S’intitola Buttati giù, zingaro, eppure il libro di Roger Repplinger (Edizioni Upre Roma, 292pp, 12 euro) è molto di più di una biografia dedicata a uno dei più forti mediomassimi della storia del pugilato tedesco. La ricerca di Repplinger, infatti: riesce a mettere in parallelo quella che è stata la nascita e la diffusione sia della boxe che del calcio in Germania; analizza il modo in cui, partendo dal basso il pugilato e allargando il novero dei suoi praticanti da ciò che fu un’originaria élite borghese il calcio, questi sport divennero un fenomeno di massa, rappresentando il terreno ideale per la propaganda nazionalista e, presto, nazista; offre un contributo importante alla storia del “porrajmos”, l’olocausto sinto e rom, e costruisce un discorso in cui l’abominio hitleriano conosce un nuovo – e quanto mai necessario – atto di accusa a partire dalle vite sia del pugile sinto Johann Trollman che del calciatore “ariano” Tull Harder: esistenze a proposito delle quali il punto di contatto offerto dalla pratica sportiva non può che rafforzare quella differenza insanabile che separa le vittime dai loro carnefici.
Cercando di procedere con ordine, le prime pagine di Buttati giù, zingaro hanno a che fare proprio con un campo di calcio. O meglio, con un piazzale sul quale, in quel di Braunschweig, in Bassa Sassonia, un pugno di adolescenti di buona famiglia si dannano a rincorrere un pallone di cuoio, l’ingrediente principale dell’Association, come ancora ai primi del Novecento veniva chiamato in Germania il gioco del calcio. Il debito linguistico, evidentemente, è nei confronti dell’Inghilterra e della sua «Football Association», patria di un pallone che, in terra tedesca, trova proprio a Braunschweig uno dei territori più fertili, considerando che qui una prima squadra cittadina gioca partite di pallone già nel 1874.
Mentre la Federcalcio tedesca (DFB) vedrà la luce nel gennaio del 1900, è proprio l’origine inglese dello sport a rappresentare uno dei maggiori ostacoli alla sua diffusione. In tempi di montante nazionalismo, infatti, tutto ciò che proviene da Oltremanica viene guardato in modo a dir poco con sospetto. E il calcio, in modo particolare, con la sua connessa violenza di calci e colpi di testa da esibire di fronte a un pubblico incline a rumoreggiare selvaggiamente, viene visto come l’antitesi della ginnastica, cioè l’unica pratica sportiva, rigorosamente non competitiva, atta a esaltare gli ideali di sobria compostezza reputati connaturati ai valori del patriota tedesco.
Insieme al discorso ideologico, il calcio è ostacolato da problemi di ordine materiale. Per comprarsi maglia, calzoni, calze e scarpini, un operaio specializzato ha bisogno di investire una settimana di stipendio e non avrebbe ancora comprato il prezioso pallone di cuoio con la camera d’aria interna, da ungere di grasso a lungo se si vuole sperare di ottenere qualche rimbalzo.
Il giovane Tull Harder, da questo punto di vista, potrebbe permettersi ben più di un pallone. Eppure il benestante signor Fritz, suo padre, punisce severamente le partite clandestine giocate dal figlio attaccante, dispensando con generosità frustate su frustate e vedendo nella pratica dell’Association una sorta di tradimento al buon nome del Kaiser e a quello della Germania.
Sempre in Bassa Sassonia, un altro ragazzino inizia ad alternare le scorribande per le strade dei quartieri popolari alla fascinazione sportiva. Si chiama Johann Trollmann, ma genitori e fratelli usano per lui il nome «Rukeli» che, in romanes, potrebbe essere tradotto come «alberello». Merito della folta chioma nera e, soprattutto, di una struttura fisica forte e slanciata, una qualità che il giovane Trollmann non mancherà di mettere a frutto iniziando a frequentare una delle prime palestre di pugilato. Uno sport che, a differenza del calcio, non richiede agli atleti investimenti iniziali, essendo che i pugni ognuno se li porta da casa, anche se, come il football, sconta di fronte all’opinione pubblica conservatrice la stessa «colpa» di non poter essere considerato di origine tedesca. Anzi, quantomeno a causa di una pratica che richiede di mettere allo scoperto il corpo molto di più di quanto già non facciano le braghe dei giocatori di pallone, la boxe finisce nello stesso calderone razzista in cui i buoni borghesi di puro ceppo germanico infilano i marinai statunitensi e la loro musica jazz, come la boxe considerata foriera d’istinti bestiali e passionalità di bassa lega.
Presto, in ogni caso, le cose sarebbero cambiate tanto per il calcio quanto per la boxe. Il gioco del pallone, a caccia di popolarità, si mette a disposizione dell’incipiente militarizzazione e, in breve tempo, si «germanizza». Mentre s’inizia a parlare di fussball, e non più di football, le origini del gioco vengono rintracciate in certe vetuste pratiche degli antichi abitanti delle terre teutoniche e le reminiscenze inglesi spariscono. Quando, nel 1911, la DFB diventa una branca dell’ultranazionalista Lega della Gioventù Tedesca, per dire goal si usa il termine rete, il corner è diventato angolo e, il giudice di gara, si chiama arbitro, non più referee. Persino i ruoli dei giocatori non sono più gli stessi. Ora c’è il difensore, non il centre back, l’attaccante, non il centre forward, l’ala e non il wing forward: non semplici traduzioni, ma la resa linguistica di uno sport che trova nella similitudine con la guerra la sua ragion d’essere in Germania. E non certo a caso, nell’annuario della Federcalcio tedesca del 1913 si arriva a leggere: «Il tempo avanza con fragore di armi, con pugno d’acciaio distrugge tutto ciò che è diventato marcio e vecchio e concima con sangue e ossa la nostra terra per una nuova semina. Fanfare di guerra salutano il progresso che spinge in avanti la ruota del mondo. E tuttavia anche nel nostro Paese gli stupidi gridano: guerra alla guerra. Sarebbe pericoloso se il loro messaggio avesse successo tra il popolo. Rinunciamo al duro giudizio delle armi e di conseguenza saremo distrutti. Rallegriamoci se nella terra tedesca cresce nuovamente la voglia della lotta e diamo il benvenuto al più grande profeta di questa nuova epoca, lo sport».
Per il calcio, insomma, il dado della militarizzazione è tratto in fretta. E in fondo, già del 1909, ci aveva pensato Heinrich di Prussia, ammiraglio nonché fratello di Guglielmo II, a istituire il Deutschlandschild, campionato di calcio riservato alla marina imperiale. Con simili credenziali, per Tull Harder diventa molto più semplice inseguire la propria passione sportiva e, vinta l’opposizione paterna, il rampollo sassone può indossare la casacca dell’FC Hohenzollern e, già nel 1909, quella dell’Eintracht, prima di passare all’Amburgo, compagine di cui il centravanti sarà presto il giocatore più rappresentativo e la bandiera.
Nel 1914 Harder vede riconosciuto il proprio talento debuttando in nazionale e, grazie alle sue doti di decatleta, in un momento in cui lo specialismo non è la prima caratteristica della pratica sportiva, avrebbe persino potuto partecipare alle Olimpiadi se lo scoppio della prima guerra mondiale non avesse fatto saltare i giochi del 1916. Harder, allora, parte volontario per il fronte, rispondendo oltre che agli ideali con cui è stato educato anche alla chiamata proveniente dalla sua Federazione: «Addosso al nemico!», scrivono i funzionari del calcio tedesco rendendo esplicita l’equazione sport-nazionalismo-guerra. «In questa lotta infuocata dimostrate di essere veri sportivi, animati da coraggio, ardimento e ardente amore per la Patria. Attraverso lo sport siete stati allevati per la guerra, perciò addosso al nemico senza tremare».
Da parte sua, nato solo nel 1907, il pugile Johann Trollmann non avrebbe potuto cogliere il senso di simili parole. E se anche il piccolo Rukeli ha appena otto anni quando gli capita di affacciarsi in una palestra (semi-clandestina) di pugilato, in quel momento la boxe non potrebbe certo essere sventolata come un vessillo patriottico considerando che la sua pratica, fino al 1919, è addirittura vietata dalla polizia. Con la caduta del divieto, la prima palestra di Trollmann può trasformarsi in una vera squadra: la BC Heros Hannover. Era il 1922, due anni dopo la fondazione della “Federazione del Reich tedesco per la boxe amatoriale” ma con appena un anno di anticipo rispetto al tentato, e famigerato, putsch di Hitler, datato 9 novembre 1923. Il particolare è determinante non solo in senso generale, considerato che nel breve periodo di detenzione scontato dopo il fallimento del colpo di stato, l’ex caporale austriaco scriverà “Mein Kampf” esprimendo la sua incondizionata approvazione nei confronti del pugilato: «Se tutta la nostra spirituale alta società non fosse stata educata esclusivamente a raffinate regole di buone maniere, e avesse invece imparato a fare a pugni», sostiene Hitler, «non sarebbe mai stata possibile una rivoluzione tedesca di protettori, disertori e furfanti del genere».
Il vento che spirava sulla boxe, insomma, stava cambiando. Ma mentre Trollmann metteva a punto un approccio personale a questo sport, rivoluzionando uno stile pugilistico fino a quel momento rigido e legnoso con tecniche che in futuro si sarebbero potute ammirare nuovamente nel repertorio di un Muhammad Alì, il pugile capace di «danzare come una farfalla e colpire come un ape», il nazionalismo si impossessava anche nel ring, arrivando a parlare di un “pugilato tedesco” che, naturalmente, non è certo ben disposto ad accettare i trionfi di Rukeli, non più un grande campione, ma soltanto uno «zingaro» agli occhi dei nuovi fanatici della purezza della razza.
«Se una disciplina sportiva deve servire all’addestramento militare, all’educazione paramilitare, non può in nessun modo essere “giocosa”, “piacevole”, o soltanto “divertente”», si tuona nel volume La boxe fondamento dello spirito di lotta (1935). Perché: «Lo Stato popolare non ha il compito di allevare una colonia di esteti pacifici e di degenerati fisici. Non ritrova il suo ideale di umanità in piccoli borghesi per bene o in vecchie vergini virtuose, ma nella pugnace incarnazione della forza virile».
Grazie a questa nuova impostazione, il pugilato, da disciplina negletta, diventerà obbligatorio nella scuola di Hitler, mentre a Trollmann servirà a poco vincere incontri su incontri, né, a salvarlo, potrà essere la sua scelta di entrare – alla ricerca di una maggiore tutela – nel Boxclub Sparta Linden, affiliato alla “Lega degli atleti lavoratori tedesca” (AABD), la federazione dello sport popolare che, in quegli anni, rifiutava qualunque contatto con la controparte borghese anche se, proprio come la Federazione imperiale, si opponeva al professionismo.
Trollmann, in realtà, diventa professionista nel 1929, radunando un folto pubblico di ammiratori, incantati, in un periodo in cui gli incontri di boxe tendevano a ridursi a un testa contro testa condito da un diluvio di pugni ai fianchi, dal suo modo di combattere imprevedibile, pirotecnico e, al tempo stesso, terribilmente efficace. Sarebbe stato proprio grazie a questo stile che, il 9 giugno del 1933, Trollmann, insieme ai suoi 71,3 chili di peso, riesce a surclassare il beniamino dei sostenitori del “pugilato tedesco”, Adolf Witt, ammesso a combattere per il titolo dei pesi medi malgrado un peso di 77,9, di molto superiore ai 72,574 fissati come limite della categoria. Trollmann è incontenibile, ma il razzismo non conosce neppure il limite della decenza, malgrado tutti i cartellini dei giudici assegnassero la vittoria al suo avversario è Witt a essere proclamato vincitore. Accade nella Bockbierbrauerei di Berlino, dove si sfiora il tumulto: i sostenitori di Trollmann minacciano di linciare i responsabili dello scandalo, così l’incontro, a posteriori, sarebbe stato annullato. A nessun costo, insomma, uno «gipsy», questo recitava la scritta che provocatoriamente lo stesso Trollmann recava stampata sui suoi pantaloncini, doveva poter vantare la vittoria del titolo di campione tedesco. Per Trollmann, già capace di sfidare i suoi detrattori nazisti comparendo completamente ricoperto di farina bianca nel corso di un incontro, è l’inizio della fine. Per sopravvivere deve accettare combattimenti improvvisati in luoghi sordidi, poi è la sua stessa vita a essere ogni giorno più a rischio. Il dramma incombe su Trollman come sui 130.000 sinti e sui 1585 rom che vivono in Germania durante l’ascesa di Hitler, giudicati egualmente «Zigeuner» dall’apposito “Istituto di ricerca sull’igiene razziale e sull’eredità biologica”. Ognuno di loro, è a malapena un numero. E il numero 9841 sarà quello che lo stesso Trollman riceverà nel 1942, quando viene arrestato e deportato nel lager di Neuengamme. È qui che succede un episodio che ha dello straordinario. Mentre le SS, infatti, riconoscono nell’internato il campione di pugilato, iniziandolo a usare come un fantoccio per i loro «allenamenti», all’interno del lager si muove un comitato clandestino: «Trollman», pensa André Mandryxcs, capo della resistenza interna, «deve essere strappato al divertimento dei nazisti». Il suo esempio è troppo importante per chi, anche nelle condizioni disumane del campo, si organizza per rispondere alla barbarie hitleriana. Grazie al coraggio degli uomini della resistenza, dunque, Trollmann è fatto passare per morto, scambiato con un altro prigioniero effettivamente deceduto e quindi trasferito in un altro campo, quello di Wittenberge. Ad aspettarlo, ancora una volta, ci sarà la maledizione di sapere usare i pugni. Perché sarà la colpa di mettere KO un feroce kapò ciò che, nel corso del 1944, costerà la vita al grande campione. Responsabile del suo omicidio, avvenuto a randellate, un individuo di nome Emil Cornelius: criminale di guerra responsabile di molte atrocità all’interno del campo, se la caverà con qualche anno di galera, tornando in libertà nel 1961. Una sorte non troppo diversa da quella a cui, nel dopoguerra, andarono incontro gli innumerevoli nazisti con le mani sporche del sangue versato da milioni di ebrei, sinti, rom, omosessuali, oppositori politici.
Tra i criminali graziati a vario titolo dal tribunale di Norimberga e, quindi, dalla mancata denazificazione della Germania, anche il centravanti Tull Harder: perché è proprio nel campo di Neuengamme che le sorti opposte del pugile e del calciatore s’incrociano nell’indifferenza del massacro in corso. Mentre Trollmann, infatti, è solo un prigioniero tra i tanti, Harder, di professione assicuratore dopo una lunghissima carriera e la consolidata nomea di «gloria del calcio tedesco», fa parte di quella generazione convinta di dover addossare a un “nemico interno” la responsabilità della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale. Ed è, in effetti, un simile sentimento a spingere Harder ad arruolarsi nelle SS e, quindi, con il grado di Untersturmführer, a diventare comandante del lager in cui Trollmann si trova recluso.
