Continuare a disobbedire agli ordini. L’eredità morale degli Arditi del Popolo

a.arditi2Capita, incontrando alcuni libri, di rendersi conto che leggerli (o magari, come in questo caso, scrivere per loro conto un’introduzione) non significa avere a che fare con la carta e l’inchiostro, ma con delle realtà in grado di assumere una consistenza addirittura fisica: presenze che sarebbe più giusto assimilare a dei vecchi amici piuttosto che a delle voci bibliografiche da mettere al sicuro in qualche schedario.

Naturalmente è più facile che una simile identificazioni scatti quando il libro in questione, anziché discendere da un programma accademico, venga direttamente dalla strada, proprio come Dal nulla sorgemmo. La legione romana degli Arditi del Popolo, scritto da Valerio Gentili.

«Venire dalla strada», in questo caso, è un’espressione che non ha nulla di metaforico. E oggi, a oltre tre anni di distanza dalla pubblicazione della prima edizione del volume (2009), posso tranquillamente raccontare che io stesso ebbi modo di conoscere questo testo, prima che attraverso la sua lettura, grazie a una serie di manifesti che a un certo punto – ostentando il simbolo del teschio con il coltello tra i denti in campo nero – invasero diversi quartieri romani, a partire da San Lorenzo.

Incuriosito da sempre da tutto ciò che dicono i muri, risalii al progetto implicito in quell’attacchinaggio – riproporre all’attenzione della sinistra italiana il patrimonio rimosso del combattentismo progressista – e arrivai a conoscere Valerio Gentili: giovane storico «d’area» con il quale, in qualità di editor, iniziai una collaborazione che avrebbe prodotto, oltre a Dal nulla sorgemmo, anche Roma combattente (Castelvecchi, 2010), Bastardi senza storia (Castelvecchi, 2011) e Antifa. Storia contemporanea dell’antifascismo militante europeo (Red Star Press, 2013).

Nulla di strano, dunque, se tornare a scrivere di quello che fu l’esordio letterario di Valerio Gentili possa significare – sovrapponendo parole vecchie e nuove – rievocare quel malcelato senso di appartenenza già provato di fronte alla visione del teschio con il coltello. In modo particolare, la lettura di Dal nulla sorgemmo ha sempre richiamato alla mia memoria un’immagine difficile da mettere a fuoco. Catturato dalla prosa asciutta e dal rigore mostrato dall’autore di questo libro bello e necessario, approfondivo la conoscenza di uomini e simboli dai contorni leggendari ma, seppur rapito dalle tante informazioni inedite contenute nel volume, continuavo a pensare al luogo e al tempo in cui questa immagine, evidentemente ridotta a un ricordo seppellito nell’inconscio, doveva essersi materializzata forte e chiara davanti ai miei occhi.

a.2arditipopolo1Avvincente come un romanzo in cui il lettore capace di rispettare il patto narrativo non può fare a meno di immedesimarsi nelle situazioni descritte dall’autore, Dal nulla sorgemmo, vale a dire la storia delle prime formazioni armate che strenuamente si opposero al fascismo, lega in un discorso coerente l’avventura fiumana di Gabriele D’Annunzio e dei suoi legionari insieme al freddo intenso delle trincee della prima guerra mondiale, il clima di povertà e disperazione precedente il periodo di scioperi e repressione noto come «il biennio rosso» e l’avvento della violenza delle camice nere di Mussolini, finanziate dagli industriali, sottovalutate dai partiti della sinistra istituzionale e appoggiate dal grosso delle forze di polizia. Talmente è vivido il racconto di Valerio Gentili che, tra le pagine del suo libro, sembra di sentire crepitare le mitragliatrici utilizzate dai fascisti per assaltare le case del popolo, le leghe contadine e le sedi dei giornali dissidenti. Un’aggressione brutale e indiscriminata contro ogni luogo o persona decisi a opporsi all’ordine voluto dal Duce che, oggi, sarebbe più facilmente scivolata nel dimenticatoio se, a ostacolarla con più coraggio che mezzi, non ci fosse stata l’abnegazione e spesso il sacrificio estremo di una strana razza di soldati anarchici, repubblicani e comunisti – gli Arditi del Popolo – capaci di non confondere la necessità di obbedire agli ordini propria di qualunque sistema gerarchico con il pericolo di trasformarsi in servi di un potere volgare e assassino: un regime capace, tra le altre cose e al pari del complice nazista, di rinchiudere uomini, donne e bambini in vagoni piombati diretti ai campi di sterminio (ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici… le loro grida continuano a pesare come macigni sulla coscienza di chi ancora oggi si propone come erede di quella stagione sanguinaria) annullando qualunque «garanzia democratica» con la forza e il terrore.

Malgrado il tremendo potenziale offensivo a disposizione, le «forze del male» in camicia nera avrebbero conosciuto una clamorosa sconfitta quando, serrati i ranghi, l’esercito popolare dei Partigiani sarebbe stato in grado di rispondere alla violenza colpo su colpo e persino a sostenere vittoriosamente scontri in campo aperto. Grazie a questo, nella «Repubblica democratica fondata sul lavoro» non ci sarebbe dovuto più essere nessuno spazio né per il fascismo né per i fascisti: relitti sociali con i quali si è troppo a lungo creduto di aver chiuso i conti per sempre.

a.arditiLa realtà, purtroppo, è molto diversa dalla buone intenzioni. E se le affermazioni elettorali dell’estrema destra europea – Francia, Grecia, Inghilterra, Ungheria… – sono sotto gli occhi di tutti, la nuova edizione del libro di Valerio Gentili non si limita a osservare il fenomeno del cosiddetto «neofascismo», ma, scavando tra le pieghe di ciò che accade stabilisce un inquietante parallelismo. Perché se gli Arditi del Popolo, sulla scia del proprio valore morale e militare, non ebbero particolari problemi nel rompere il monopolio fascista della violenza, furono comunque costretti a incassare il disprezzo e la mancata collaborazione di tutti i partiti della sinistra istituzionale che, con la lodevole ma isolata eccezione di Gramsci, contribuì in modo decisivo al tramonto di quell’esperienza. Allo stesso modo, dopo la seconda guerra mondiale e dopo un periodo di relativa tenuta del fronte antifascista, l’opposizione di piazza agli eredi di Mussolini ha conosciuto un progressivo isolamento, fino a diventare appannaggio quasi esclusivo di una nuova generazione di ribelli di strada – i militanti dell’Antifa – armati di passione e coraggio, ma sistematicamente accusati di teppismo, balordaggine e superficialità delle formazioni istituzionali. Anche in Italia, da questo punto di vista, fanno storia i titoli «rissa tra ubriachi» con cui i mezzi di informazione – e i più importanti rappresentanti dell’«arco costituzionale» con loro – si sono affrettati a bollare gli omicidi di antifascisti come Davide Cesare «Dax» (Milano, 16 marzo 2003) o Renato Biagetti (Roma, 27 agosto 2006): volgari testimonianze di come, entrando nel nuovo millennio e affrontando, insieme a una crisi economica epocale anche il ritorno di fiamma delle ideologie più reazionarie, la pratica antifascista si ritrovi a vivere una nuova stagione di isolamento e marginalità, consumata nel nome diell’inesistente pace sociale necessaria a chi si è fatto alfiere dell’imperante ideologia dei «sacrifici».

