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Categoria: Lotte sociali
La faccia della beneficenza: considerazioni sulla responsabilità dello stato di salute del poeta Valentino Zeichen
«Aiutiamo Valentino Zeichen». Il grido prorompe dalle gole di Luigi Manconi, Ermanno Olmi, Piera degli Esposti, Sandro Veronesi, Edoardo Albinati, Sergio Zavoli, Luigi Ontani, Edoardo Nesi, Alessandro Bergonzoni, Giuseppe Conte, Francesca Pansa, Marino Sinibaldi, Edoardo Camurri, Michela Marzano, Mario Tronti ed Elido Fazi, firmatari di un appello con cui si chiede che al poeta romano nativo di Fiume venga erogato il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli – il contributo straordinario, cioè, a cui può ambire chi, essendosi particolarmente distinto in campo artistico, culturale o sportivo, venisse a trovarsi in una situazione economica grave.
Nell’attesa che la burocrazia faccia il suo corso, le iniziative pro-Zeichen messe in campo dagli intellettuali si moltiplicano. E la stessa Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma si mette a disposizione per una serata organizzata allo scopo di raccogliere fondi. La necessità di simili eventi è dettata da circostanze amare. Zeichen, 78 anni, è stato colpito da un ictus emorragico e, mentre è sottoposto a un delicato percorso di cura e riabilitazione, appare chiaro che non sarà più possibile per lui tornare ad abitare nella precaria casupola di Borghetto Flaminio dove ha vissuto per decenni. Gli intellettuali che sostengono il poeta su questo sono chiari: Zeichen avrà bisogno di un ricovero più stabile, di assistenza costante e di sempre nuove cure che, com’è noto, costano. Ma proprio questo, in effetti, è il punto: che il valore della poesia di Zeichen sia riconosciuto da tutti, nulla toglie alla necessità, di fronte alla malattia e alla vecchiaia, di poter contare su un sistema sociale capace di riconoscere simili, umanissime esigenze e di farvi fronte. Perché se c’è una cosa che improvvisamente accumuna Zeichen ad altri milioni di comuni mortali che non scrivono poesie è proprio la malattia e la vecchiaia: milioni di persone senza volto né voce costrette a subire i rigori del nulla quando non hanno i mezzi per provvedere in autonomia al proprio ricovero e alla propria cura – o al ricovero e alla cura dei propri cari.
Non è atroce tutto questo? E non è assurdo che proprio il campo “intellettuale” si distingua per la sua incapacità di generalizzare, e quindi di politicizzare, le condizioni di Valentino Zeichen, collegandole a quelle di una massa costretta a subire i costi della crisi e a pagare – letteralmente – con la propria vita i rigori di un welfare ridotto allo zero?
Eppure, mentre fuori dai cenacoli in cui gli intellettuali pro-Zeichen si danno convegno si fanno i conti con il dramma di una situazione in cui il diritto alla salute è negato esattamente come quello alla casa, al lavoro, all’istruzione e a una pensione decorosa, ecco che a leggere meglio i nomi di chi chiede allo Stato di aiutare l’anziano poeta in difficoltà non si capisce più se quell’appello sia serio o se, in realtà, non ci sia dietro una gigantesca presa in giro. Perché non occorre alcuna patente da intellettuale per sapere che se Zeichen e altri milioni di anziani in Italia sono costretti all’indigenza, questo è dovuto a precise responsabilità politiche e alle finanziare lacrime & sangue varate – per parlare degli ultimi anni – dai governi Monti, Letta e Renzi, cioè, per restare tra i firmatari dell’appello di cui stiamo parlando, dagli stessi Edoardo Nesi, Mario Tronti (sì, proprio l’uomo che molti si ostinano a ricordare quale padre dell’operaismo italiano…) e Luigi Manconi, che di questi governi fanno o hanno fatto parte.