Come tutti i nazisti, interrogato sulle sue responsabilità dai giudici di Norimberga, Harder si limiterà a balbettare di avere soltanto «obbedito agli ordini»… avessero avuto, simili individui, un briciolo della dignità e del coraggio dimostrato da un André Mandryxcs! Ma anche solo pensare di paragonare il sangue degli eroi alla squallida subumanità degli aguzzini è un insulto. Mandryxcs avrebbe trovato la morte nel corso di un bombardamento alleato quando la guerra era prossima a concludersi, Harder sarebbe stato invece arrestato nel 1945. Nel corso del processo tenterà di far valere il suo curriculum sportivo, le sue quindici presenze in nazionale e anche l’aiuto prestato durante la guerra a un ex arbitro ebreo. Condannato a quindici anni, sarà liberato già nel 1951, e, come scrive l’autore di “Buttati giù, zingaro”, Harder: «In occasione della sua presenza alle partite dell’HSV viene festeggiato dallo speaker e festeggiato dagli spettatori. (…) Riprende il suo lavoro con le assicurazioni e vive a Bendestorf. Il suo reddito è buono, riceve anche una pensione dallo Stato come ex Untersturmführer delle SS, a differenza dei sinti e dei rom che sono stati internati nei campi di concentramento. I tribunali tedeschi hanno stabilito che gli “zingari” non sono stati perseguitati dai nazionalsocialisti per ragioni razziali ma venivano deportati come criminali».
Un’amarezza sconfinata. Mitigata appena da un atto dovuto. Nel dicembre del 2003, infatti, i discendenti di Trollmann ricevono dalla Federazione una cintura da campione, mentre Rukeli si vede ufficialmente assegnare il titolo dei mediomassimi che gli era stato sottratto nel 1933. Ma se il combattimento di Trollmann, alla resa dei conti, può essere considerato un match lungo settant’anni, quello che oppone la verità e la giustizia alla volontà di cancellare con un colpo di spugna la storia nera del nazismo e del fascismo è ancora in corso. E troppi, ancora oggi, restano i debiti che non sono mai stati saldati.
Il 30 ottobre del 1922, dopo la marcia su Roma di alcune migliaia di militanti fascisti, il re Vittorio Emanuele III cedeva alle pressioni della piazza nera affidando a Benito Mussolini la presidenza del Consiglio.
Secondo i nostalgici si tratta del prologo della “rivoluzione fascista”: un evento che avrebbe consegnato all’Italia un ventennio di abiezione, la deportazione nei campi di sterminio dei cittadini di religione ebraica e degli oppositori del regime, l’annullamento di qualunque garanzia democratica e i milioni di morti della seconda guerra mondiale.
Si tratta, in effetti, di un periodo storico talmente cupo e scellerato che, nel corso del tempo, dopo aver dato una mano di vernice patriottica sui valori della Resistenza con l’obiettivo di annullare i valori di giustizia sociale che l’avevano animata, le narrazioni impegnate nel racconto e nell’analisi del fascismo hanno finito per rinchiudere gli anni di Mussolini all’interno di un paradigma dominato dall’eccezionalità: una parentesi senz’altro sconvolgente ma, a causa delle particolari condizioni che provocarono l’emersione del fenomeno, senz’altro irripetibile… ma è ancora possibile, oggi, accettare una simile visione delle cose?
Il 16 febbraio del 2014, Giogio Napolitano, nella veste di presidente della Repubblica, senza che il suo atto fosse suffragato da una qualche forma di consenso elettorale, prendeva atto della sfiducia ricevuta da Enrico Letta dalla direzione del suo Partito e conferiva l’incarico di formare un nuovo governo a Matteo Renzi, classe 1975, famoso per aver guidato un movimento detto “dei rottamatori” all’interno del Partito Democratico e per i discorsi pronunciati in manica di camicia… bianca: una sorta di divisa informale, da quel momento in poi adottata immancabilmente da tutti i sostenitori dell’ex sindaco di Firenze, non a caso detti “renziani”.
Se il vecchio Napolitano, novello Vittorio Emanuele III, guadagnava il soprannome di “Re Giorgio” grazie a un decisionismo più consono al vecchio regno d’Italia che non a una vera repubblica parlamentare, gli atti del nuovo governo Renzi non sono da meno e, immediatamente, si caratterizzano per un approccio a dir poco insofferente rispetto a quanto previsto dagli stessi dettami costituzionali.
In modo particolare, il governo Renzi si distingue per l’uso massiccio e disinvolto dello strumento del decreto legge: un dispositivo a cui l’articolo 77 di quel pezzo di carta straccia una volta chiamato Costituzione affida il ruolo di avere «effetto di legge» in frangenti di particolare necessità e gravità. Al contrario, e quindi contravvenendo alla stessa Costituzione, Renzi e i suoi ministri aggrediscono a colpi di decreti qualunque settore della vita pubblica e civile: dal lavoro, grazie al Jobs Act firmato da Poletti (DL n. 34 del 20 marzo 2014), alla cultura, con il decreto di Franceschini (DL n. 83 del 31 maggio 2014), fino ad arrivare alla casa grazie all’«interessamento» dello spietato Maurizio Lupi, oggi costretto alle dimissioni e sostituito dal fedelissimo di Renzi Graziano Delrio a causa del suo coinvolgimento in una brutta storia di tangenti e raccomandazioni, eppure confermato a suo tempo alle Infrastrutture e ai Trasporti anche dopo la defenestrazione di Enrico Letta.
Fatto passare con il tranquillizzante nome di «Piano-casa», il Decreto Lupi (DL n. 47 del 28 marzo 2014) reca il titolo di Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015 e, pur considerando: «L’attuale eccezionale situazione di crisi economica e sociale che impone l’adozione di misure urgenti volte a fronteggiare la grave emergenza abitativa in atto», e: «La necessità di intervenire in via d’urgenza per far fronte al disagio abitativo che interessa sempre più famiglie impoverite dalla crisi e di fornire immediato sostegno economico alle categorie meno abbienti che risiedono prevalentemente in abitazioni in locazione», finisce per sferrare un attacco senza precedenti a chi, nel corso degli anni, ha rappresentato l’unica, vera risposta al disagio abitativo, vale a dire i Movimenti per il Diritto all’Abitare. In che modo?
La pietra nello scandalo è contenuta nell’articolo 5. Dove, alla voce «Lotta all’occupazione abusiva di immobili», si afferma senza mezzi termini che: «Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge». Tradotto in parole semplici, Lupi e il suo decreto pretendono di spingere nell’invisibilità e di escludere da ogni forma di welfare chiunque abbia preso parte a un’occupazione abitativa e/o viva in una casa occupata. Al di là dei previsti distacchi di acqua e luce, misure contrarie ai più elementari diritti umani più che agli stessi diritti politici di qualunque cittadino, privare una famiglia della residenza, nei fatti, rende impossibile anche produrre i semplici certificati Isee e, di conseguenza, rende impossibile, o comunque molto difficile, iscrivere i bambini alle scuole. Ancora, senza residenza, si incontrano difficoltà nell’accedere ai servizi di medicina di base e, essendo questa parametrata su base circoscrizionale, priva persino dell’assistenza domiciliare i disabili che ne hanno diritto. Una vera e propria operazione di macelleria sociale, insomma. Resa ancora più crudele dagli articoli 3 e 4, con cui si facilità lo smantellamento dell’edilizia residenziale pubblica attraverso la messa in vendita degli stessi alloggi popolari che il decreto pretenderebbe di tutelare!
Con la conversione in legge del Decreto Lupi, il governo Renzi, tra le altre cose, si assume la responsabilità storica di andare a infrangere persino la Dichiarazione universale dei diritti umani; uno di quei pezzi di carta – sottoscritto in pompa magna a Parigi nel 1948 – spesso sbandierati di fronte all’opinione pubblica se si tratta di vantare la presunta superiorità occidentale o, magari, di “esportare” la democrazia a suon di bombe, ma che nell’Italia guidata dal Partito Democratico è contraddetto senza mezzi termini. Come viene affermato dall’articolo 25 della Dichiarazione, infatti: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo (…) all’abitazione”.
Eppure, se il governo Renzi ha avuto modo di svelare la sua vocazione liberticida anche sui provvedimenti che sono andati a interessare settori nevralgici come la Scuola e la Legge Elettorale, la natura apertamente fascista della legge sulla Casa è confermata dalla vergognosa continuità storica tra il Decreto Lupi e la famigerata Legge 1092 del 6 luglio 1939, comunemente detta «legge contro la residenza» o «contro l’urbanesimo», che, nei fatti, aveva trasformato gli immigrati italiani in soggetti privi di qualunque diritto – dalla possibilità di iscriversi alle liste di collocamento a quella di ricevere assistenza sanitaria, fino all’esclusione dalle liste elettorali – e, per questo, esposti a qualunque ricatto anche in tema di salario e condizioni lavorative.
Come tante altre cose, la legge contro la residenza, non soltanto non venne abolita dal nuovo regime democratico, ma rappresentò una sorta di leva con la quale fare della povertà, più che una questione sociale, un problema di ordine pubblico. In questo modo, chiunque si fosse trovato a vivere una condizione di emergenza abitativa veniva semplicemente fatto sparire, smettendo, grazie al provvedimento, di esistere dal punto di vista legale e, di conseguenza, di non poter pretendere un giusto compenso da parte del datore di lavoro né di rivendicare il diritto alla casa.
Una situazione scandalosa, una vera e propria ferita aperta nel paesaggio democratico italiano ma anche, in passato, il territorio sul quale fu possibile cogliere un’importate vittoria. Il 10 febbraio del 1961, infatti, dopo anni di lotte e mobilitazioni che non mancarono di costare denunce penali e feriti in piazza, veniva finalmente abrogata la norma fascista che limitava il diritto alla residenza. Fu un successo epocale e testimoniò una maturità politica che, ancora oggi, merita di essere sottolineata. Che fosse possibile, infatti, condurre in porto una battaglia unitaria ricomponendo all’interno di un interesse di classe le spinte centrifughe che, strumentalizzando la paura della concorrenza tra lavoratori, ostacolavano, anche da sinistra, la liberalizzazione delle residenze, era un fatto tutt’altro che scontato. Per arrivare a tanto, evidentemente, fu determinante la spinta delle proteste popolari, ma anche l’intelligenza e la perseveranza di alcuni tra i migliori dirigenti del Partito Comunista e delle associazioni collegate alla sinistra istituzionale. Oggi, che con l’articolo 5 del Decreto Lupi si torna a calcare i passi già seguiti dal fascismo, abrogando il principio della libertà di residenza conquistato a prezzo di lotte molto dure, lo si fa con un governo guidato dal Partito Democratico, ma anche con l’indegno silenzio delle stesse associazioni egemonizzate dal PD, a cominciare dall’Anpi, a cui in passato l’identico provvedimento aveva fatto orrore.
Parliamo, evidentemente, di altri tempi e di personaggi di ben altra caratura morale rispetto alle mistificazioni odierne. Ma, allo stesso tempo, descriviamo una situazione in cui l’impostazione dittatoriale del governo Renzi riesce, grazie all’azione di polizia, ad arrivare anche dove i poteri locali sono costretti a cedere di fronte allo scandalo di famiglie lasciate senza acqua e senza luce dalla legge formulata dall’inquisito ex ministro Maurizio Lupi.
Da questo punto di vista, un altra data da segnalare sul calendario dell’orrore è quella del 7 luglio del 2014 quando, a Bologna, si apprende dell’apertura di: “Un’inchiesta contro il riallaccio dell’acqua all’occupazione abitativa di via Mario de Maria ordinata dal sindaco Merola lo scorso 23 aprile”; una situazione resa ancora più grave, come denuncia in un comunicato la bolognese Assemblea Occupanti e Comitato Inquilini Resistenti con Social Log, dal fatto che: “Solo poche settimane fa anche la vice-presidente Gualmini della regione Emilia Romagna, a seguito di un tavolo di contrattazione sulle nostre istanze di lotta, ha garantito pubblicamente l’indisponibilità a recepire l’articolo 5 all’interno del piano casa regionale”.
Ciò che accade è che anche dove, a livello locale, si tenta una mediazione istituzionale rispetto alle contraddizioni aperte dalla legge nazionale, è il potere centrale a intervenire in senso oltranzista, sbandierando un ridicolo vessillo di “legalità” e affidando il ripristino dell'”ordine” alla magistratura e alla polizia. Non è facile evitare di vedere in un simile modo di procedere, oggi particolarmente evidente nel caso bolognese, una strategia da intendere come prassi del governo Renzi: ridurre gli organi del potere periferico a puri fantocci, dominati nei fatti da magistrati, prefetti e poliziotti scelti con cura tra i fedelissimi del Partito della Nazione e quindi piazzati nei posti ritenuti “giusti” dal nuovo Duce fiorentino.
Alla luce di simili considerazione, i valori dell’antifascismo trovano una compiuta necessità di dispiegarsi in forma diretta contro il Partito Democratico e le sue articolazioni. Mentre alle donne e agli uomini del PD ancora ciechi e sordi di fronte agli abusi compiuti da Renzi e dai suoi sgherri, ciechi e sordi di fronte al livello di violenza antipopolare di cui questo governo è colpevole; agli uomini e alle donne ancora organizzate all’interno di un Partito Democratico responsabile di scadere nell’abominio, insieme all’onta di essere detti senza mezzi termini fascisti e trattati come tali, non può che essere rivolto in forma di maledizione quanto scritto da Antonio Gramsci già nel 1917: “Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva (…). Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. (…) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
La notte del 22 giugno, a Torino, un gruppo di ignoti si rende protagonista di un gesto infame e vigliacco. Con il classico favore delle tenebre viene stampato e affisso un volantino con il solo scopo di diffamare la memoria di Dante Di Nanni, eroe della Resistenza caduto a soli diciannove anni al culmine di un’azione antifascista in cui, cuore e fucile alla mano, sebbene gravemente ferito, seppe tenere in scacco per ore un nutrito corpo di camice brune e nere decise ad arrestarlo.
Nel volantino non ci si permette soltanto di chiamare Di Nanni “Er Monnezza” ma, con un operazione di revisionismo di bassa lega, viene spacciata una versione alternativa della storia del gappista piemontese, ovviamente con l’intento di sminuire la statura di Dante e di colpire chi, nel suo nome, continua a portare avanti i valori che furono alla base della vittorioso insurrezione popolare del ’45, data a partire dalla quale l’Italia diventa quella repubblica nata dalla Resistenza e, contemporaneamente, il paese in cui il sogno di una reale giustizia sociale diventa un’eredità scomoda, da eliminare dal consesso civile con ogni mezzo necessario.
Tra i mezzi utilizzati per infangare il nome dei partigiani, infatti, il vergognoso volantino torinese è in buona compagnia: eserciti di storici revisionisti, da moltissimi anni, lavorano con l’unico intento di: 1) ridurre l’epopea partigiana alle imprese di una banda criminale (cfr. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, 2005); o, in subordine, di: 2) annacquare il nerbo garibaldino della Resistenza con storie di suore, preti e madri che fanno scudo con il proprio corpo ai loro figli per dare l’idea che il movimento partigiano fosse un affare di tipo nazional-patriottico e non un progetto di matrice social-comunista intenzionato a cambiare l’esistente (cfr. Aldo Cazzullo, Possa il mio sangue servire, 2015).
