L’articolo 5 del Piano Casa di Lupi e i militanti del Partito Democratico: ecco perché non potete non dirvi fascisti

Il 30 ottobre del 1922, dopo la marcia su Roma di alcune migliaia di militanti fascisti, il re Vittorio Emanuele III cedeva alle pressioni della piazza nera affidando a Benito Mussolini la presidenza del Consiglio.

Secondo i nostalgici si tratta del prologo della “rivoluzione fascista”: un evento che avrebbe consegnato all’Italia un ventennio di abiezione, la deportazione nei campi di sterminio dei cittadini di religione ebraica e degli oppositori del regime, l’annullamento di qualunque garanzia democratica e i milioni di morti della seconda guerra mondiale.

Si tratta, in effetti, di un periodo storico talmente cupo e scellerato che, nel corso del tempo, dopo aver dato una mano di vernice patriottica sui valori della Resistenza con l’obiettivo di annullare i valori di giustizia sociale che l’avevano animata, le narrazioni impegnate nel racconto e nell’analisi del fascismo hanno finito per rinchiudere gli anni di Mussolini all’interno di un paradigma dominato dall’eccezionalità: una parentesi senz’altro sconvolgente ma, a causa delle particolari condizioni che provocarono l’emersione del fenomeno, senz’altro irripetibile… ma è ancora possibile, oggi, accettare una simile visione delle cose?

Il 16 febbraio del 2014, Giogio Napolitano, nella veste di presidente della Repubblica, senza che il suo atto fosse suffragato da una qualche forma di consenso elettorale, prendeva atto della sfiducia ricevuta da Enrico Letta dalla direzione del suo Partito e conferiva l’incarico di formare un nuovo governo a Matteo Renzi, classe 1975, famoso per aver guidato un movimento detto “dei rottamatori” all’interno del Partito Democratico e per i discorsi pronunciati in manica di camicia… bianca: una sorta di divisa informale, da quel momento in poi adottata immancabilmente da tutti i sostenitori dell’ex sindaco di Firenze, non a caso detti “renziani”.

Se il vecchio Napolitano, novello Vittorio Emanuele III, guadagnava il soprannome di “Re Giorgio” grazie a un decisionismo più consono al vecchio regno d’Italia che non a una vera repubblica parlamentare, gli atti del nuovo governo Renzi non sono da meno e, immediatamente, si caratterizzano per un approccio a dir poco insofferente rispetto a quanto previsto dagli stessi dettami costituzionali.

In modo particolare, il governo Renzi si distingue per l’uso massiccio e disinvolto dello strumento del decreto legge: un dispositivo a cui l’articolo 77 di quel pezzo di carta straccia una volta chiamato Costituzione affida il ruolo di avere «effetto di legge» in frangenti di particolare necessità e gravità. Al contrario, e quindi contravvenendo alla stessa Costituzione, Renzi e i suoi ministri aggrediscono a colpi di decreti qualunque settore della vita pubblica e civile: dal lavoro, grazie al Jobs Act firmato da Poletti (DL n. 34 del 20 marzo 2014), alla cultura, con il decreto di Franceschini (DL n. 83 del 31 maggio 2014), fino ad arrivare alla casa grazie all’«interessamento» dello spietato Maurizio Lupi, oggi costretto alle dimissioni e sostituito dal fedelissimo di Renzi Graziano Delrio a causa del suo coinvolgimento in una brutta storia di tangenti e raccomandazioni, eppure confermato a suo tempo alle Infrastrutture e ai Trasporti anche dopo la defenestrazione di Enrico Letta.

Fatto passare con il tranquillizzante nome di «Piano-casa», il Decreto Lupi (DL n. 47 del 28 marzo 2014) reca il titolo di Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015 e, pur considerando: «L’attuale eccezionale situazione di crisi economica e sociale che impone l’adozione di misure urgenti volte a fronteggiare la grave emergenza abitativa in atto», e: «La necessità di intervenire in via d’urgenza per far fronte al disagio abitativo che interessa sempre più famiglie impoverite dalla crisi e di fornire immediato sostegno economico alle categorie meno abbienti che risiedono prevalentemente in abitazioni in locazione», finisce per sferrare un attacco senza precedenti a chi, nel corso degli anni, ha rappresentato l’unica, vera risposta al disagio abitativo, vale a dire i Movimenti per il Diritto all’Abitare. In che modo?

La pietra nello scandalo è contenuta nell’articolo 5. Dove, alla voce «Lotta all’occupazione abusiva di immobili», si afferma senza mezzi termini che: «Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge». Tradotto in parole semplici, Lupi e il suo decreto pretendono di spingere nell’invisibilità e di escludere da ogni forma di welfare chiunque abbia preso parte a un’occupazione abitativa e/o viva in una casa occupata. Al di là dei previsti distacchi di acqua e luce, misure contrarie ai più elementari diritti umani più che agli stessi diritti politici di qualunque cittadino, privare una famiglia della residenza, nei fatti, rende impossibile anche produrre i semplici certificati Isee e, di conseguenza, rende impossibile, o comunque molto difficile, iscrivere i bambini alle scuole. Ancora, senza residenza, si incontrano difficoltà nell’accedere ai servizi di medicina di base e, essendo questa parametrata su base circoscrizionale, priva persino dell’assistenza domiciliare i disabili che ne hanno diritto. Una vera e propria operazione di macelleria sociale, insomma. Resa ancora più crudele dagli articoli 3 e 4, con cui si facilità lo smantellamento dell’edilizia residenziale pubblica attraverso la messa in vendita degli stessi alloggi popolari che il decreto pretenderebbe di tutelare!

