Pagherete caro, pagherete tutto, pagherete tutti. Ovvero perché, in memoria di Wolinski, non sto con Charlie Hebdo

Posso dire di aver avuto, nella vita, la sorte e il privilegio di essere riuscito ad avere a che fare con Wolinski. Ed è accaduto grazie alle pagine di «Blue», dove io ero un giovane redattore, lui un mostro sacro che intrecciava a doppio filo la storia della satira italiana dei Pazienza, dei Tamburini (e parlo solo dei morti, visto che di morte parla questo pezzo), de «Il Male» e dell’ambiente autonomo e irriverente della Bologna del ’77 con la nuova tradizione francese del fumetto, quella nata dalla furia del Maggio e che, con Wolinski, stampava giornali che si definivano «cubi di porfido da lanciare contro il potere».

Quando, oggi pomeriggio, un mio vecchio collega mi ha chiamato per dirmi «hanno ammazzato Wolinski» non sapevo ancora nulla di quanto era successo a Parigi. Allora sono restato in silenzio, sconvolto. E poi ho aggiunto: «Chiunque sia stato ora è un mio nemico».

Volevo intendere, dicendo questo, che da ateo quale sono non ho nessuna predisposizione verso la retorica del pentimento o del perdono ma, al contrario, apprezzo il piatto freddo della vendetta, sul genere immortalato da slogan del tipo «pagherete caro, pagherete tutto». Ed ora sono proprio slogan di questo genere che vorrei usare per onorare la memoria del Maestro. Un bel «pagherete caro, pagherete tutto» e… pagherete tutti. Sì. Perché confesso di non aver seguito e di conoscere poco le polemiche sui presunti contenuti islamofobici di «Charlie Hebdo», ma riesco benissimo a vedere la strumentalizzazione, questa sì islamofoba e assolutamente antilibertaria, che personaggi più pericolosi di qualunque estremista islamico stanno facendo della tragedia parigina. Partiamo, per esempio, da Ferruccio de Bortoli che, da «CorriereTV», erre moscia in testa e frangetta sempre fresca di parrucchiere calcata sulla fronte, si è immediatamente fatto alfiere della «civiltà occidentale» e della «libertà di espressione», auspicando immediatamente l’innalzamento dei «livelli di guardia» e la tolleranza zero contro le «zone grigie», concludendo il sermone con il grido «siamo tutti Charlie Hebdo» prima di annunciare la pubblicazione sul suo giornale delle vignette satiriche del settimanale francese.

Ecco, ovunque sia de Bortoli, io non vorrei mai essere, e quindi ora non voglio stare neppure con Charlie Hebdo né con il relativo hashtag che sta impazzando sui social. Anzi, mi dispiace di non saper disegnare, altrimenti approfitterai immediatamente dell’illuminismo di de Bortoli in tema di libertà di espressione per raffigurarlo con il naso e la lingua ben piantata nel culo dell’Agnelli di turno, ricordando che dove c’è oppressione padronale e monopolio del grande capitale sui mezzi di informazione non può esserci nessuna libertà di espressione, altro che le vignette di Charlie Hebdo.

Un altro luogo dove non vorrei mai essere è qualunque luogo in cui si trovi il nostro presidente del consiglio, l’uomo mai votato da nessuno (ok, io comunque non ho proprio votato) Matteo Renzi. Anche lui si è affrettato a sottolineare la sua vicinanza al settimanale in cui lavorava Wolinski, specificando – magari prima di prendere un Falcon per andare a farsi fare un pedicure a Montecarlo – che «l’Europa ha il dovere di reagire». Certo, lui di «reazione» se ne intende: il massacratore sociale per eccellenza, l’uomo dello smantellamento dei diritti dei lavoratori, il servo dei palazzinari e dei banchieri, l’artefice degli sgomberi e degli sfratti generalizzati, il generale della guerra contro i poveri che stiamo subendo da troppo tempo… più reazione di così? Neanche al congresso di Vienna!

Ora, lontano da ogni ipocrisia, e rendendo rispettoso omaggio alla vena dissacrante del grande Wolinski, vorrei affermare tranquillamente che se a Renzi prendesse un colpo secco adesso (e attenzione, parlo di malattie assolutamente naturali: se ne va tanta gente brava, perché lui sta ancora qui?!?), ebbene sarei affranto davvero per il fatto di non saper disegnare, altrimenti farei un bellissimo ritratto di me stesso mentre piscio sulla sua tomba.

Qualora dovesse succedere, comunque, qualcuno può venire a farmi una fotografia.

Poi la mandiamo a de Bortoli e gli diciamo: «È la libertà d’espressione bellezza!».

Impara l’arte e lotta contro gli abusi di potere. Il cuore della street art e lo scandalo dei “maiali” di San Basilio

Blu colpisce ancora.

http://it.wikipedia.org/wiki/Blu_(artista)

Lo street artist inserito dall’autorevole The Observer in una lista comprendente i dieci artisti di strada più autorevoli del mondo, dopo aver regalato a Roma lavori importanti come quelli che possono essere ammirati sulle facciate del LOA Acrobax, di Porto Fluviale Occupato e dello Studentato Occupato Alexis, ha rivolto le sue attenzioni a San Basilio, trasformando la facciata grigia di una palazzina in un quadro trasudante storia e memoria. Oggetto prescelto da Blu, un San Basilio Magno in carne, ossa, barba e abito talare impegnato, con una cesoia al posto del tradizionale aspersorio, a scassinare lo stesso lucchetto forzato quarant’anni fa dalla gente della borgata, protagonista nel settembre del 1974 dell’occupazione di massa delle locali case vuote, una clamorosa prova di forza popolare capace di sfidare un dispiegamento senza precedenti di forze dell’ordine dando vita alla celebre “battaglia di San Basilio”, da allora evento-simbolo della lotta per la casa e dell’autorganizzazione.

Per rendere omaggio al protagonismo di quei giorni, il San Basilio di Blu è raffigurato come un colosso capace di irradiare una sorta di potere magnetico di fronte al quale un branco di maiali e pecorelle in divisa da poliziotto è costretto a inchinarsi tra dolorose contorsioni, come riconoscendo la supremazia della volontà popolare sul corrotto potere temporale dello stato o, per lo meno, soccombendo alla forza di un santo noto per le parole spese in favore dei diritti degli animali, a cui, chissà, lo stesso Blu potrebbe essersi ispirato:

O Signore, accresci in noi la fratellanza con i nostri piccoli fratelli; concedi che essi possano vivere non per noi, ma per se stessi e per Te; facci capire che essi amano, come noi, la dolcezza della vita e ti servono nel loro posto meglio di quanto facciamo noi nel nostro

Implicazioni teologiche a parte, l’ennesima, bellissima opera di Blu è stata realizzata dall’artista – anonimo per precisa scelta politica – nel corso della grande festa popolare organizzata a San Basilio in occasione dell’anniversario della Battaglia e della morte di Fabrizio Ceruso, un ragazzo di diciannove anni accorso da Tivoli per partecipare alla difesa delle case occupate e assassinato dalle forze dell’ordine con una fucilata.

http://www.senzasoste.it/anniversari/8-settembre-1974-fabrizio-ceruso

Correva l’8 settembre del 1974, e da allora il caso di Fabrizio Ceruso giace insabbiato tra i misteri di una storia che, complice la cossighiana strategia della tensione, ha compreso l’impiego disinvolto di cecchini che, in quegli stessi anni, si presero la vita di altri ragazzi, dalla romana Giorgiana Masi (12 maggio 1977) al fiorentino Rodolfo Boschi (18 aprile 1975), ugualmente impegnati ad esercitare il proprio diritto al dissenso, anche opponendo il proprio corpo alla violenza dei tanti abusi in divisa che non hanno mai smesso di insanguinare le strade delle città italiane.