Tornando al volantino torinese, la mano che merita di ricevere qualunque punizione per aver osato riprodurre le fattezze di Dante con un naso da pagliaccio, si basa su una polemica vecchia e, in modo particolare, su un articolo di Nicola Adduci per “Studi Storici” ripreso nel 2012 da “La Stampa”. Secondo Adduci, Di Nanni non sarebbe stato ucciso al culmine di una sparatoria, ma colpito mentre cercava di nascondersi da una pattuglia di nazifascisti. Notizie storiche in contraddizione con quella che, per eccellenza, è la testimonianza sulla morte di Dante Di Nanni, resa dal comandante Visone, al secolo Giovanni Pesce, nei libri Soldati senza uniforme e Senza tregua. Come afferma il Comandante:
“Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l’ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola; da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L’ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c’è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio”.
A partire da queste parole, l’operazione di cui si fa portavoce il diffamatorio volantino torinese, non attacca soltanto Dante Di Nanni, ma lo stesso comandante Visone, venuto a mancare nel 2007 ma a lungo depositario, nonché difensore infaticabile, della memoria viva dei GAP piemontesi.
Al confronto con la levatura morale dei personaggi citati è evidente che le parole di chi ha bisogno di nascondersi nel buio per blaterare le sue diffamazioni hanno un valore pari alla dignità dei loro autori, quindi zero. Eppure, da tutta la vicenda, emerge una situazione che non tira in ballo soltanto il discorso sul trionfante revisionismo foraggiato dal mainstream italiano ai danni della Resistenza ma che, più modestamente, aiuta anche a fare i conti rispetto a cosa significa fare editoria oggi, almeno per conoscere meglio i soggetti a cui una parte importante della memoria del Paese viene affidata. Perché due importanti libri di Giovanni Pesce, vale a dire il citato Senza tregua insieme a Quando cessarono gli spari, fanno parte del catalogo Feltrinelli: una scelta editoriale che, evidentemente, è frutto di tempi molto diversi da quelli attuali. Infatti, rispetto a quanto accaduto a Torino, quale è stata la reazione della casa editrice di Milano?
Difficile dirlo con esattezza, eppure visitando la pagina FB di Giangiacomo Feltrinelli Editore, l’unica notizia reputata degna di nota il 23 giugno riguarda la visita del ministro Dario Franceschini alla sede dell’azienda di Inge Feltrinelli… strana coincidenza, ma considerando il ruolo del “Partito della Nazione” a cui appartiene lo stesso ministro nel percorso di revisionismo storico appena descritto, la domanda non è più “perché dalla Feltrinelli nessuno prende parola per denunciare la vergogna del volantino torinese?” ma “cosa ci fanno i libri del comandante Visone in quella casa editrice?”.
Ci sarà modo senz’altro di tornare sull’argomento, che non riguarda la Feltrinelli, ma che ha a che fare con l’importanza di costruire approdi utili all’autonomia di classe per fare in modo che lo stesso patrimonio del movimento operaio sia ciò che è: memoria viva e non certo merce da catalogo; la semplice occasione di vendere qualche copia, utilizzare la Resistenza come una foglia di fico di fronte alla residuale opinione pubblica (di lettori forti!) indisponibile a liquidare le vicende della guerra di Liberazione e poi non avere né le risorse culturali né gli interessi necessari a difendere autori e opere pubblicate.
Da questo punto di vista non c’è molto altro dire. Meno male, però, che Soldati senza uniforme non è un libro della Feltrinelli, essendo stato pubblicato proprio quest’anno dalla Red Star Press.
Non ho mai avuto familiarità né simpatia per quel mondo in divisa che, organizzato gerarchicamente, affronta in prima persona gli affari definiti «militari». Eppure ho cercato sempre di interessarmene, convinto che non sia affatto il caso che, a sinistra, si rinunci a costruire un punto di vista anche in tema di armamenti, esercito e ordine pubblico: a partire dalla fine della seconda guerra mondiale il fronte – rigorosamente interno – su cui le forze armate e le loro articolazioni vengono impegnate con maggior rigore.
Malgrado non siano mancati, infatti, i territori sui quali dislocare truppe con le scuse più fantasiose (una su tutte: la «missione di pace»), è proprio pensando alla popolazione civile, al suo contenimento e alla sua repressione che, oggi, tendono a essere organizzati gli uomini e i mezzi a disposizione tanto del ministero della Difesa quanto di quello degli Interni. Uomini e mezzi che, al di là delle loro classificazione, e quindi che si parli di esercito, polizia, carabinieri o guardia di finanza, rispondono in ogni caso a una logica di tipo militare, ereditando da questa sia il potenziale offensivo che un certo sistema di valori, a cominciare dal modo in cui considerare, e quindi affrontare, il proprio nemico.
I vecchi soldati, per esempio, utilizzavano l’espressione «il campo dell’onore» per definire il servizio nelle forze armate. E se l’onore poteva essere tirato in ballo anche al cospetto della bassa macelleria delle passate guerre «tradizionali», ciò riusciva in virtù di un’idea di nemico inteso come soggetto da abbattere ma, al tempo stesso, da rispettare. Una controparte speculare alla propria, all’interno della quale poteva anche succedere di identificare se stessi. A rendere «onorevole» lo scontro subentrava l’idea di un avversario in grado di nuocere e con il quale il confronto si giocava disponendo di una capacità offensiva perlomeno paragonabile: dove i rapporti di forza risultano sproporzionatamente a favore di una delle due parti in causa, infatti, non può esserci nessun onore.
Da quando il principale nemico dei militari viene pensato non più in divisa ma in abiti civili, il discorso sull’onore si è fatto complesso. Quando un poliziotto sgombera una casa occupata, per esempio, picchia selvaggiamente donne, vecchi e bambini; come può pensare a se stesso in termini di onore?
E in questi giorni, mentre le nostre forze dell’ordine, alla stazione Tiburtina o a Ventimiglia, si lanciano all’inseguimento di mamme con i lattanti tra le braccia e prendono a schiaffi uomini inermi, come si riesce a instillare tra la truppa quel discorso sull’onore che ha sempre avvallato le atrocità connesse all’attività militare?
Sono domande come queste, in fondo, che stimolano lo studio e l’osservazione di chi porta la divisa, dei suoi codici, dei suoi comportamenti. Perché nella realtà non esiste un confine a partire dal quale ciò che è di pertinenza civile diventa invece una competenza militare. Al contrario, i militari stanno iniziando a mettere in pratica quello che viene costruito da ormai molto tempo nella vita di tutti i giorni: un processo di despecificazione morale e fisica di categorie di «nemici» in realtà molto antiche, ma mai come ora oggetto di un simile odio. Non passa giorno, infatti, in cui su tutti i giornali e in televisione non vi sia una serrata propaganda riservata ai migranti: Rom, rifugiati politici, persone in fuga, non si fa alcuna differenza. Ciò che viene seminato ha a che fare con l’ordine pubblico e con l’invocazione di misure sempre più draconiane per far fronte all’«emergenza» o, come dicono molti usando non a caso un termine militare, con l’«invasione». Allo scopo si mettono in circolazione notizie false (una fra tutte: la bufala degli 80 euro al giorno incassate dai migranti) e gli episodi di cronaca nera vengono ingigantiti a dismisura (come è stato fatto con i pirati della strada di Primavalle): sullo sfondo c’è una gravissima crisi economica, e anche questa viene strumentalizzata per sostenere come la via d’uscita consista nel limitare i diritti di chi viene da fuori, senza considerare come simili provvedimenti finiranno per abbattersi sulla vita di chiunque. Ecco, intanto, un «nemico interno» pronto per l’uso: talmente demonizzato da aver perso le sue prerogative umane agli occhi di chi lo guarda; così pericoloso da far apparire come «bravi ragazzi» le truppe di squadristi che si muovono ai suoi danni con il beneplacito dei regolari corpi di polizia (è accaduto anche a Ventimiglia!). Un soggetto talmente pervasivo e ramificato da chiamare in causa immediatamente altri «demoni» da abbattere: dai migranti agli occupanti di case e da questi agli attivisti dell’opposizione sociale il passo è breve. Non più lungo, a ben vedere, da quanto ancora impedisce alla coscienza di una pericolosa maggioranza silenziosa di sfociare in un movimento reazionario di massa di tipo fascista. Quello stesso movimento reazionario di massa che, per gli sbirri bravi a spaccare la testa di persone disarmate, ha già in serbo il nome di «eroi».
Cresciuto nell’ambiente dell’estrema destra bresciana, Silvio Ferrari, ventuno anni appena, ha un piede nella redazione del periodico «Anno Zero» e l’altro dentro “La Fenice” di Giancarlo Rognoni. Tra le sue frequentazioni spiccano quelle con i sanbabilini milanesi: la manovalanza di un disegno in cui, attentato dopo attentato, fioriscono sigle come quella del Movimento d’Azione Rivoluzionaria (Mar) di Carlo Fumagalli e delle Squadre d’Azione Mussolini (Sam) di Giancarlo Esposti, organizzazioni eversive impegnate a seguire la scia dell’appena disciolto Ordine Nuovo (e del suo erede “Ordine nero”) e di Avanguardia Nazionale, ognuna con i suoi interlocutori (e i suoi finanziamenti) all’interno dei servizi segreti, ognuna costretta a guadagnare la propria sopravvivenza lottando contemporaneamente su due fronti: 1) in mezzo alla gente, con lo scopo di seminare indiscriminatamente morte e distruzione per favorire un intervento militare che favorisse l’avvento di un colpo di Stato; 2) all’interno del sistema, per spingere nella direzione di una soluzione “dura”, prevedendo l’instaurazione di un regime dittatoriale simile a quello installatosi nella Grecia dei Colonnelli e destinato a imporsi anche nel Cile di Pinochet; o, viceversa, per favorire un approccio “morbido” alla gestione politica italiana: un Paese nel quale i fermenti sociali si sarebbero potuti tenere sotto controllo anche acquisendo il controllo dei mezzi di informazione, limitando le garanzie sancite dalla Costituzione e invocando la necessità di riforme in grado di scambiare una democrazia di tipo parlamentare con un repubblica presidenziale.
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Esiste una fotografia che mostra il corpo di Silvio Ferrari orrendamente dilaniato. Uno scempio provocato da mezzo chilo di polvere da mina mescolato a mezzo chilo di tritolo. Sigillata all’interno di un pacco, la bomba, prima di esplodere, si trovava tra le gambe di Ferrari, evidentemente incaricato di trasportare l’ordigno per conto di qualcuno o di andare a piazzarlo chissà dove. Non si conoscono le intenzioni del giovane fascista né, tanto meno, è nota l’identità del mandante ma, alle tre di notte del 18 maggio 1974, il vespino di Ferrari è fermo a Brescia, in piazza del Mercato, quando salta in aria insieme al suo conduttore. La deflagrazione ha una forza in grado di rompere i vetri ai palazzi del quartiere, eppure l’iniziale ipotesi di uno scoppio accidentale durante il trasporto viene smentita dalla perizia disposta sull’esplosivo e sui resti del ragazzo:
È parere concorde dei periti che l’esplosivo fosse innescato con detonatore elettrico e l’accensione organizzata a tempo prestabilito mediante congegno a orologeria ottenuto con una sveglia di marca “Europa”. Sulle cause dello scoppio, la posizione di Silvio Ferrari e della motoretta, i periti ritengono che la Vespa non fosse in movimento. Il Ferrari era seduto sulla Vespa con il busto reclinato in avanti, le braccia appoggiate al manubrio e i piedi a terra. La perizia esclude che l’esplosione sia dovuta a un fatto accidentale. L’ordigno sarebbe invece esploso al momento prestabilito.
Detto in altri termini: Silvio Ferrari non è vittima di un “incidente” ma sarebbe stato assassinato.
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La notizia dell’esplosione avvenuta la notte del 18 maggio in piazza del Mercato è come una frustata su nervi già estremamente scossi. È dal 29 gennaio, quando tre ordigni innescati dalle Sam saltano contemporaneamente a Milano, che in Lombardia esplodono le bombe e si spara per le strade: numerosi militanti di sinistra sono feriti con le spranghe e i colpi di pistola nel corso di raid organizzati dagli ultras di estrema destra mentre le sedi delle loro organizzazioni vengono devastate. Gli attentati di marca neofascista provocano anche un morto a Varese, il 28 marzo, quando, in piazza Maspero, un fioraio perde la vita per la deflagrazione di una carica di esplosivo occultata tra i banchi del mercato.
La morte di Silvio Ferrari segna una misura già colma. Eppure, dopo la notte del 18 maggio, il tempo della paura non si limita a sfogare le sue ansie in piazza del Mercato ma, dichiarando guerra a tutta la società civile, continua a proferire minacce come quelle contenute in un volantino recapitato al «Giornale di Brescia» (ma, d’accordo con la Questura, mai pubblicato) e riferite a un sedicente “Partito Nazionale Fascista – sezione Silvio Ferrari”.
Brescia non ha altra scelta: la città insorge contro il terrore nero e il Comitato antifascista si mobilita. Al termine di una riunione a cui, con l’esclusione del Movimento sociale, partecipano tutte le forze dell’arco costituzionale e i sindacati, per la giornata di martedì 28 maggio viene indetto un sciopero e annunciata una manifestazione. L’occasione è talmente grave e importante da auspicare la più grande partecipazione popolare e questo è quello che chiedono a Brescia i rappresentanti del Comitato all’indomani dell’orrenda morte di Ferrari:
Cittadini bresciani,
ancora una volta il fascismo si manifesta nella nostra città e nella nostra provincia con i caratteri ripugnanti del terrorismo omicida, della provocazione e della violenza. Per richiamare i democratici all’unità e alla vigilanza antifascista, perché sia con fermezza colpita ogni trama fascista, perché oltre agli esecutori materiali della violenza siano assegnati alla giustizia i mandanti ed i finanziatori, il Comitato permanente antifascista indice per martedì 28 maggio ore 10 in piazza Loggia una manifestazione antifascista in concomitanza con lo sciopero generale proclamato dai sindacati. Partecipano Franco Castrezzati, a nome delle organizzazioni sindacali e l’on. Adelio Terraroli, a nome delle forze politiche.
Ore 9: concentramento a piazza Garibaldi – Porta Trento – piazza Repubblica. Ore 9 e 30: partenza cortei per piazza Loggia. Ore 10: comizio pubblico
(Testo del manifesto redatto dal Comitato unitario permanente antifascista di Brescia e sottoscritto da Dc – Pci – Psi – Pri – Cgil-Cisl-Uil – Anpi – Ffvv – Aned – Anppia – Acli – Cogidas).