La firma di Nesi, Tronti e Manconi sull’appello pro-Zeichen sarà senz’altro molto meno pericolosa di quella che questi personaggi hanno già messo su un ventaglio di provvedimenti che spaziano dall’abolizione dell’articolo 18 al Jobs Act, dalla «buona scuola» al piano casa di Renzi e Lupi, con quale faccia ora possono riuscire ad associarsi per segnalare alla pubblica assistenza una persona la cui situazione è precisamente collegata ai provvedimenti che loro stessi hanno contribuito ad emanare?
La saggezza popolare non ha dubbi e, da sempre, stigmatizza una simile ipocrisia associando alla parola «faccia» il termine «culo». Mentre l’intero mondo della cultura è chiamato ad assumersi precise responsabilità, specialmente quando piange aiuti di Stato, sovvenzioni e sgravi fiscali senza avere, per ovvie ragioni di classe, alcuna intenzione di analizzare le proprie rivendicazioni in un ambito più largo, lo stesso ambito in cui l’unica domanda che ha senso porsi è «cosa me ne faccio di un libro se non ho nemmeno una casa?».
Augurando a Valentino Zeichen di rimettersi presto e a tutti gli anziani privi di copertura previdenziale di marciare compatti contro chi si arricchisce con i soldi delle loro pensioni mancate ed edifica le sue carriere politiche al servizio dei poteri forti, dedichiamo agli intellettuali di questi tempi grigi le parole di un altro poeta. Si chiamava Ho Chi Minh e diceva che anche i poeti devono imparare a lottare.
Gli antichi si dilettavano
a cantar la natura:
fiumi, montagne, nebbia,
fiori, neve, vento, luna.
Bisogna armare d’acciaio
i canti del nostro tempo.
Anche i
poeti
imparino a combattere!
T’hanno scritto che sei romena e te fai pure le foto mentre sorridi?
Un giorno arrivo al bar e prima che apro bocca per farmi dare una canadese, Tremolina, che al bar ci abita, subito mi dice: «Hai visto che ha fatto Carpano?».
Se a Carpano fosse capitato qualcosa di veramente, veramente brutto, lo avrei capito subito. Perché accanto al nome della persona, Tremolina, come si fa in questi casi, avrebbe aggiunto la parola “poro”. Usare le parole per dire della morte porta male a chi lo fa, quindi non sarebbe servito andare oltre, sarebbe bastato dire “hai visto che ha fatto er poro Carpano?” e avrei capito; come aveva capito la barista, che la canadese la tira fuori dal frigo senza che io aggiunga nulla al solo fatto di essere là…
Che ha fatto Carpano?
Me lo chiedo con la canadese in mano e il mento all’insù, per invitare chi avevo di fronte a spiegarsi meglio.
«Giù al cantiere, stava a lavorà, un manovale rumeno j’ha fatto rodè er culo, che ne so… l’ha preso a pizze e questo è cascato giù dar ponteggio…».
Rimanevo ancora in silenzio. Allora Tremolina aggiunge: «Stavano a dodici metri, mica cazzi».
E poi: «So arrivate le guardie e se lo so’ portato via».
Tiro un sorso di birra dalla bottiglia: «Ah»; poi mi metto una mano sulla faccia. Anche nominare ciò che rende romani porta male. Fare il gesto che significa essere stato carcerato può bastare. Però no, mi confida Tremolina: «Se lo so’ tenuto a bottega mezza giornata e l’hanno riportato a casa. Me sa che j’hanno dato i domiciliari».
«Ciaveva moje e tre figli», dice la barista. Ma parla del manovale romeno. Tarpano, a quarant’anni, abita ancora con la madre, nessuno gli conosce una ragazza, ma che è uno che si incazza facile lo sanno tutti. Devi esse’ scemo pe’ fa a cazzotti a dodici metri: se lo piji, chi cìai di fronte lo ammazzi – o vai a morì ammazzato te, per carità. Per le guardie, comunque, deve esse stato un incidente e quindi niente gabbio. Mejo pe’ Carpano.
S’è fatta una certa. E dentro al bar suona la musichetta del telegiornale. Edizione della sera. Parla di una ragazza morta sotto la metropolitana. Dice che è stata una prostituta. Dice che l’ha ammazzata con la punta di un ombrello.