Nel corso della partecipata commemorazione, una festa popolare che, oltre all’esibizione di atleti delle palestre popolari, ha visto la partecipazione del cantautore Pino Masi e di diversi gruppi hip hop tra cui i mai abbastanza lodati Gente di Borgata, l’intervento commosso di Carla Ceruso, sorella di Fabrizio, ha contribuito a ricordare come la figura del diciannovenne di Tivoli, da sempre dimenticata e infamata dalle istituzioni responsabili della sua morte, sia al contrario vivissima nella memoria di tutto il quartiere: dedicare a lui un lavoro firmato da un’artista come Blu, insomma, appariva come un riconoscimento minimo nei confronti di chi, a un quartiere come San Basilio, ha lasciato addirittura la propria vita per garantire il diritto di tutti gli abitanti ad ottenere un tetto sopra la testa.

A pensarla in maniera opposta, però, ci hanno pensato le stesse forze dell’ordine citate da Blu nel suo murales. Talmente colpite dalla provocazione da presentarsi in massa nel cuore della notte per provvedere a cancellare, deturpando il lavoro dell’artista, le pecore e i maiali dotati delle loro sembianze. Con quale autorità? Con quali permessi? Rispetto a quale preparazione e con quale rispetto nei confronti dell’opera d’arte i tutori della legge hanno compiuto un simile gesto?

Il commento dell’assessore ai lavori pubblici Paolo Masini, secondo il quale il lavoro di Blu è da considerarsi illegale oltre che colpevole di violare l’articolo 342 del codice penale (in quanto contenente immagini denigratorie delle forze dell’ordine), è infatti arrivato a cose già fatte. Ma come se non bastasse, da quando è un assessore, anziché un giudice, ad arrogarsi il diritto di applicare leggi e di comminare pene?

Per discettare di legalità, occorrerebbe ricordare a Masini, sarebbe necessario anche vivere nella legalità, essendo stato il comportamento suo e dei tutori dell’ordine coinvolti più appropriato a pseudogiustizieri della notte che non a dei rappresentanti delle istituzioni. A Masini si potrebbe anche ricordare che una simile solerzia sarebbe, dato il ruolo, benvenuta se andasse una volta tanto a ficcare il dito in piaghe come quelle relative agli scandali dei ritardi nei lavori delle metropolitane romane, tanto per fare un esempio, ma evidentemente il comune di Roma si muove secondo priorità estremamente distanti rispetto a quelle sentite dalla popolazione. A testimoniarlo, lo stesso sindaco Ignazio Marino che, a detta di quanto riportato dai giornali, si è affrettato a telefonare al Questore “per ribadire il proprio ringraziamento riguardo l’attività quotidiana svolta dalle donne e dagli uomini delle forze dell’ordine a tutela della sicurezza delle romane e dei romani”.

A Marino occorrerebbe  forse far sapere che tra le romane e i romani tutelati dalle forze dell’ordine c’è un ragazzo come Stefano Cucchi, assassinato il 22 ottobre del 2009, e che nessun rappresentante delle istituzioni ha ritenuto opportuno alzare il telefono per un abitante dei quartieri popolari quel giorno. Questo non accade a Roma, ma neppure a San Basilio, dove l’ultimo intervento comunale a favore della vivibilità del territorio e della sua tutela si perde nella notte dei tempi, segno che al sindaco interessa la sicurezza delle romane e dei romani come ai palazzinari la qualità del cemento utilizzato nell’edificazione dei loro scempi… altrimenti, d’altra parte, perché rendersi artefice di un provvedimento come quello passato sotto silenzio ultimamente, una ristrutturazione dei commissariati con la relativa imposizione della chiusura notturna per gran parte di questi (ben 29 dei 39 totali) e il dirottamento delle forze disponibili sull’ordine pubblico – per tenere meglio a bada le manifestazioni di piazza – e negli uffici della digos: repressione dell’opposizione sociale, quindi, questa è l’unica idea di “sicurezza” presente nella testa di Marino, mentre a poche settimane dall’omicidio del sedicenne napoletano Davide Bifolco, la solerzia può essere spiegata come una mano tesa all’immagine delle stesse forze dell’ordine, quanto mai appannata.

http://www.romatoday.it/politica/chiusura-notturna-commissariati-roma.html

In ogni caso, non è certo questa la prima volta che la street art affronta o si scontra con il tema della sicurezza. Negli ultimi anni, in virtù del successo del movimento, si sono sprecati i tentativi istituzionali di utilizzare persone e linguaggi della street art per dare verso l’esterno un’immagine “giovane”, dinamica e futuribile di enti locali o governativi. La stessa San Basilio, attraverso un progetto finanziato dal comune, ha conosciuto la pratica dei “muri legali”, tentativi di riqualificazione urbana che hanno visto impegnati street artist importanti come il bravissimo Agostino Iacurci. Ma, da questo punto di vista, è inaccettabile il commento del rappresentante del progetto, secondo il quale: “A distanza di pochi mesi dal progetto ‘SanBa’, studiato e approvato per la riqualifica del nostro territorio che ha visto protagoniste le scuole i bambini e molte realtà sociali buone di San Basilio, questo murales entra a gamba tesa e spiazza noi tutti, compreso chi ha nel cuore anche il lato religioso e morale del quartiere”.

Si tratta del classico tentativo di dividere i buoni dai cattivi per tracciare un confine inesistente tra street artist legali e illegali ai quali i protagonisti si piegheranno molto difficilmente. Al di là del campo libero delle scelte personali, infatti, la street art non perde di senso quando entra nelle gallerie, ma quando dimentica che l’arte non è nata per abbellire le case dei potenti o per soddisfare le necessità di istituzioni antipopolari, ma, al contrario, nel caso della street art per riappropriarsi – per occupare – lo spazio pubblico dell’immaginario sottraendolo al monopolio che la pubblicità a pagamento e/o la propaganda di regime intende esercitarci. Per questo tra street art e forze dell’ordine – sensibilissime alla loro immagine e mai sazie di fiction televisive progettate solo per esaltare chi indossa la divisa – è un eufemismo dire che non corra affatto buon sangue. Lo stesso ricchissimo e popolarissimo Obey, noto per aver realizzato l’icona che avrebbe spianato ad Obama la strada della vittoria elettorale (ma su questo argomento l’artista ha fatto autocritica…), vanta un curriculum di ben 19 arresti, l’ultimo dei quali subito nel corso dell’inaugurazione di una sua mostra in un ufficialissimo museo di arte contemporanea statunitense!

Le forze dell’ordine, insomma, bersagliate dalle critiche degli street artist, reagiscono con particolare durezza di fronte a chi pratica l’arte urbana. Non a caso un altro scandalo italiano dimenticato è quello che ha visto protagonista Rumesh Rajgama Achrige, uno street artist diciannovenne di Como colpito a bruciapelo da un colpo di pistola esploso da un membro della locale squadriglia antigraffiti. Era il 29 marzo del 2006. Inutile precisare che neppure in questo caso gli stimati rappresentati delle istituzioni, essendo il ferito soltanto un graffitaro, hanno mai telefonato.

La sindrome di Robin Williams

Nemmeno il tempo di dare alla notte il modo di trasformarsi in giorno. Poi le bacheche dei social network, ancora prima delle pagine dei quotidiani on-line, sono state prese d’assalto con una notizia terribile e commovente: Robin Williams è morto. Il “mio capitano” de L’attimo fuggente ha perso la sua battaglia contro il male oscuro della depressione e, nella sua residenza californiana, si è suicidato.

Gli ultimi istanti della vita di Robin Williams, a questo punto, si sono già trasformati in frasi che, con l’aiuto di photoshop, si accompagnano a fotografie in cui l’attore, indossando i panni del professor John Keating, declama il Carpe Diem di Orazio, incarnando nel senso comune un ideale anticonvenzionale e libertario, se non addirittura rivoluzionario, tristemente affine al suicidio – questo suggeriscono le immagini in questione – se si tiene conto della realtà del mondo in cui viviamo, per nulla incline ai sensibili e ai ribelli.