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L’antifascismo chiama e Brescia risponde. Il 28 maggio nella “Leonessa d’Italia” scendono in piazza migliaia di persone: lavoratori, militanti di sinistra, ex partigiani e cattolici del dissenso decisi a far sentire la propria voce. Al contrario di quanto accade nel corso degli scioperi “normali”, questa volta non si incrociano le braccia per sostenere una rivendicazione di tipo salariale ma per protestare contro il rigurgito di violenza che sta tormentando la regione e per sostenere i valori della democrazia. Alle 10 il luogo in cui si deve tenere il comizio è già pieno da un pezzo ma, dalle vie adiacenti, i cortei partiti da piazza Garibaldi, Porta Trento e piazzale della Repubblica continuano ad alimentare la folla. Per l’occasione, in piazza della Loggia è stato allestito un grande palco ornato con il panno rosso e sormontato dalle bandiere tricolore, e, all’ora convenuta, gli altoparlanti cominciano a diffondere le parole di Franco Castrezzati della Cisl, deciso a tenere un discorso in cui l’episodio che ha visto protagonista il giovane Ferrari viene inquadrato all’interno di un più ampio e inquietante scenario nazionale:
Amici e compagni, lavoratori, studenti, siamo in piazza perché in questi ultimi tempi una serie di attentati di chiara marca fascista ha posto la nostra città all’attenzione preoccupata di tutte le forze antifasciste. Sono così venuti alla luce uomini di primo piano che hanno rapporti con gli attentatori di piazza Fontana e del direttissimo Torino-Roma, vengono pure alla luce bombe, armi, tritolo, esplosivi di ogni genere. Ci troviamo di fronte a trame intessute segretamente da chi ha mezzi e obbiettivi precisi. […] Si attenta alla vita umana che è un diritto naturale. Si innescano ordigni esplosivi contro sedi di partito, sindacati, cooperative, col proposto di intimidire. Il propellente à ancora una volta l’ideologia fascista. […] La nostra costituzione, voi lo sapete, vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto Partito fascista. Eppure il Moviemento sociale italiano vive e vegeta. Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della Repubblica Sociale Italiana, ordinava fucilazioni e ordinava spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e istituzionale.
A Milano…
«A Milano – avrebbe potuto continuare Castrezzati, riferendosi magari alle bombe del 1969 e alla strage di piazza Fontana – l’Italia è stata spinta sul baratro di una guerra civile da una carneficina senza precedenti che, accanto all’impiego di manovalanza fascista, lascia intravedere anche pesanti responsabilità da parte di importanti autorità dello Stato…».
Il sindacalista bresciano, però, non avrebbe mai avuto modo di completare il suo ragionamento. Sta parlando da pochissimi minuti quando, alle 10 e 12, l’aria viene raggelata da un rumore secco e assordante, simile a una fucilata. Istantaneamente, la piazza piomba in qualche secondo di silenzio irreale. Come se stesse trattenendo il fiato per prepararsi a un urlo spaventoso, la folla ammutolisce prima di sprofondare nel panico totale. C’è chi scappa, chi si dispera, chi, allucinato, resta immobile, con lo sguardo sbarrato:
Piazza della Loggia sembra una nave in tempesta, con la folla che ondeggia, prende a sussultare e poi a sbandare mentre bandiere e striscioni cadono a terra, la gente urla e molti fuggono. Sulla piazza, lungo i portici e davanti al cestino della morte è l’inferno: pezzi di gambe e di braccia, resti umani, feriti lievi e feriti gravi, persone agonizzanti, morti. C’è chi urla e chi si lamenta, i mariti cercano le mogli e le mogli i mariti, altri invocano il nome di un parente, altri ancora si aggirano come fantasmi con brandelli di vestiti tra le mani mentre qualcuno, muto, senza lacrime e senza espressione, fissa il vuoto (Giancarlo Feliziani, Lo Schiocco, Limina, Arezzo 2006).
Nel marasma generale, dalla voce aggrappata al microfono, sul palco degli oratori, vengono fuori frase intrise di fumo, avvertimenti acri come l’odore della paura e della polvere da sparo:
Aiuto… state fermi.
Compagni e amici, state fermi, calma. State calmi, state calmi, state all’interno della piazza, il servizio d’ordine all’interno della piazza, il servizio d’ordine faccia cordone all’interno della piazza. State all’interno della piazza. Lavoratori, all’interno della piazza. Il servizio d’ordine… state calmi, tutti sotto il palco, lasciate il passo alla Croce Bianca… sotto il palco, portatevi alla sinistra della piazza, alla sinistra della piazza, alla sinistra della piazza verso il palco, lavoratori… lascia… lasciate il passo, lavoratori… rechiamoci tutti in piazza della Vittoria, lasciate il passo alle macchine per il soccorso, tutti in piazza della Vittoria. Compagni, il senso di responsabilità in questo momento… andiamo in piazza della Vittoria, lasciate il passaggio alle macchine, lasciate il passaggio alle macchine…
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Sette etti di esplosivo nascosti in un cestino di rifiuti proprio sotto il porticato: questa è stata l’arma usata dei terroristi per provocare quello scempio di arti strappati dai corpi e sangue che devasta piazza della Loggia dopo l’attentato. Un’intenzione criminale favorita dall’inclemenza del tempo e dalla pioggia battente che, la mattina del 28 maggio, ha spinto i manifestanti ad accalcarsi dove era possibile trovare un riparo.
Per otto di loro, quell’intenso attimo di luce che precede l’urto di un’esplosione, è il confine che separa la vita dalla morte. La vita, nella fattispecie, è quella densa di impegni vissuta da Livia Bottardi, trentadue anni, professoressa attiva nella cgil Scuola. Livia, la mattina del 28, va in piazza anticipando di poco Manlio Milani, suo marito, un operaio. I due, da una parte all’altra dei portici, fanno in tempo a vedersi, a sorridersi, a farsi un cenno con la mano… ma dopo l’esplosione Manlio resta solo e gettarsi a capofitto nella folla che scappa via terrorizzata per trovarsi a stringere il corpo di Livia non serve a nulla. Manlio spera fino all’ultimo, continua ad abbracciare Livia anche sull’ambulanza ma… «Ormai è morta», sono le parole che non avrebbe mai voluto ascoltare, pronunciate da un’infermiera a testa bassa, nell’androne dell’ospedale.
Insieme a Livia, a Brescia cadono altri quattro insegnanti, tutti attivi all’interno del sindacato e amici tra di loro. Soltanto la sera prima della Strage, a cena con Livia e Manlio c’erano anche Clementina “Clem” Calzari e Alberto Trebeschi. Lei, trentuno anni, ragazza molto bella, non aveva avuto paura di affrontare i pregiudizi quando si era trattato di opporsi alla volontà del padre, convinto che per una ragazza non stesse bene proseguire gli studi, ed era diventata professoressa di latino. Lui, trentasette anni, laureato in fisica ed esperto di filosofia della scienza, è l’autore di un’importante ricerca intitolata Fisica e filosofia, redatta con la collaborazione della stessa Clementina. Tra le pagine del suo diario c’è una frase che resta a rappresentarlo meglio di un autoritratto: «Se mi andasse si perdere il sapore del travaglio intellettuale, in me rimarrebbe esclusivamente l’animale e questo rappresenterebbe il primo passo verso la morte, la vera morte che è quella dello spirito».
Coppia felice e innamorata, Clementina ed Alberto non avevano rinunciato alle proprie idee nemmeno quando si era trattato di sposarsi: erano disposti ad andare incontro alla madre di Clementina che non accettava l’idea di una convivenza ma la cerimonia che li avrebbe dichiarati marito e moglie non si sarebbe tenuta in chiesa bensì in municipio. Poi ci avrebbe pensato Giorgio a cementare la loro unione: un ragazzino che, a nemmeno due anni, è costretto a vedere i nomi di entrambi i genitori tra quelli delle vittime della Strage.
In questo macabro elenco c’è anche Luigi Pinto, venticinque anni, sposato con Ada, nato Foggia e arrivato a Brescia dopo aver lavorato in uno zuccherificio in Puglia e alla Sir di Porto Torres, in Sardegna. L’incarico di insegnante di Educazione tecnica, per lui, è un punto d’arrivo importante visto che il contatto con i giovani – insieme alla politica – è la cosa che lo appassiona di più. Quando arriva in ospedale, insieme a più di cento feriti, Luigi respira ancora: la sua tempra è forte e, a tratti, sembra che ce la possa ancora fare… invece morirà il primo di giugno, dopo tre giorni di coma.
Oltre a lavorare per la Cgil Scuola, Luigi frequentava il circolo di Avanguardia operaia, lo stesso in cui è di casa un’altra compagna del sindacato: Giulietta Banzi in Bazoli, trentaquattro anni, detta anche “Giulietta la rossa”, come la bandiera che adornerà la sua bara il giorno dei funerali. Sposata a un assessore della Democrazia cristiana anche se convinta sostenitrice del marxismo-leninismo, Giulietta, madre di due figli, insegna francese senza avere nessuna necessità di ricorrere ai formalismi autoritari che, troppo spesso, separano il professore dai suoi allievi. Allievi che, riuniti in assemblea subito dopo la notizia della carneficina, si dimostreranno perfettamente in grado di mettere in pratica il sapere appreso insieme alla loro insegnante inquadrando con lucida precisione i meccanismi nascosti dietro la bomba di piazza della Loggia: «Di fronte al tentativo di mistificare i connotati politici di questi caduti – sostengono gli studenti della Banzi – facendoli passare per individui casualmente coinvolti nella Strage, è necessario testimoniare l’impegno politico che li ha portati al sacrificio».
Gli studenti della Banzi hanno ragione. Perché l’impegno politico è esattamente ciò che tiene insieme non soltanto il gruppo degli insegnanti – tra l’altro spesso richiamati dalla stessa direzione della cgil in quanto accusati di “sorpassare a sinistra” le linee-guida del sindacato – ma anche gli altri caduti di piazza della Loggia.
Tra gli iscritti al sindacato, per esempio, c’è l’artigiano Bartolomeo Talenti detto Bartolo, cinquantasei anni: una mago nella manutenzione e nella riparazione delle armi, mestiere che aveva appreso direttamente dal padre; ma anche un militante talmente esperto da guadagnarsi tra i più giovani il soprannome di “papà”.
Ancora dalle fila del Partito comunista, con un passato nei Gruppi di azione partigiana, viene Euplo Natali: sessantanove anni e, alle spalle, un licenziamento provocato dal suo acceso antifascismo ma anche, dopo la Liberazione, l’orgoglio di avere rappresentato il Cln nella provincia di Brescia.
Anche l’operaio Vittorio Zambarda è iscritto al Pci praticamente da sempre: dopo una vita di lavoro durissimo, avrebbe dovuto iniziare a riscuotere la pensione. L’esplosione della bomba, però, non gli consentirà mai di andarsi a mettere in fila all’ufficio postale ma lo tormenterà con una lunga agonia, chiusa dal sopraggiungere della morte soltanto il 15 giugno, diciotto giorni dopo l’attentato.
Sono questi i morti provocati dalla bomba fascista di piazza della Loggia: «Non si chiamino vittime ma caduti consapevoli», si dirà di loro, per sottolineare come, a differenza delle altre stragi compiute dall’eversione nera in Italia, quella di piazza della Loggia non è stata pensata per colpire nel mucchio ma per abbattersi sui settori più progressisti dell’opinione pubblica. Come preciserà nel 1993 nella sua sentenza-ordinanza il giudice istruttore Giampaolo Zorzi, la strage di Brescia è quella «a più alto tasso di politicità nel novero delle stragi che hanno scandito la storia d’Italia dal 1969».
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Cosa c’è di peggiore della morte?
Non c’è niente di peggiore della morte. A parte il comportamento – a metà strada tra l’incompetente e il complice – di chi esisterebbe (polizia e magistratura inquirente) proprio per impedire che un fatto come quello di Brescia possa accadere o, al limite, per portare un contributo di verità alle ragioni più profonde di un simile lutto. Il comportamento a metà strada tra l’incompetente e il complice, passando in rassegna la gestione investigativa e giudiziaria della strage di piazza della Loggia, è quello della questura di Brescia e del dottor Aniello Diamare, uno dei suoi massimi dirigenti. Perché la bomba è esplosa da poco più di un’ora quando il funzionario, spinto da un lampo di follia o da chissà cosa, ordina ai pompieri di accorrere sulla scena del delitto per irrorare la piazza con potenti getti d’acqua. In questo modo piazza della Loggia viene tirata a lucido: dopo mezzogiorno non ci sarà più traccia del sangue versato e, naturalmente, nemmeno più traccia di qualsiasi reperto in grado di dispensare indizi sull’identità dei bombaroli e sugli autori della Strage.
Perché il vicequestore Diamare ordinò ai pompieri di lavare la Piazza?
L’attitudine delle forze dell’ordine a ripulire la scena del delitto, quando si tratta di stragi, più che un errore o una manifestazione di pura incompetenza è una specie di tradizione. Già nel 1944, a Palermo, quando un battaglione di soldati aprì il fuoco su una folla inerme, subito dopo l’eccidio si procedette a lavare via Maqueda e le strade circostanti. Ancora nel 1969, il giorno della strage di piazza Fontana, un altro ordigno inesploso venne immediatamente fatto brillare dagli artificieri di Milano con il risultato di distruggere per sempre una prova preziosa.
Si tratta di stranezze più che sospette che, nel caso di piazza della Loggia, iniziano addirittura prima dell’esplosione della bomba. Ai bresciani abituati a partecipare alle manifestazioni, infatti, il 28 maggio non sfuggì il movimento dei carabinieri incaricati di svolgere il servizio di vigilanza che, poco prima dell’inizio del comizio, abbandonarono il loro solito presidio – collocato esattamente sotto i portici, nei pressi del cestino contenente l’ordigno – per schierarsi all’interno del cortile della Prefettura. Si potrebbe pensare a un gesto di buona educazione, compiuto dagli uomini al comando del vicequestore Diamare e del tenente Ferrari per dare modo a chi affluiva in piazza della Loggia di trovare un riparo… un presunto atto di distensione che è difficile interpretare come tale tenuto conto che, subito dopo l’esplosione e poco prima che gli idranti dei pompieri iniziassero ad annacquare l’inchiesta, i manifestanti superstiti vennero sgombrati dalla piazza a manganellate!
Come mai Diamare e Ferrari spostarono i loro uomini dal porticato di piazza della Loggia al cortile della Prefettura?
Per completare il profilo della Questura di Brescia si deve ancora aggiungere una cosa. Quando si tratta di esprimersi sulla natura della Strage, le prime dichiarazioni ufficiali, insieme alle tracce lasciate sulla Piazza, cercano di rimuovere anche la matrice politica dell’attentato: «Indaghiamo in tutte le direzioni – si sentenzia dalla Questura – ma chi può escludere che si sia trattato del gesto di un folle?» (citato in «Paese Sera» del 30 maggio 1974).
Per le questure italiane, l’attitudine a negare le responsabilità della destra relativamente agli episodi più sanguinosi degli anni di piombo, sembra essere una sorta di abitudine: un comportamento che, oltre a causare gravi perdite di tempo compromettendo l’esito delle investigazioni, priva i cittadini di una sponda istituzionale credibile, erodendo in maniera irreversibile qualunque idea di fiducia nei confronti dei rappresentanti del potere centrale.
Non a caso, una volta appresa la notizia della strage, tutta l’Italia insorge riversando la propria rabbia nelle strade e scagliandosi spesso contro le sedi del Movimento sociale e i luoghi di ritrovo della destra. A Brescia, in modo particolare, i fischi che sommergono le massime cariche dello Stato durante i funerali delle vittime di piazza della Loggia rappresentano in modo crudo ed eloquente una vera e propria chiamata in correità da cui, uomini come il presidente del Consiglio Mariano Rumor, il ministro Paolo Emilio Taviani e lo stesso presidente della Repubblica, Giovanni Leone, non riescono a sottrarsi. Con le mani tremanti, Leone dovrebbe essere a Brescia per esprimere la sua solidarietà ai familiari di Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Clementina “Clem” Calzari, Euplo Natali, Alberto Trebeschi, Luigi Pinto e Bartolomeo “Bartolo” Talenti, ma, una volta arrivato sul palco riservato alle autorità, troverà l’assessore della Dc Luigi Bazoli, il marito di Giulietta Banzi, pronto ad afferrarlo per il bavero e a dirgli senza mezzi termini: «Caro Presidente basta con queste cose… Dobbiamo smetterla, impedire, non possiamo più accettare che questo avvenga, basta… Non possiamo permettere che avvengano queste cose nel nostro Paese…».