Contro una simile prospettiva, non resta che tornare ai capitoli finali di Dal nulla sorgemmo. Tra gli stessi passaggi in cui – mentre l’epopea degli Arditi volge al termine e i boia in camicia nera, nelle loro prigioni, innalzano i cavalletti per estorcere con le pinze arroventate e i fili elettrici impossibili confessioni ai loro fieri oppositori – l’immagine a cui affidare il ruolo di introdurre un libro così importante, assume finalmente una consistenza concreta. All’improvviso, infatti, mi sono ricordato di un sentiero arrampicato tra le montagne della provincia di Cuneo: un tratturo ammorbidito dall’erba, come se la Natura stessa volesse ancora aiutare il suo segreto a sfuggire alla vista del passante occasionale o della spia. In questa località, amena soltanto all’apparenza, la consistenza della terra battuta cede d’un tratto il passo alla solidità della pietra viva, infilzando uno scalino dopo l’altro fino alla sommità di un monte. Qui, dove l’aria è rarefatta dall’alta quota e il cielo perennemente terso, la sacralità del luogo è affidata a un circolo di croci di legno, tese sulla serenità della valle sottostante come sentinelle. Si tratta delle tombe di un gruppo di partigiani caduti nel corso della guerra di Resistenza, come direbbe Piero Calamandrei, uomini «che volontari si adunarono per dignità e non per odio. Decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo». Tra di loro, ugualmente segnalato da una croce ma a differenza degli altri privo persino del conforto di un nome, c’è un partigiano ricordato da una targa che si limita a dire «tedesco anonimo»: un soldato dell’esercito del male che, evidentemente, non ebbe paura di gettare alle ortiche la sua uniforme per continuare a combattere dalla parte giusta. La sua lezione, affidata a quel sacrario della provincia di Cuneo, andrebbe trasferita nei tribunali di guerra in cui i tanti aguzzini fascisti e nazisti insistono a scrollare le spalle di fronte alle loro responsabilità, continuando a ripetere di avere solo «obbedito agli ordini»; quasi pretendendo, con simili scuse, non soltanto il perdono, ma anche il riconoscimento di un’inesistente dignità.

A pensarci bene gli Arditi del Popolo di cui parla Valerio Gentili sono simili al soldato tedesco senza nome venuto a morire tra montagne tanto lontane da casa sua: combattenti che ebbero la capacità e la forza di disobbedire agli ordini rifiutandosi di diventare la manodopera del terrore al servizio di forze antipopolari ma che, malgrado tutto, faticarono a trovare posto in quella tradizione di giustizia e libertà a cui dovrebbe continuare a ispirarsi la Repubblica italiana. Le ragioni del sostanziale silenzio su una simile esperienza, mai valorizzata come avrebbe meritato, sono tante. A Valerio Gentili e al suo Dal nulla sorgemmo va il plauso di averle ripercorse insieme alle vite e alle avventure degli eroici protagonisti di quell’esperienza. Una storia da conoscere e da fare propria. Affinché nessuno possa ancora pensare di giustificare l’abominio. E affinché molti possano continuare a disobbedire agli ordini.

a.dalnullaIntroduzione al volume Dal nulla sorgemmo. La Legione Romana degli Arditi del Popolo di Valerio Gentili, Red Star Press

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L’esercito. Un diritto dimenticato?

“Bastardi senza storia” di Valerio Gentili si apre ponendo all’attenzione dei lettori un importante problema storiografico: è proprio vero, si domanda l’autore, che l’affermazione dei fascismi europei poté verificarsi semplicemente a causa della mancanza di avversari in grado di opporsi militarmente alla trionfale avanzata degli uomini di un Hitler o di un Mussolini?

Una consolidata vulgata storica non avrebbe esitazioni e risponderebbe al quesito in modo positivo. Valerio Gentili, al contrario, dimostra che non fu il monopolio della violenza a spianare la strada del potere alle camicie nere e alla croce uncinata. Al contrario, mentre innumerevoli movimenti di matrice socialcomunista ricorsero alle armi per rispondere colpo su colpo alle aggressioni nazifasciste, l’azione di questi gruppi venne depotenziata o vanificata dall’eccessiva fiducia che le forze riformiste riposero nella tenuta delle istituzioni democratiche e/o dal timore, covato dagli esponenti dei partiti rivoluzionari, di vedersi scavalcare a sinistra da uomini in grado di imprimere una svolta non soltanto all’autodifesa del movimento operaio ma allo stesso fenomeno della lotta di classe. Sono esattamente questi uomini i “bastardi senza storia” a cui il lavoro di Valerio Gentili è dedicato: non burocrati né funzionari di partito, ma semplici militanti di base, giovani ribelli e, soprattutto, reduci della prima guerra mondiale: soldati che dopo aver difeso la Patria mordendo il fango delle trincee di tutta Europa si ritrovarono gettati in una pace fatta soltanto di ingiustizia sociale e miseria. “Bastardi senza storia” si nutre di questo humus per restituire ai suoi lettori le gesta di organizzazioni dai nomi inequivocabili, dalla tedesca Lega dei combattenti rossi di prima linea agli italiani Arditi del popolo (solo per fare alcuni nomi), e per spiegare in quali circostanze nacquero simboli come le bandiere rosso-nere o gesti come quello del saluto a pugno chiuso. Si tratta di una storia che ha il sapore di una vera e propria scoperta, non soltanto perché consente di recuperare le radici che legano il fenomeno del combattentismo progressista alle sottoculture politicizzate del sottoproletariato giovanile, ma perché, raccontando il contributo offerto dai soldati alla lotta antifascista e alla guerra partigiana, Valerio Gentili affronta un nervo scoperto degli attuali sistemi politici occidentali. Un problema che, per non perdersi in tanti giri di parole, può essere impostato in questi termini: qual è il ruolo dell’esercito in un Paese democratico? Come può essere impiegato? E soprattutto: chi deve essere chiamato a farne parte?