Con un sospiro di circostanza, a questo punto, il popolo di internet può tranquillamente passare oltre, concludendo che tutto sommato è meglio rigare dritto, continuando ad accettare compromessi e, al massimo, coltivando nel privato stravaganze affini a quelle responsabili del suicidio del tanto amato attore hollywoodiano. Questo, almeno, è quello che la proteiforme informazione sul caso, equamente divisa tra messaggi personali e media mainstream, sta suggerendo in merito alla morte di Robin Williams. E se non è stato in grado di reggere botta un personaggio come Williams, è il senso inconscio della comunicazione, figuriamoci l’uomo medio e comune, invariabilmente destinato alla malamorte nel momento in cui dovesse decidere di rompere gli ormeggi dell’ordine a cui è destinato, magari prendendo spunto proprio dall’attore prematuramente scomparso e dal suo film più famoso.

Archiviando per un attimo tra queste righe l’incredibile capacità delle sovrastrutture del capitale nel trasformare in messaggi conservatori gli eventi più disparati del vivere quotidiano, sarà bene ricordare come di Robin Williams esistano ben altre immagini oltre a quella del professore illuminato disposto a sacrificare tutto ai suoi ideali pedagogici. Esistono, per esempio, fotografie dell’attore che, indossando una maglietta con la scritta (in arabo) “I Love New York”, arringa e intrattiene le truppe statunitensi impegnate in Kuwait e in Afghanistan: una realtà che, tra le altre cose, si sposa molto male non soltanto, per stare nella filmografia di Williams, con l’ideale del professore antisistema de “L’attimo fuggente”, con l’incapacità di crescere (cioè di omologarsi)  di Peter Pan, con l’ironia stralunata dell’alieno Mork o con la lucida follia de “La leggenda del re pescatore”, ma anche con quell'”odio i nazisti dell’Illinois” strettamente associato a John Belushi, di cui l’attore suicida fu grande amico.

Una certa coerenza suggerisce che il “mio capitano” de “L’attimo fuggente” non avrebbe mai prestato il suo volto al militarismo nazionalista, né avrebbe pervertito i versi di Orazio a uso e consumo dell’imperialismo a stelle e a strisce. Molti diranno che un conto è l’attore, un altro è la persona. Ma dietro ogni maschera c’è lo stesso individuo, anticonformista e libertario per la macchina da presa, ridotto a macchietta di se stesso quando intrattiene le truppe statunitensi con la maglietta “I love New York”… a quale interpretazione bisogna prestare fede?

O meglio: dove finisce la macchina da presa e dove inizia l’essere umano?

La domanda, a ben vedere, non riguarda soltanto Robin Williams. Al contrario, l’intero pianeta è nella realtà costretto a vivere all’interno di un universo di valori – onestà, giustizia, rettitudine, bontà, fratellanza, solidarietà… eccetera, eccetera – che lo stesso sistema provvede a negare minuto dopo minuto, sfruttando il lavoro, imponendo immani carneficine nei luoghi riottosi del pianeta, devastando territori nel nome del profitto e chi più ne ha più ne metta. Ogni singola esistenza, in queste condizioni, è preda delle contraddizioni più atroci e posta di fronte a un bivio: cedere all’alienazione totale del sé, e magari andare a sculettare per l’esercito nel corso di qualche operazione militare; oppure lottare affinché la distanza tra ideali e realtà si riduca fino a dissolversi del tutto, almeno negli ambiti più vicini alla propria esperienza e alla propria esistenza.

Chi sceglie il secondo cammino non avrà vita facile. La repressione è in agguato ed è pronta a colpire in mille modi, non soltanto con i manganelli della polizia e le inferriate di una galera. A sorreggere il percorso, in ogni caso, c’è un diffuso senso di benessere che comunque accompagna chi trova la forza, giorno dopo giorno, di “fare la cosa giusta”.

D’altronde chi, evitando di mettere in discussione un ordine irragionevole, accetta di alienare la realtà dei valori a uso e consumo di interessi reazionari e antiumanistici, per esempio evitando di ribellarsi alle condizioni di sfruttamento che ha sotto gli occhi, delegando la partecipazione alla vita politica, aderendo a piattaforme semplificate di produzione di senso comune e magari affidando la rappresentazione di un presunto “vero sé” a momenti circoscritti come quelli passati da Robin Williams dietro una cinepresa, non potrà pensare di dormire sonni tranquilli. I compromessi con cui scendere a patti, giorno dopo giorno, si ingigantiranno fino a inghiottire ogni residua traccia di individualità. E a questo punto possiamo ribattezzare “sindrome di Robin Williams” il momento in cui, per ritrovare se stessi, resta solo la morte, momento supremo di superamento dialettico di ogni dolorosa contraddizione.

Pulirsi il culo con le (nostre) mani. L’anima del capitalismo di rapina e lo sgombero del Volturno Occupato

In una Roma messa a dura prova dal caldo e da un anno in cui la spinta repressiva ha toccato altissimi livelli, la notizia è stata di quelle comunque in grado di arrivare come una frustata in faccia alla città: «Stanno sgomberando il Volturno!».

Erano le otto e un quarto del 16 luglio quando un indignato passaparola ha fatto accorrere davanti al portone dell’ex cinema occupato un centinaio di attivisti, ma era già troppo tardi. Numerosi blindati avevano sbarrato le vie limitrofe e nutriti cordoni di celerini, facendo ondeggiare ritmicamente il manganello, non nascondevano di certo le loro reali, voluttuose idee di violenza. La stessa violenza che, nel nome della legge, si scatenava sugli spazi del Volturno, aggredito da picconi immediatamente in grado di demolire arredi e pavimenti, producendo nel giro di un’ora un’immagine in grado di commentarsi da sola: ci sono voluti sei anni per fare del Volturno un teatro aperto alla città e uno degli sportelli del diritto alla casa più noti a livello nazionale, mentre nel giro di appena sessanta minuti tutto è stato distrutto senza nessuna remora. Mancano effettivamente le immagini dei celerini che pisciano per dispetto sugli oggetti degli occupanti, ma alla resa dei conti, quando c’è stata la possibilità di entrare per recuperare le cose più importanti, diverse parti dell’impianto luci e audio risultavano assenti:qualcuno tra poliziotti e operai assoldati per l’apertura della porta se li era rubati!

Tra le questioni sociali che in questo momento a Roma scottano di più, c’è senz’altro la ferma volontà della prefettura – autentico sindaco-ombra della capitale – di “normalizzare” gli spazi sociali attivi sul territorio, promuovendo una campagna di sgomberi che mette a rischio,insieme ai luoghi liberati, gli strumenti dell’organizzazione dal basso e dell’autogestione. Lo stesso articolo 5 della mai abbastanza bestemmiata Legge Lupi, d’altro canto, nel momento in cui arriva a imporre il divieto di allacciare utenze a chi vive in spazi occupati, non sferra soltanto un infame attacco alla realtà delle occupazioni abitative, ma estende la sua portata su tutti gli spazi sociali, ed è, in ultima istanza, una delle cause profonde dello sgombero del Volturno a ben sei anni di distanza dalla sua occupazione. Niente di strano, dunque, se un simile atto sia riuscito a raccogliere una solidarietà ampia: la stessa solidarietà che, nella serata di giovedì 20 luglio, ha portato oltre tremila persone a conquistare il percorso di un corteo non autorizzato, ma in grado comunque di attraversare il centro della città, da piazza Indipendenza fino a Porta Pia.