Giovanni Leone non è certo l’interlocutore più adatto a raccogliere la domanda di moralità avanzata prepotentemente dalla piazza… i voti del Msi grazie ai quali, nel 1972, è stato eletto Presidente pesano come macigni nel momento in cui il «marchio di fabbrica» della destra eversiva si stampa in maniera indelebile sulla Strage. La pista nera – malgrado i tentennamenti iniziali e i tentativi con cui il «Secolo d’Italia» proverà ad attribuire l’attentato alle Brigate rosse – inizia velocemente a fornire i primi indizi: i gruppi di Ordine nuovo attivi in Veneto, il movimento neofascista bresciano insieme ai settori più retrivi del padronato cittadino diventano presto i luoghi in cui cercare per dare un nome e un volto agli assassini di piazza della Loggia.
Per chiudere il cerchio di una simile teoria mancano alcuni tasselli fondamentali, magari una testimonianza diretta come quella di Ermano Buzzi: un ex missino bresciano vicino sia agli ambienti della criminalità politica che a quelli della criminalità comune (ha precedenti per furto e ricettazione di quadri), arrestato con l’accusa di essere responsabile dell’esecuzione materiale della strage. Ad inchiodarlo, la testimonianza di un altro fascista di Brescia, Angelino Papa, secondo cui, la mattina del 28 maggio, Buzzi avrebbe preannunciato l’attentato dichiarando, prima dell’esplosione: «C’è la manifestazione antifascista… Gli facciamo lo scherzetto…».
Ermanno Buzzi, auto-proclamatosi “conte di Blanchery” dopo aver acquistato il titolo da un notabile napoletano, non è certo un personaggio benvoluto dai suoi camerati. Dopo il suo arresto lo stesso Giorgio Almirante avrà buon gioco nel scrollarsi di dosso le accuse che chiamano in causa il Movimento sociale accusando Buzzi di essere «un noto pederasta» e, conseguentemente, giustamente espulso dal suo partito essendo l’Msi «l’unico partito veramente anti-omosessuale».
L’omofobia di Almiranti e camerati, ostentata come se si trattasse di un valore e non di un serio problema psichiatrico, fa parte delle eterne contraddizioni della destra italiana: ammantata di virilità e machismo fino al punto di costruire per i suoi militanti un’ideale di tipo spartiata o tebano, una “società di maschi” in cui, come ai tempi di Patroclo e Achille, anche la sessualità – recuperata in chiave antiborghese – viene esperita all’interno del gruppo di “guerrieri” o “soldati politici” che dir si voglia. In questo contesto, Ermanno Buzzi può ben rispecchiarsi del gruppo neofascista più celebre del Nord Italia, quello dei sanbabilini, “ritratti dal vero” dalla penna di Alessandro Preiser, pseudonimo di un’ex militante nero:
Eurialo non tardò a far parte della ristretta chiostra nella quale tutti riconoscevano gli eroi da emulare e seguire […]. Raimondo Forzi: era il più legato a Eurialo […] e al pari di questi, pur non disdegnando di quando in quando rapporti omosessuali, era sostanzialmente eterosessuale. […] Corrado: […] non s’è mai saputo se gli piacessero più gli uomini o le donne. […] Ruggero detto Ruggerino: un femmineo fanciullo diciassettenne basso e smunto con lunghe anella more, si truccava, aveva meravigliose mani inanellate che avrebbero fatto invidia ad Anna Karenina, delicato, con voce che pareva un soffio leggero, uranista sentimentale. Stravedeva per Silvano, ma essendo questi troppo moralista si lasciava coinvolgere nelle avventure di droga e sesso di Ennio, Eurialo e Raimondo. […] Luca: sedicenne, appena più mascolino di Ruggerino, leggermente più alto di questi ma più basso d’Eurialo. Legato a Corrado insieme col quale si faceva adusare da Eurialo e Raimondo dalle tentazioni dell’hashish e non soltanto a quelle (Alessandro Preiser, Avene selvatiche, Marsilio, Venezia 2004).
Più concretamente, il problema di Ermano Buzzi con gli uomini che gestiscono il terrorismo nero non è l’omosessualità ma il suo presunto status di spia: un uomo dei servizi infiltrato tra i camerati dalla polizia, considerato responsabile di molte soffiate e anche di aver architettato la morte di Silvio Ferrari. Questa, almeno, è l’opinione che, di Buzzi, hanno i camerati di «Quex», la famosa rivista autoprodotta dai detenuti politici di estrema destra e utilizzata per ospitare notizie “di movimento” insieme a una rubrica dedicata agli infami in cui, senza mezzi termini, si fanno i nomi dei personaggi da eliminare. Tra gli ospiti di questa rubrica – definita «vagamente jettatoria» dagli stessi lettori – c’è proprio Ermanno Buzzi: il teste più importante per le indagini su piazza della Loggia che, inspiegabilmente, nell’aprile del 1981, viene trasferito nel carcere di Novara, cioè dietro le stesse sbarre in cui è ospitato Pierluigi Concutelli, capo militare del Movimento politico ordine nuovo nonché diretto estensore della rubrica di «Quex» e della condanna a morte per il discusso “conte”.
Nel carcere di Novara, Ermanno Buzzi ha le ore contate. A Concutelli, già noto con il soprannome di “Comandante” ma in carcere detto “Er Sentenza” in virtù delle esecuzioni portate a termine, bastano quarantotto ore per avvicinare Buzzi al passeggio… non appena questo succede, il 13 aprile del 1981, scocca l’ultima ora d’aria del conte di Blanchery. Su come sia possibile uccidere un uomo a mani nude dice la sua Pierluigi Concutelli, aiutato, nell’occasione, da un altro assassino fascista molto conosciuto dentro e fuori dal carcere:
Buzzi temeva per la sua vita e per i primi giorni non venne all’aria. Aveva paura, era terrorizzato dalle possibili ritorsioni. Dopo un po’ di tempo passato in cella senza uscire, si convinse che nessuno gli avrebbe fatto del male e scese in cortile. «Ah, ci sei anche tu,» disse rivolgendosi a me e diventando pallido come un cencio. Quando gli andai addosso cercò di fermarmi: «Prima mi picchi e poi ne parliamo? Prima fammi spiegare e poi, casomai, mi prendi a cazzotti». Non immaginava che l’avremmo ammazzato, era convinto che ci saremmo limitati a un semplice pestaggio di galera. […] Buzzi morì così, in un angolo del supercarcere di Novara, strangolato da me e da Mario Tuti. […] Io e Tuti chiamammo la guardia. Mario disse una cosa un po’ pesante: «Dovete far rimuovere dell’immondizia che è rimasta in cortile (Giuseppe Ardica – Pierluigi Concutelli, Io, l’uomo nero, Marsilio, Venezia 2008).
Chi, essendo perfettamente al corrente della condanna a morte emessa contro Ermanno Buzzi, decise di trasferire il super-testimone di piazza della Loggia nello stesso carcere di Pierluigi Concutelli?
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Concutelli, nel futuro, continuerà a rivendicare la piena autonomia della decisione di assassinare Ermanno Buzzi. Quello che nemmeno “il comandante” tenta di smentire, però, è che la scelta di mandare “il conte” a Novara sia stata evidentemente compiuta da qualcuno che ha tutto l’interesse a sbarazzarsi dello scomodo camerata bresciano:
Siccome sapevano che con noi sarebbe finita male – dichiara Concutelli – ce l’hanno dato in pasto. A me qualcuno me l’ha fatto anche notare. Ma se io ho fame non sto a vedere chi mi dà da mangiare. Tu me lo mandi? Cazzi tuoi. Io non l’ho soppresso mica perché me lo hai detto te. È uno che già ho condannato io (intervista di Mario Caprara e Gianluca Semprini in Destra estrema e criminale, Newton Compton, Roma 2007).
Inutile specificare che lo stesso qualcuno che «ha dato in pasto» Buzzi a Concutelli è anche chi, all’interno delle istituzioni, ha contribuito a ostacolare l’inchiesta sulla Strage, provvedendo a cancellare le tracce e animando ogni sorta di mistificazioni. Nessuno sorpresa, quindi, che una verità giudiziaria sull’eccidio del 28 maggio non sia ancora venuta alla luce nel corso di quel calvario che è l’iter giudiziario della strage di piazza della Loggia. Nel 1979, la Corte di Assise di Brescia, basandosi sulle esternazioni di Angelino Papa, condanna Ermanno Buzzi all’ergastolo ma la sentenza viene ribaltata in Appello nel 1982, quando Buzzi, ormai assassinato a Novara, viene definito «un cadavere da assolvere» nelle motivazioni della sentenza. Da allora, per i fatti di piazza della Loggia sono stati spesi trentaquattro anni di indagini e 750.000 pagine di atti giudiziari: un materiale sufficiente a proiettare la torbida accusa di stragismo su tutto il neofascismo italiano e i collegati ambienti economico-militari in grado di alimentarlo. In modo particolare, risalgono al 1993 le dichiarazioni con cui Donatella Di Rosa, alias “Lady Golpe”, e suo marito, il tenente colonnello Aldo Micchittu, innescano l’inchiesta che culmina con la quinta istruttoria dedicata alla strage di Brescia.
Il nuovo processo è ancora in corso ma, vagliando le testimonianze di ex terroristi e collaboratori di giustizia, diventa sempre più chiaro che la decisione di colpire la manifestazione antifascista organizzata in piazza della Loggia nasce in un contesto fortemente condizionato dai “duri” dei servizi segreti e del così detto “Partito americano”: un’ala dell’Alleanza atlantica favorevole all’instaurazione di un regime militare fortemente antidemocratico, anticomunista e antipopolare. Non si tratta certo di un pugno di personaggi da avanspettacolo impegnati a vagheggiare un “golpe da operetta” ma di uomini estremamente pericolosi, in grado di poter contare sull’appoggio di poteri forti e dello stesso esercito italiano. Dopo lunghi anni di investigazioni, reticenze e mistificazioni, la quinta istruttoria entra nel vivo del dramma bresciano alla fine del 2007, quando il gup Lorenzo Benini chiede il rinvio a giudizio di un gruppo di persone accusate dei reati di strage, favoreggiamento e depistaggio. Si tratta di un pugno di vecchie conoscenze della criminalità politica italiana. Tra i presunti stragisti, infatti, ci sono nomi pesanti come quello del neonazista Delfo Zorzi: già condannato in primo grado per la strage di piazza Fontana e, a Mestre, capo della locale, agguerritissima cellula di Ordine Nuovo. Martino Siciliano, ex militante di on passato tra le fila dei collaboratori di giustizia e, oggi, iscritto insieme a Zorzi nel registro degli indagati. Secondo Siciliano, Zorzi:
Aveva un carattere molto forte, spesso duro, era molto manesco e privo di quelle reazioni che in molti di noi sorgevano alla vista del sangue durante i pestaggi. Zorzi infatti si occupava personalmente anche delle punizioni da infliggere ai camerati. Era chiuso, introverso, molto riservato. Portato quasi a una specie di misticismo. Fu lui a far scoprire ad altri camerati il buddismo (intervista di Gianni Barbacetto, E lei sa anche chi mise la bomba? Sì, fu Delfo Zorzi, in «Diario», 11-17 dicembre 1996).
Il “Samurai”, oggi, ha coronato il suo sogno mistico riparando il Giappone, dove, assunto il nuovo nome di Roi Hagen, vive al riparo da ogni richiesta di estradizione esercitando con enorme successo il mestiere di imprenditore nel campo della moda. Zorzi, questo è chiaro, non accetterà mai di sottoporsi al giudizio della magistratura italiana, le sole condanne che possono riguardarlo saranno eventualmente emesse in contumacia. È un peccato. Ripercorrendo la storia della strage di Brescia, il Samurai avrebbe potuto godere della compagnia di vecchi camerati come Carlo Digilio (deceduto in seguito a un ictus mentre aveva iniziato a rilasciare pesanti dichiarazioni ai magistrati), conosciuto con il soprannome di “Zio Otto” dai militanti di Ordine nuovo e con il nome in codice “Erodoto” dai militari della cia; come Carlo Maria Maggi, reggente di Ordine nuovo per il Triveneto; come Maurizio Tramonte, infiltrato dal sid in on con il nome in codice di “fonte Tritone”; o, addirittura, come Pino Rauti: attuale suocero del sindaco di Roma Gianni Alemanno, fondatore del Movimento sociale, di Ordine nuovo e, in tempi più recenti, protagonista delle avventure del partito della Fiamma, schierato a destra di Alleanza nazionale.
La lista degli indagati non finisce qui. E dagli ambienti più strettamente politici si sale ai piani alti delle istituzioni se, continuando a scorrere l’elenco delle coinvolte nella quinta istruttoria, ci si sofferma su Giovanni Maifredi, l’ex autista del ministro Taviani infiltrato in Ordine nuovo direttamente da un generale dei carabinieri: Francesco Delfino, uomo dei servizi segreti già condannato in via definitiva per truffa aggravata nell’ambito delle indagini sul sequestro dell’imprenditore bresciano Soffiantini. A completare questo desolante panorama, con l’accusa di intralcio all’autorità giudiziaria, favoreggiamente e depistaggio, insieme al neofascista Vittorio Pocci ci sono l’attuale parlamentare di Forza Italia Gaetano Pecorella e Fausto Maniaci, rispettivamente avvocati di Delfo Zorzi e Martino Siciliano.
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Incrociando le informazioni elargite a suo tempo da Lady Golpe con le dichiarazioni rilasciate da imputati come Carlo “Zio Otto” Digilio, il micidiale esplosivo utilizzato in piazza della Loggia sarebbe stato procurato da Delfo Zorzi e, via Milano, sarebbe finito nelle mani delle sam di Giancarlo Esposti, materialmente incaricate di compiere la Strage. Secondo Tramonte, invece, a collocare la bomba nel cestino sotto i portici sarebbe stato Giovanni Melioli, capo degli ordinovisti di Rovigo.