Per affrontare un simile problema potrà essere utile restringere il campo all’Italia e osservare la questione in prospettiva, notando come, dalla fine del secondo conflitto mondiale ai giorni nostri, si sia passati da un esercito popolare, a cui ogni cittadino italiano aveva il diritto e il dovere di appartenere, a un esercito di professionisti o, per dirlo con una parola politicamente scorretta in tempi in cui il lessico italiano si è appesantito di termini quali “escort” o “contractor”, di mercenari.

 I risultati di un simile cambiamento (milioni di coscritti forse sollevati da un dovere ma senz’altro privati di un diritto) sono sotto gli occhi di tutti nel momento in cui, parlando di difesa di obiettivi sensibili, diventa sempre più facile imbattersi in militari impiegati per strada con ambigui compiti di polizia. Si potrebbe andare oltre e sottolineare come, nel momento in cui l’esercito restringe a un nucleo di professionisti il suo reclutamento, diventi più semplice per i suoi appartenenti dimenticare di esistere per essere al servizio del popolo, riducendosi a semplice braccio armato dello Stato. Qui il celebre slogan “Arditi non gendarmi” con il quale gli Arditi del Popolo si opposero strenuamente al fascismo ha il potere di saldare il passato al presente, per chiedersi se i partiti progressisti non stiano tornando a ripetere un errore che fu fatale già ai tempi degli anni orribili in cui fascisti e nazisti furono liberi di scatenarsi in un’orgia di morte e distruzione. L’errore, oggi come allora, sarebbe quello di respingere il concetto stesso di esercito in un territorio strettamente conservatore, regalando alla destra più reazionaria un sapere e un potere delicatissimo come quello militare. Contro questo rischio, “Bastardi senza storia”, con la sua capacià di fascinazione, può essere considerato un valido antidoto. Perché se, come ancora ci ricorda l’articolo 52 della Costituzione, la difesa della Patria è “sacro” dovere del cittadino, pensare di poter dormire sonni tranquilli delegando la tutela dei propri diritti a un pugno di dipendenti statali equivale a bestemmiare.

Bastardi senza storiaIntroduzione di Cristiano Armati al volume “Bastardi senza storia. Dagli Arditi del Popolo ai Combattenti Rossi di Prima Linea, la storia rimossa dell’antifascismo europeo” di Valerio Gentili

Idee di patria. La letteratura della guerriglia in Italia

Come tutte le storie, anche quella della letteratura è gravata da un pregiudizio difficile da sradicare. Minaccioso come una censura che, seppur mai decretata da alcun organismo di controllo, sortisce l’effetto di occultare interi campi di sapere dall’enorme valore critico-culturale, questo pregiudizio è l’idea secondo la quale l’intera produzione mondiale di documenti scritti può essere divisa in due gruppi ben distinti: da un lato uno spazio “alto”, dove troverebbero cittadinanza il romanzo borghese, la poesia colta e la saggistica speculativa di matrice accademica; dall’altro lato un territorio “basso”, all’interno del quale andrebbero automaticamente collocate tutte le opere di natura eminentemente tecnica insieme a qualunque spunto – dalle scritte sui muri agli stornelli improvvisati “a braccio” – di natura popolare e, spesso, anche a qualunque traccia linguistica subalterna nell’economia e, di conseguenza, anche nei contenuti e nello stile.

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Il feticismo della guardia: guerre, uniformi e altre oscenità

C’era una volta un bastimento carico di uomini neri. Uomini razziati nel cuore del continente africano, legati uno all’altro con un cappio stretto intorno al collo, segregati nel buio delle stive, torturati e malnutriti: se sopravvivevano diventavano schiavi. Carne fresca che al mercato di Mkunazini si vendeva un tanto al pezzo: un dollaro per un bambino, dodici per una bella ragazza, di più per un uomo grosso e forte. Tutto questo, come ricorda il reporter Ryszard Kapuscinski (Ebano, Feltrinelli) succedeva a Zanzibar, l’isola maledetta, la “stella nera”, in pratica solo uno dei luoghi dove i mercanti portoghesi (e altri con loro e dopo di loro), grazie all’approvazione dei re e alla benedizione di dio, smerciavano gli schiavi diretti alle piantagioni degli Stati Uniti o del Brasile: schiavi che i mercanti chiamavano semplicemente “ebano”, sottolineando, con questo nome, come gli uomini resi oggetto del loro commercio non fossero altro che cose.

Ridotte a cose, le esistenze degli schiavi vennero condannate al lavoro brutale e coatto mentre, le manifestazioni delle loro menti, furono umiliate e negate. Fu allora, infatti, che le visioni del mondo e i saperi antichi e preziosi degli uomini africani resi schiavi vennero passate al vaglio della teologia cristiana e dello scientismo razzista anche se, ancora una volta, furono i mercanti portoghesi a trovare un nome ai comportamenti rituali e alle raffigurazioni di divinità che, derise in quanto reputate primitive e irrazionali, vennero indiscriminatamente archiviate sotto la voce “feticismo”. Così, quegli oggetti ai quali le popolazioni locali rivolgevano una particolare devozione, divennero “feticci” mentre i “feticisti” sarebbero stati gli adepti di un culto che i primi missionari, considerandolo frutto del demonio oppure esempio di degradazione umana, provarono con zelo a sradicare.

Feticismo, colonizzazione, cosificazione


Dal gergo dei mercanti
, attraverso le relazioni compilate da missionari e da viaggiatori, il termine portoghese “fetiço” venne tradotto in tutte le lingue europee. L’etimologia della parola, derivata dal latino “factitius” (artificiale), lasciava intendere che, di fronte al feticcio, si aveva a che fare con un oggetto prodotto mediante un procedimento tecnico, un procedimento che trasferiva all’oggetto il controllo di quelle qualità che la natura offre all’uomo come incerte: la fertilità della terra, la clemenza del tempo atmosferico, la capacità di procreazione.

Con questa accezione, il feticismo entrò a far parte della scienza delle religioni nella seconda metà del XVIII secolo grazie alla fortunata opera del magistrato francese Charles De Brosses il quale, raccogliendo le riflessioni operate da Hume nella sua Storia naturale della religione (1757), scrive Sul culto degli dei feticci o parallelo dell’antica religione egiziana con la religione attuale della nigrizia (1760; trad. it. Bulzoni, 2000), un libro che trasforma quelle che erano state le visioni preconcette di osservatori occidentali in un sistema religioso di senso compiuto e che, sostenendo una teoria evolutiva della storia umana, colloca tale sistema religioso sul gradino più basso dello sviluppo morale e materiale: quello dell’infanzia dell’umanità.
Stigmatizzando l’impostazione di De Brosses, l’etnologo Marcel Mauss (1907) negò ogni validità scientifica al concetto di feticismo, contribuendo in maniera decisiva a collocare la storia di questa idea sul versante del malinteso.