«Il Volturno», si diceva nel corteo parafrasando Vittorio Arrigoni secondo cui l’attacco a Gaza comincia sull’uscio della casa di chiunque, «è la nostra Palestina»: una situazione in cui, di fronte all’incomparabile superiorità di uomini e mezzi messi in campo dalla speculazione, bisogna in ogni caso trovare il modo di autorganizzarsi per dare una risposta concreta, pena un arretramento generalizzato del concetto stesso di diritto all’abitare fino a livelli difficilmente pensabili – nelle intenzioni dei padroni, ovviamente, fino al suo annientamento.

Mentre la rabbia e le lacrime del corteo defluivano, gli speculatori non restavano a guardare, né ovviamente davano prova di alcuna sensibilità. Il primo atto dei padroni del Volturno (le società che risultano eredi di ciò che è stato uno dei lotti messi in vendita dopo il fallimento Cecchi Gori appaiono come una serie di nebulose scatole cinesi), non a caso, è stato il gesto di asportare il murales di Sten e Lex che faceva bella mostra di sé all’entrata dell’ex cinema, per coprire il portone con una triste mano di vernice nera.

Qui le contraddizioni si fanno talmente fitte da riuscire a tagliarsi con il coltello. Il giorno stesso dell’occupazione del Volturno, infatti, si insediava a Roma Giovanna Marinelli in qualità di nuova assessora alla cultura. Una nomina politicamente in linea con le mosse del governo centrale, un personaggio che, iniziando a parlare di cultura a Roma, ha immediatamente specificato come questa possa essere salvata soltanto con l’intervento dei privati. Ed eccoli qui i privati santificati dallo sfrenato neoliberismo renziano: sono gli stessi che, mettendo le mani sul Volturno, procedono immediatamente alla distruzione di un’opera d’arte realizzata da due artisti di strada come Sten e Lex, i classici esempi di artisti che “tutto il mondo ci invidia”, senz’altro tra i nomi più importanti della street art internazionale, artefici di lavori in grado di conquistare gli appassionati di tutti i continenti e di trovare spazio persino in importanti ambiti museali (digitare il loro nome su Google per credere).

Ma parlare di queste cose con gli speculatori, ed evidentemente anche con i politici impegnati nella loro copertura, è davvero gettare le parole al vento. Quale ridicolo buzzurro, infatti, trovandosi in possesso di un’opera d’arte bella e importante come il pezzo di Sten e Lex al Volturno avrebbe come prima cosa deciso di distruggerla?

Quale crasso ignorante avrebbe proceduto a cancellare un pezzo dalla simile portata senza minimamente mettersi nell’ottica della sua cautela?

Ai padroni del Volturno, ma anche ai loro referenti politico-polizieschi, verrebbe da chiedere: che cosa altro fate nel chiuso delle vostre case? Mangiate ficcando il grugno in un trogolo? O per pulirvi il culo usate le mani?

Sarà anche il caso di sottolineare che se Sten e Lex avevano lavorato sul portone dell’ex cinema Volturno, all’interno del cinema c’è o c’era una delle più interessanti collezioni di street art capitolina, con opere di Hogre, Diamond, Solo, Borondo, Omino 71 e di tanti altri grandi dell’arte urbana, come il collettivo teatrale artefice di una serrata programmazione aperta a tutta la città (gratuitamente) e lo sportello per il diritto alla casa, trattati alla stregua di carta straccia dal famigerato partito della legalità, un’accolita di soggetti il cui comportamento – l’accanimento contro le opere d’arte e la loro distruzione – denota nei confronti della “cultura” lo stesso interesse che i palazzinari sono soliti accordare alla qualità del cemento utilizzato per le loro grandi opere speculative.

Lo scandalo dello Sten e Lex distrutto, naturalmente, non ha trovato alcuno spazio sui giornali. Ma come potrebbe essere altrimenti?

Sarà appena il caso di ricordare che ancora recentemente una “giornalista” (?!?) de «la Repubblica» ha appellato con il termine di «imbianchino» un artista come Blu nel momento in cui, tanto per restare sul terreno del rapporto tra arte e spazi occupati romani, dopo essersi occupato delle facciate di Acrobax e prima di dedicarsi ai muri di Alexis, realizzava un capolavoro davvero ammirato in tutto il mondo sulle facciate di Porto Fluviale.

La giornalista de «la Repubblica», dopo l’infelicità del suo pezzo, venne pubblicamente sbeffeggiata da chiunque avesse avuto un minimo di interesse per parole come “riqualificazione urbana” o, semplicemente, “arte” e “cultura”. Nel caso del Volturno, dunque, meglio scegliere il silenzio: continuare a dare corpo alla disinformazione e fare finta di nulla finché negli spazi dell’ex cinema possa finalmente concretizzarsi la destinazione pensata dai padroni, vale a dire una patetica sala slot, l’ennesimo tempio delle macchinette mangiasoldi da tirare su nel cuore di Roma.

Le chiacchiere stanno a zero. E anche la neo assessora alla cultura, in vista del tavolo strappato per il 21 luglio dopo un’azione animata dal collettivo teatrale del Volturno e dagli attivisti del diritto all’abitare, dovrà essere chiamata ad esprimersi chiaramente su questo. L’unico modello di evoluzione degli spazi cittadini presente nella testa dei padroni della metropoli è quello di un degrado assistito dalla presenza di sale slot che spuntano come funghi: poli delinquenziali in grado di far convergere in un unico amalgama e di nascondere dietro macchinette mangiasoldi stratificati interessi di tipo mafioso, dallo spaccio di cocaina in grande stile fino allo sfruttamento della prostituzione. E quale luogo migliore del Volturno per realizzare un progetto del genere?

Roma possiede già intere arterie, basti pensare al tratto finale della via Tiburtina, in cui questo modello di (sotto)sviluppo è più che una realtà: è l’imposizione violenta di quel divieto di pensare e agire che i padroni hanno conquistato impedendo ai cittadini di vivere le proprie strade e di imprimere il segno della loro presenza alle vie che abitano, orientandone aspetto e destinazione d’uso. Siamo davvero, e la distruzione dell’arte contenuta dal Volturno lo dimostra, alla nuova preistoria di pasoliniana memoria: un’epoca in cui, nel nome della messa a valore totalitaria di tempi e spazi, qualunque complessità di tipo intellettuale, culturale ed esistenziale viene messa al bando a favore di progetti capaci di rimuovere ogni sorta di rapporto dialettico con l’essere qui e ora come collettività e di consegnare al futuro le facce di una stessa medaglia: le asettiche e scintillanti vie del centro commerciale per le necessità diurne, le strade sordide delle slot machine per gli impulsi notturni; il trionfo del consumo e la polizia ovunque, la cultura e il diritto all’abitare da nessuna parte. Questo è il mondo che vuole essere disegnato addosso a tutte e a tutti. Mentre se non si sarà in grado di opporre un’argine all’esondazione di arroganza padronale che ha appena sommerso il Volturno, il governo dei comitati d’affari attualmente e schifosamente al potere continuerà a ghignare, a distruggere opere d’arte, ad affondare il grugno in città trasformate in mangiatoie e, per pulirsi il culo, ad usare le (nostre) mani.

Come si (ri)diventa fascisti: lo stato di polizia del governo Renzi

Come si (ri)diventa fascisti. Il titolo è impegnativo, quindi ciò che sto per scrivere non sarà esaustivo. Al contrario, si basa su riflessioni precedenti rispetto alla data di oggi e intende andare oltre per indicare una soglia di pericolo – il fascismo, appunto – che al momento appare già varcata.

Torniamo all’oggi dunque, giovedì 22 maggio, e ricordiamoci di questa data. Che cosa è successo?

Il presidente del consiglio Matteo Renzi, a capo di un governo (il terzo di fila) mai votato da nessuno, ha scelto piazza del Popolo per chiudere la campagna elettorale con cui il Partito Democratico ha affrontato le imminenti elezioni europee.

