare a comode vie di mezzo. Ed è per questo, che parlando di Expo, non sento la necessità di dire che “io le facce non le pubblico”, al contrario, ho voglia di dire che io la faccia ce la metto.

Io la faccia la mettoLa trovate qui, in basso a sinistra, dove è sempre stata. Mentre è impegnata a lasciare traccia del proprio dna su un pericolosissimo scovolino utile a fare le bolle di sapone, si fa una domanda: e se per dimostrare solidarietà e complicità con gli arrestati del primo maggio la faccia la mettessimo tutte e tutti, rispetto ai fatti di Milano come in rapporto ai luoghi dove le lotte reali conquistano a spinta la propria volontà di cambiare l’esistente, non questo l’unico, vero passo avanti?

TUTTI LIBERI! TUTTE LIBERE!

Chi se la canta, chi se la suona e chi se la lotta. Expo non è finito

Corriere della sera su Expo

Dicono che Expo sia finito. Senza contestazioni, a quanto pare. Tutta colpa di quei “riot che asfaltano il movimento”, commenta beffardo il «Corriere della sera», arrivando a citare «il manifesto» per riproporre un’analisi della giornata del primo maggio e persino immaginando di avere dalla sua chi la pensa così insieme alla Questura, che si è presa sei mesi di tempo per schedare, etichettare, analizzare e dio solo sa cos’altro. Ora si procederà agli arresti, informa il giornale padronale per eccellenza, ovviamente senza vergognarsi di mostrare il piacere che prova nel pensare all’eventualità di nuove persone in carcere.
I “buoni”, suggerisce l’articolo, scritto da qualcuno che dimostra di conoscerli bene, o persino di essere uno di loro, sarebbero stati talmente intimoriti dai “cattivi” da non riuscire più neppure ad avanzare una qualche critica, civile naturalmente, ad Expo, come invece le regole del gioco democratico vorrebbero. Un po’ come quando di tanto in tanto arrivano le elezioni e ci viene data l’opportunità di scegliere tra una Moratti e un Pisapia, e che non si venga a dire che alle nostre latitudini la mancanza di pluralismo rappresenti un problema!
Un Renzi, per esempio, è talmente convinto di un simile assunto che a passare per il vaglio elettorale non ci pensa neppure: perché perdere tempo se poi, come a Milano, gli unici che dimostrano di avere qualcosa da dire sono incompatibili come le vetrine che rompono e gli interessi di classe che incarnano?
Si prenda piuttosto esempio da Expo. E che i suoi uomini più efficienti, a partire dal prefetto Tronca, vadano a mettere ordine a Roma, dove, licenziato l’inutile sindaco Marino, al rispetto delle famose regole democratiche ci pensa il governo stesso, preferendo a qualunque forma di progettualità politica un controllo territoriale esercitato direttamente dalla polizia.
Certo, quella di Expo è stata una storia strana. Dal punto di vista della contestazione, infatti, non si è mai visto un problema che smette di esistere a causa della gestione di una singola giornata. Anche perché, se fosse così, non esisterebbe il problema, ma soltanto le persone che lo agitano, mentre pare che le questioni sociali funzionino nel modo esattamente opposto: è la loro esistenza a provocare agitazione, non il contrario. E qualcosa, nell’osservazione della realtà, sembra suggerire che il tema delle grandi opere e dei grandi eventi, simulacro della rapina perpetrata dagli sfruttatori ai danni degli sfruttati, esista eccome. Con buona pace di chi se la canta e se la suona, insomma, c’è anche chi se la lotta. E infatti, insieme a Tronca, quante centinaia di milioni hanno già mandato a Roma per consentire ai soliti noti di continuare a fare baldoria con l’imminente Giubileo?
Nello stesso lasso di tempo, invece, quante case popolari sono state assegnate? Quali garanzie per una scuola aperta a tutti e per una sanità efficiente e gratuita ottenute? E quali conquiste di diritti, dallo ius soli al reddito di cittadinanza (universale e incondizionato), sono state nel frattempo ascritte all’odierna civiltà del neoliberismo globale incarnato da Renzi e dalle sue giunte, arancioni o militari che siano?
Il silenzio di fronte a queste domande è imbarazzante come l’assenza dei “buoni” sullo scenario delle battaglie combattute ogni giorno in tutta Italia per la casa, il lavoro, la scuola, la sanità (altro che “assenza di contestazioni”, come scrive il «Corriere della sera»)… mentre chi di tutto questo è privo le vetrine in frantumi del primo maggio le ha ascoltate eccome. E ha sorriso. Mica è corso a piangere in Questura. L’istituzione repressiva per eccellenza, d’altro canto, era troppo indaffarata. Ora deve persino accollarsi di tirare avanti la baracca del Giubileo. E allora, senza neppure considerare la sorte delle tonnellate di metri cubi di cemento in procinto di essere abbandonate o regalate a qualche speculatore a Milano, si può dire che i nomi siano cambiati, ma come si fa a pensare che Expo sia finito?

Il discorso della Montagna e la parabola del sassolino: lo sgombero della Ex Telecom di Bologna nel contesto della nuova guerra civile italiana.

Lo conoscono tutti il discorso della Montagna. Se ne sta lì da duemila anni, conservato tra le pagine dei Vangeli, uno dei best seller della letteratura religiosa di ogni tempo e paese.

Non che sia tanto più giovane, ma, affidato a una storia orale conosciuta prevalentemente da chi subisce il problema, il tema dell’emergenza abitativa, insieme alla sua sorella prediletta, la lotta per la casa, non ha mai goduto della stessa popolarità accordata agli evangelisti; né, nel nome dell’emergenza abitativa o della lotta per la casa, c’è mai stato qualcuno che, protetto dalla sicurezza di un tetto sopra la testa, si sia mai segnato il petto o mormorato parole di buona volontà.

Come mai?

La risposta è tra le ultime parole dei passi evangelici, quando, dopo aver promesso ai protagonisti del discorso – cioè ai poveri – la consolazione degli afflitti, la riparazione dei torti e il ristoro dalla fame e dalla sete di giustizia, s’indica con fare estatico l’orizzonte, per affermare che devono starsene tranquilli questi benedetti poveri, considerando che tanto finiranno per ereditare il regno dei cieli.

Ora, la pazienza sarà anche la virtù dei forti, ma mentre i forti continueranno a fare tutte le prove utili a capire se davvero sia più facile far passare un cammello per la cruna di un ago piuttosto che mandare un ricco in paradiso, accade che i poveri il regno dei cieli lo mettano un attimo da parte, per risolvere QUI e ORA i loro problemi, a cominciare proprio dal quello della casa.

Cos’altro dire su questo argomento? Che i prezzi degli affitti sono ormai ovunque superiori a quelli di un salario medio?Che, costretti a sopportare il peso di una crisi economica senza precedenti, il problema del reddito è diventato questione di pura sopravvivenza per numeri enormi di persone? O, piuttosto, serve dimostrare per l’ennesima volta come il meccanismo in grado di produrre tante case senza gente insieme a tanta gente senza casa sia il frutto di una precisa volontà speculativa e criminale organica al concetto stesso di “libero mercato”?

Toccando il problema delle abitazioni, c’è chi si appella ai diritti umani, ricordando come nei relativi documenti si parli esplicitamente di diritto alla casa, e chi, Costituzione alla mano, sottolinea il passaggio (già, è incredibile ma esiste…) in cui la stessa proprietà privata potrebbe e dovrebbe essere messa in discussione quando la sua concentrazione nuoce ai diritti della collettività.