Che strano, penso.
Di film ne ho visti tanti, ma in nessuno c’è mai stato un assassino che va in giro a fare i morti con l’ombrello.
Che strano, penso.
Se uno fa il falegname, il farmacista, il giornalista, il pescivendolo, il facchino, il fabbro, l’agente immobiliare, l’impiegato, il giocoliere, il tabaccaio, il contadino, il cavolo che gli pare, mica lo dicono falegname, farmacista, giornalista, pescivendolo, facchino, fabbro, agente immobiliare, impiegato, giocoliere, tabaccaio, contadino o il cavolo che gli pare se c’è un arresto.
Che strano, penso.
Se uno è italiano mica lo dicono se c’è un arresto.
Una volta sì, lo facevano. Dicevano calabrese, leccese, siciliano, foggiano e napoletano, pure se uno era di Salerno, di Avellino o di Caserta. Adesso hanno smesso. Dicono romeno se è bianco o senegalese se è nero.
E se dicono romeno o senegalese, poi è dura che aggiungano che «è stato un incidente», non importa più quello che è successo.
E infatti nemmeno questa volta lo fanno. Passano i giorni e di questa ragazza che chiamano prostituta si viene a sapere che ha preso la condanna più dura di tutta la storia della Repubblica italiana per un omicidio preterintenzionale. Al bar, se dici che a questa – che la chiamano prostituta – se la so’ bevuta così male, ai politichi che rubbeno, allora, che toccherebbe da’ faje?; tutti fanno a gara pe’ aggiunge che ce vorrebbe ‘n sacco de benzina co’ li politichi, pe’ daje foco a tutti insieme alla mejo anima de li mortacci loro…
Quella che chiamano prostituta intanto ‘sta al gabbio.
Poteva fa la fine de Carpano, che il reato mica era tanto diverso, però a lui non je l’avevano scritto sul giornale che era romeno.
Carpano, sul giornale, non ce l’hanno proprio messo. La ragazza che chiamano prostituta sì, e lei era finita pure in televisione se è per questo. Infatti, una volta che è uscita in semilibertà, si è fatta una foto al mare mentre sorrideva e così se la so’ bevuta n’antra volta.
Aoh, ma che sei de coccio?
T’hanno scritto che sei romena e te fai pure le foto mentre sorridi?
Prima gli italiani.
Sguattere & Guatemala
Che si parli di sguattere o di Guatemala, è normale che esista gente incapace di provare rispetto al di fuori di quanto previsto dai propri pregiudizi di classe, genere o razza (cioè a partire da diverse quantità di melanina presenti sulla propria pelle… bah). Per questo esistono i gulag.
Ieri partigiani, oggi antifascisti: settimana antifascista a Massa
MASSA: Il centro sociale Casa Rossa lancia una settimana di riflessione e lotta dedicata all’antifascismo. Con la consapevolezza di doverne recuperare lo spirito, di doverne difendere il senso, di doverne attualizzare il contenuto. Tra le iniziative in programma, DOMENICA 7 FEBBRAIO, dopo il pranzo popolare delle 13, il dibattito “ANTIFASCISMO OGGI, TRA LOTTA E REPRESSIONE” in compagnia di: Cristiano Armati (Red Star Press) e dei compagni del CPA Firenze Sud che presenteranno la campagna “La lotta è l’unica via” a sostegno degli 86 imputati fiorentini indagati per associazione a delinquere.