L’appuntamento con il discorso del “capo”, previsto per le ore 19 arriva insieme alla desolazione di una piazza semivuota, animata con molta fatica da zelanti volontari (o dipendenti?) che si affannavano a distribuire ai presenti quante più bandiere del PD possibili.

Il tempo, come è sua natura, passa: i militanti piddini sperano che qualcun altro arrivi, e i loro desideri vengono esauditi soltanto a metà. In piazza, infatti, insieme ai quattro gatti del comizio c’è anche un buon numero di cittadini e cittadine qualunque: studenti, precari, disoccupati, migranti, lavoratori impossibilitati ad arrivare alla fine del mese… una rappresentanza, insomma, di quelle oltre dieci milioni di famiglie italiane costrette a (sopra)vivere al di sotto della soglia di povertà.

Quello che salta agli occhi, appena la piazza viene animata da queste nuove presenze, è la profonda differenza antropologica tra i nuovi arrivati e i militanti del PD. Da una parte, insieme a tutti i colori del mondo, si sprigionano odore di officina, di libri e di cucina, mentre le voci parlano di cantiere e di call center e i vestiti raccontano l’arte di arrangiarsi. Tra i militanti del PD, al contrario, si apprezzano le giacche comprate in centro e le hogan ai piedi, gli afrori di lacca per capelli e i volti distesi di chi non si sta ponendo né il problema del pranzo né quello della cena. Questa spaccatura, ormai definitiva e irreversibile, dei corpi che un tempo non lontanissimo ancora condividevano uno spazio genericamente definito “di sinistra” dovrebbe essere presa in considerazione più attentamente, ma quello che è sicuro è che a piazza del Popolo una simile differenza produceva dissonanze incapaci di passare inosservate. I primi ad accorgersene, gli impiegati della DIGOS, la polizia politica che, per l’occasione, è stata mobilitata in grande stile: le stesse lacche dei militanti piddini sui capelli, le stesse hogan ai piedi.

I poliziotti della politica, mentre Renzi ancora non si affaccia sul palco allestito per l’occasione, sono decine e decine; e gli uomini ai loro ordini, in divisa, con i caschi e i manganelli, molte centinaia. Si coordinano e, incordonati, si gettano addosso a chi è considerato “diverso” e le pelli degli africani e degli indios sono le prime a farne le spese, insieme a quelle di chi ha meno anni sulle spalle, ritenuto, probabilmente, “colpevole” di non indossare le orrende magliette arancioni con cui si pavoneggiavano i Giovani Democratici presenti al comizio.

Così, senza proferire parola, la polizia si scaglia su tutta questa massa di intervenuti, spinta a manganellate fuori dalla piazza, con l’ausilio di schiaffi e pugni di volenterosi militanti del PD, completamente a loro agio in questo ruolo di ausiliari di polizia, né per nulla ostacolati in questo compito da chi la divisa la porta per mestiere: altra circostanza foriera di inquietanti parallelismi con le abitudini delle vecchie squadracce in camicia nera, sempre all’opera sotto l’occhio compiacente delle forze dell’ordine “regolari”.

Attenzione perché stiamo parlando di donne, studenti giovanissimi e signori di mezza età maltrattati e picchiati dalla polizia nel centro di una piazza dove era in programma un comizio, eppure nessun militante PD ha pensato di potersi schierare al fianco del più debole e del perseguitato.

In ogni caso, la prima domanda, di fronte alla polizia che si abbatte su un comizio per aggredire una parte dei presenti, potrebbe o dovrebbe essere spontanea: sulla base di quale legge, regolamento, norma o disposizione si può impedire a dei comuni cittadini di essere nel luogo in cui sono nel momento in cui ci vogliono essere?

Perché forse è anche così che si (ri)diventa fascisti: affrontando le cerimonie ufficiali con una massiccia ondata di fermi preventivi, giustificati da nulla ma eseguiti nel nome del sospetto che alcuni “malintenzionati” possano rovinare con il loro intervento la festa preparata dal capoccia di turno. Senza dubbio durante il fascismo si procedeva anche in questo modo, ma non è il Ventennio l’unica epopea dittatoriale da cui trarre un precedente, anche Mobutu, in Congo, usava comportarsi così: e in Cile? o in Argentina?

La stessa, triste, gravissima cosa.

Di questo, adesso, bisognerebbe parlare. E questo è ciò che sarebbe utile leggere sui giornali: di uno stato europeo, l’Italia, in cui si è consumata a ciel sereno la pratica del fermo preventivo di massa, a totale arbitrio di uno schieramento misto di poliziotti in borghese, poliziotti in divisa e militanti del PD con la lacca sui capelli e le hogan ai piedi.

I numeri raccontano di 50 persone accusate di nulla eppure costrette con le buone, o più spesso con le cattive, a seguire le forze dell’ordine nelle caserme e nelle questure, affrontando uno stillicidio di ore dietro le sbarre, salvo poi essere rilasciati (mentre scrivo non si riesce ancora a capire se tutti) con un foglio che parla di “verbale di accompagnamento in ufficio”, visto che di altro non può proprio parlare.

Ma perché la pratica del fermo preventivo è ancora più grave di quello che sembra?

Perché la pratica del fermo preventivo disegna, con la sua indeterminatezza, un’area grigia di sospensione del diritto: una zona dove non si punisce un reato specifico, ma in cui ad alcuni – poliziotti e militanti del PD oggi – si affida il ruolo di giudicare tra omologati e non omologabili, salvando i primi e arrestando “per sicurezza” i secondi.

Per questo, d’altro canto, sto scrivendo un pezzo intitolato “come si (ri)diventa fascisti”, perché il fermo preventivo non è che l’ennesimo dispositivo con cui si consente l’arbitrio poliziesco su quote di cittadinanza di volta in volta ritenute esterne al campo delle libertà personali. Il fermo preventivo, infatti, giunge al culmine di una lunga stagione che ha introdotto, con i CPT, i CARA e i CIE, la detenzione dei migranti per questioni di natura burocratica (la mancanza di documenti) e non per ragioni di materia penale; proseguendo poi, prendendo come scusa la “sicurezza negli stadi”, con la pratica delle schedature di massa (vedi tessera del tifoso) e l’abominio giuridico di poter essere arrestati “in flagranza di reato” addirittura dopo 48 ore dallo stesso; arrivando con il ministro Alfano – cioè con il governo Renzi – a vietare come se niente fosse ai cortei “violenti” (e chi lo decide?) la possibilità di manifestare; e sommando tutto questo alla grande massa di leggi speciali e di emergenza (la legge Scelba, la legge Reale, eccetera) sempre rimaste attive anche dopo che il periodo emergenziale o presunto tale finiva per essere archiviato nei libri di scuola.

Tra gli appunti dedicati al come si (ri)diventa fascisti, un altro dato va sottolineato in rosso. La principale caratteristica del fascismo, infatti, non era e non è soltanto l’impianto razzista delle sue leggi e il carattere censorio della sua informazione – tutte pratiche tra l’altro perfettamente rintracciabili nell’attuale sistema statale – ma anche, e per certi versi soprattutto, la natura corporativa della sua governance: un’amministrazione che nasconde dietro valori “superiori” – ce lo chiede l’Europa!, urla Renzi, come Mussolini gridava “ce lo chiede la Patria!” – la realtà di un comitato d’affari che agisce con la mediazione-fantoccio di sindacati gialli, cioè senza nessuna mediazione, sul conflitto sociale e sulle rivendicazioni di classe. Fascismo come sistema corporativo, dunque, allo stato delle cose rappresentato in maniera inquietante non soltanto dai regolamenti liberticidi del già menzionato Angelino Alfano; ma con decreti come quello di Maurizio Lupi, il famigerato “piano casa”, che dichiara guerra ai movimenti per il diritto all’abitare imponendo il distacco delle utenze e la revoca delle residenze agli “abusivi” mentre finanzia senza pudore i palazzinari e le banche con meccanismi dipinti come bonus-affitti o sostegno ai mutui; o come quello del ministro del lavoro Poletti, che se nel ruolo di presidente della Lega delle Cooperative promuoveva lo sfruttamento selvaggio della manodopera – in primo luogo i facchini – dell’Emilia Romagna, all’interno di un sistema in cui il “pubblico” diveniva sinonimo di “Partito Democratico” e in cui “Partito Democratico” sinonimo di gestione personalistica degli apparati statali, da ministro istituzionalizza in scioltezza la precarietà, consentendo senza ritegno, grazie al suo “jobs act”, il perpetuarsi di qualunque tipologia contrattuale, purché non garantita.