04.Feticcio1Un malinteso che, se riletto attraverso il Discorso sul colonialismo del poeta martinicano Aimé Césaire (1955; trad. it. Lilith, 1999), rende il feticismo un miraggio, un pregiudizio nato all’interno di rapporti – quelli tra colonizzato e colonizzatore – che: «trasformano il colonizzatore in pedina, in maresciallo, in guardia-ciurma, in frusta e l’indigeno in strumento di produzione». Poiché tra colonizzatore e colonizzato, continua Césaire: «c’è posto solo per il lavoro duro, l’intimidazione, la pressione, la polizia…»; allora, conclude il poeta: «Adesso tocca a me porre un’equazione: colonizzazione=cosificazione».

Uomini e cose

Rinchiudendo le credenze degli indigeni africani tra le sbarre della categoria feticismo, i colonizzatori crearono una realtà, quella di un’umanità stupida e barbara, e, allo stesso tempo, prescrissero i modi con cui affrontarla, suggerendo la necessità di un domino territoriale che sottraesse ai suoi legittimi abitanti tutte quelle ricchezze che essi, nell’opinione degli stessi colonizzatori, non sarebbero stati capaci di sfruttare in maniera razionale.

Certo è che, esplorata alla luce di questa prospettiva, la riduzione al feticismo delle culture africane suona come grottesca e paradossale. “Feticiste”, infatti, non sono tanto le credenze dei gruppi umani che attribuiscono una forza magica e sacrale agli oggetti del loro culto. Feticisti, piuttosto, sono i comportamenti degli stessi colonizzatori che, nei confronti degli indigeni, operarono quel “doppio scambio” che nel suo Fascino. Feticismo e altre idolatrie (Feltrinelli), il filosofo Ugo Volli riconosce come la faccia buia dei rapporti di potere occultati dal fascino ambiguo delle cose. Perché, proprio nel comportamento dei colonizzatori, vediamo il modo in cui: «ciò che dovrebbe essere soltanto una cosa inerte» – la frusta: simbolo dei colonizzatori e del loro ruolo – «si presenta con i caratteri più intensi della vita e del potere,» mentre: «ciò che è vivo e riguarda la persona» – gli indigeni soggetti alla colonizzazione – «risulta ridotto a puro oggetto, cosa fra le cose».

03.Feticcio9Attraverso le riflessioni di Ugo Volli, in sostanza, vediamo come il feticismo degli schiavisti europei si abbatta sui popoli africani attraverso il superamento di un confine: quello che separa gli uomini dalle cose. La schiavitù, da questo punto di vista, è un’autentica “deprivazione dell’umano”, una pratica che, se ebbe modo di sfogare la sua ferocia in oltre quattrocento anni di impunito esercizio sul territorio africano, allo stesso tempo non garantì alla placida Europa l’immunità dai terrificanti effetti di ritorno del mostro che essa aveva creato. 

Arriviamo, così, ai campi di concentramento nazisti e, risalendo la corrente del dramma fino alla contemporaneità, tocchiamo i campi che, nella ex Jugoslavia, sono stati allestiti nel nome della pulizia etnica e sulla scia di quell’azione disumanizzante che l’Europa praticò in Africa senza poter fare a meno di insegnarla a se stessa. «E così, un bel giorno,» commenta Césaire: «la borghesia viene svegliata da un formidabile contraccolpo: le gestapo si danno da fare, le prigioni si riempiono, i torturatori inventano, rifiniscono, discutono intorno ai cavalletti». Quello che veniva preparato, attraverso il nazismo, era il tragico epilogo di una volontà di dominio fondata, come nel caso della colonizzazione, sull’elezione di una parte del genere umano a razza eletta; l’abbattimento di ogni distinzione tra l’uomo e l’oggetto era ciò che, nella schiavitù come nel nazismo, sarebbe stato celebrato.

Quando il potere indossa l’uniforme

Numerosi intellettuali hanno riflettuto sulla barbarie del nazifascismo e sulla crudeltà della colonizzazione e della schiavitù rinvenendo, in questi tristi periodi storici, l’inserimento coatto di interi popoli e intere culture all’interno delle strutture di uno spietato dominio sado-masochista. Basti ricordare, a tal proposito, il terribile Doveri di violenza, dello scrittore maliano Yambo Ouologuem o, per restare tra i militari, il pluricensurato Salò di Pier Paolo Pasolini. Il film di Pasolini, in maniera particolare, mette in scena una sorta di iconografia funebre che ha nelle impeccabili divise, negli stivali tirati a lucido, nelle lucenti decorazioni di guerra, i suoi luoghi centrali. La sbirraglia nazifascista, d’altra parte, ha curato in maniera ossessiva le uniformi, nascondendo dietro le croci al merito l’incredibile villania di massacri che, spesso e volentieri, vennero perpetuati ai danni dell’inerme popolazione civile.

02.Feticcio6La questione delle uniformi, tra quelle sollevate dai problemi della guerra, potrebbe sembrare una materia futile e scontata essendo, le uniformi, un semplice mezzo di distinzione, un modo per distinguere un esercito da un altro. Oltre questa considerazione tecnica, però, lo studio della storia degli eserciti europei mostra come, le uniformi, furono tutt’altro che la prima preoccupazione degli stati nel momento in cui questi equipaggiavano i loro eserciti. Al contrario, il problema dell’uniformità dell’esercito – come il problema del feticismo – si pose come tale soltanto nel corso del XVIII secolo e, come mostra la storica Sabina Loriga in un libro (Soldati, Marsilio) dedicato al più antico esercito italiano, quello piemontese: «ci vollero molti anni perché la divisa, distribuita per la prima volta nel 1671, diventasse un elemento caratteristico e insieme scontato della vita militare». 

Ecco, allora, i pantaloni bianchi, il giustacuore azzurro, la sciarpa azzurra intrecciata d’oro: «anche grazie a tanta armonia cromatica,» spiega la Loriga, «la divisa permetteva di segnare l’uniformità della truppa: fili di corpi della stessa altezza, visi e baffi uniformi».
Attraverso l’azione di questa nuova politica militare, in sostanza, il difforme elemento umano che compone l’esercito viene eliso dall’uniformità delle nuove divise, simulacri del potere di vivere o, come direbbe Foucault, di respingere nella morte. 

Un’operazione feticista in piena regola, dunque, quella che attraverserà le caserme del XVIII secolo e che si soffermerà sui corpi dei soldati per addomesticarli alle esigenze di una nuova gerarchizzazione sociale che, se restituirà al mondo il soldato in uniforme, segregherà il soldato nei cordoncini e nelle mostrine della sua stessa divisa, lo distinguerà in maniera irriducibile dal civile e lo preparerà, già nel corso del XIX secolo, a rendersi responsabile dei più grandi massacri mai ricordati nella storia dell’umanità. Massacri che, in massima parte, saranno destinati ad abbattersi sulla popolazione civile: uomini, donne e bambini privi di quei “caratteri intensi della vita e del potere” che “il feticismo della guardia” toglie alla gente comune e riconosce all’uniforme. 