Tutti o nessuno: oltre la “moratoria giubilare per gli spazi sociali”, fermiamo sfratti e sgomberi
Una moratoria giubilare per gli spazi sociali… è quanto emerge dalla partecipatissima assemblea indetta ieri, 27 gennaio, negli spazi di ESC sotto sgombero. Un’occasione, per il Movimento, di guardarsi negli occhi e ripartire sulla base di un’idea di sinistra semplice e chiara. Un’idea fondata sul principio secondo il quale dove ci sono i diritti non c’è il mercato: NO allo sgombero degli spazi sociali, dunque. E anche NO alla privatizzazione dei servizi pubblici e sociali. Ma, a proposito della sintesi assembleare e/o a come questa viene resa pubblica, dove è finito il NO agli sfratti? Dove si parla di NO agli sgomberi delle occupazioni abitative? Dove è finito lo sforzo per mettere in pratica un linguaggio capace di parlare per tutti e di tutti e non solo di sostenere rivendicazioni sacrosante ma parziali? Come si dimostra la solidarietà attiva nei confronti di chi, in questo momento, non ha neppure la possibilità di iscrivere suo figlio nel proprio nucleo familiare – per non parlare di cure mediche e diritto all’istruzione negati – grazie al piano casa di Renzi e Lupi, frutto della stessa ideologia che ora vuole mettere a valore gli spazi sociali procedendo con gli sgomberi? Come si inverte una simile tendenza e, a proposito di pratiche, come si sostiene la parola d’ordine “CON OGNI MEZZO NECESSARIO”, utilizzata nei manifesti affissi in questi giorni per descrive ciò che si è disposti a fare per la difesa degli spazi sociali, se non ci si mette in gioco quando a essere buttati per strada sono uomini, donne, vecchi e bambini? E, in modo particolare, come si può pensare di andare “oltre noi stessi”, un altro richiamo ripetuto più volte nel corso dell’assemblea, quando in quel “noi stessi” fatto di persone senza casa che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena non ci siamo mai?
La richiesta di una moratoria giubilare per gli spazi sociali a Roma è sacrosanta. Ma se non viene estesa agli sfratti e agli sgomberi nel loro complesso, a cominciare da quelli che si abbattono sulle occupazioni abitative, se non incarna cioè una prospettiva di salvezza davvero collettiva – o tutti o nessuno: non ci si può “salvare a pezzi”! – come quella che prevede un cambiamento radicale dell’esistente, non ha nessuna possibilità di rappresentare quell’opposizione alle politiche neoliberali che dice di voler essere. E, sganciata da una piattaforma popolare nel senso più esteso del termine, a dire la verità, non ha neppure alcuna possibilità di successo. A parlare nelle periferie resterà l’estrema destra spalleggiata dalle forze dell’ordine oltre che da un senso comune a cui è stata inculcata l’idea che la sinistra sia nella realtà roba da ricchi. Dopo di che sarà necessario difendere se stessi dall’avvento di un regime di stampo fascista, altro che dagli sgomberi degli spazi sociali.
PS: nella “giornata della memoria” si rende noto che il 28 gennaio, alle 5 del mattino, si procederà allo sgombero dello stabile di via Prenestina 1391, di proprietà dei padri Monfortani e tenuto vuoto da più di dieci anni. Con il manganello dello sgombero sulla testa, inutile precisarlo, non c’è alcun diritto sociale per nessuno. E citando Primo Levi, dato il valore simbolico della data, non c’è neppure Dio. Altro che “giubileo”.
Omofobia, antisessismo e ipocrisia: il caso Sarri
La verità – che parolone! – è che il calcio mainstream fa talmente schifo che quando sulla scena si presenta un personaggio come il sor Sarri: un signore di mezza età con lo stile dell’abitué del bar dello sport e non un fotomodello mancato olezzante lacca e silicone; quando a poggiare il culo sulla panchina è uno che non ha fatto differenza tra campi di terra malamente battuta e grandi platee televisive e che ha affrontato un percorso estraneo al riprodursi incestuoso tipico delle elite (sportive, economiche e politiche non fa nessuna differenza); quando a impossessarsi del prime time, delle pagine dei giornali e, magari, anche del campionato è un tipo che, addirittura, è in odore di comunismo… beh, ci mancava soltanto che Sarri avesse scelto di tenere corsi di antisessismo all’università per conferirgli il premio Lenin e a questo punto, riconciliati con l’orrore della mercificazione imperante, ci saremmo potuti rimettere le ciabatte in tutta tranquillità e continuare a passare i pomeriggi della nostra breve vita davanti a Sky.