Le persone fermate in piazza o prima di arrivare in piazza oggi avrebbero portato davanti a Renzi esattamente tutto questo, e posto problemi inerenti un cambio radicale dell’esistente, a partire dall’affermazione di un principio: viene definito “diritto” tutto ciò che non può essere né venduto né comprato, né tantomeno fatto oggetto di speculazione affaristica. La casa, l’istruzione, la salute, il reddito e il lavoro sono diritti che, in questa fase, vengono attaccati da un capitalismo deciso a recuperare l’affanno proprio sulle spalle dei meno garantiti, il contrario dei sostenitori di Renzi ed esattamente uguali a coloro che la polizia dello stesso Renzi ha attaccato, manganellato e recluso a scopo preventivo, anche se le urla contro il governo della fame dell’ex sindaco di Firenze si sono sentite lo stesso.

Le ha sentite persino Roberto Giacchetti, parlamentare piddino e attuale vicepresidente della Camera, che attraverso twitter ha dichiarato: “la DIGOS ha in mano 1 pugnale trovato a terra durante i tafferugli. E non era un giocattolo”.

Ora, persino spulciando tutti i verbali di “accompagnamento in ufficio” che hanno colpito chi intendeva contestare Renzi, la questione del pugnale non compare. Se il parlamentare piddino non mente spudoratamente, tanto per infamare “a buffo” l’opposizione sociale e i movimenti antagonisti, è lecito pensare che la polizia si sia rivolta direttamente a lui, faccia da pretino, camice stirate di fresco e sigaro nelle mani… ma da quando la digos parla di corpi di reato con soggetti diversi da quelli prescritti dalla legge? Cioè con soggetti diversi da un PM o da un Giudice per le indagini preliminari?

Da quando stiamo (ri)diventando fascisti, sicuramente sì.

Come si dimostra di essere razzisti: i video di Repubblica.it

Scelta davvero “progressista” quella della Repubblica.it. Pubblicare un video ripreso dalle telecamere di sicurezza a Napoli e intitolarlo “Scippo nei vicoli di Napoli. Solo un immigrato difende la vittima”.

A parte che, guardando il video:

http://video.repubblica.it/edizione/napoli/napoli-scippo-nei-vicoli-interviene-solo-l-immigrato/154993/153493?ref=HREC1-3

la cosa non è nemmeno vera. Il ragazzo di cui parla Repubblica effettivamente interviene, coadiuvato però da diversi passanti che si fermano a dare una mano alla signora trascinata per terra dal motorino dello scippatore. Perché descriverlo come “solo”?

Perché i napoletani presenti nei vicoli sarebbero necessariamente ladri e scippatori?

Il punto, oltretutto, è un altro. Per quale motivo, infatti, un “immigrato” che aiuta una signora scippata dovrebbe fare notizia?

Perché gli immigrati sono tutti ladri?

Perché gli immigrati non sono in grado di seguire impulsi umani come quello di dare un aiuto alle persone in difficoltà?

O è semplicemente il razzismo diffuso, nella società come e soprattutto nella testa dei giornalisti, a trovare eccezionale la semplice correlazione tra un immigrato e l’atto di aiutare?

Il ragazzo, tra l’altro, è descritto come nell’atto di “chiedere l’elemosina”… anche se sul video, quello che si può evincere, è che sta seduto, non che chiede l’elemosina: come mai è descritto così?

Perché gli immigrati, se non sono ladri, devono almeno essere accattoni?

Senza considerare che a Repubblica.it si potrebbe chiedere come fanno a dire che il ragazzo del video sia effettivamente un migrante. Che sia nero, infatti, vuol dire poco: non sanno nulla i signori giornalisti delle decine e decine di migliaia di ragazzi di qualunque colore effettivamente nati qui?

Persino la correlazione, data come ovvia, nero=immigrato è intrinsecamente razzista: la voce di un giornale che nega lo ius soli, la tematica delle seconde generazioni e, più semplicemente, il dato di fatto di una società meticcia. E se queste osservazioni risultassero troppo severe, basta dare, poi, un’occhiata a un altro video messo in evidenza sulla stessa Repubblica.it:

http://video.repubblica.it/edizione/milano/milano-aggredisce-il-rivale-con-una-mannaia-in-centrale/155050/153549

“Milano, aggredisce in centrale il rivale con una mannaia”, è il titolo delle immagini. Con una didascalia che subito specifica: “Un algerino arrestato per il tentato omicidio di un tunisino”.

Ecco. Fermo restando che dell’assalitore Repubblica.it si premura di specificare come fosse “irregolare”, “in stato di alterazione alcolica” e “con precedenti”, c’è da dire che le aggettivazioni di carattere etnico sono come le giustificazioni. Quando vengono specificate senza essere richieste sono di per sé un grave indizio di colpevolezza. E la “colpa” in cui indugiano i nostri mezzi di informazione da sempre è sempre la stessa: il razzismo.

PS: tornando al video di Napoli, il ragazzo di cui parla Repubblica.it sembra, effettivamente più degli altri passanti, intenzionato a bloccare lo scippatore in attesa della polizia. Difficile prevedere il proprio comportamento se non ci si mette alla prova dei fatti. Però credo che personalmente avrei fatto come i passanti di Napoli e, soccorsa la signora, lo scippatore – fatti salvi ulteriori impulsi violenti che potrebbero derivare dall’avere a che fare con amici e parenti nel ruolo di vittime – effettivamente lo avrei lasciato andare via. Nemmeno lo scippatore, infatti, si sarebbe meritato di essere arrestato dagli assassini di Federico Aldrovandi, recentemente riammessi in servizio dopo le sentenze di condanna:

http://www.adnkronos.com/IGN/Regioni/EmiliaRomagna/Caso-Aldrovandi-il-fratello-di-Federico-insensato-ritorno-in-servizio-dei-poliziotti_321168476698.html

Evidentemente, però, anche io sono vittima di quel diffuso pregiudizio popolare secondo il quale la giustizia non si ottiene né dai tribunali né dalla polizia.

 

Facchini e libri: scrittori, editori e istinto di classe

Dopo giorni di pioggia e nuvole nere, ma mai nere come le anime dei benpensanti della nostra politica e della connessa loro industria (non solo) editoriale, cercavo giusto un’occasione per cimentarmi con un argomento con cui sarà facile rendersi impopolare.

Questo argomento riguarda i libri, la loro presunta sacralità e quell’aura di “garanti della democrazia e della libertà” da cui vengono artatamente circondati. “I libri,” sostengono facendo la faccia da cerbiatto stuprato orde di cittadini-buonidemocratici-mediamenteacculturati, “non dovrebbero mai essere toccati…”; e, immancabilmente, proseguono il loro noioso discorso ricordando a chiunque metta in discussione questo assunto che erano stati i nazisti a permettersi il più grave dei peccati: bruciare i libri.