Se le conclusioni a cui arrivano Digilio e Tramonte sembrano diverse, a essere identico è l’ambiente che i due personaggi “informati sui fatti” evocano attraverso i loro racconti: un mondo in cui, nelle riunioni tenute per organizzare la Strage, diventa difficile distinguere i “soldati politici” dagli agenti dei servizi segreti, i rappresentanti dello Stato dagli avventurieri senza scrupoli. Recentemente, tra le altre cose, è emersa anche una nuova fotografia in cui, tra la folla di piazza della Loggia, sembra di ravvisare lo stesso Maurizio “fonte Tritone” Tramonte: una possibilità che renderebbe ancora più complicata l’interpretazioni dei fatti; sopratutto se si tiene conto di una cosa: sia Giovanni Melioli, sia Giancarlo Esposti, vale a dire i terminali del disegno stragista evocato da Tramonte e Digilio, non sono assolutamente in grado di aggiungere la loro testimonianze a quelle raccolte nel corso della quinta istruttoria. Giovanni Melioli, infatti, è stato ritrovato morto nel suo letto nel 1991, con mezzo chilo di cocaina al suo fianco. Giancarlo Esposti, da parte sua, è deceduto in circostanze ancora più sospette. L’illustre esponente delle Squadre d’Azione Mussolini, appena due giorni dopo la Strage, si trova accampato in località Pian di Rascino (provincia di Rieti). Insieme a lui, in una tenda mimetica, dormono i camerati Alessandro D’Intino e Alessandro Danieletti. Nei pressi, è parcheggiata una Land Rover traboccante di armi e di esplosivo (tra le altre cose, nella vettura sono stipati 560 detonatori, dieci chili di plastico, trecento metri di miccia e quaranta chili di esplosivo da cava!).
Alle sette del mattino del 30 maggio 1974, una pattuglia di carabinieri al comando del maresciallo Antonio Filippi, si avvicina all’accampamento. Quando Esposti si affaccia dalla tenda i militari gli chiedono: «Siete delle Brigate rosse?».
La domanda è retorica. Esposti farfuglia qualcosa – «Siamo radioamatori…» – poi mette mano alla pistola. I colpi del neofascista raggiungono in rapida successione i carabinieri Alessandro Jagnemma e Pietro Mancini. Ma la reazione rabbiosa di Esposti non basta a salvargli la vita. Crivellato dai proiettili del maresciallo Filippi, Esposti si accascia al suolo. Rantola. È ancora vivo. Filippi, però, ha ancora qualche colpo in canna. E la sua pistola, a questo punto, ha cura di avvicinarsi bene alla testa di Esposti prima di fare fuoco. Praticamente si tratta di un’esecuzione. Ma da cosa è stata provocata?
Forse soltanto da un eccesso di ritorsione. Un momento di rabbia che ha preso il sopravvento decidendo che Esposti voleva morire. Peccato solo che il maresciallo Filippi risulti attivo anche come agente del Sid. E che, insieme a Giancarlo Esposti, finiscano in una cassa da morto una grande quantità di segreti: memorie storiche che molti personaggi importanti hanno tutto l’interesse di non rivelare.
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Che cosa stava facendo esattamente Giancarlo Esposti nei boschi di Pian di Rascino? A cosa sarebbe dovuto o potuto servire l’arsenale che si trascinava dietro insieme alla Land Rover?
Quello che è sicuro è che, a un certo punto, nel mese di maggio del 1974, Esposti decide di far perdere le proprie tracce. Testimone di questa scelta, il padre del ragazzo, a cui Esposti telefona dicendo di essere costretto a scappare «perché i carabinieri li avevano traditi» (citato in Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri, Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato, Einaudi, Torino 2000).
La domanda, allora, diventa: chi è, esattamente, che, almeno secondo Esposti, è stato tradito dai carabinieri?
La risposta è contrassegnata da una data precisa: il 9 maggio del 1974, alla vigilia di una scadenza referendaria – quella sul divorzio – che, di per sé, contribuisce a foraggiare polemiche, desideri di rivalsa, tensioni. Quel giorno, con un blitz spettacolare, i carabinieri arrestano decine di militanti del Movimento d’azione rivoluzionaria, un cartello che, in chiave anticomunista, tiene insieme fascisti, cattolici intransigenti, qualunquisti ed esponenti della “Maggioranza silenziosa”, altra corrente utilizzata per mobilitare l’opinione pubblica contro la sinistra di piazza. A finire in manette c’è anche il fondatore del Mar: Carlo Fumagalli, ideatore di un disegno destinato ad imporre, attraverso il terrore, una svolta politica catto-autoritaria. Mentre Fumagalli viene tradotto in carcere, il suo vice, Gaetano Orlando, riesce ad avvisare i camerati, consentendo la breve fuga di Giancarlo Esposti: una fuga che, considerato l’armamento di cui poteva disporre, non doveva servire semplicemente a sottrarsi alla giustizia. Al contrario, asserragliato a Pian di Rascino, Esposti sperava ancora che il piano di Fumagalli e soci, quella strategia responsabile dell’incredibile numero di attentati organizzati nel corso del 1974, potesse trovare il suo pieno compimento. A Pian di Rascino, in buona sostanza, Esposti aspettava lo scoccare dell’“ora X”: un segnale che avrebbe dovuto far entrare in azione altri commando simili a quello guidato dall’estremista milanese, pronti ad unirsi all’esercito e a prendere il potere.
Esposti, evidentemente, non stava tenendo conto di una cosa. Nei piani alti dei servizi segreti, tra i protagonisti delle trame occulte della storia Repubblicana, il vento stava cambiando. Gli stessi fascisti, con il loro rozzo culto della violenza e la loro ridicola ossessione per ideali politici ormai superati, sono visti come semplici ferri vecchi: un validissimo aiuto fino a quando la violenza è stata indispensabile per arginare la vocazione progressista dell’Italia ma, a questo punto della Storia, soltanto un ostacolo per un rinnovamento reazionario in grado di mettere in alto strategie di controllo molto più raffinate di quelle che passano per un attentato dinamitardo, un’aggressione squadrista o una sparatoria.
Certo. Smobilitare una rete di assassini, bombaroli e picchiatori costruita con un paziente lavoro di intelligence e cospicuamente finanziata non è facile. Come non è facile convincere tutti gli esponenti e tutti i militanti del «partito del Golpe» dell’avvenuto mutamento di rotta. Sono tante le camice nere poco desiderose di indossare il doppiopetto e numerosi i gruppi ancora votati all’azione violenta. Schegge impazzite che, con i vecchi sistemi, continuano a giocare alla guerra sporca, lasciando il proprio “marchio di fabbrica” sulla strage di Brescia e, ancora nel 1974, sull’esplosivo piazzato sul treno Italicus, saltato in aria all’uscita di una galleria all’altezza di San Benedetto Val di Sambro il 4 agosto dell’anno destinato a chiudere il ciclo di attentati inaugurati nel 1969 con i morti milanesi di piazza Fontana. A morire sull’Italicus, dilaniati dalla bomba o bruciati vivi nell’incendio seguito all’esplosione, furono dodici persone. Per tutti loro c’è un volantino firmato Ordine nero che, al grido di «Giancarlo Esposti è stato vendicato», rende completamente esplicita la natura ricattatoria della strage:
Abbiamo voluto dimostrare alla Nazione – scrivono gli attentatori – che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare. Vi diamo appuntamento per l’autunno. Seppelliremo la democrazia sotto un mare di morti.
«Seppelliremo la democrazia sotto un mare di morti», scrivono gli attentatori. E le loro parole, come tutta la storia dello stragismo di destra, vanno lette come se fossero indirizzate a due tipi diversi di interlocutori. Da un lato c’è il contenuto palese della rivendicazione: quella diretta corrispondenza tra significante e significato decriptabile da chiunque conosca i termini della lingua italiana. Poi c’è un livello esoterico del discorso, riservato agli iniziati: nella fattispecie gli esponenti delle diverse fazioni interne al sistema; come abbiamo scritto aprendo il capitolo sulla Strage di Brescia, i sostenitori della necessità del colpo di Stato cruento e i seguaci di nuove politiche di controllo delle masse che, seppur assimilabili ai loro avversari nella volontà di imprimere al Paese una svolta reazionaria, sono convinti della necessità di rispettare la forma democratica delle istituzioni (… la forma, non la sostanza!).
Nell’anno del Signore 1974, tra queste due fazioni è guerra aperta. Una lotta senza esclusione di colpi che, alla fine, vedrà prevalere i supporter dell’“ordine democratico” sui golpisti di vecchio stampo fascio-militare. Intorno alle strutture predisposte all’intimidazione, all’aggressione e alla strage, contro i bombaroli precedentemente assoldati dai servizi segreti si fa terra bruciata ed ecco, nel mese di maggio 1974, scattare improvvisamente le operazioni di polizia che stroncano la “carriera” di un Carlo Fumagalli, gli “incidenti” che provocano la morte di un Giancarlo Esposti o i “trasferimenti” che decretano l’assassinio di un Ermanno Buzzi. Dall’altra parte, però, chi sogna l’avvento di un nuovo duce non si rassegna ad abbandonare le leve del potere occulto e sferra colpi micidiali: la Strage di Brescia e la Strage dell’Italicus, i più gravi episodi terroristici del ’74, sono solo il frutto di questa guerra intestina; un frutto amaro fatto mangiare, più o meno indiscriminatamente, a tutta la popolazione italiana.
C’è ancora un problema, però. Affinché, alla fine del conflitto, i vincitori possano continuare a usare illegalmente e per i propri fini lo Stato e tutte le sue strutture, è necessario che tutto avvenga nel completo silenzio. Non è un caso, infatti, se il processo per la Strage di Brescia sia ancora in corso o se, per quanto riguarda l’Italicus, la preziosa testimonianza di una donna che potrebbe inchiodare all’istante gli attentatori di Ordine nero e il “Fronte nazionale rivoluzionario” di Mario Tuti, detto “il Caterpillar”, non venga minimamente presa in considerazione. Addirittura, il giudice che raccoglie le dichiarazioni della donna provvede a smentirne pubblicamente la validità e a suggerire, per la testimone, il ricovero in un ospedale psichiatrico!
Il nome di questo giudice è Mario Marsili. Di professione, oltre che magistrato, questo esponente delle istituzioni è genero di Licio Gelli, detto “il Venerabile”: un signore che, dalla sua tranquilla residenza in provincia di Arezzo, dà vita alla famigerata “Propaganda 2” (P2) una loggia massonica coperta, riservata a chiunque – militare, ricco imprenditore, magistrato, giornalista, eccetera – occupi un ruolo sociale particolarmente importante e delicato. Scopo ultimo dei fratelli, l’attuazione del Piano di rinascita nazionale, una sorta di manifesto dove i punti programmatici più importanti si chiamano accentramento e controllo dei mass media, riforma della Costituzione e, per quanto riguarda il sistema politico, repubblica presidenziale.
Qualsiasi osservatore, guardando alla realtà italiana (oggi e non del 1974!), non avrà difficoltà a rendersi conto di come gli auspici del Piano di rinascita nazionale siano ancora in corso. La loro progressiva attuazione è sotto gli occhi di tutti, specialmente in un periodo di cronica erosione della partecipazione popolare alla vita politica, di negazione di diritti soltanto apparentemente elementari (dal riconoscimento delle coppie di fatto alla xenofobia di Stato contro l’immigrazione) e di ascesa di figure istituzionali in grado di manovrare il Parlamento regolando l’attività legislativa sulle proprie esigenze personali…
E i caduti di piazza della Loggia? E le vittime dell’Italicus? E le centinaia di persone assassinate in innumerevoli altre occasioni – da piazza Fontana fino alla stazione di Bologna – da quell’intreccio perverso tra terroristi neofascisti, vertici dei servizi segreti e P2?
Il sospetto – terrificante – è che tutti. Tutti. Siano morti invano:
Per questo non riesco a riconciliarmi definitivamente con le istituzioni, le ritengo inevitabilmente responsabili della mancata giustizia. Lo Stato ci ha negato il diritto alla giustizia e alla verità ed è difficile, in questo contesto, ridare equilibrio alle norme della convivenza civile. A volte penso che quei corpi martoriati nelle stragi non riescano a riposare in pace, li immagino come dei fantasmi che vagano. Ho sognato Livia che continuava a girarmi intorno con una valigia in mano, quasi a ricordarmi che non ha trovato ancora un pezzo di terra su cui riposare, perché il pezzo di terra è il principio di giustizia che non hanno ricevuto né loro come morti, né noi vivi, testimoni della loro morte (Manlio Milani, marito di Livia Bottardi, vittima della strage di Brescia. In Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Rizzoli, Milano 2006).
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Brescia, 28 maggio 1974. La strage di piazza della Loggia, tratto dal volume Cuori rossi di Cristiano Armati
“Una serie di violenze a cui i cremonesi non avevano mai assistito”, scrive il “Corriere della sera” commentando la grande manifestazione antifascista del 24 gennaio:
Strano, perché considerando l’area in cui operò Roberto Farinacci, uno dei mazzieri più pericolosi del fascismo, direi che contadini, operai e il popolo cremonese tutto la violenza, quella vera, l’abbia conosciuta eccome, e potrebbe tranquillamente andare a spiegarla al “Corriere della sera”, che, al contrario di tanta stampa socialista, comunista o indipendente, la violenza fascista non l’ha davvero mai conosciuta, essendosi sempre ben guardato dall’avanzare alcuna critica nei confronti del regime mussoliniano, ma avendo invece avuto sempre premura di svolgere con diligenza il compitino di megafono del fascismo, senza mai permettersi di denunciare i massacri squadristi perpetrati dalle camice nere in tutta Italia.
Non avendo mai affrontato l’argomento, non è dunque strano se nell’archivio del “Corriere della sera” o nella memoria dei pennivendoli assoldati dal padrone di turno non vi sia alcuna idea della violenza, della sua realtà o dei suoi significati. Infatti sarebbe bastato anche un po’ di semplice buonsenso per capire come, parlando di “violenza a Cremona”, diventi più utile e appropriato interrogarsi sul senso dell’attacco squadrista subito dal CSA Dordoni solo pochi giorni fa: un assalto con spranghe che ha lasciato in fin di vita una persona a proposito della quale, ovviamente, il “Corriere della sera” non reputa sia il caso di parlare di “violenza”.
Episodi come quello che hanno mandato in coma Emilio o che, nel recente passato, hanno assassinato Dax a Milano o Renato a Roma, sono da considerare al massimo, per il “Corriere della sera”, “risse tra ubriachi” o “scontri tra punk”, quando non si preferisce parlare di “opposti estremismi” o di “rivalità calcistiche” per tirare un colpo di spugna sul senso politico degli avvenimenti.
Al contrario, il senso dell’assalto al csa Dordoni appare addirittura trasparente se lo si mette in parallelo con lo stillicidio di azioni violente che i gruppi fascisti hanno preparato e realizzato in tutta Italia. Dal rogo della libreria popolare dello spazio autogestito Grizzly di Fano all’assalto alla tifoseria dell’Ardita in trasferta a Magliano Romano, fino ad arrivare a Cremona e, soltanto il giorno dopo, a Parma, quando un’altra squadraccia ha provato a sfondare il portone di una casa occupata da famiglie in emergenza abitativa, la crescente iniziativa violenta dei gruppi fascisti può e deve essere inquadrata in un contesto politico più ampio: lo stesso contesto politico in cui l’evoluzione nazionalista della Lega di Salvini incontra la galassia nera italiana, fondendosi in un unico movimento fascioleghista, corteggiato dai media e accompagnato da tutte le tutele istituzionali del caso.
Già ieri, mentre la manifestazione antifascista organizzata a Cremona per dare una risposta concreta all’assalto del Dordoni era ancora in corso, si sono sprecati i soggetti politici pronti a stigmatizzare la “violenza”: dalla Cgil all’Anpi, da Sel all’Arci, è stato un coro univoco di “l’antifascismo non ha nulla a che fare con la violenza”… no?