I fatti sono andati diversamente. Sarri ha avuto a che ridire con Mancini e ha apostrofato l’ex golden boy doriano al grido di «frocio», «finocchio» e/o cose simili.
Troppo perfetto per essere vero, l’uscita di Sarri, per altro resa pubblica dallo stesso Mancini in differita, ha deflagrato come un sampietrino scagliato contro la vetrina di un negozio del centro. Ad alzare la voce contro l’allenatore del Napoli ci ha immediatamente pensato «la Repubblica», che quando non parla di Renzi ha la coscienza limpida di un neonato, auspicando in ordine crescente il licenziamento, la radiazione, la crocefissione di Sarri, che va bene tutto – dal jobs act alla buona scuola, dalla trivellazioni all’Alta Velocità – ma se si parla di omofobia allora è uno scandalo perché siamo un paese civile bla, bla, bla…
A dire il vero, e stendendo un velo pietoso su una certa dose di razzismo implicita in tanti discorsi sull’Italia Meridionale, Sarri ha trovato altrettanto presto validi argomenti di difesa e, a suo favore, si è schierato un fronte allargato, ed ecco che le bandiere del «Mancini spia» hanno cominciato a sventolare insieme a quelle di un insospettabile movimento «omosessuali pro Sarri», armato dell’immancabile «non sono d’accordo con la tua opinione ma darei la vita affinché tu possa esprimerla», che evidentemente fenomeni tipo l’ascesa di Hitler non sono bastati a dimostrare come esistano “opinioni” (e l’omofobia è tra queste) rispetto alle quali la vita è il caso di metterla in gioco affinché non si esprimano più e non il contrario.
Tralasciamo i commenti di chi è disposto a vendere l’anima al diavolo pur di festeggiare lo scudetto della sua squadra, ma, per no fare la figura dei bambini che si difendono dalle sculacciate della mamma additando le marachelle dei fratellini, evitiamo anche i paragoni con altri episodi impuniti: tipo la disinvolta esibizione di celtiche e boia chi molla da parte del portierone nazionale Gigi Buffon o la naturalezza con cui il famigerato Tavecchio, sempre saldo sul trono presidenziale, ha dato fiato alle sue trombe razziste e omofobe. Moltissimi articoli dedicati all’affaire Sarri, praticamente tutti, si addentrano nei loro distinguo dopo stucchevoli preamboli costruiti a colpi di «fermo restando la condanna dell’omofobia» e «pur riconoscendo la gravità delle espressioni utilizzate dal tecnico napoletano». Articoli che, in alcuni casi, i migliori, proseguono con argomentazioni tipo «però quando Salvini afferma le stesse cose gli riconoscete massima agibilità politica, mica vi indignate, eh!»; tutte cose vere e sacrosante, come però a essere vera e sacrosanta è anche la chiosa necessaria ad arginare ciò che rischia di essere banale. Una chiosa chiara e concisa tipo: «Grazie al cazzo!».