Il fascino della divisa, il feticismo della guardia

«Anche le donne che sostengono di non badare che al fisico d’un uomo,» scriveva Proust ne La strada di Swann, «vedono in quel fisico l’emanazione di una certa vita. È la ragione per cui s’innamorano dei militari, dei pompieri: l’uniforme le rende meno esigenti per il viso; credono baciare sotto la corazza un cuore diverso, avventuroso e dolce».

Tuttavia Anna, una giovane ragazza moldava, non si è innamorata di nessuno, semplicemente: «Per cento dollari potevano fare di me ciò che volevano, arrivavano ubriachi a qualsiasi ora, pagavano e facevano di tutto. Volevo chiedere aiuto ad uno dei tanti soldati che mi hanno portata a letto ma loro pagavano, volevano solo una cosa e non ascoltavano» (Dall’Avvenire del 2.2.2001). I soldati di cui parla Anna sono i militari della Kfor, la forza Nato che deve avere una bizzarra idea della pace visto che, la sua presenza nei Balcani, più che alla causa della pace ha giovato, fin’ora, alla causa dello sfruttamento della prostituzione.

Come i loro colleghi della Kfor, anche alcuni militari del contingente italiano di stazza a Massaua, impegnati a garantire la difficile pace tra Etiopia ed Eritrea, sembrano vivere “il fascino della divisa” che indossano limitandosi ad utilizzare l’Altro (il civile) come una cosa: coinvolti in un giro di prostituzione infantile che prevedeva orge con bambine di 10, 11 anni sono stati privati della libera uscita per punizione. D’altronde, protestava il funzionario Farkhan Haq: «quando nella scorsa primavera è scoppiato un caso simile (…) e che coinvolgeva soldati del contingente olandese, la commissione era formata esclusivamente da funzionari delle Nazioni Unite» (Da La Repubblica del 25.08.2001).

Funzionari che, negli ultimi tempi, si sono trovati a fronteggiare una serie documentata (oltre 1500 testimonianze) e agghiacciante di accuse che puntano il dito contro i campi profughi e contro i caschi blu in missione di pace in Africa Occidentale. Questi barattavano il cibo, le tende e gli altri aiuti umanitari con il sesso dei loro spesso piccolissimi assistiti: «L’indagine ha anche appurato le cifre pagate dagli operatori: una ragazza liberiana ha ottenuto 10 centesimi di euro; in Guinea alcuni caschi blu avrebbero pagato 5 euro» (Nota UNHCR-Save the Children del 27.2.02).

Cifre, queste pagate dai militari moderni, che farebbero invidia a un negriero di tre secoli fa, segno che il feticismo della guardia concede soltanto quel tanto che basta alla sopravvivenza dei mezzi di riproduzione (del proprio piacere) e in questo, tale forma di deprivazione dell’umano, non si discosta dal feticismo delle merci di cui parlava Marx quando criticava l’attitudine capitalistica a presentare i rapporti tra le persone e le classi sociali, non come rapporti tra uomini, ma come rapporti tra cose. 

Rapporti che negli ultimi tempi sono tornati a stabilire limiti sempre più angusti all’essere umano visto che non si fanno scrupolo di trasformare nelle cifre statistiche previste dalle “guerre preventive” a cui si demanda il compito di “esportare la democrazia” quelle che, nella realtà, sono persone morte nel corso delle sviste di “bombardamenti chirurgici” dei quali si racconta che sono stati dolorosi ma inevitabili. Inevitabili proprio perché questo fa il feticismo della guardia: dispensa guerre, uniformi e altre oscenità.

Vienna 1925: un capitolo di antisemitismo e di repressione sessuale

Città particolare Vienna: adagiata dove le pendici orientali delle Alpi digradano fino a incontrare le steppe ungheresi, lungo le alture costeggiate dal Danubio, la vecchia capitale dell’impero asburgico offre ai contemporanei una storia che suona come una condanna. La condanna a vivere se stessa come punto fermo di un confine culturale, una porta chiusa in faccia alle pressioni mediterranee, una roccaforte dall’interno della quale votarsi a una sorta di perpetua resistenza. Perché resistere è la parola d’ordine che i governanti austriaci, da secoli, ammansiscono al popolo. Una resistenza che ogni volta maschera le sue esigenze politiche ed economiche con una retorica da guerra santa, un linguaggio da soluzione finale accompagnato dalla puzza di zolfo con cui, immancabilmente, si avvolge l’avversario di turno nei panni del diavolo in persona.

Bastione cattolico nell’Europa orientale, per secoli, il grande impero di cui Vienna era capitale, ha edificato la sua identità consacrandosi a una duplice missione: la resistenza alla pressione ottomana e la lotta all’eresia protestante. Uno stato di guerra permanente che impedì alla corona d’Austria di abdicare dal suo ruolo di difensore della cristianità anche quando, con il XIX secolo, l’opposizione all’islamismo e al luteranesimo perde la sua pregnanza storica. In bilico tra nuove filosofie e concezioni strapaesane, allora, la Vienna di quegli anni è la città del principe Metternich, cabina di regia di una restaurazione convinta che una buona polizia avrebbe senz’altro potuto avere la meglio su quelle fantasie che un corso di nome Napoleone Bonaparte aveva esportato in mezza Europa. A cominciare da quella che era stata una delle conquiste più importanti della rivoluzione francese, l’emancipazione di milioni di individui costretti, fino ad allora, a subire la vergogna dei ghetti, la violenza dei pogrom, l’onta delle prediche forzate: gli ebrei.

  • Il disagio nella contemporaneità

Una transizione tutt’altro che semplice quella che, dall’ancien regime, avrebbe dovuto traghettare un continente intero verso la contemporaneità proponendo un nuovo modello di stato laico, fondato sui diritti di cittadini uguali di fronte alla legge. Un processo che, nell’Austria imperiale, fu più lento che altrove. Ancora nel 1848, infatti, il numero di famiglie di religione ebraica residenti a Vienna non poteva, per legge, superare le 200 unità. Solo nel 1867 una nuova legislazione, sancendo l’uguaglianza dei diritti civili, abrogò il numero chiuso e Vienna cominciò a popolarsi di ebrei che, attraverso l’esercizio delle arti liberali e delle professioni legate all’economia e alla cultura, furono gli animatori di ciò che ancora oggi molti storici ricordano con il nome di “età dell’oro di Vienna” anche se, come sottolinea Paolo Genesio: «Per lunghi periodi, fra il 1815 e il 1914, Vienna non fu d’oro più di quanto il Danubio fosse blu».