Singolari paragoni. Perché in casi come questi chi ha tanto a cuore il destino dei libri, facilmente si dimentica dell’unico destino per il quale valga davvero la pena di lottare: quello degli uomini e delle donne; persone in carne e ossa, non cellulosa sporcata d’inchiostro.

Il nazismo ha fatto naturalmente ben altro rispetto al bruciare i libri. Artefice dell’olocausto – mai abbastanza bestemmiato e combattuto: ma dove sono quelli che gridano al nazi quando il fascismo si manifesta davvero? – il nazismo ha rappresentato la cristallizzazione estrema di precisi interessi capitalistico-padronali, alimentati con la frustrazione nazionalistica e patriottarda e sostenuti attraverso l’individuazione di un nemico ben preciso: la lotta di classe. Soltanto tenendo presente questo passaggio, allora, si può ripetere – e assolutamente condividere – quanto sostenuto dal sansimonista Heinrich Heine, secondo il quale “dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli esseri umani” (Heine, a dire il vero, sosteneva anche che “dovremmo perdonare i nostri nemici, ma non prima che siano impiccati”). Altrimenti la realtà è quella dove – di fatto – gli essere umani vengono bruciati tutti i giorni, in modo metaforico, certo, attraverso la generalizzata privazione dei diritti di ogni tipo a cui stiamo assistendo più o meno inermi, ma comunque nell’acquiescenza generale, capitanata dai tanti pronti a indignarsi per i libri perduti… gli stessi che, quando il 15 febbraio del 2012, con la cancellazione di una moltitudine di testi elettronici e nel nome della “lotta alla pirateria”, si è consumata la distruzione del portale library.nu (solo per fare un esempio:  http://www.webnews.it/2012/02/15/library-nu-cancellati-migliaia-di-e-book-pirata/), “colpevole” di mettere a disposizione gratuitamente milioni di testi in formato elettronico, non hanno sprecato una sola parola, pianto una sola lacrima, animato una singola protesta o, perlomeno, avanzato una sola domanda. Una domanda tipo: si difendono i libri o si difende il capitale?

In questo contesto, naturalmente, la parola “capitale” può essere presa come sinonimo di “potere”. Ma la precisazione serve soltanto a raccontare la storia che i tanti difensori dei libri non hanno mai letto: quella della scrittura e delle prime forme di pubblicazione. Già. Perché quando venne messa a punto la scrittura in quanto tecnica, i suoi primissimi impieghi – e a lungo pressoché gli unici – non riguardarono la stesura di delicate liriche sul male di vivere o di amene prose sulla passione romantica, niente di tutto questo. Con la scrittura, per prima cosa, vennero affrontati i lati di massicci obelischi. Per incidere sulla pietra lunghe liste di nomi di laghi, fiumi, montagne… accompagnati da elenchi altrettanto lunghi di dinastie reali che, quella stessa scrittura e quegli stessi supporti, spacciavano come depositari di un potere millenario, naturalmente voluto da Dio. Da quel momento in poi, il destino della “Scriba” è uno solo: affondare lo stiletto nella gola del potente di turno… o restare un semplice servo di quel potere che ha partorito lui e la sua scrittura. Compito tutt’altro che facile, a cui pure generazioni di scribi infedeli si sono votati subendo in cambio persecuzioni di ogni genere: a cominciare proprio dal rogo dei propri libri.

Per il resto bruciare i libri può essere un atto bellissimo e liberatorio. Penso per esempio alla rivolta del Matese, quando un nugolo di ribelli capitanati dagli anarchici Errico Malatesta e Carlo Caffiero devastò tutti i municipi della zona – le case del potere – producendosi, come primo atto, nel rogo dei libri comunali che si arrogavano la pretesa di certificare lo stato di semi-schiavitù legalizzato a cui i braccianti locali – come milioni di altri lavoratori in tutto il mondo – erano stati condannati. La vera e propria gioia dei lavoratori di fronte a quel rogo affonda le sue radici nella nascita infame della scrittura e dei libri e costituisce l’oggetto di una realtà dimenticata: la diffidenza naturale del proletariato nei confronti dei libri e di chi li scrive è giustificata dal rapporto incestuoso che da sempre unisce i libri al potere e si tramuta spesso in atti dettati da ciò che una volta era detto “istinto di classe”.

Nell’analisi gramsciana l’istinto di classe va temperato alla luce di elementi di “folklore regressivo”… ma ecco che in questi giorni la storica diffidenza provata da ogni lavoratore degno di questo nome nei confronti di chi non svolge compiti manuali, trova nuove ragioni d’essere nelle uscite pubbliche di alcuni importanti (?) esponenti dell’intellettualità italiana a proposito della battaglia di lunga durata che, a Bologna, oppone i lavoratori della logistica alla Granarolo.

Il giallista/scrittore/autoretelevisivo bolognese Carlo Lucarelli, interviene sulla situazione affermando: “Non entro nel merito di una vertenza in corso, e se questa situazione ha generato della rabbia, dico che esiste sicuramente una rabbia sacrosanta e legittima, è quella che grida dei contenuti a cui si deve dare risposte, ma è anche quella che a un certo punto si ferma e si trasforma, diventa un atto politico che si svolge entro i limiti della democrazia ed è costruttivo (…) la rabbia non può legittimare la violenza, altrimenti diventa dannosa, inutile, strumentalizzabile e non fa l’interesse di nessuno, tanto meno dei lavoratori. Il clima è preoccupante, e spero come tanti che tutto possa tornare nei confini della civiltà e del rispetto delle regole”.

Lucarelli, insomma, invoca nientemeno che “i confini della civiltà”: poteva usare tante parole per esprimere la comune veste neo-centrista che ha assunto l’arroganza padronale; ma da buon scrittore ha usato la più giusta: “civiltà”; la stessa civiltà dei libri e della scrittura che torna a servire il potere – oggi il capitale – come ha sempre fatto quando non ha imparato ad alzare la testa dai facchini della Granarolo.

Le dichiarazioni di Lucarelli sono rivoltanti (leggere: http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2014/1-febbraio-2014/facchini-lucarelli-clima-preoccupante-2224008841979.shtml); e per quanto mi riguarda quella pretesa di giudicare ciò che fa parte della civiltà e cosa non ne fa parte resterà indelebile nei riguardi del giudizio che si può dare a un simile intervento (nessun padrone poteva esprimersi meglio di un padrone che fa lo scrittore). Che a dare manforte a Lucarelli via Twitter sia intervenuto un altro scrittore come Sandrone Dazieri non mi stupisce, dopo le dichiarazioni dello stesso a favore della nuova legge elettorale detta “Italicum” in esame al parlamento (http://www.globalproject.info/it/produzioni/chi-se-ne-frega-dei-partitini/16309). Dichiarazioni con cui, elogiando il bipolarismo renziano (quello dove si potrebbe ottenere un governo di larghissimi poteri con una minima percentuale di voti, alla faccia di qualunque formalismo democratico), Dazieri invita i suoi lettori a sostenere il PD: “Facciamo un caso pratico. Prendiamo la Valsusa. Secondo voi che cosa farebbe il partito o la coalizione all’opposizione nel caso di una mobilitazione sociale diffusa  e duratura come la No Tav. Ve lo dico io. Prima delle elezioni offrirebbe uno scambio. Ahh, voto di scambio, urlate ora tutti assieme! Schifezza, orrore. Figliole e figlioli: è sempre un voto di scambio. Si vota per ottenere qualcosa che riteniamo utile, conveniente o giusto. Un governo migliore, le tasse più basse, quel cazzo che volete. L’ideologia ci forma, ci aiuta a scegliere quello che riteniamo utile, conveniente o giusto, e tutti noi, credo, dovremmo interrogarci su qual è il modo migliore per ottenere quelle riteniamo utile, conveniente o giusto. I risultati, quando coinvolgono la vita di milioni di persone, contano”.