Le parole, però, per quanto possano essere belle, suggestive, emozionanti, restano parole. E quando si parla di casa, invece, c’è bisogno di fatti. Proprio per questa ragione i Movimenti per il Diritto all’Abitare hanno sempre affrontato la questione del problema-casa dal punto di vista della sua SOLUZIONE. E l’unica, vera soluzione per le famiglia che stanno dormendo in macchine abbandonate, sulle panchine dei parchi o in ricoveri fortuna è quella dell’occupazione abitativa. In altre parole: la requisizione immediata di qualunque stabile lasciato in stato di abbandono per questioni meramente speculative o, sul fronte della proprietà pubblica, per favorire progetti di privatizzazione spinti dai comitati d’affari grazie all’uso disinvolto e normale dello strumento della corruzione.

Grazie a una massiccia ondata di occupazioni abitative, in questi ultimi anni, neppure si contano le famiglie messe in grado non soltanto di uscire da uno stato di assoluta indigenza, ma anche di articolare – attraverso i fatti e per mezzo di spettacolari azioni di protesta – un progetto politico alternativo rispetto all’esistente e, per questo, implicitamente ed esplicitamente schierato lungo la linea di un fronte su cui si stanno combattendo le prime, cruente battaglie di ciò che scegliamo di chiamare la nuova guerra civile italiana.

Blindati in via Fioravanti

Citando il vecchio Philip K. Dick, facciamo notare che scegliamo di chiamare realtà «quella cosa che se smetti di crederci non svanisce» e, liquidando come superflue le possibili obiezioni sulla scelta di una definizione come quella di «guerra civile», eventualmente troppo dura, torniamo a dare la parola ai fatti, iniziando dall’alba del 20 ottobre, quando uno squadrone di blindati ha scariolato davanti a uno stabile di via Fioravanti, a Bologna, un esercito di celerini con il casco, il manganello e la divisa blu.

Cosa si nascondeva dentro il palazzo velocemente circondato? Forse una terribile banda di rapinatori? Una congrega di mafiosi? O, magari, uno dei tanti raduni di politici corrotti?

Naturalmente niente di tutto questo. In via Fioravanti, nei vecchi uffici della Ex Telecom, vivevano semplicemente 280 persone: donne, uomini, vecchi e bambini; persone comuni e, proprio per questo, straordinarie nel momento in cui, di fronte alle difficoltà, avevano scelto di non considerare la propria condizione di indigenza come una «colpa», ma come la conseguenza di precisi rapporti sociali: un dramma collettivo da trasformare in opportunità grazie all’occupazione.

Grazie a questo, la Ex Telecom si è trasformato in una casa. Anzi, in un esempio nuovo e migliore di come sia possibile abitare un luogo: con la capacità di amalgamare 17 diverse nazionalità in un unico popolo di complici e di solidali, protagonisti della propria vita così come della politica cittadina e italiana, sempre pronti a mettersi in viaggio per le strade di Bologna come per le piazze di tutta Italia nell’ambito di un disegno condiviso a ogni latitudine della Penisola: il disegno di una casa e di un reddito per tutte e tutti.

La polizia, da questo punto di vista, non ha sentito né poteva sentire ragioni. Ha colto il dato eminentemente politico della lotta per la casa e, sostituendosi alla politica propriamente detta, ha proceduto violentemente allo sgombero. O almeno ci ha provato. Perché mentre il sindaco di Bologna scaricava sulla Questura la responsabilità di una simile scelta e mentre, dallo stesso palazzo comunale, diviso dalla Ex Telecom soltanto da un lato di strada, l’assessora Frascaroli dava spettacolo della sua inutilità osservando inerme, inetta e dunque complice le operazioni in corsa, insieme a tutto il popolo della Ex Telecom insorgeva l’intera città delle Due Torri, o perlomeno la sua parte degna.

Amelia Frascaroli osserva lo sgombero della Ex Telecom

Intendiamoci, i celerini hanno immediatamente provveduto a sporcare di sangue i marciapiedi di via Fioravanti, caricando brutalmente il primo gruppo di sodali intervenuto per bloccare lo sgombero. Poi la strada poliziesca si è fatta più dura e via Fioravanti è diventata con il passare dei minuti il centro di un mondo inesorabilmente schierato dall’altra parte della barricata rispetto a quello dei mandanti materiali e morali delle operazioni. Ecco, allora, che mentre il flex della polizia apriva le porte e mentre gli uomini (?) in divisa facevano irruzione, la resistenza degli occupanti scriveva le sue pagine eroiche, regalando a chi continua a opporsi all’abominio di una società mercificata speranze e sogni che qualcuno ha avuto la colpa di credere perduti.

Contro le mani rapaci degli sbirri, per esempio, c’è stata la determinazione di un bambino di sette o otto anni, capace di scalciare con tutte le sue forze, mentre dentro si continuavano a battere coperchi e a gridare contro gli infami.

Perché chiamiamo infami le divise che hanno sgomberato?

Danger: il manganello personalizzatoUsiamo questo termine perché sono stati molto lontani dall’interpretare “tecnicamente” il triste ruolo a cui sono condannati: lo hanno fatto, al contrario, con un sadismo che ha dello psicopatico e andando oltre qualunque regolamento di polizia. A testimoniarlo, se non dovesse bastare la signora a cui, all’interno della Ex Telecom, è stata spaccata a calci la mascella, un particolare inquietante: gli adesivi con scritto «danger» che alcuni sbirri portavano appiccicati sui loro manganelli; segnali di un godimento nella repressione capaci di spiegare lo stato di abbrutimento psichiatrico raggiunto dalla forze dell’ordine, evidentemente sulla scia di precise istruzioni e di un altrettanto puntuale addestramento. O, osservando le cose da un’altra prospettiva,Born to kill da "Full Metal Jacket" non meno grave, la personalizzazione delle armi in dotazione al corpo richiama immediatamente le immagini dei soldati statunitensi impegnati, per esempio, in Vietnam: una guerra d’invasione che, all’improvviso, mostra insospettabili analogia con la “guerra contro i poveri” a cui i celerini si stanno dedicando. Ma anche ennesima conferma di un dato di fatto: la polizia ha introiettato l’immagine del civile come nemico.

Bologna, in ogni caso, non è stata a guardare. E alcune apparizioni vanno sottolineate, lodate e analizzate per trarre preziose considerazioni. L’apparizione più bella, probabilmente, è stata quella degli insegnanti dei bambini e delle bambine della Ex Telecom. Non solo per le grida «resisti, ci vediamo a scuola!» con cui hanno incoraggiato i propri allievi occupanti, ma perché hanno insegnato a tutti e a tutte una cosa meravigliosa. Sul fronte della scuola, infatti, uno dei pezzi della cosa pubblica più importanti ed evidentemente proprio per questo più maltrattati nell’ultimo ventennio, molto spesso le richieste di professori e personale non docente sono affogati nella palude della vertenzialità, vittime di una propaganda capace di dipingere come «privilegiato» qualunque lavoratore statale e, più in generale, aggredite e superate dai tanti problemi di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Al contrario, la presenza delle insegnanti sotto la Ex Telecom ha aperto un discorso politico di ampio respiro e spiegato meglio di qualunque comunicato un fatto semplice come un uovo di Colombo, e proprio per questo dirompente: le rivendicazioni di chi lavora nella scuola torneranno popolari nel momento in cui chi lavora nella scuola torna a parlare direttamente a quel popolo che non intende restringere le possibilità dell’istruzione ai soli figli dei ricchi; e nel momento in cui – all’interno di un concetto etico e plurale di scuola pubblica – non finiscono solo le tabelline e le regole grammaticali, ma un principio di ordine superiore: è impossibile parlare di «scuola», e meno che mai di «buona scuola», se i bambini e le bambine non hanno neppure una casa.