Dopo una breve stagione di governo liberale, infatti, una vasta area di malcontento si coagulerà intorno ai nuovi partiti di massa di ispirazione cristiano-sociale e pangermanista. Questi, fautori di una politica demagogica e oscurantista, fecero di un acceso antisemitismo la loro bandiera, presentando come componente essenziale della propria linea di azione la lotta contro gli ebrei, considerati registi occulti di un gigantesco complotto che, dalla rivoluzione francese in poi, avrebbe operato per corrompere le radici spirituali dei popoli cristiani spianando la strada a una dominazione giudaica che una nutrita pubblicistica di matrice cattolica e razzista prometteva come terribile e imminente.

  • Così respirò Adolf Hitler

Anche il giovane Adolf Hitler, immigrato a Vienna in cerca di fortuna, unì le sue frustrazioni di imbianchino disoccupato all’ammirazione per il violento capo degli antisemiti viennesi: Karl Lueger che governerà Vienna dal 1895 al 1910 e di cui, il futuro dittatore, tesserà le lodi nel Mein Kampf (1926) salutandolo come «il più grande borgomastro tedesco di tutti i tempi».

Attraverso la vecchia via del pregiudizio antiebraico, in sostanza, l’antisemitismo nazista andava saldandosi con le opinioni di una chiesa cattolica che, lungi dal prendere le distanze dai cristiano-sociali, offre loro un ampio sostegno. Non a caso, anche in Italia, a pensarla come Adolf Hitler, troviamo un Alcide Degasperi che, dalle colonne di un giornale trentino, scrive: «In Austria […] spadroneggiava il liberalismo in tutte le sue forme. […] Vienna era completamente sotto il gioco degli ebrei. Giornalisti, si presentavano come l’indiscutibile opinione pubblica; industriali, tenevano gli operai cristiani in condizioni di schiavi; commercianti facevano con grandi bazar una spietata concorrenza ai piccoli negozianti indigeni; banchieri affamavano alla borsa dei cereali la classe dei contadini, e nei teatri e nelle scuole il loro spirito talmudico rovinava completamente la morale pubblica» (da «Il Domani d’Italia» del 15 maggio 1902).

D’altronde, come difensori de “la morale pubblica” e come irriducibili avversari de “lo spirito talmudico”, neppure le più alte gerarchie cattoliche vollero opporsi alle intenzioni omicide di Adolf Hitler. Questi, non appena preso il potere in Germania, raccolse anche la benedizione dei vescovi tedeschi visto che, sotto il suo spietato regime: «Il cristianesimo viene sostenuto, la moralità viene migliorata, la lotta contro il bolscevismo e l’ateismo viene condotta con successo».

Parola di mons. Berning, collega del vescovo Steinmann che, nel 1933, in occasione dell’esposizione della tunica di Cristo a Treviri, salutò la folla al grido di Heil Hitler spiegando poi che i vescovi tutti riconoscevano nel sanguinario aguzzino un baluardo contro «la peste della letteratura immorale».

  • Lo spirito talmudico e la letteratura immorale

La vena di forte pessimismo in campo sessuale che, a partire dalla speculazioni paoline, caratterizzerà il cattolicesimo, non trova nessun riscontro né nella Bibbia ebraica, né nell’Antico Testamento. Molti passi biblici, anzi, mostrano una forte spregiudicatezza in campo sessuale, offrendo al lettore narrazioni ricche di episodi dove perfino rapporti sessuali atipici o incestuosi vengono vissuti senza particolari drammi etici: dalle figlie di Lot che ubriacano il padre e, per soddisfare il loro desiderio di maternità, ci vanno a letto a notti alterne (Gen 19, 30-38), all’astuzia di Tamar, la vedova che, travestita da prostituta, inganna il suocero concependo un figlio con lui (Gen 38, 13-18). Un’autentica lode alle gioie sessuali, poi, è quella contenuta nei Proverbi, dove leggiamo: «Sia benedetta la tua sorgente; trova gioia nella donna della tua giovinezza; cerva amabile, gazzella graziosa, essa s’intrattenga con te; le sue tenerezze ti inebrino sempre; sii tu sempre invaghito del suo amore!» (Pro 5, 18-20).

Anche se è impossibile condensare in un discorso unitario la trimillenaria storia ebraica, tendenzialmente, in campo sessuale, nell’ebraismo non trovò spazio l’elogio della castità che caratterizza il cattolicesimo. È nota, semmai, una convinzione tradizionale ebraica: quella secondo la quale, il sesso, ha il potere di invocare sugli amanti la discesa della Shekinah, la “divina presenza”, un triangolo santo dove Dio si unisce all’uomo e alla donna nel mistero della procreazione. Privo del peso angosciante del peccato originale, l’ebraismo pone il gesto di Eva al di là del frigido territorio della colpa, elevandolo a merito: il merito di aver donato all’umanità una storia da vivere fuori dalla monotonia asettica del giardino primordiale. Così, se i rabini sono soliti invitare i credenti a celebrare degnamente lo Shabbat accostando, alle gioie delle lodi a Dio, le più terrene gioie della camera da letto, fuori dall’ortodossia, con pregnante humor ebraico, tra le comunità americane risuona una divertente domanda: «How do you get a Jewish girl to stop fucking?» – «You marry her», (Come puoi fare per impedire a una ragazza ebrea di scopare? – La sposi…). E, tanto per sottolineare che farlo “alla missionaria” non è certo l’unica posizione consentita al credente, in quell’immenso monumento di cultura ebraica che è il Talmud, semplicemente è scritto: «Tutto quello che l’uomo vuole fare con la sua donna può farlo» (Nedarim, 20). Inoltre, anche in pieno Medio Evo, la Lettera sulla santità (XIII sec.), offre sprazzi di luce per un desiderio sessuale che i cattolici erano propensi a credere cosa da bestie più che da uomini e afferma: «Non bisogna affatto pensare che l’unione carnale sia di per sé qualcosa di scabroso e di brutto, anzi, quando avviene nel modo giusto si chiama conoscenza». Sottolineando che il modo creduto come “giusto” è quello che prevede la partecipazione paritaria degli amanti all’atto sessuale, tant’è che, scrive l’anonimo autore della Lettera: «Non è opportuno possedere una donna mentre questa dorme, perché così non sussisterebbe mutuo accordo, e il pensiero di lei non sarebbe concorde con quello di lui».

  • Il pregiudizio antiebraico nell’età della rivoluzione erotica.