Non mi stupisce il sostegno alla prospettiva padronale dato da Dazieri a Lucarelli proprio per quella che è la principale, almeno a mio giudizio, caratteristica della lotta dei facchini della Granarolo. La lotta della Granarolo, infatti, non scaturisce “semplicemente” da una delle tante storie di ordinario e brutale sfruttamento, ma mette a nudo un meccanismo in cui, attraverso il paravento delle cooperative (chiamarle ancora “rosse” è ormai anacronistico come convertire l’euro in lire), lo sfruttamento è legato a doppio filo al potere piddino bolognese: autentico laboratorio neocapitalistico dove si gioca il futuro di repressione e di sfruttamento che di certo non riguarderà soltanto il comparto della logistica, ma assolutamente chiunque… altro che “voto di scambio”!

Questa, infatti, è la situazione che si sta prospettando. Anzi, che si è già concretizzata e di cui è frutto l’esperienza di lotta bolognese. Con la triplice alleanza sindacale che abiura a qualunque forma di conflittualità e si fa scoperchiatamente “concertativa” (un sindacato “giallo”); con la rappresentanza politica completamente slegata dagli elettori, sia attraverso una legge elettorale liberticida, sia attraverso l’asservimento a macrodecisioni economiche prese a livello extraterritoriale, si entra in una nuova epoca coorporativa, cioè in un nuovo stato di tipo fascista.

Ed è esattamente in questo stato che una casa editrice come la Rizzoli, cioè la casa editrice della famiglia-padrona del capitalismo italiano, “compra” una pagina del Corriere della Sera, sempre di proprietà della stessa famiglia capitalistico-rapinatrice, per venire a dire al “popolo” che… i libri non si bruciano (http://www.ilpost.it/2014/02/04/la-pagina-comprata-rizzoli-sul-corriere-i-libri-si-bruciano/).

Il riferimento dovrebbe essere al fuoco di paglia che ha riguardato qualche non immortale opera dello scrittore/giornalista/autoretelevisivo Corrado Augias, responsabile di aver accusato di “fascismo inconsapevole” gli esponenti del M5S (http://www.giornalettismo.com/archives/1335295/corrado-augias-ad-agora-racconta-il-suo-libro-bruciato/): cioè, la Rizzoli avrebbe comprato (si fa per dire, è tutta roba loro) un’intera pagina di un quotidiano a fronte di un post su twitter in cui un militante grillino bruciava alcuni libri dello stesso?

Cioè, la Rizzoli, creatura immonda del turbocapitalismo non si accontenta più di sventolare la bandiera del profitto ma pretende di inalberare quella della libertà – o magari, come la chiamerebbe Lucarelli, quella della “civiltà”?

La stessa proprietà che, a più riprese e attraverso i suoi strumenti di informazione, tanto per fare un esempio, non ha mai avuto remore ad attaccare e a diffamare nei più volgari dei modi qualunque forma di lotta popolare, adesso si permette di utilizzare i libri per darsi una verniciatura quietamente democratica?

Proprio così. Lo fa e miete consensi su questo proprio in virtù di quel legame antichissimo tra scrittura e potere, tra libri e capitalismo che, in tempi di crisi, è tutt’altro che “fascismo inconsapevole”, ma vero e proprio fascismo: propaganda-spazzatura che tenta di sommergere ogni fenomeno autenticamente progressista, come quello di cui i facchini della Granarolo sono protagonisti. D’altronde dov’è che Lucarelli ha rilasciato le sue dichiarazioni: sul “Corriere di Bologna”, dorso locale del “Corriere della Sera” naturalmente…

E francamente non ho bisogno di aspettare né le dichiarazioni di Lucarelli, né tantomeno di dichiarare la mia siderale distanza dell’opzione grillina per dire che francamente per un rogo di pubblicazioni targate “Corriere della Sera”, quindi Agnelli, quindi Fiat… beh, che dire?

Non piangerei certo lacrime amare di cordoglio per la democrazia.

Per fortuna, in ogni caso, Lucarelli, e poi Dazieri, hanno avuto la loro messa in discussione attraverso una lettera aperta firmata da Wu-Ming, Valerio Evangelisti, Alberto Prunetti e Girolamo De Michele. Un’accusa decisa, dove, tra l’altro, si legge: “I quotidiani sembrano voler contrapporre, con una furbesca titolazione, due generi di scrittori: quelli “buoni” e quelli “politicamente scorretti” che legittimerebbero la violenza. Una distinzione inaccettabile. La «violenza»: ma quale violenza? Non c’è stato alcun atto di violenza da parte dei lavoratori in lotta, in massima parte migranti. C’è stato quell’uso della forza che è proprio di ogni sciopero e si esprime nei picchetti, nei blocchi, nell’intenzione di danneggiare gli interessi economici della controparte. Al contrario, la violenza fisica delle manganellate e degli spray urticanti, gli arresti ingiustificati dei delegati sindacali (in violazione delle norme), i licenziamenti, il mancato reintegro dei lavoratori in spregio agli accordi sottoscritti (ed anche, a Milano, il pestaggio in stile mafioso del sindacalista del Si Cobas Fabio Zerbini) sono forme di violenza padronale”.

Personalmente non ho particolari problemi a fare un altro passo, aggiungendo che la “violenza” di cui si sta trattando è: 1) prima di tutto figlia del “potere” di chi può decidere cosa chiamare violento e cosa no (secondo “Il Corriere della Sera”, per esempio, un picchetto è “violenza”, affamare uomini, donne e bambini è “applicare le forme contrattuali stabilite dalla legge”); 2) in secondo luogo è frutto di rapporti di forza: sarà molto difficile, infatti, anche al di là delle proprie volontà e intenzioni, essere “violenti” (malgrado decine di processi affermino poi il contrario) a mani nude contro battaglioni di polizia schierati in assetto antisommossa, ben armati, addestrati e con tanto di copertura aerea e mezzi blindati al seguito…

Questo per dire che se un facchino fosse effettivamente riuscito, non so, a dare uno schiaffo al caporione di turno, non credo proprio starei a gridare allo scandalo.

Lo scandalo lo grido quando non si riesce più a mettere a tavola il pranzo con la cena. Quando non c’è neppure la tavola. Quando un regime neocorporativista (se non si vuole dire “fascista”) avanza inesorabilmente – meglio: violentemente – sopra qualunque voce decisa a reclamare la riconquista dei propri diritti.

Per questo, preso atto delle “scuse” di Lucarelli (pubblicate qui insieme alla lettera aperta di cui sopra: http://www.carmillaonline.com/2014/02/04/lettera-aperta-carlo-lucarelli-sulle-violenze-vere-alla-granarolo/), resta il risentimento e, legittima o meno che possa essere considerata dai padroni di turno, la rabbia per tutto quello che sta succedendo a Bologna come altrove. Una rabbia dolorosa come quella espressa da un bracciante lucano intervistato da Ernesto de Martino e che, vista la data e il luogo dell’intervista (la Basilicata degli anni Cinquanta), poteva benissimo essere mio nonno: “Sono a questo mondo come se non ci stessi”, diceva il bracciante lucano nella sua lingua, “mi hanno messo nel libro degli spersi”.

Era, questo “libro degli spersi”, un altro di quei registri comunali destinato a contenere chi veniva portato via dalla malamorte, quella che rendeva impossibile i rituali di sepoltura e le procedure del cordoglio. Un registro che fissava nero su bianco la destorificazione a cui il potere e il capitale volevano e vogliono condannare le masse: i facchini di Bologna come chiunque altro. Anche me. Che per farla finita con i libri e la loro finta aura di libertà (mai scontata ma tutta da guadagnare), ricordo sempre le parole di Claude Levi Strauss, quando demistificando l’innocenza della scrittura e dei libri ammonì: “Ad ognuno sarà insegnato a leggere affinché nessuno possa dire di non conoscere la legge”.