E con cosa avrebbe a che fare quando è proprio la violenza ciò che consente al fascismo di interpretare il mandato padronale e di attaccare le sacche di resistenza alla generalizzata deprivazione dei diritti in corso?
Mentre, e non a caso, è sullo stesso csa Dordoni che inizia ad addensarsi la nube dei tanti, volenterosi e ovviamente falsi fustigatori della violenza –
– sono la stessa Cgil, la stessa Anpi, la stessa Sel e la stessa Arci a non trovare incredibile che un bieco individuo come Salvini sia libero di portare avanti un piano eversivo senza precedenti, di alludere nei suoi discorsi a minacce golpiste, di consentire la presenza all’interno della sua area di gruppi ai limiti del paramilitare e di incitare all’odio tutti i giorni, approfittando del grande spazio regalatogli dalla stampa compiacente sul genere de il “Corriere della sera”.
Ciò che però Salvini e i suoi sgherri conoscono benissimo, è la realtà di un’opposizione sociale autorganizzata, niente affatto disposta non soltanto a tollerare attacchi nei confronti dei compagni come Emilio, ma neppure a consentire inerme a pericolose pagliacciate stile “marcia su Roma” che la nuova Lega ha in programma nella Capitale il 28 febbraio.
Da questo punto di vista, un’altra falsità a carattere “etnico” apparentemente inutile scritta altrove dal solito “Corriere della sera” –
– secondo il quale la testa del corteo sarebbe stata presa “da un gruppo di romani, vestiti di nero e con caschi integrali, armati di aste e bastoni che avevano nascosto negli zaini”, è da leggersi come un’autentica minaccia nei confronti dei “malumori” che hanno accolto la notizia della manifestazione leghista. Intanto, comunque, essendo perfettamente al corrente che, sul piano in cui si trovano, lo scontro con i movimenti è inevitabile, con la moltiplicazione delle azioni violente i fascioleghisti stanno provando a conquistare nuovi spazi di legittimità proprio sul fronte della violenza, incontrando in questo tentativo – evidentemente riuscito – non soltanto la scontata compiacenza del “Corriere della sera”, ma persino il fiancheggiamento di realtà come Cgil, Anpi, Sel e Arci, a cui non resta che sventolare il simbolico fazzolettino arancione dell’opposizione-fantoccio, incarnando il dissenso educato dei benpensanti ma non certo la rabbia generalizzata delle masse.
Per questa ragione la giornata di Cremona ha avuto un’importanza epocale ed ha impartito una lezione da fare propria al più presto, riproducendo quella stessa determinata compattezza ovunque fascisti e leghisti abbiano intenzione di darsi convegno.
Le orde fascioleghiste, infatti, hanno ora in programma di prendersi lo spazio fisico e simbolico di un’importante piazza romana, soltanto il preludio a una situazione in cui attaccare e sgomberare spazi sociali e abitativi, come campi rom, picchetti operai e ogni luogo di dissenso pratico o teorico, diventerà un qualcosa di assolutamente “normale” nell’Italia asservita ai poteri forti messa in piedi da Renzi: il luogo migliore per dare modo al brodo di cultura fascistoide di lievitare fino alle più gravi conseguenze. Il luogo in cui, questo è bene saperlo, la parola “violenza” sarà utilizzata sempre per stigmatizzare chi si oppone. Almeno finché il cartello “vendesi” non verrà apposto soltanto sulla porta della sede di Casapound Cremona, ma anche sui palazzi dove tramano l’uscita in grande stile dalle fogne gli interpreti principali di questo disegno, a cominciare dalla Lega Nord di Milano.
Come si (ri)diventa fascisti. Il titolo è impegnativo, quindi ciò che sto per scrivere non sarà esaustivo. Al contrario, si basa su riflessioni precedenti rispetto alla data di oggi e intende andare oltre per indicare una soglia di pericolo – il fascismo, appunto – che al momento appare già varcata.
Torniamo all’oggi dunque, giovedì 22 maggio, e ricordiamoci di questa data. Che cosa è successo?
Il presidente del consiglio Matteo Renzi, a capo di un governo (il terzo di fila) mai votato da nessuno, ha scelto piazza del Popolo per chiudere la campagna elettorale con cui il Partito Democratico ha affrontato le imminenti elezioni europee.
L’appuntamento con il discorso del “capo”, previsto per le ore 19 arriva insieme alla desolazione di una piazza semivuota, animata con molta fatica da zelanti volontari (o dipendenti?) che si affannavano a distribuire ai presenti quante più bandiere del PD possibili.
Il tempo, come è sua natura, passa: i militanti piddini sperano che qualcun altro arrivi, e i loro desideri vengono esauditi soltanto a metà. In piazza, infatti, insieme ai quattro gatti del comizio c’è anche un buon numero di cittadini e cittadine qualunque: studenti, precari, disoccupati, migranti, lavoratori impossibilitati ad arrivare alla fine del mese… una rappresentanza, insomma, di quelle oltre dieci milioni di famiglie italiane costrette a (sopra)vivere al di sotto della soglia di povertà.
Quello che salta agli occhi, appena la piazza viene animata da queste nuove presenze, è la profonda differenza antropologica tra i nuovi arrivati e i militanti del PD. Da una parte, insieme a tutti i colori del mondo, si sprigionano odore di officina, di libri e di cucina, mentre le voci parlano di cantiere e di call center e i vestiti raccontano l’arte di arrangiarsi. Tra i militanti del PD, al contrario, si apprezzano le giacche comprate in centro e le hogan ai piedi, gli afrori di lacca per capelli e i volti distesi di chi non si sta ponendo né il problema del pranzo né quello della cena. Questa spaccatura, ormai definitiva e irreversibile, dei corpi che un tempo non lontanissimo ancora condividevano uno spazio genericamente definito “di sinistra” dovrebbe essere presa in considerazione più attentamente, ma quello che è sicuro è che a piazza del Popolo una simile differenza produceva dissonanze incapaci di passare inosservate. I primi ad accorgersene, gli impiegati della DIGOS, la polizia politica che, per l’occasione, è stata mobilitata in grande stile: le stesse lacche dei militanti piddini sui capelli, le stesse hogan ai piedi.
I poliziotti della politica, mentre Renzi ancora non si affaccia sul palco allestito per l’occasione, sono decine e decine; e gli uomini ai loro ordini, in divisa, con i caschi e i manganelli, molte centinaia. Si coordinano e, incordonati, si gettano addosso a chi è considerato “diverso” e le pelli degli africani e degli indios sono le prime a farne le spese, insieme a quelle di chi ha meno anni sulle spalle, ritenuto, probabilmente, “colpevole” di non indossare le orrende magliette arancioni con cui si pavoneggiavano i Giovani Democratici presenti al comizio.
Così, senza proferire parola, la polizia si scaglia su tutta questa massa di intervenuti, spinta a manganellate fuori dalla piazza, con l’ausilio di schiaffi e pugni di volenterosi militanti del PD, completamente a loro agio in questo ruolo di ausiliari di polizia, né per nulla ostacolati in questo compito da chi la divisa la porta per mestiere: altra circostanza foriera di inquietanti parallelismi con le abitudini delle vecchie squadracce in camicia nera, sempre all’opera sotto l’occhio compiacente delle forze dell’ordine “regolari”.
Attenzione perché stiamo parlando di donne, studenti giovanissimi e signori di mezza età maltrattati e picchiati dalla polizia nel centro di una piazza dove era in programma un comizio, eppure nessun militante PD ha pensato di potersi schierare al fianco del più debole e del perseguitato.
In ogni caso, la prima domanda, di fronte alla polizia che si abbatte su un comizio per aggredire una parte dei presenti, potrebbe o dovrebbe essere spontanea: sulla base di quale legge, regolamento, norma o disposizione si può impedire a dei comuni cittadini di essere nel luogo in cui sono nel momento in cui ci vogliono essere?
Perché forse è anche così che si (ri)diventa fascisti: affrontando le cerimonie ufficiali con una massiccia ondata di fermi preventivi, giustificati da nulla ma eseguiti nel nome del sospetto che alcuni “malintenzionati” possano rovinare con il loro intervento la festa preparata dal capoccia di turno. Senza dubbio durante il fascismo si procedeva anche in questo modo, ma non è il Ventennio l’unica epopea dittatoriale da cui trarre un precedente, anche Mobutu, in Congo, usava comportarsi così: e in Cile? o in Argentina?
La stessa, triste, gravissima cosa.
Di questo, adesso, bisognerebbe parlare. E questo è ciò che sarebbe utile leggere sui giornali: di uno stato europeo, l’Italia, in cui si è consumata a ciel sereno la pratica del fermo preventivo di massa, a totale arbitrio di uno schieramento misto di poliziotti in borghese, poliziotti in divisa e militanti del PD con la lacca sui capelli e le hogan ai piedi.
I numeri raccontano di 50 persone accusate di nulla eppure costrette con le buone, o più spesso con le cattive, a seguire le forze dell’ordine nelle caserme e nelle questure, affrontando uno stillicidio di ore dietro le sbarre, salvo poi essere rilasciati (mentre scrivo non si riesce ancora a capire se tutti) con un foglio che parla di “verbale di accompagnamento in ufficio”, visto che di altro non può proprio parlare.
Ma perché la pratica del fermo preventivo è ancora più grave di quello che sembra?
Perché la pratica del fermo preventivo disegna, con la sua indeterminatezza, un’area grigia di sospensione del diritto: una zona dove non si punisce un reato specifico, ma in cui ad alcuni – poliziotti e militanti del PD oggi – si affida il ruolo di giudicare tra omologati e non omologabili, salvando i primi e arrestando “per sicurezza” i secondi.
Per questo, d’altro canto, sto scrivendo un pezzo intitolato “come si (ri)diventa fascisti”, perché il fermo preventivo non è che l’ennesimo dispositivo con cui si consente l’arbitrio poliziesco su quote di cittadinanza di volta in volta ritenute esterne al campo delle libertà personali. Il fermo preventivo, infatti, giunge al culmine di una lunga stagione che ha introdotto, con i CPT, i CARA e i CIE, la detenzione dei migranti per questioni di natura burocratica (la mancanza di documenti) e non per ragioni di materia penale; proseguendo poi, prendendo come scusa la “sicurezza negli stadi”, con la pratica delle schedature di massa (vedi tessera del tifoso) e l’abominio giuridico di poter essere arrestati “in flagranza di reato” addirittura dopo 48 ore dallo stesso; arrivando con il ministro Alfano – cioè con il governo Renzi – a vietare come se niente fosse ai cortei “violenti” (e chi lo decide?) la possibilità di manifestare; e sommando tutto questo alla grande massa di leggi speciali e di emergenza (la legge Scelba, la legge Reale, eccetera) sempre rimaste attive anche dopo che il periodo emergenziale o presunto tale finiva per essere archiviato nei libri di scuola.
Tra gli appunti dedicati al come si (ri)diventa fascisti, un altro dato va sottolineato in rosso. La principale caratteristica del fascismo, infatti, non era e non è soltanto l’impianto razzista delle sue leggi e il carattere censorio della sua informazione – tutte pratiche tra l’altro perfettamente rintracciabili nell’attuale sistema statale – ma anche, e per certi versi soprattutto, la natura corporativa della sua governance: un’amministrazione che nasconde dietro valori “superiori” – ce lo chiede l’Europa!, urla Renzi, come Mussolini gridava “ce lo chiede la Patria!” – la realtà di un comitato d’affari che agisce con la mediazione-fantoccio di sindacati gialli, cioè senza nessuna mediazione, sul conflitto sociale e sulle rivendicazioni di classe. Fascismo come sistema corporativo, dunque, allo stato delle cose rappresentato in maniera inquietante non soltanto dai regolamenti liberticidi del già menzionato Angelino Alfano; ma con decreti come quello di Maurizio Lupi, il famigerato “piano casa”, che dichiara guerra ai movimenti per il diritto all’abitare imponendo il distacco delle utenze e la revoca delle residenze agli “abusivi” mentre finanzia senza pudore i palazzinari e le banche con meccanismi dipinti come bonus-affitti o sostegno ai mutui; o come quello del ministro del lavoro Poletti, che se nel ruolo di presidente della Lega delle Cooperative promuoveva lo sfruttamento selvaggio della manodopera – in primo luogo i facchini – dell’Emilia Romagna, all’interno di un sistema in cui il “pubblico” diveniva sinonimo di “Partito Democratico” e in cui “Partito Democratico” sinonimo di gestione personalistica degli apparati statali, da ministro istituzionalizza in scioltezza la precarietà, consentendo senza ritegno, grazie al suo “jobs act”, il perpetuarsi di qualunque tipologia contrattuale, purché non garantita.
Le persone fermate in piazza o prima di arrivare in piazza oggi avrebbero portato davanti a Renzi esattamente tutto questo, e posto problemi inerenti un cambio radicale dell’esistente, a partire dall’affermazione di un principio: viene definito “diritto” tutto ciò che non può essere né venduto né comprato, né tantomeno fatto oggetto di speculazione affaristica. La casa, l’istruzione, la salute, il reddito e il lavoro sono diritti che, in questa fase, vengono attaccati da un capitalismo deciso a recuperare l’affanno proprio sulle spalle dei meno garantiti, il contrario dei sostenitori di Renzi ed esattamente uguali a coloro che la polizia dello stesso Renzi ha attaccato, manganellato e recluso a scopo preventivo, anche se le urla contro il governo della fame dell’ex sindaco di Firenze si sono sentite lo stesso.
Le ha sentite persino Roberto Giacchetti, parlamentare piddino e attuale vicepresidente della Camera, che attraverso twitter ha dichiarato: “la DIGOS ha in mano 1 pugnale trovato a terra durante i tafferugli. E non era un giocattolo”.
Ora, persino spulciando tutti i verbali di “accompagnamento in ufficio” che hanno colpito chi intendeva contestare Renzi, la questione del pugnale non compare. Se il parlamentare piddino non mente spudoratamente, tanto per infamare “a buffo” l’opposizione sociale e i movimenti antagonisti, è lecito pensare che la polizia si sia rivolta direttamente a lui, faccia da pretino, camice stirate di fresco e sigaro nelle mani… ma da quando la digos parla di corpi di reato con soggetti diversi da quelli prescritti dalla legge? Cioè con soggetti diversi da un PM o da un Giudice per le indagini preliminari?
Da quando stiamo (ri)diventando fascisti, sicuramente sì.
Capita, incontrando alcuni libri, di rendersi conto che leggerli (o magari, come in questo caso, scrivere per loro conto un’introduzione) non significa avere a che fare con la carta e l’inchiostro, ma con delle realtà in grado di assumere una consistenza addirittura fisica: presenze che sarebbe più giusto assimilare a dei vecchi amici piuttosto che a delle voci bibliografiche da mettere al sicuro in qualche schedario.
Naturalmente è più facile che una simile identificazioni scatti quando il libro in questione, anziché discendere da un programma accademico, venga direttamente dalla strada, proprio come Dal nulla sorgemmo. La legione romana degli Arditi del Popolo, scritto da Valerio Gentili.