Direi che questo è un concetto elementare e proprio per questo esplosivo, lodevolmente afferrato, sotto la Ex Telecom, anche dal nutrito gruppo di studenti e studentesse di medicina accorsi per portare la loro solidarietà agli sgomberati.

Recentemente la casa editrice Rapporti Sociali ha ripubblicato il libro Il bisturi e la spada, la biografia (dimenticata) di un medico canadese, Norman Bethune. Ebbene, pioniere della lotta alla tubercolosi, come rispondeva Bethune alle domande su come curare quel terribile male?

Con un lavoro decente e una casa, rispondeva Bethune: proprio così. Al contrario, in una città come Roma (non conosciamo da questo punto di vista la situazione bolognese), se qualche persona di buona volontà intendesse farsi un giro fuori dai cancelli di qualunque ospedale scoprirebbe orde di pazienti e parenti di pazienti costretti a dormire in macchina in attesa del momento del proprio ricovero o durante i cambi-turno legati all’assistenza di un proprio congiunto: molto spesso di un bambino (se non ci credete fate un salto fuori dal Bambin Gesù…). Ma avete mai sentito un dottore o un infermiere protestare – nel nome della dignità della propria professione – contro un simile stato di cose?

Direi proprio di no. Mentre a Bologna gli studenti di medicina sono stati artefici esattamente di questo tipo di protesta. Hanno portato solidarietà agli sgomberati, certamente, ma non nel nome di un qualche principio pietistico, ma perché il campo dei diritti – che si parli di casa o di salute non fa nessuna differenza – non può essere affrontato a compartimenti stagni. E se si curano gli uomini e le donne per professione e per vocazione è impossibile separare il modo giusto di fare il proprio mestiere dalle condizioni in cui coloro a cui ci si rivolge in quanto pazienti sono costretti a vivere.

Bisogna davvero lodare la presenza degli studenti di medicina di Bologna, dunque, e sono molte le categorie professionali che dovrebbero prendere esempio da loro. Ne citiamo almeno due cominciando dai pompieri: la loro missione è quella di garantire la sicurezza di uomini, cose e animali, per quale motivo dovrebbero essere screditati fino al punto di essere costretti a mettere i propri mezzi e la loro professionalità al servizio degli sgomberi?

La cosa è accaduta molte volte e a Bologna non c’è stata un’eccezione. C’è stata, però, e la cosa va almeno citata, la protesta dell’USB: anche se a Roma, in una precedente occasione, l’organizzazione aveva invitato i pompieri alla disobbedienza civile contro l’uso del corpo nelle operazioni di sgombero, ora a Bologna ci si lamenta di come i vigili del fuoco siano impropriamente utilizzati per compiti di ordine pubblico.

Che di concrete azioni di disobbedienza civile ci sia estremo bisogno è poco ma sicuro. Lo stesso tipo di azioni, e qui veniamo alla seconda categoria professionale chiamata in causa nel corso dello sgombero della Ex Telecom, assolutamente assente, almeno per quello che ci è dato sapere e almeno fino a questo momento, tra gli assistenti sociali. Personale di questo tipo, infatti, ha svolto un ruolo attivo nel corso dello sgombero, ma non certo per difendere i problemi delle persone coinvolte, ma per fiancheggiare le forze dell’ordine proferendo minacce del tipo: «Se non esci di qui ti facciamo togliere tuo figlio».

Lo schifo di un simile atteggiamento è intollerabile. E dopo quanto accaduto a Bologna è l’intero comparto a essere chiamato a un’assunzione di responsabilità per spiegare se quando parliamo di «assistenza sociale» parliamo dei colletti bianchi della repressione o di altro. Nell’attesa dei necessari chiarimenti, resta altissimo il disprezzo, anche perché nella stessa giornata del 20, quando a Roma molte centinaia di occupanti di case solidali con i compagni bolognesi si sono riversati a Porta Pia per manifestare contro lo sgombero della Ex Telecom, lo stesso, identico tipo di frasi erano pronunciate direttamente da poliziotti in borghese: «Ti fotografiamo e poi veniamo a cercarti per toglierti il bambino», dicevano ai manifestanti con figli al seguito.

Ma quando questi stessi bambini, verrebbe da chiedersi, si trovavano con le loro famiglie in mezzo alla strada, dove erano questi solerti tutori dell’ordine, dove erano gli zelanti assistenti sociali e dove gli assessori preposti?

Di sicuro per quei bambini ha fatto molto di più l’orsetto che a Bologna si è visto difendere gli occupanti lottando sulle barricate e, grazie a questo, destinato a conquistarsi un posto importante dell’immaginario antagonista degli anni a venire.

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E non a caso, a proposito del dove erano? rivolto a poliziotti, assistenti sociali e assessori preposti, la risposta istintiva dei manifestanti di Porta Pia è stata:

  • I poliziotti erano dove sono adesso: a garantire i traffici di mafia capitale e gli interessi dei palazzinari a suon di manganelli;
  • Gli assistenti sociali erano dove sono adesso: con il culo sopra una sedia; davvero restii a comprendere che fare il lavoro che fanno dovrebbe significare iniziare a schierarsi compatti dietro a una piattaforma che affermi «casa e reddito per tutt*»;
  • Gli assessori alla casa erano dove sono adesso: con il culo sopra una sedia anche loro, ma con la faccia dentro una mangiatoia foraggiata a destra dai palazzinari e a sinistra dal peloso – e altrettanto palazzinaro – sistema clerical-cooperativistico, quello che gestisce i residence e i centri per i rifugiati e che si pone, dietro compenso, come intermediario tra l’erogazione dei diritti e la massa a cui spetterebbero senza condizioni di sorta.

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Per quanto riguarda il 20 ottobre romano, la dose dell’indegnità è stata ulteriormente rincarata ancora dagli stessi tutori dell’ordine, capaci di avvicinarsi agli attivisti più noti per proferire frasi sul genere: «Tanto con te facciamo i conti dopo»; oppure: «Ti veniamo a prendere quando meno te lo aspetti».

«Sì», è stata una delle risposte che si è sentita in piazza, «e portati pure quattro mani, così magari riesci a farmi una pippa»; ma al di là del folklore locale o del coraggio manifestato a Bologna come a Roma e anche ad Alessandria e a Brescia, dove pure ci si è riversati in strada per bloccare il traffico in solidarietà con gli sgomberati della Ex Telecom, l’atteggiamento «cileno» della polizia dovrebbe spingere alla disperazione anche i «sinceri democratici» e indurre gli osservatori a capire come tra il golpe bianco di Renzi e l’insediamento del prefetto Gabrielli come sostituto dell’incapace sindaco Marino si sia consumata l’occupazione poliziesca degli spazi di mediazione politica, ormai completamente azzerati.