Se tra le colonne dei nostri giornali esistesse davvero la coerenza, affacciandoci alla finestra avremmo l’occasione di vedere un mondo assolutamente diverso da quello che abitiamo: un mondo dove, ma solo per fare un esempio al volo, si discuterebbe delle onorificenze assegnate a certi ragazzi di Cremona per il loro antifascismo, valore sacro della Costituzione italiana, e non certo della repressione di cui sono vittime…
Continuare su questa strada è inutile, l’evidenza dell’ipocrisia imperante parla da sola. Eppure se un Salvini qualunque viene invitato ovunque proprio per inneggiare al sessismo più becero (come al razzismo più becero e al fascismo), mentre l’espressione di Sarri provoca simili bordate di indignazione una ragione deve pur esserci. E a ben vedere questa ragione c’è: il Sarri omofobo, infatti, diventa immediatamente e anche suo malgrado un ostacolo sulla via dell’avanzato stato di trasformazione del calcio, da sport a spettacolo, e degli impianti sportivi, da territori tendenti a esprimere valori antagonisti rispetto alle logiche di dominio a teatri in cui si paga il biglietto per comprare il proprio seggiolino numerato. Il finocchio di Sarri, in questo percorso, è un bel bestemmione smoccolato in cattedrale durante l’omelia del vescovo e, magari a livello inconscio, è proprio in questa rottura che il ruvido tecnico toscano trova difensori che nulla hanno a che spartire con sessismo e omofobia. Anche noi, da questo punto di vista, non facciamo fatica alcuna a iscriverci al club. E non per la comprensibile ma infantile simpatia nei confronti del politicamente scorretto a cui pure non siamo immuni, ma perché crediamo che «l’odierna società dello spettacolo col babau del sessismo e dell’omofobia riuscirebbe non solo a difendersi, a vivere più tranquilla, ma anche a convincere una parte degli spettatori a collaborare con lui, a schierarsi dalla sua parte. Combattere il sessismo e l’omofobia lasciando indisturbato il suo perenne generatore, e anzi illudersi di trovare in questo un difensore contro quello, significa continuare ad avere sulle spalle l’uno e l’altro».
Chiudiamo questa riflessione riconoscendo la paternità del virgolettato finale a Luigi Fabbri e al suo La controrivoluzione preventiva. Scritto nel 1926, il libro di Fabri parlava di «fascismo» e non di «sessismo e di omofobia» e scriveva «Stato capitalista» e non, come abbiamo fatto noi prendendo in prestito le sue parole, «società dello spettacolo». Il senso di simili affermazioni, però, resta perfettamente sovrapponibile. E a questo punto il caso-Sarri può tranquillamente essere archiviato.
(Pubblicato in versione ridotta su Sportpopolare.it il 21 gennaio 2016)
BASTARDS: in divisa, ma non per forza poliziotti
Ci si dimentica facilmente che prima di essere condotto al martirio un ragazzo come Stefano Cucchi fu fatto sfilare in un Tribunale. In quel momento era vivo, eppure mostrava già sul volto il segno delle percosse ricevute. Ebbene, come si comportò quel giorno il giudice chiamato a prendere parola sulla droga posseduta dal ragazzo? Ovviamente non ebbe certo gli occhi per guardare in faccia l’imputato, né il cuore necessario a farsi due domande sullo stato in cui questo gli veniva presentato: gli fu sufficiente trincerarsi dietro il codice per avvallare con la sua ignavia – di questo si tratta – l’imminente morte violenta di una persona colpevole di essere stata fermata con qualche grammo di fumo in tasca.
Quando le foto del cadavere di Stefano Cucchi furono divulgate, i muri di tutte le città italiane salutarono l’ennesima infamia compiuta dal personale in divisa al grido di ACAB. E quella scritta resta senz’altro cosa buona e giusta, rispetto a una lista atroce e lunghissima di vittime degli abusi in divisa e anche rispetto alla sostanziale impunità con cui la polizia arriva a uccidere. Eppure quella scritta non basta. E non basta perché illustra soltanto una parte della catena degli abusi compiuti in divisa: fotografa l’istante in cui il manganello cade sulla testa di chi si oppone a un ordine oppressivo ma non parla di chi, questo stesso ordine, lo difende pagato profumatamente, comodamente seduto su uno scranno di velluto e, senza nemmeno doversi preoccupare di farsi un giro per le strade delle nostre città, dietro alla più ipocrita delle frasi: «La legge è uguale per tutti», dice questa frase. E avete mai sentito un giudice esprimere l’onestà intellettuale necessaria per affermare come si tratti di una solenne stronzata?