Provando, con un audace salto nel tempo, a calare la ricca e complessa tradizione ebraica nella Vienna degli anni ’20 troviamo che, tra i disastri economici che la prima guerra mondiale lascia in eredità all’Austria, la modernità dell’ebraismo in materia sessuale si impasta con i pregiudizi antiebraici nel proporre alle masse la figura dell’ebreo come essere dissoluto e crapulone, sentina di vizi lussuriosi, individuo dedito alla corruzione dei giovani e allo stupro delle fanciulle attraverso il potere conferitogli dal denaro e dalla carta stampata, dispensatrice di oscenità e pornografia. Quando, nel 1923, il grande sessuologo tedesco Magnus Hirschfel, visitò Vienna per tenervi alcune conferenze, trovò l’opposizione di una corposa compagine nazista che tentò di assassinarlo a colpi di pistola. Gli animi erano resi feroci da una martellante campagna di disinformazione che aveva individuato in Hirschfel, ebreo e omosessuale, l’incarnazione di quella figura di “sabotatore sociosessuale” contro la quale i nazisti prima invocarono, poi realizzarono, la deportazione e lo sterminio.

Tra le “colpe” di Hirschfel, quella di chiedere a gran voce l’abrogazione dell’articolo 175 del codice penale prussiano (restato in vigore fino al 1968!) che recitava: «Un atto sessuale innaturale commesso tra persone di sesso maschile o da esseri umani con animali è punibile con la prigione. Può essere imposta la pena accessoria della perdita dei diritti civili».

Contro una simile discriminazione, Hirschfeld, insieme agli psicologi H. Ellis e A. Forel creò la “Lega Mondiale per la Riforma Sessuale”, testimonianza concreta del fatto che, lungi dal restare confinati nella camera da letto, le abitudini e le inclinazioni sessuali attraversano il corpo sociale evidenziando visioni del mondo scomode rispetto a un potere reazionario, pronto a punire con la deportazione e l’assassinio ogni lieve discostamento da un’idea, questa sì tutta malsana, di “normalità”.

Se Magnus Hirschfield fu costretto dagli eventi a riparare in Francia per sfuggire alla persecuzione, nella Vienna degli anni ’20, un grande giornalista e scrittore di origine ebraica, Hugo Bettauer, sosteneva esplicitamente la necessità di operare nel costume sociale e sessuale una vera e propria “rivoluzione erotica”: una battaglia contro l’ipocrisia e la misoginia, quella sostenuta da questo coraggioso pioniere della cultura erotica, una storia che infiammò Vienna, prima della nuova preistoria nazista, in un’appassionata e tragica lotta in favore della libertà.

  • La straordinaria vita di Hugo Bettauer

Hugo Bettauer
Hugo Bettauer

Hugo Bettauer era nato nel 1872 a Baden, una cittadina a sud di Vienna, da una famiglia ebraica di origine ucraina. Convertitosi al protestantesimo a diciotto anni, Bettauer, per sfuggire alla coscrizione obbligatoria, riparò prima a Zurigo, poi negli Stati Uniti. Come giornalista, fu corrispondente da Berlino per diversi giornali americani prima di essere espulso dalla Germania in virtù delle sue inchieste spregiudicate. Da liberale radicale, Bettauer era aperto al positivismo e fece presto propria l’idea secondo la quale, scopo principe dell’intellettuale, è quello di educare le masse. Non a caso, fatto ritorno nella natia Vienna, Bettauer svolse un’attività molto intensa nel campo della divulgazione dell’educazione sessuale. Sorprendendo la censura austriaca con impianti modernissimi, nel 1924, Bettauer inaugura il primo numero di ciò che può essere considerata la madre di tutte le riviste erotiche contemporanee, il settimanale intitolato «Er & Sie. Wochenschrift für Lebenskultur und Erotik» (Lui e lei. Settimanale di cultura di vita ed erotismo).

Er und Sie, la prima rivista di Bettauer
Er und Sie, la prima rivista di Bettauer

Dalle colonne di «Er & Sie», Bettauer forniva ai lettori intrattenimento e informazione erotica, inventava rubriche di annunci per “cuori solitari” e, contemporaneamente, avanzava ardite rivendicazioni sociali, come la battaglia a favore del diritto di voto alle prostitute, mostrando, più in generale, la volontà di sottrarre l’erotismo dal dominio della vita matrimoniale, riconoscendo alle donne un’autonomia in campo sessuale che certamente non era quella che il costituendo regime nazionalsocialista andava pensando per loro. Il primo numero della rivista, di 12 pagine, stampato in 20.000 copie andò letteralmente a ruba mentre il secondo numero, di 16 pagine, superò addirittura le 60.000 copie vendute: un risultato straordinario!

Andò a finire che, giunti al numero cinque, la polizia fece irruzione nella redazione della rivista, sequestrando il settimanale e impedendone la prosecuzione. L’accusa mossa a Bettauer era quella di induzione alla prostituzione e, naturalmente, quella di pornografia.

  • Bettauer colpisce ancora… ma i nazisti non stanno a guardare

Mentre i giornali cristiano-sociali alzavano i toni della polemica antiebraica augurando al “pornografo” la morte come giusta punizione del suo tentativo di sedurre la gioventù attraverso la pubblicazione di fogli peccaminosi, lo stesso Bettauer non se ne restava certo con le mani in mano. Beffando ancora una volta la censura, iniziò la stampa di un nuovo periodico chiamato orgogliosamente «Bettauers Wochensrift. Probleme des Lebens» (La rivista di Bettauer. Problemi di vita) che fece immediatamente propria la causa della legalizzazione dell’aborto. Mentre anche questa nuova iniziativa editoriale firmata Bettauer andava a gonfie vele, l’impegno sociale del grande giornalista viennese non si limitava certo alla carta stampata. Basti dire che, una volta alla settimana, il suo ufficio in Lange Gasse si apriva per il ricevimento di tutti coloro che, cercando assistenza, si rivolgevano a Bettauer non solo per questioni di carattere sessuale ma anche per i gravi problemi di disoccupazione e di carenza di alloggi che affliggevano Vienna.

L'assassinio di Bettauer in prima pagina
L’assassinio di Bettauer in prima pagina

Per questa ragione, il 10 marzo del 1925, non fu difficile per Otto Rothstock, un odontotecnico venticinquenne, recarsi nella redazione della rivista e chiedere di poter parlare con herr doktor. Entrato nell’ufficiò di Bettauer, Rosthock tirò fuori la pistola sparando cinque colpi contro il giornalista. Poi, chiusa dall’interno la porta dello studio, aspettò semplicemente l’arrivo della polizia. Bettauer sarebbe morto dopo dieci giorni di agonia ma Rosthock aveva dalla sua parte Walter Riehl, avvocato nazista che assunse gratuitamente la difesa dell’imputato, trasformando il processo in una campagna antisemita e riuscendo a ottenere, per l’omicida, il riconoscimento della semi-infermità mentale e una condanna a soli 18 mesi. D’altronde, quando venne chiesto a Rosthock: «Perché l’hai fatto?»