Oggi più che mai, quindi, affermare che «i diritti si conquistano a spinta», non significa estendere alla società intera il felice slogan coniato dai lavoratori della logistica nel corso di mille picchetti davanti alle fabbriche del loro sfruttamento, ma cercare di mettere in pratica un sano esercizio di realismo morale e politico. Ancora da Bologna, da questo punto di vista, arriva un segnale importante e riguarda intellettuali ancora in grado di agire in quanto «organici». Accanto al nome di Zerocalcare, che da sempre lega il suo tratto alla storia dei movimenti conflittuali e che anche questa volta non ha fatto mancare la sua interpretazione iconografica di quanto accaduto, segnaliamo la puntuale vignetta di Be Folko e sopratutto il prezioso contributo del collettivo Wu Ming, presente in piazza accanto agli occupanti e protagonista di una cronaca-fume degli eventi in corso.

Questi contributi sono ancora più preziosi all’indomani dell’assoluzione di Erri De Luca, processato per essersi espresso a favore degli atti di sabotaggio contro la linea ad Alta Velocità; sono preziosi perché mettono in discussione il processo di disumanizzazione a cui da anni sono soggetti i protagonisti dei movimenti per il diritto all’abitare; sono preziosi perché in controtendenza rispetto alle gravissime responsabilità di organi di stampa come «la Repubblica», il «Corriere della Sera» e «il Resto del Carlino», immediatamente pronti a silenziare o a diffamare gli eventi (lo hanno sempre fatto, continueranno a farlo: «giornalista / terrorista» non è uno sologan, è una fotografia…); sono preziosi, perché sull’esempio delle insegnanti offrono la possibilità di impostare un discorso sulla cultura davvero popolare (dovrebbe farci un pensiero chi, in questi giorni, si trova colpito dai feroci tagli di Franceschini ai teatri…) in quanto capace di partire dal presupposto “cosa me ne faccio di un libro se non ho nemmeno una casa”; sono preziosi perché si muovono su un crinale dove le parole sussistono dentro le azioni e perché non bisogna dimenticare almeno altre due cose accadute il 20 ottobre:

Si potrebbe chiosare quest’ultima notizia affermando come nessuno dei fascisti che volevano uccidere Emilio sia mai entrato in carcera, ma sarebbero altre parole gettate al vento: Zerocalcare per Degage«La guerra la fate soltanto a noi», aveva scritto Zerocalcare quando si era trattato di fare i conti con lo sgombero di Degage, probabilmente la “madre” di questa ondata di sgomberi; e l’affermazione resta vera: si può toccare con mano ed è sotto gli occhi di tutte e di tutti. Così come è sotto gli occhi di tutte e di tutti l’attacco scagliato contro i movimenti antagonisti: contro, cioè, un’area che rifiuta le mediazioni al ribasso e che legittima giorno dopo giorno l’azione diretta e la riappropriazione come pratiche utili al necessario riscatto popolare. Occupare case, lottare contro la linea ad Alta Velocità, rifiutare trivelle, discariche, impianti militari e gasdotti o essere protagonisti dell’antifascismo militante e della riappropriazione diretta e indiretta di reddito sono l’equivalente contemporaneo di ciò che è stato in passato la lotta contro la schiavitù: pratiche considerate illegali, represse con il sostegno di tutti i poteri forti, eppure irrimediabilmente giuste.

Pisa: il poliziotto con la pistola alla Ex GeaQuesto è il versante della nuova guerra civile italiana: un territorio dove, è accaduto il 23 ottobre nel corso delle operazioni di sgombero della ExGea, a Pisa, la polizia si permette di fare irruzione con le pistole spianate (un fatto gravissimo e a proposito del quale è lecito chiedersi: quando ci scapperà il morto?); o dove, come a Roma, il 16 ottobre, uno spazio pubblico come quello universitario viene privatizzato a uso e consumo di una ridicola fiera delle multinazionali delle nuove tecnologie e si finisce per imporre un biglietto d’ingresso persino agli studenti a cui quella stessa università impone tasse sempre più alte, anche grazie all’ennesima creatura di Renzi: il nuovo Isee, un astruso sistema di calcolo capace di trasformare i poveri in ricchi dal punto di vista delle imposte, contribuendo così alla distruzione degli ultimi brandelli di welfare ancora esistenti. Inutile specificare, a questo proposito, che gli studenti romani sono stati caricati, picchiati, arrestati e attaccanti con l’idrante.

Né sorte migliore è toccata, nel pomeriggio del 20, a chi è sceso in piazza a Porta Pia: inginocchiati l’uno accanto all’altro, gli occupanti romani hanno opposto una determinata difesa passiva su cui si è accanita la nuova macchina dell’acqua ad alta pressione, capace non solo di sparare un potente getto direzionale ad altezza d’uomo, ma anche di muoversi producendo getti bassi, evidentemente progettati allo scopo di forzare simili blocchi. La grottesca somiglianza di questo tipo di idrante-blindato alla tradizionale motospazzatrice ha fatto scattare nella testa degli occupanti un’evidente analogia: «Ci stanno trattando come spazzatura», è stata l’impressione che è iniziata a serpeggiare sulla piazza; e la risposta a chi vuole trasformare uomini e donne in oggetti da buttare è stata effettivamente all’altezza della situazione in termini di coraggio e di determinazione; ma anche costosa in termini di feriti: due donne, lavoratrici e madri di bambini, una anche incinta, sono state portate via in ambulanza con diverse fratture provocate dalle cariche.

Purtroppo la cronaca di queste giornate non si esaurisce con i soli fatti di Bologna, Roma, Brescia o Alessandria, perché a Torino, il 22 ottobre, con la Ex Telecom ancora impegnata a sostenere la lotta che pretende l’assegnazione di una casa popolare a tutti i nuclei familiari sgomberati, la polizia attacca di nuovo i movimenti per il diritto all’abitare, facendo irruzione in una palazzina in via Collegno ma producendo, insieme allo sgombero, l’apertura di una nuova vertenza, con le famiglie che si asserragliano nella circoscrizione, decise a pretendere l’alloggio popolare a cui hanno diritto o a occupare ancora!

Un nuovo stabile, d’altro canto, viene occupato a Parma il 24: finalmente una bella notizia; la conferma che l’onda lunga inaugurata dal grande corteo del 19 ottobre 2013, quando centomila persone sfilarono nella capitale dietro lo striscione «una sola grande opera: casa e reddito per tutt*», sta continuando a camminare, con un’unità di intenti maggiore del passato e, come ha dimostrato Bologna, anche con la capacità di istituire i termini di un dibattito pubblico in grado di riscoprire la possibilità di essere veramente parte di un movimento reale che cambia lo stato di cose presenti. Che cosa hanno affermato, in fondo, le «tesi di settembre», vale a dire il documento conclusivo dell’intensa quattro giorni di «Sfidiamo il Presente», momento di assemblea e incontro delle lotte italiane autorganizzate?

«Senza aspettare che una promessa di cambiamento piova improvvisamente dal cielo, ora è il tempo di agire, di prendere in mano il nostro destino, facendo in modo che le nostre stesse vite diventino minaccia», c’è scritto sul documento conclusivo. E puntuale, una simile minaccia si è fatta vedere ancora il 24 ottobre, quando tra Palermo, in solidarietà con gli arresti per i fatti di Cremona, a Roma e a Bologna sono state migliaia le persone scese in piazza, con le grida “tutte libere, tutti liberi”, bandiere rosse «stop sfratti e sgomberi» al vento e grandi striscioni con la parola d’ordine «prima i poveri», già pronta ad affermarsi nel corso di quello che si preannuncia come un nuovo ciclo di lotte.