Gli esempi sulla disuguaglianza economica, raziale e sessuale della legge si sprecano, essendo che tale disuguaglianza, rispetto alla legge e quindi rispetto a un ordine ingiusto, è la norma e non certo un’eccezione. Ma il modo in cui i magistrati si meritano il titolo di ALL BASTARDS contenuto nella scritta già coniata per i COPS non è di tipo essenzialmente passivo. Basta guardare, a tal proposito, quello che sta succedendo a Bologna su iniziativa del procuratore minorile. Al centro della vertenza c’è la lotta per la casa e, di conseguenza, la situazione di emergenza abitativa in cui vivono centinaia di migliaia di famiglie in tutta Italia: che cosa va a raccontare il procuratore a tutti quei genitori che hanno subito il calvario dello sfratto e che hanno conosciuto le notti in macchina e la strada prima di tornare a vedere le stelle grazie alla lotta e allo strumento dell’occupazione abitativa?
«Basta bimbi occupanti, i genitori vanno fermati», titola oggi il dorso bolognese del «Corriere della Sera». E il quotidiano, riportando le dichiarazioni del magistrato, si premura di spiegare come gli occupanti di casa correranno il rischio di vedersi sottrarre i propri figli dalla stessa magistratura se sorpresi nelle case occupate con la propria prole.
Come si commenta una simile affermazione?
La logica, non c’è dubbio, vorrebbe che sia buon senso pensare come gli emissari di uno stato che nega il diritto alla casa, pur previsto dall’impianto del suo diritto, di tutto possa parlare tranne che di «sicurezza» dei minori. La «sicurezza» di cui tutti, minori e adulti, avrebbero bisogno infatti è prima di tutto la sicurezza sociale, cioè esattamente ciò per cui non c’è più spazio dopo che il governo Renzi, completando un lungo ciclo di devastazione del welfare, ha deciso di dichiarare apertamente guerra ai poveri.
Ma la logica non basta a contenere la rabbia che la minaccia di togliere i figli agli occupanti di case è in grado di suscitare. Sui muri delle nostre città sarebbe ora che comparissero scritte che senza esitazione affermino AJAB: tutti i giudici sono bastardi (e anche tutti i giornalisti… l’iniziale è la stessa). Mentre, ancora più urgente, diventa dare corpo e voce possente a simili scritte. Affinché discorsi e azioni indegne come quelle appena riportate vengano respinte nelle pattumiere della storia. Insieme all’età della barbarie a cui gli «abusi in divisa» di simili giudici vorrebbero contribuire a consegnarci.
Le nostre origini: una risposta a chi pensa di usare “figli di puttana” come insulto
Di puttana, di banditi, di facchini, di cameriere e di marinai, di partigiani e partigiane, di occupanti di case e di sfrattati, di carcerati e di combattenti per la libertà, di raccoglitori di legna e di attingitori di acqua, di lavoratori e lavoratrici del braccio e del pensiero, di chi ha letto milioni di libri e di chi non sa nemmeno parlare, di migranti provenienti da ogni dove e di chi, da ogni dove, non si è mai spostato: di chiunque siamo figli e figlie, rivendichiamo con fierezza le nostre origini in seno a quel popolo in marcia contro l’unica differenza contro la quale ci battiamo ora e sempre. La differenza insanabile tra chi viene sfruttato e chi sfrutta. Ciò che costoro pensano come un insulto per noi è il vanto che rivela la natura sessista, razzista e fascista che vorrebbero imporci: non ci riusciranno mai. In alto la nostra banda! Occupiamo tutto! (Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa di Roma)
Scritto sotto la forca: il ritorno di un capolavoro censurato dai tempi che corrono