«Venire dalla strada», in questo caso, è un’espressione che non ha nulla di metaforico. E oggi, a oltre tre anni di distanza dalla pubblicazione della prima edizione del volume (2009), posso tranquillamente raccontare che io stesso ebbi modo di conoscere questo testo, prima che attraverso la sua lettura, grazie a una serie di manifesti che a un certo punto – ostentando il simbolo del teschio con il coltello tra i denti in campo nero – invasero diversi quartieri romani, a partire da San Lorenzo.
Incuriosito da sempre da tutto ciò che dicono i muri, risalii al progetto implicito in quell’attacchinaggio – riproporre all’attenzione della sinistra italiana il patrimonio rimosso del combattentismo progressista – e arrivai a conoscere Valerio Gentili: giovane storico «d’area» con il quale, in qualità di editor, iniziai una collaborazione che avrebbe prodotto, oltre a Dal nulla sorgemmo, anche Roma combattente (Castelvecchi, 2010), Bastardi senza storia (Castelvecchi, 2011) e Antifa. Storia contemporanea dell’antifascismo militante europeo (Red Star Press, 2013).
Nulla di strano, dunque, se tornare a scrivere di quello che fu l’esordio letterario di Valerio Gentili possa significare – sovrapponendo parole vecchie e nuove – rievocare quel malcelato senso di appartenenza già provato di fronte alla visione del teschio con il coltello. In modo particolare, la lettura di Dal nulla sorgemmo ha sempre richiamato alla mia memoria un’immagine difficile da mettere a fuoco. Catturato dalla prosa asciutta e dal rigore mostrato dall’autore di questo libro bello e necessario, approfondivo la conoscenza di uomini e simboli dai contorni leggendari ma, seppur rapito dalle tante informazioni inedite contenute nel volume, continuavo a pensare al luogo e al tempo in cui questa immagine, evidentemente ridotta a un ricordo seppellito nell’inconscio, doveva essersi materializzata forte e chiara davanti ai miei occhi.
Avvincente come un romanzo in cui il lettore capace di rispettare il patto narrativo non può fare a meno di immedesimarsi nelle situazioni descritte dall’autore, Dal nulla sorgemmo, vale a dire la storia delle prime formazioni armate che strenuamente si opposero al fascismo, lega in un discorso coerente l’avventura fiumana di Gabriele D’Annunzio e dei suoi legionari insieme al freddo intenso delle trincee della prima guerra mondiale, il clima di povertà e disperazione precedente il periodo di scioperi e repressione noto come «il biennio rosso» e l’avvento della violenza delle camice nere di Mussolini, finanziate dagli industriali, sottovalutate dai partiti della sinistra istituzionale e appoggiate dal grosso delle forze di polizia. Talmente è vivido il racconto di Valerio Gentili che, tra le pagine del suo libro, sembra di sentire crepitare le mitragliatrici utilizzate dai fascisti per assaltare le case del popolo, le leghe contadine e le sedi dei giornali dissidenti. Un’aggressione brutale e indiscriminata contro ogni luogo o persona decisi a opporsi all’ordine voluto dal Duce che, oggi, sarebbe più facilmente scivolata nel dimenticatoio se, a ostacolarla con più coraggio che mezzi, non ci fosse stata l’abnegazione e spesso il sacrificio estremo di una strana razza di soldati anarchici, repubblicani e comunisti – gli Arditi del Popolo – capaci di non confondere la necessità di obbedire agli ordini propria di qualunque sistema gerarchico con il pericolo di trasformarsi in servi di un potere volgare e assassino: un regime capace, tra le altre cose e al pari del complice nazista, di rinchiudere uomini, donne e bambini in vagoni piombati diretti ai campi di sterminio (ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici… le loro grida continuano a pesare come macigni sulla coscienza di chi ancora oggi si propone come erede di quella stagione sanguinaria) annullando qualunque «garanzia democratica» con la forza e il terrore.
Malgrado il tremendo potenziale offensivo a disposizione, le «forze del male» in camicia nera avrebbero conosciuto una clamorosa sconfitta quando, serrati i ranghi, l’esercito popolare dei Partigiani sarebbe stato in grado di rispondere alla violenza colpo su colpo e persino a sostenere vittoriosamente scontri in campo aperto. Grazie a questo, nella «Repubblica democratica fondata sul lavoro» non ci sarebbe dovuto più essere nessuno spazio né per il fascismo né per i fascisti: relitti sociali con i quali si è troppo a lungo creduto di aver chiuso i conti per sempre.
La realtà, purtroppo, è molto diversa dalla buone intenzioni. E se le affermazioni elettorali dell’estrema destra europea – Francia, Grecia, Inghilterra, Ungheria… – sono sotto gli occhi di tutti, la nuova edizione del libro di Valerio Gentili non si limita a osservare il fenomeno del cosiddetto «neofascismo», ma, scavando tra le pieghe di ciò che accade stabilisce un inquietante parallelismo. Perché se gli Arditi del Popolo, sulla scia del proprio valore morale e militare, non ebbero particolari problemi nel rompere il monopolio fascista della violenza, furono comunque costretti a incassare il disprezzo e la mancata collaborazione di tutti i partiti della sinistra istituzionale che, con la lodevole ma isolata eccezione di Gramsci, contribuì in modo decisivo al tramonto di quell’esperienza. Allo stesso modo, dopo la seconda guerra mondiale e dopo un periodo di relativa tenuta del fronte antifascista, l’opposizione di piazza agli eredi di Mussolini ha conosciuto un progressivo isolamento, fino a diventare appannaggio quasi esclusivo di una nuova generazione di ribelli di strada – i militanti dell’Antifa – armati di passione e coraggio, ma sistematicamente accusati di teppismo, balordaggine e superficialità delle formazioni istituzionali. Anche in Italia, da questo punto di vista, fanno storia i titoli «rissa tra ubriachi» con cui i mezzi di informazione – e i più importanti rappresentanti dell’«arco costituzionale» con loro – si sono affrettati a bollare gli omicidi di antifascisti come Davide Cesare «Dax» (Milano, 16 marzo 2003) o Renato Biagetti (Roma, 27 agosto 2006): volgari testimonianze di come, entrando nel nuovo millennio e affrontando, insieme a una crisi economica epocale anche il ritorno di fiamma delle ideologie più reazionarie, la pratica antifascista si ritrovi a vivere una nuova stagione di isolamento e marginalità, consumata nel nome diell’inesistente pace sociale necessaria a chi si è fatto alfiere dell’imperante ideologia dei «sacrifici».
Contro una simile prospettiva, non resta che tornare ai capitoli finali di Dal nulla sorgemmo. Tra gli stessi passaggi in cui – mentre l’epopea degli Arditi volge al termine e i boia in camicia nera, nelle loro prigioni, innalzano i cavalletti per estorcere con le pinze arroventate e i fili elettrici impossibili confessioni ai loro fieri oppositori – l’immagine a cui affidare il ruolo di introdurre un libro così importante, assume finalmente una consistenza concreta. All’improvviso, infatti, mi sono ricordato di un sentiero arrampicato tra le montagne della provincia di Cuneo: un tratturo ammorbidito dall’erba, come se la Natura stessa volesse ancora aiutare il suo segreto a sfuggire alla vista del passante occasionale o della spia. In questa località, amena soltanto all’apparenza, la consistenza della terra battuta cede d’un tratto il passo alla solidità della pietra viva, infilzando uno scalino dopo l’altro fino alla sommità di un monte. Qui, dove l’aria è rarefatta dall’alta quota e il cielo perennemente terso, la sacralità del luogo è affidata a un circolo di croci di legno, tese sulla serenità della valle sottostante come sentinelle. Si tratta delle tombe di un gruppo di partigiani caduti nel corso della guerra di Resistenza, come direbbe Piero Calamandrei, uomini «che volontari si adunarono per dignità e non per odio. Decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo». Tra di loro, ugualmente segnalato da una croce ma a differenza degli altri privo persino del conforto di un nome, c’è un partigiano ricordato da una targa che si limita a dire «tedesco anonimo»: un soldato dell’esercito del male che, evidentemente, non ebbe paura di gettare alle ortiche la sua uniforme per continuare a combattere dalla parte giusta. La sua lezione, affidata a quel sacrario della provincia di Cuneo, andrebbe trasferita nei tribunali di guerra in cui i tanti aguzzini fascisti e nazisti insistono a scrollare le spalle di fronte alle loro responsabilità, continuando a ripetere di avere solo «obbedito agli ordini»; quasi pretendendo, con simili scuse, non soltanto il perdono, ma anche il riconoscimento di un’inesistente dignità.
A pensarci bene gli Arditi del Popolo di cui parla Valerio Gentili sono simili al soldato tedesco senza nome venuto a morire tra montagne tanto lontane da casa sua: combattenti che ebbero la capacità e la forza di disobbedire agli ordini rifiutandosi di diventare la manodopera del terrore al servizio di forze antipopolari ma che, malgrado tutto, faticarono a trovare posto in quella tradizione di giustizia e libertà a cui dovrebbe continuare a ispirarsi la Repubblica italiana. Le ragioni del sostanziale silenzio su una simile esperienza, mai valorizzata come avrebbe meritato, sono tante. A Valerio Gentili e al suo Dal nulla sorgemmo va il plauso di averle ripercorse insieme alle vite e alle avventure degli eroici protagonisti di quell’esperienza. Una storia da conoscere e da fare propria. Affinché nessuno possa ancora pensare di giustificare l’abominio. E affinché molti possano continuare a disobbedire agli ordini.
Introduzione al volume Dal nulla sorgemmo. La Legione Romana degli Arditi del Popolo di Valerio Gentili, Red Star Press
“Bastardi senza storia” di Valerio Gentili si apre ponendo all’attenzione dei lettori un importante problema storiografico: è proprio vero, si domanda l’autore, che l’affermazione dei fascismi europei poté verificarsi semplicemente a causa della mancanza di avversari in grado di opporsi militarmente alla trionfale avanzata degli uomini di un Hitler o di un Mussolini?
Una consolidata vulgata storica non avrebbe esitazioni e risponderebbe al quesito in modo positivo. Valerio Gentili, al contrario, dimostra che non fu il monopolio della violenza a spianare la strada del potere alle camicie nere e alla croce uncinata. Al contrario, mentre innumerevoli movimenti di matrice socialcomunista ricorsero alle armi per rispondere colpo su colpo alle aggressioni nazifasciste, l’azione di questi gruppi venne depotenziata o vanificata dall’eccessiva fiducia che le forze riformiste riposero nella tenuta delle istituzioni democratiche e/o dal timore, covato dagli esponenti dei partiti rivoluzionari, di vedersi scavalcare a sinistra da uomini in grado di imprimere una svolta non soltanto all’autodifesa del movimento operaio ma allo stesso fenomeno della lotta di classe. Sono esattamente questi uomini i “bastardi senza storia” a cui il lavoro di Valerio Gentili è dedicato: non burocrati né funzionari di partito, ma semplici militanti di base, giovani ribelli e, soprattutto, reduci della prima guerra mondiale: soldati che dopo aver difeso la Patria mordendo il fango delle trincee di tutta Europa si ritrovarono gettati in una pace fatta soltanto di ingiustizia sociale e miseria. “Bastardi senza storia” si nutre di questo humus per restituire ai suoi lettori le gesta di organizzazioni dai nomi inequivocabili, dalla tedesca Lega dei combattenti rossi di prima linea agli italiani Arditi del popolo (solo per fare alcuni nomi), e per spiegare in quali circostanze nacquero simboli come le bandiere rosso-nere o gesti come quello del saluto a pugno chiuso. Si tratta di una storia che ha il sapore di una vera e propria scoperta, non soltanto perché consente di recuperare le radici che legano il fenomeno del combattentismo progressista alle sottoculture politicizzate del sottoproletariato giovanile, ma perché, raccontando il contributo offerto dai soldati alla lotta antifascista e alla guerra partigiana, Valerio Gentili affronta un nervo scoperto degli attuali sistemi politici occidentali. Un problema che, per non perdersi in tanti giri di parole, può essere impostato in questi termini: qual è il ruolo dell’esercito in un Paese democratico? Come può essere impiegato? E soprattutto: chi deve essere chiamato a farne parte?
Per affrontare un simile problema potrà essere utile restringere il campo all’Italia e osservare la questione in prospettiva, notando come, dalla fine del secondo conflitto mondiale ai giorni nostri, si sia passati da un esercito popolare, a cui ogni cittadino italiano aveva il diritto e il dovere di appartenere, a un esercito di professionisti o, per dirlo con una parola politicamente scorretta in tempi in cui il lessico italiano si è appesantito di termini quali “escort” o “contractor”, di mercenari.
I risultati di un simile cambiamento (milioni di coscritti forse sollevati da un dovere ma senz’altro privati di un diritto) sono sotto gli occhi di tutti nel momento in cui, parlando di difesa di obiettivi sensibili, diventa sempre più facile imbattersi in militari impiegati per strada con ambigui compiti di polizia. Si potrebbe andare oltre e sottolineare come, nel momento in cui l’esercito restringe a un nucleo di professionisti il suo reclutamento, diventi più semplice per i suoi appartenenti dimenticare di esistere per essere al servizio del popolo, riducendosi a semplice braccio armato dello Stato. Qui il celebre slogan “Arditi non gendarmi” con il quale gli Arditi del Popolo si opposero strenuamente al fascismo ha il potere di saldare il passato al presente, per chiedersi se i partiti progressisti non stiano tornando a ripetere un errore che fu fatale già ai tempi degli anni orribili in cui fascisti e nazisti furono liberi di scatenarsi in un’orgia di morte e distruzione. L’errore, oggi come allora, sarebbe quello di respingere il concetto stesso di esercito in un territorio strettamente conservatore, regalando alla destra più reazionaria un sapere e un potere delicatissimo come quello militare. Contro questo rischio, “Bastardi senza storia”, con la sua capacià di fascinazione, può essere considerato un valido antidoto. Perché se, come ancora ci ricorda l’articolo 52 della Costituzione, la difesa della Patria è “sacro” dovere del cittadino, pensare di poter dormire sonni tranquilli delegando la tutela dei propri diritti a un pugno di dipendenti statali equivale a bestemmiare.
Introduzione di Cristiano Armati al volume “Bastardi senza storia. Dagli Arditi del Popolo ai Combattenti Rossi di Prima Linea, la storia rimossa dell’antifascismo europeo” di Valerio Gentili
Come tutte le storie, anche quella della letteratura è gravata da un pregiudizio difficile da sradicare. Minaccioso come una censura che, seppur mai decretata da alcun organismo di controllo, sortisce l’effetto di occultare interi campi di sapere dall’enorme valore critico-culturale, questo pregiudizio è l’idea secondo la quale l’intera produzione mondiale di documenti scritti può essere divisa in due gruppi ben distinti: da un lato uno spazio “alto”, dove troverebbero cittadinanza il romanzo borghese, la poesia colta e la saggistica speculativa di matrice accademica; dall’altro lato un territorio “basso”, all’interno del quale andrebbero automaticamente collocate tutte le opere di natura eminentemente tecnica insieme a qualunque spunto – dalle scritte sui muri agli stornelli improvvisati “a braccio” – di natura popolare e, spesso, anche a qualunque traccia linguistica subalterna nell’economia e, di conseguenza, anche nei contenuti e nello stile.