Di fronte alla montagna dell’ingiustizia, in realtà, non c’è discorso che tenga. Ci sono, piuttosto, i tanti sassolini delle lotte, determinati a inceppare gli ingranaggi del neoliberismo o comunque capaci di scivolare lungo il crinale di una società atomizzata per tornare ad aggregare, e quindi a ricomporre in una classe, le energie degli esclusi, degli ultimi, dei proletari e dei sottoproletari, dei precari, dei disoccupati, delle partita IVA incapienti, dei working poor e di qualunque altra categoria sia riconducibile, con qualunque tipo di lessico, all’universo degli sfruttati. Ce n’è abbastanza per trasformare il Vangelo in un Manifesto e per passare dal Discorso della Montagna a una più edificante “parabola del sassolino”, concludendo dunque con le parole del poeta Tasos Livaditis: beati coloro che non hanno nulla, perché stanno venendo a prendersi il mondo. Altro che regno dei cieli.

Ex Telecom Bologna: resistere si può, vincere bisogna

Un bambino piccolo, usando le piccole dita della sua mano, non sarebbe stato più capace di tenere il conto: Uno, dieci, cento blindati, questa mattina all’alba, hanno invaso via Fioravanti, dietro la stazione di Bologna ed esattamente di fronte agli uffici del Comune. Armati di tutto punto, gli uomini e le donne delle forze dell’ordine sono scesi dagli automezzi e hanno immediatamente circondato il palazzo della Ex Telecom, un luogo già abbandonato ma che dallo scorso dicembre trecento persone hanno iniziato a chiamare “casa”. Questo è il numero delle persone che vivono in quel luogo: una delle più grandi occupazioni abitative italiane, ma anche una delle più vivaci. Perché come in ogni casa che si rispetti, sotto quel tetto non ci si è riparati soltanto dal freddo e dalla pioggia, ma è stata costruita solidarietà, rispetto reciproco, vera integrazione culturale e possibilità concrete di riscatto per chi è stato derubato di ogni cosa ma che, a partire dalla Ex Telecom, ha potuto rialzare la testa, sfidare un presente di soprusi e umiliazioni e tornare a progettare un futuro. Oh, se solo si potesse contare l’amore da cui l’Ex Telecom è stata avvolta! I cento blindati bolognesi sarebbero immediatamente spazzati via. Un intero esercito non avrebbe il valore di una singola storia tra le moltitudini che hanno visto protagonisti gli occupanti e le occupanti della Ex Telecom. Ne racconto una soltanto, perché sarà abbastanza. La storia di una giovane coppia marocchina. Lei aspetta un bambino. Passano i giorni, ma il piccolo ha fretta. Forse vuole conoscere i tanti amichetti e le tante amichette – nella Ex Telecom ci sono un centinaio di bambini – che lo aspettano lì, nel grande piazzale interno ai vecchi uffici abbiandonati. Fatto sta che il bambino spinge e una notte, all’improvviso, alla mamma si rompono le acque… il bambino sta nascendo!

Il giovane papà si spaventa, la mamma non sa bene che fare… in Marocco, però, c’è un’altra mamma, la nonna, che i suoi figli li ha partoriti in casa. E se l’ambulanza, chiamata, ritarda, la sapienza popolare supera il mare: si fa così e così, ordina la nonna da Casablanca. E un manipolo di donne dell’occupazione, nate in ogni continente, si trasforma in ostetriche esperte sotto la guida della nonna marocchina: mettono a bollire l’acqua e preparano gli asciugamani… proprio come si vede nei film. Il piccolo nasce nella nuova casa occupata, tra le grida di gioia e le lacrime d’emozione di tutta la Ex Telecom: quando arrivano i medici possono solo dire che sta bene e che tutto, compreso il taglio del cordone, è stato fatto alla perfezione. Quel bambino, in questo momento è lì, in quel palazzo: gli uomini e le donne in divisa non vogliono che cresca libero e felice, non lo vuole il Pd locale né il Pd nazionale, non lo vuole la prefettura, non lo vuole la questura e non lo vogliono nemmeno i tanti leoni da tastiera, abituati a pontificare ma incapaci di agire.

Questa mattina, alla Ex Telecom di via Fioravanti la polizia e i carabinieri stanno sputando su ciò che esiste di più sacro. Una comunità di vita e di lotta che ha sovvertito la regola delle tante case senza gente e della tanta gente senza casa. Quella gente, la nostra gente, è stata già caricata diverse volte in via Fioravanti: ci sono molti feriti, c’è il sangue che cola sull’asfalto, eppure si sta resistendo.

LA EX TELECOM NON HA NESSUNA INTENZIONE DI ABBANDONARE LA LOTTA

La cosa più schifosa, insieme agli assessori del partito democratico che assistono allo scempio dalle finestre dell’edificio Comunale (vergognatevi di esistere!) è, forse, la vista degli assistenti sociali che stanno minacciando madri e padri: sono pronti a togliere i figli a chi resiste; ma non lo permetteremo ma, non staremo a guardare un simile abominio.

In tutta Italia, di fronte alla Ex Telecom, vogliamo piangere le stesse lacrime di gioia e di emozione che abbiamo pianto quando abbiamo saputo del parto assistito dalla telefonata dal Marocco. La gioia che vogliamo piangere è quella di una resistenza capace di durare un minuto in più del nostro nemico e l’emozione, allora, sarà quella di un nuovo inizio: non più una difesa, ma un clamoroso attacco alla riconquista di tutti i diritti. Una casa in cui vivere, un lavoro dignitoso, una scuola piena di colori, una sanità aperta a tutti e a tutte. Questa è la partita che si sta giocando in questo momento a Bologna, e allora: perché state ancora leggendo questo pezzo?

ECCO COME SI STA RESISTENDO ALLA EX TELECOM

Se siamo ancora capaci di farci stringere il cuore e di sentire un briciolo di indignazione non diamola vinta alle forze del male, non lasciamo soli le mamme e i papà di Bologna insieme ai mostri: lasciamo il lavoro, usciamo dalle case, riversiamoci nelle strade!!! A Bologna il presidio dei sodali cresce di minuto in minuto e la granitica certezza delle forze dell’ordine si incrina: oggi non si passa, dicono le bandiere degli occupanti saliti sul tetto decisi a restare lì. Oggi non si passa dicono le signore che sbattono sui muri i coperchi delle pentole. Oggi non si passa dicono i bambini e persino le loro maestre e i loro maestri, i Partigiani della Scuola Pubblica, accorsi sul posto.

In tante città italiane, sono stati chiamati presidi di solidarietà, punti di raccolta decisi a scongiurare questa ennesima infamia: da Alessandria a Palermo, da Brescia a Roma, dove i sodali del movimento per il diritto all’abitare hanno fissato una manifestazione per le 17, a Porta Pia, sotto le finestre di Del Rio, uomo forte di Renzi nonché ministro attualmente responsabile della grave crisi degli alloggi in Italia.

Oggi è una di quelle giornate dove la storia accelera la sua corsa, vibrando dalla voglia di essere scritta, non con le parole, ma con i corpi di chi sceglierà di stare dalla parte giusta.

Oggi è una di quelle giornate in cui la sinistra italiana è chiamata a dire “io c’ero” mentre, delle guardie e dei loro padroni in doppiopetto, bisogna che a fine serata si possa dire “non ci sono più”.