Siete stati condannati a morte, ma non sapete quando la sentenza verrà eseguita. Però avete qualche foglio di carta velina e un mozzicone di matita. La vita siete consapevoli di esservela lasciata alle spalle nel momento in cui la Gestapo vi ha tratto in arresto eppure, anche tra il dolore atroce delle torture che avete subito, non avete dubitato neppure per un attimo di essere parte di un futuro di giustizia e libertà. Ora, quanto tempo passerà prima che il boia giunga a infilare il vostro collo in un cappio? Un’ora, un giorno, un mese? Non ha nessuna importanza. Ci sono i fogli di carta velina e un mozzicone di matita. E ai nazisti che si illudono di potervi strappare l’anima non smettete neppure per un attimo di ricordare che voi siete vivi e che i morti sono loro. Lo fate con un libro che è un capolavoro assoluto. Si intitola “Scritto sotto la forca” e lo ha scritto Julius Fučík, militante comunista ed eroe della Resistenza cecoslovacca. C’è stato un tempo in cui un simile libro consentiva a chi lo leggeva di fremere di indignazione e di trasformare la sua rabbia in impegno, quindi in azioni capaci di produrre cambiamenti: un filo rosso che legava l’autore ai suoi lettori in un sentimento simile a ciò che altri hanno definito “immortalità”. Poi quel filo si è spezzato, uno scrittore-partigiano come Fučík è stato dimenticato e così, se una volta eravamo nani arrampicati sulla schiena dei giganti, ora siamo nani che hanno iniziato a scavare sempre più in profondità quando già si credeva di avere toccato il fondo. A cosa abbiamo rinunciato dimenticando Fučík? A un’opera-cardine del canone di un’Europa orgogliosamente antifascista, che ha smesso di definirsi tale spacciandosi prima come “democratica” e poi rinunciando a qualunque questione ideologica: quello che conta è reprimere con la massima violenza possibile affinché gli stessi personaggi che incoronarono l’ascesa di Hitler o di Mussolini, le stesse ditte che si arricchirono costruendo forni crematori o grazie alle commesse di guerra, possano oggi continuare a devastare, saccheggiare, fare la guerra e fatturare… per questo un libro come “Scritto sotto la forca” non si stampava più, non si leggeva più, non faceva più discutere. Almeno fino a oggi. Mentre “Scritto sotto la forca” di Fučík ritorna e afferma che i libri non sono tutti uguali. Alcuni sono merce da consumare. Altri sono micce da accendere. A ciascuno la scelta.
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Julius Fučík
SCRITTO SOTTO LA FORCA
Memorie di un condannato a morte della Resistenza antinazista
Il volto di Julius Fučík, come la sua firma, spesa per fomentare la ribellione contro l’invasione nazista della Cecoslovacchia, erano ben conosciuti dalla polizia hitleriana. Un motivo che avrebbe convinto molti ad abbassare la testa, a cercare di nascondersi, a fuggire, a fare qualunque cosa pur di non ritrovarsi tra le mani della Gestapo. Fučík, però, fa una scelta diversa. E in qualità di responsabile della stampa clandestina moltiplica i suoi sforzi a vantaggio del Partito Comunista e della resistenza cecoslovacca, convinto che nulla, nemmeno la propria vita, poteva essere più prezioso di un futuro dove la distruzione del nazismo sarebbe stata identica a una necessaria rivoluzione sociale. Arrestato a Praga dalla Gestapo nel 1942, il giornalista-partigiano viene torturato a lungo e brutalmente, è ridotto in fin di vita eppure non parla. Altri continueranno la lotta dopo di lui, fino alla vittoria, mentre per Fučík lo spettro della forca si avvicina. All’eroe della resistenza cecoslovacca non resta molto da vivere, ma può contare su un mozzicone di matita e su un mucchietto di sottilissimi fogli di carta velina. Ed è a questi fogli che Fučík consegna il suo capolavoro: un libro terribile e meraviglioso; un atto di amore nei confronti dell’umanità futura e, allo stesso tempo, per il nazismo, una condanna a morte senza appello.
Julius Fučík: figlio di un operaio metalmeccanico, nasce a Praga nel 1903 e, a soli dodici anni, collabora già con il periodico «Slovan». Nel 1921 s’iscrive al Partito Comunista Cecoslovacco, continuando a interessarsi di arte e letteratura. Membro della resistenza antinazista, viene arrestato dalla Gestapo nel 1942 e, dopo terribili torture e un processo-farsa, trasferito a Berlino, dove viene giustiziato l’8 settembre del 1943. Tradotto in decine di lingue, Scritto sotto la forca (Red Star Press) è considerato all’unanimità il suo capolavoro.