L’imputato rispose solo: «Desideravo salvare i giovani dalle insidie tese loro da gente come Hugo Bettauer».

  • Vienna, la città senza ebrei

Dopo i turchi e i protestanti, dunque, come insegna l’omicidio di Hugo Bettauer, furono gli ebrei a incarnare la necessità viennese di avere un nemico da combattere, un demonio da annientare. Così, quella che, ancora negli anni ’20, sembrava solo una perniciosa fantasia, con l’annessione dell’Austria alla Germania (1938) diventava una tremenda realtà: la tremenda realtà di una città senza ebrei. Gli scritti di Bettauer, allora, dovettero suonare come tristemente profetici: ma quanti viennesi ricordarono quello che il loro concittadino scriveva già nel 1922 quando, per satireggiare il montante antisemitismo, veniva dato alle stampe il romanzo Die Stadt ohne Juden (La città senza ebrei)?

Copertina de "La città senza ebrei"
Copertina de “La città senza ebrei”

Ispirato dalla lettura di alcuni graffiti razzisti letti in un bagno pubblico di Vienna, ne La città senza ebrei Bettauer costruisce l’utopia negativa di una Vienna dove un’ordinanza espelle, pena la morte, tutti i cittadini di “origine mosaica”. Partito dall’Austria anche l’ultimo ebreo, Vienna precipita rapidamente in un baratro di povertà e provincialismo: chiudono i teatri, falliscono le banche e le attività commerciali, la moda è ridotta al loden e agli scarponi chiodati mentre le belle fanciulle viennesi, ripensando ai loro galanti e audaci corteggiatori ebrei, illanguidiscono nel ricordo e si struggono di nostalgia. In breve, la cacciata degli ebrei, si trasforma nella rovina di Vienna fino al punto che imponenti sommosse popolari costringono il governo a tornare sui propri passi e a richiamare in patria tutti gli ebrei espulsi che, rientrando in città, verranno accolti con manifestazioni di giubilo e grandi feste. Se il sottotitolo originale del fortunato romanzo di Bettauer recitava «Un romanzo di dopodomani», nella traduzione americana, più realisticamente, compariva la dicitura «un romanzo dei nostri tempi».

Tempi duri quelli che avrebbero aspettato l’Austria e il mondo intero, gli stessi che avrebbero consumato la tragedia della shoah e ridotto Vienna a una città stupida e di secondaria importanza. Una città che, ammazzati i pensatori illustri come Bettauer, costrinse alla fuga o alla morte oltre 180.000 israeliti, rinunciando al grande valore della differenza e privandosi delle intelligenze di uomini come Stefan Zweig, Joseph Roth, Gustav Mahler, Arthur Schnitzler, Ludwig Wittgenstein, Elias Canetti, Karl Krauss e Sigmund Freud…

«Da questo autentico salasso di energie nei vari campi della medicina, della letteratura, delle arti figurative, della musica, dell’economia, del diritto», osserva Luigi Reitani, «Vienna non si è ancora ripresa». E intanto, oggi che un mondo nuovo reclama i diritti forgiati da una società che si configura come multietnica e pluriconfessionale, nei sinistri palazzi del potere viennese, sospinto dal nazionalismo del FPO, cieco di fronte al passato, torna a risuonare contro tutti i presunti “diversi” un grido scellerato: “Resistere!”

Su Belleville. E sugli “stranieri” come “risorsa”

Nei panorami di Parigi spuntano, come le cime bianche delle montagne, i profili metallici di palazzi altissimi. Palazzi grandi come città, costruiti in quartieri sempre più lontani dal centro: in luoghi dove la vita è così dura che solo gli ultimi arrivati trovano, quasi ricorrendo a uno sviluppato istinto di sopravvivenza, la forza per abitarci

Favole: come quelle che i marinai raccontavano sul paese dove anche le porcilaie erano pavimentate con l’oro zecchino. O come quelle su esseri giganteschi e con un occhio solo, avidi mangiatori di uomini. Nessuno, tra quelli che conosco, è mai stato tanto vicino ai profili metallici di questi grattacieli da poter vedere, con i suoi occhi, la vita delle persone che vi abitano: hic sunt leones… si dice che in questi palazzi giganteschi, i parigini li chiamano cité, non si avventuri nemmeno la polizia. Le automobili con le sirene blu sarebbero bersagli troppo facili, mezzi assolutamente inadatti per avere la meglio su di un fitto lancio di pietre e bottiglie. Se gli arabi la fanno troppo grossa che ci pensi la legione straniera, naturalmente in tenuta antisommossa.

Eppure gli stranieri sono una risorsa. Appiccicato sulle pareti delle cité dai pubblicitari di una grossa catena di hard discount, il campione del mondo Zinedine Zidane dice: “J’adore vous faire gagner“.

Anche David Copperfield era riuscito ad attraversare l’inferno a testa alta, era passato dalla strada alla buona società solo grazie alle proprie capacità e senza commettere reati. Ma nessuno gli aveva chiesto di fare gol al Brasile per questo.

Ci vuole la fame per farsi strada nella vita. Ma, anche senza fare strada nella vita, la fame resta lo stesso. Per questo ci sono gli hard discount. Anche chi non fa strada nella vita ha il diritto di rappresentare una fetta di mercato.

In un café di Belleville ascolto un avventore: “Candela, Ibou, Trezeguet, Zidane, Lizarazu… poi ci si lamenta che i vivai francesi sono in crisi.”

Zinedine Zidane sorride impacciato. Di hard discount come quelli a cui lui fa la pubblicità ne hanno aperto uno pure qui a Belleville. Sì che in questo quartiere puoi ancora trovare qualche vecchio che dice “oggi devo andare a Parigi” se per caso deve prendere la metropolitana e scendere dalle parti degli Champs Elysées.

Ecco come fanno gli stranieri a diventare una risorsa: le nuove e più estreme periferie delle cité riscattano la vecchia periferia francese. Donano dignità borghese a vecchi quartieri malfamati, le location ideali per film e libri dedicati ai profumi delle spezie. I nuovi casermoni, intanto, con la loro bruttezza estrema, trasformano i vecchi e malandati palazzi di edilizia popolare in piccoli gioielli. Case, da qualche anno, abitate da pittori, studenti, filosofi, scrittori e turisti a caccia di autenticità. Flaneurs… adesso vengono tutti quanti qui a Belleville. E si godono l’integrazione culturale.