Perché oggi alla Ex Telecom e con la Ex Telecom, simbolo di tutte le occupazioni abitative italiane, è necessario dimostrare che l’alta velocità in Val di Susa non la vogliamo, che le trivellazioni nell’Adriatico devono cessare, che le esercitazioni militari in Sardegna non hanno ragione di essere, che gli impianti Nato in Sicilia vanno smantellati, che i rifugiati sono i benvenuti e che l’unico posto in cui possono rifugiarsi fascisti, razzisti e uomini di Renzi si trova fuori dalla storia, al di fuori di qualunque umanità. Per questo alla Ex Telecom resistere si può, ma vincere bisogna.

TUTT* IN PIAZZA!

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Ogni volta che mi convocano in Questura

Ogni volta che mi convocano in Questura ne approfitto sempre per fermarmi dal vecchio Garibaldi. Il foglio firmato dall’incaricato di turno in tasca, esorcizzo le brutte parole che gli uomini in divisa dicono di me con la carta ammuffita dei libri vecchi e i ricordi di quando gli editori trattavano direttamente con i bancarellai, visto che ancora non esistevano né i promotori né i distributori. Tra piazza della Repubblica e la stazione Termini, c’è sempre qualche volume di autori che nessuno stampa più, dedicato a temi e soggetti che avrebbero fatto il loro tempo e che ora se ne stanno là, stipati in chioschi come quello di Garibaldi, insieme a pile di vecchie videocassette porno, a vinili improponibili e a un variopinto assortimento di oggetti di antiquariato.

«Lo sai che la Morante pretese che La storia venisse stampato in edizione economica perché voleva che il suo libro fosse accessibile a tutti?», mi chiede Garibaldi.

«Sì…», annuisco. Lo so. E so anche che i processi faranno il loro corso e, nel giro di un certo numero di anni, si tramuteranno in condanne: diffamazione a mezzo stampa, adunata sediziosa, invasione di edificio, resistenza… Io però, ogni volta che mi convoca la Questura, continuo ad approfittarne per passare tra la stazione Termini e piazza della Repubblica e fermarmi una mezz’ora dal vecchio Garibaldi. Lì un’idea per la riedizione di qualche libro scomparso dalla circolazione eppure ancora necessario la trovo sempre. In fondo lavoro nell’editoria. E ne approfitto per festeggiare ogni denuncia mettendo in cantiere la nuova edizione di un vecchio classico della lotta di classe.

PS: ringrazio l’insopprimibile puzza di piscio che, stagnando tra i chioschi, aiuta i vecchi marchettari e i tossici ancora in circolazione a impedire ai fighetti a caccia di luoghi esotici di invadere la zona trasformandola in un posto… di classe. Cioè della loro classe.

Attenti al cinghiale

Una volta, per i fattacci di cronaca nera, la stampa aveva già bello è pronto il colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica. E questo, immancabilmente, era l’extracomunitario.
Tutti ricorderanno ancora, tanto per fare un esempio eclatante, quanto accaduto a Novi Ligure nel 2001, quando lo sgozzamento di una madre di famiglia e di suo figlio fece immediatamente scattare una caccia all’albanese… salvo scoprire poi che, ad uccidere a coltellate la mamma e il figlio era stata la giovane Erika, cioè la figlia e la sorella delle vittime, insieme ad Omar, il suo fidanzatino.
Alla stessa maniera, ad Erba, in provincia di Como, lo sterminio avvenuto a colpi di spranga e di coltello di un’intera famiglia, cane compreso, fu immediatamente addossato a Azouz, “colpevole” principalmente di essere tunisino. Solo in un secondo tempo si decise di accettare la realtà per quello che era, e di riconoscere gli autori della strage negli italianissimi Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi: una placida coppia di mezza età, “tranquilla” come possono esserlo in tante.
La macabra lista che stiamo compilando, in ogni caso, potrebbe essere allungata, e davvero di molto. L’elemento di novità rispetto all’oggi, però, sta nel salutare il rientro nella lunga lista dei “folks devil” – cioè in quelle categorie sociale stereotipate appositamente per scaricare su chi vi viene inserito le colpe di qualunque male – di un elemento che si credeva dimenticato tra le pagine di un bestiario medioevale, quando si gridava terrorizzati al pericolo incarnato da caproni con il tronco umano, lupi e draghi capaci di volare e di sputare fiamme. Ebbene, ai nostri giorni, all’extracomunitario, al tossicodipendente, al militante politico e all’ultrà, tanto per nominare un po’ di categorie buone per far scattare cacce alle streghe e invocare leggi speciali, si aggiunge un simpatico mammifero dotato di zanne e di orgoglio da vendere, appartenente alla famiglia degli ungolati e comunemente noto con il nome di “cinghiale”.
Come sempre, quando si ha la coscienza sporca, le persone “per bene” non si accontentano di aver distrutto interi territori, devastato gli habitat naturali e lasciato al degrado e all’abbandono porzioni di città già edificate per fini meramente speculativi. Ora, essendo che il cinghiale non intende lasciarsi estinguere tanto facilmente, gridano al pericolo e sostengono che quella dei cinghiali è una questione di “ordine pubblico”.
Bene, gli autonomi che, dalla Val Susa a Niscemi, assaltano le reti dei cantieri delle grandi opere inutili e dannose o gli ultrà ancora impegnati a fronteggiare i battaglioni della celere, per non parlare dei rifugiati che travolgono i confini, da oggi hanno un alleato in più: il cinghiale.
E non è certo un alleato di poco conto se si tiene conto del curriculum mitologico ed etologico di questo essere potente e meraviglioso. Un animale bellissimo che intanto, dalle parti di Frosinone, ha già avuto bisogno di trovarsi un bravo avvocato. A Ferentino, infatti, alla notizia del ritrovamento di un cadavere con ferite “sospette”, si è subito gridato “è stato un cinghiale! è stato un cinghiale!”.
Peccato solo che ancora non risulta che il re dei boschi abbia l’abitudine di utilizzare un fucile a pallettoni contro le sue prede!
E peccato anche che, anziché operare una quanto mai opportuna messa in discussione dei rapporti tra uomo (cioè tra imprese devastatrici e nocive) e ambiente, si stia invocando il massacro dei cinghiali, con la Coldiretti che, per il 29 settembre, ha addirittura convocato una manifestazione a Roma per protestare contro questi animali e dei danni di cui sarebbero responsabili. Asserzione che, priva di qualunque retroterra analitico rispetto alle modalità di sfruttamento di campi e boschi, non suona poi troppo diversa dalle frasi con cui si ricorda sempre che “gli stranieri ci rubano il lavoro”.
Intanto, mentre a Ferentino si è stati costretti ad ammettere che l’autore dell’omicidio, pur essendo ancora ignoto, non appartiene di certo alla famiglia degli ungulati, alle folle di benpensanti abituati a imboccare sempre la via più corta e comoda per spiegare le ragioni del male da cui siamo circondati, così come a chi è sempre alla caccia del pretesto buono per addossare a un capro espiatorio le storture di un intero sistema: ebbene, a tutta questa razza di ipocriti con la coscienza sporca non resta che dedicare una canzone e un monito. La canzone l’ha scritta Fabrizio De Andrè. Ma il monito è: “attenti al cinghiale!”.

8 settembre 1974: Fabrizio Ceruso e la battaglia di San Basilio

È il 5 settembre del 1974 quando per Roma e dintorni inizia a girare una notizia tanto allarmante quanto inaspettata: stanno sgomberando a San Basilio!
Chi, rispondendo all’appello, si precipita nel quartiere trova uno scenario da guerra civile. Come vere truppe d’occupazione, le forze dell’ordine hanno invaso la storica borgata romana ma, dopo aver allontanato una prima volta gli occupanti dalle proprie case, non possono impedire una nuova occupazione degli appartamenti la sera stessa.
Il Comitato di Lotta per la Casa, insieme a un fronte sempre più ampio di sodali, rinforza la difesa, ma il 6 la storia si ripete:

La polizia arriva la mattina in forze per effettuare lo sgombero in via Montecarotto, ma trova una resistenza organizzata all’innesto della via Tiburtina con via del Casale di San Basilio, dove nella notte era stata alzata una barricata. Iniziano gli scontri con lanci di lacrimogeni e ripetute cariche a cui i manifestanti rispondono con un fitto lancio di molotov e sassi. La polizia comunque riesce a transitare da via Nomentana, circonda le case e inizia un fitto lancio di lacrimogeni sparati anche sui balconi e si fa largo a colpi di manganello: una bambina di 12 anni rimane ferita. In alcuni appartamenti si verificano focolai di incendio (Massimo Sestili, “Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974”, in “Historia Magistra” n.1, 2009).

Le case sgomberate, in ogni caso, vengono nuovamente occupate nella stessa giornata. E proprio grazie alla determinazione di chi resiste, il 7, sabato, si respira aria di tregua, con gli avvocati di Movimento che riescono anche a recarsi in Prefettura per cercare di far ritirare l’ordinanza di sgombero. Potrebbe sembrare tutto finito, eppure è proprio la domenica il giorno atteso dalla polizia per sferrare l’attacco più feroce. Alle otto riprendono le operazioni di sgombero, ma non trova persone disponibili ad abbandonare ciò che hanno conquistato senza lottare. Intorno alle 17, addirittura, una donna di 24 anni imbraccia un fucile da caccia e, dalla finestra di casa, spara contro i poliziotti, ferendo un vicequestore. Alle 18, l’assemblea popolare riunita per cercare di capire il da farsi viene attaccata con i lacrimogeni: la reazione della folla è compatta e la celere, lanciata alla carica, perde la testa insieme alle sue posizioni.
È la guerra: il popolo da una parte, le forze dell’ordine dall’altra. Il quartiere è isolato, i pali della luce divelti, qualunque cosa utile a essere lanciata viene utilizzata allo scopo e i mezzi di trasporto, parcheggiati per provvedere alla deportazione degli sgombrati, vengono dati alle fiamme.
Le armi da fuoco, è vero, non sono soltanto appannaggio della polizia. Ma su questo versante, ovviamente, gli occupanti non possono competere con chi indossa la divisa. Si supplisce con il cuore e con la solidarietà. Le barricate chiamano e Roma risponde. La polizia, però, continua a sparare. Proiettili come se piovesse in via Fiuminata dove, a essere colpito al petto da una pallottola calibro 7,65, è un ragazzo con il casco rosso.

Fabrizio CerusoQuel ragazzo ha appena diciannove anni. Vive a Tivoli, dove milita nel Comitato proletario, un organismo di Autonomia Operaia. Suo padre fa il netturbino, la mamma è casalinga. Lui, dopo gli studi alla scuola alberghiera, aveva lavorato in diversi bar e ristoranti prima di provare a trasferirsi in Francia. Tornato in Italia, ci sarebbe stata una buona notizia ad aspettare la sua famiglia. Dopo una lunga attesa, finalmente era arrivata l’assegnazione di una casa popolare a Villa Adriana. Quell’8 settembre, prima di correre a San Basilio per difendere le case occupate, aveva aiutato con il trasloco… alle 19 e 15 circa si ritrova su un taxi, impegnato in una corsa disperato verso il Policlinico. Quando il mezzo arriva a destinazione è troppo tardi. Il ragazzo con il casco rosso è morto: si chiamava Fabrizio Ceruso; «per loro non eri nessuno», dice A Fabrizio Ceruso, una delle canzoni anonimamente dedicate al ragazzo di Tivoli:

Soltanto 19 anni per loro non eri nessuno / soltanto 19 anni e per loro non eri che uno / uno come tanti, un cameriere, un garzone d’officina / un operaio, un disoccupato un emigrante…

Nemmeno la data dell’omicidio di Fabrizio sembra frutto del «caso». L’8 settembre del 1943, con l’esercito italiano allo sbando, era stata la milizia popolare a tentare la resistenza contro i nazisti. A Tiburtino III, non lontano da San Basilio, la memoria del cadavere della popolana Caterina Martinelli, ammazzata dalle SS mentre con altre donne del quartiere assaltava un forno nel vano tentativo di conquistarsi il pane con cui sfamare la famiglia, riallaccia il legame con gli ideali di una Resistenza che, trasformata in lotta per la casa, significa davvero giustizia e libertà. E se Caterina Martinelli era diventata la martire della lotta contro la fame, dopo l’8 settembre del 1974 Fabrizio vive in ogni casa che viene occupata.

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Accettare, come effettivamente è avvenuto nelle aule dei tribunali, che la morte di Fabrizio Ceruso resti archiviata con un non luogo a procedere «essendo ignoti gli autori del reato» non significa solo trascurare le numerose testimonianze che individuano in un poliziotto che si inginocchia ed esplode quattro colpi l’autore del gesto. Significa, in una situazione di estrema gravità, provare a dimenticare la situazione repressiva vissuta dall’Italia nel corso del 1974: l’anno della strage di Brescia (28 maggio; 8 morti e 102 feriti) e del treno Italicus (4 agosto; 12 morti e 45 feriti); ma anche l’anno in cui la rivolta scoppiata nel carcere di Alessandria (9 maggio; 5 morti tra detenuti e ostaggi) viene soffocata nel sangue dall’assalto deciso e diretto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il tentativo di sgombero di San Basilio, in un simile clima, è un altro capitolo della strategia della tensione e, inaugurando la futura «linea della fermezza» adottata nella repressione dei fenomeni d’insorgenza sociale, segna la scelta di attaccare deliberatamente un movimento in crescita come quello della lotta per la casa nel tentativo di stroncarlo, impedendo all’autorganizzazione di diffondersi, alle famiglie coinvolte di predisporre una resistenza efficace e alle occupazioni abitative di moltiplicarsi. Analizzato in questi termini, il tentativo fallisce. Al contrario, a San Basilio fu proprio nel momento in cui il quartiere apprese dell’assassinio di Ceruso che la lotta si trasformò in una battaglia autenticamente popolare, senza distinzione alcuna tra occupanti e assegnatari. E, come recita Rivolta di classe, un’altra canzone popolare dedicata alla battaglia di San Basilio, «la casa si prende, la casa si difende» continuerà a essere lo slogan di qualunque episodio di riappropriazione:

La casa compagni si prende / l’abbiam gridato tante volte / e dopo la si difende / da padroni e polizia…

Le case, dunque, saranno occupate ancora, i diritti rivendicati, le conquiste sociali difese: «Sarebbe sbagliato», si scrisse allora, «“mitizzare” lo scontro di S. Basilio in quanto ancora episodio (anche se tra i più belli e i più profondamente radicati nella coscienza di classe) e non già acquisizione permanente di quel comportamento da parte del movimento per la casa».
Un’affermazione, proveniente dall’area dell’Autonomia Operaia, con cui si sottolineava come, partendo dall’abitare, fosse inevitabile arrivare allo scontro con strutture di potere disposte a tutto pur di non cedere un centimetro del proprio interesse alla classe contrapposta. E in effetti, ad appena un giorno di distanza dalla morte di Ceruso e dopo che, inferocita per l’omicidio del ragazzo di Tivoli, tutta San Basilio si era scagliata contro la polizia ingaggiando una guerriglia lotto per lotto, la Regione Lazio si decideva a riconoscere il diritto alla casa popolare a chiunque, vantando i necessari requisiti, avesse occupato un alloggio prima dell’8 settembre del 1974.
Per molti palazzinari simili provvedimenti rappresentavano – e rappresentano – un danno concreto. Il rischio di una perdita economica nel nome della quale si potrebbe tranquillamente tornare ad ammazzare ancora.

(Tratto da “La Scintilla. Dalla Valle alla Metropoli, una storia della lotta per la casa”).

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BIBLIOGRAFIA:

Cristiano Armati, Cuori rossi, Newton Compton, Roma, 2006.
Massimo Carlotto, San Basilio, in In ordine pubblico, a cura di Paola Staccioli, Fahrenheit 451, Roma 2005
Raimondo Catanzaro – Luigi Manconi, Storie di lotta armata, Il Mulino, Bologna 1985.
Gian-Giacomo Fusco, Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie: San Basilio come caso di studio, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2013.
Ubaldo Gervasoni, San Basilio: nascita, lotte e declino di una borgata romana, Edizioni delle Autonomie, Roma, 1986.
Sandro Padula, San Basilio, 8 settembre 1974: Fabbrizio Ceruso e la lotta per il diritto alla casa, in «Baruda.net», 8 settembre 2014.
Massimo Sestili, Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974, in «Historia Magistra», n.1, 2009.
Pierluigi Zavaroni, Caduti e memoria nella lotta politica. Le morti violente della stagione dei movimenti, Carocci, Roma, 2010.
A cura di «Progetto San Basilio – Storie de Roma» è in corso di preparazione un film documentario sui fatti del settembre 1974 intitolato La battaglia – San Basilio 1974

Il vero problema

Adesso il problema è che QUELLA fotografia fa discutere.
Quando il vero problema è come mai nemmeno QUELLA fotografia fa passare all’azione.
Quando il vero problema è come mai la piena consapevolezza dell’abominio in corso non produca un urto forte abbastanza da spezzare le catene dello sfruttamento e della miseria, annientando i veri autori di QUELLA fotografia.
Ma forse le cose non stanno così, dobbiamo crederlo.
Forse è vero quanto ha scritto Sandro Penna in una sua poesia: “Il mondo che vi pare di catene / tutto è intessuto di armonie profonde”.
Si intitolava Moralisti, la poesia di Penna. E forse parlava proprio di loro. Parlava di chi, dietro QUELLA fotografia, non vede le identiche catene dello sfruttamento e della miseria che ovunque uccidono nel silenzio e che negli occhi dei bambini e dei loro genitori non hanno alcuna paura di seminare sofferenza o umiliazione o morte.
Ma se è così la poesia di Penna parla anche di chi quelle catene prova a spezzarle tutti i giorni, ovunque si trovi, con tutto ciò che ha a sua disposizione.
Ecco. Sono quelle le armonie profonde.
Abbiatene paura, moralisti. Ne sarete svegliati.

Buonanotte piccolo.
Non dimentichiamo.
Non perdoniamo.

Ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle piazze? Una riflessione dopo la divisione delle curve dell’Olimpico

Il punto di domanda è d’obbligo considerando come sarà soltanto la realtà ad esprimere la misura e la direzione che assumeranno i fermenti sociali, in Italia come altrove. Di certo, di fronte alla feroce repressione da cui è stato attaccato negli ultimi anni, il movimento ultrà, al di là delle difficoltà – o delle possibilità – insite nell’esprimersi nei suoi confronti in termini unitari, ha spesso condensato la sua voglia di rivalsa nello slogan: «Ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle strade».

Si tratterebbe, a ben vedere, di una sorta di “ritorno alle origini”. Non accadde, infatti, nel corso degli anni Settanta, che una fetta di popolo, spesso schierata a sinistra, iniziasse a trasferire nelle curve valori, nomi, cori e colori tratti direttamente dall’esperienza dell’antagonismo di classe?

E allo stesso modo, non è forse vero che con il passare del tempo pezzi importanti di sinistra salottiera e borghese iniziarono a stigmatizzare gli ultrà, delegittimando e isolando le radici popolari del movimento, fino a consegnare alla destra diversi stadi italiani?

Malgrado questo è innegabile come, anche in una stagione di forte disimpegno e deflusso, proprio negli stadi sia sopravvissuta e sia cresciuta una tendenza forte e organizzata, decisa a muoversi in direzione ostinata e contraria rispetto ai valori dominanti, incarnati dall’odiosa paytv e sostenuti attraverso misure sul genere della tessera del tifoso, una delle tappe epocali nel percorso di disarticolazione del movimento ultrà, deciso a tavolino dalla politica parlamentare, espressione di precisi comitati d’affari, e dal suo braccio armato: le forze dell’ordine, la magistratura e gli addetti alla disinformazione in campo ideologico (leggi: giornalisti).

In queste settimane, mentre dalla Spagna arriva la notizia di nuove misure di identificazione, come il riconoscimento biometrico (!!!) per l’accesso allo stadio, a Roma, su iniziativa del prefetto Franco Gabrielli, le Curve dell’Olimpico vengono divise in due e durante la partita Roma-Juve la Sud viene profanata con la presenza diretta nel cuore dell’impianto sportivo di un concentramento di truppe degno della vera natura dell’iniziativa: l’occupazione militare di un territorio straniero.

Restando a Roma, dopo lo sgombero dello studentato occupato Degage, il provvedimento preso allo stadio Olimpico – che nel corso dell’ultimo Roma-Juve ha reagito in modo determinato ma non violento alla provocazione – è l’altra e sola iniziativa presa dalla Prefettura dopo aver promesso chissà che cosa in risposta alle polemiche per lo scandalo del faraonico funerale Casamonica: segno evidente di una priorità che può essere definita in tanti modi, ma non certo “legalitaria”.

Che la divisione delle Curve sia l’antipasto dell’avvento di uno stadio “finalmente” ridotto a salotto buono per un pubblico “bene educato”, educato cioè al pagamento senza fiatare di dazi sempre più alti, e alla sua riduzione a semplice tappezzeria per uno spettacolo teletrasmesso, sembra un dato di fatto. E sembra anche, uno spazio come quello dello stadio, telecamerizzato, scomposto, guardato a vista, trasformato in una prigione videosorvegliata e vigilata da personale armato oltre che riservato al teatro di una disciplina pesantemente contrassegnata da malaffare e corruzione, essere diventato particolarmente favorevole all’esercizio della repressione, all’accanimento contro gli episodi di resistenza al calcio moderno: espressione sinonimo di opposizione al modello economico imposto violentemente dal capitalismo imperante a tutto ciò che si muove, a cominciare dalle strutture autorganizzate dal basso e impegnate sul campo della riappropriazione diretta di reddito, case, sogni.

In questo contesto, l’idea di assistere a uno spostamento della lotta “dallo stadio alla strada” è una metafora interessante e tutta da scoprire, un ritorno all’antico che, chissà, verificando l’equazione “no al calcio moderno = no al capitalismo”, potrà realizzare quella che fu l’ultima profezia/invito di un osservatore-protagonista come il compianto Valerio Marchi. Perché, affermava Valerio nella sua Lettera agli ultrà, «dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe».

(Articolo scritto per Sportpopolare.it – 31 agosto 2015)