Eleanor Roosevelt la Dichiarazione universale dei diritti umani
Eleanor Roosevelt con la Dichiarazione

Con la conversione in legge del Decreto Lupi, il governo Renzi, tra le altre cose, si assume la responsabilità storica di andare a infrangere persino la Dichiarazione universale dei diritti umani; uno di quei pezzi di carta – sottoscritto in pompa magna a Parigi nel 1948 – spesso sbandierati di fronte all’opinione pubblica se si tratta di vantare la presunta superiorità occidentale o, magari, di “esportare” la democrazia a suon di bombe, ma che nell’Italia guidata dal Partito Democratico è contraddetto senza mezzi termini. Come viene affermato dall’articolo 25 della Dichiarazione, infatti: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo (…) all’abitazione”.

Eppure, se il governo Renzi ha avuto modo di svelare la sua vocazione liberticida anche sui provvedimenti che sono andati a interessare settori nevralgici come la Scuola e la Legge Elettorale, la natura apertamente fascista della legge sulla Casa è confermata dalla vergognosa continuità storica tra il Decreto Lupi e la famigerata Legge 1092 del 6 luglio 1939, comunemente detta «legge contro la residenza» o «contro l’urbanesimo», che, nei fatti, aveva trasformato gli immigrati italiani in soggetti privi di qualunque diritto – dalla possibilità di iscriversi alle liste di collocamento a quella di ricevere assistenza sanitaria, fino all’esclusione dalle liste elettorali – e, per questo, esposti a qualunque ricatto anche in tema di salario e condizioni lavorative.

Come tante altre cose, la legge contro la residenza, non soltanto non venne abolita dal nuovo regime democratico, ma rappresentò una sorta di leva con la quale fare della povertà, più che una questione sociale, un problema di ordine pubblico. In questo modo, chiunque si fosse trovato a vivere una condizione di emergenza abitativa veniva semplicemente fatto sparire, smettendo, grazie al provvedimento, di esistere dal punto di vista legale e, di conseguenza, di non poter pretendere un giusto compenso da parte del datore di lavoro né di rivendicare il diritto alla casa.

Una situazione scandalosa, una vera e propria ferita aperta nel paesaggio democratico italiano ma anche, in passato, il territorio sul quale fu possibile cogliere un’importate vittoria. Il 10 febbraio del 1961, infatti, dopo anni di lotte e mobilitazioni che non mancarono di costare denunce penali e feriti in piazza, veniva finalmente abrogata la norma fascista che limitava il diritto alla residenza. Fu un successo epocale e testimoniò una maturità politica che, ancora oggi, merita di essere sottolineata. Che fosse possibile, infatti, condurre in porto una battaglia unitaria ricomponendo all’interno di un interesse di classe le spinte centrifughe che, strumentalizzando la paura della concorrenza tra lavoratori, ostacolavano, anche da sinistra, la liberalizzazione delle residenze, era un fatto tutt’altro che scontato. Per arrivare a tanto, evidentemente, fu determinante la spinta delle proteste popolari, ma anche l’intelligenza e la perseveranza di alcuni tra i migliori dirigenti del Partito Comunista e delle associazioni collegate alla sinistra istituzionale. Oggi, che con l’articolo 5 del Decreto Lupi si torna a calcare i passi già seguiti dal fascismo, abrogando il principio della libertà di residenza conquistato a prezzo di lotte molto dure, lo si fa con un governo guidato dal Partito Democratico, ma anche con l’indegno silenzio delle stesse associazioni egemonizzate dal PD, a cominciare dall’Anpi, a cui in passato l’identico provvedimento aveva fatto orrore.

Parliamo, evidentemente, di altri tempi e di personaggi di ben altra caratura morale rispetto alle mistificazioni odierne. Ma, allo stesso tempo, descriviamo una situazione in cui l’impostazione dittatoriale del governo Renzi riesce, grazie all’azione di polizia, ad arrivare anche dove i poteri locali sono costretti a cedere di fronte allo scandalo di famiglie lasciate senza acqua e senza luce dalla legge formulata dall’inquisito ex ministro Maurizio Lupi.

Da questo punto di vista, un altra data da segnalare sul calendario dell’orrore è quella del 7 luglio del 2014 quando, a Bologna, si apprende dell’apertura di: “Un’inchiesta contro il riallaccio dell’acqua all’occupazione abitativa di via Mario de Maria ordinata dal sindaco Merola lo scorso 23 aprile”; una situazione resa ancora più grave, come denuncia in un comunicato la bolognese Assemblea Occupanti e Comitato Inquilini Resistenti con Social Log, dal fatto che: “Solo poche settimane fa anche la vice-presidente Gualmini della regione Emilia Romagna, a seguito di un tavolo di contrattazione sulle nostre istanze di lotta, ha garantito pubblicamente l’indisponibilità a recepire l’articolo 5 all’interno del piano casa regionale”.

Ciò che accade è che anche dove, a livello locale, si tenta una mediazione istituzionale rispetto alle contraddizioni aperte dalla legge nazionale, è il potere centrale a intervenire in senso oltranzista, sbandierando un ridicolo vessillo di “legalità” e affidando il ripristino dell'”ordine” alla magistratura e alla polizia. Non è facile evitare di vedere in un simile modo di procedere, oggi particolarmente evidente nel caso bolognese, una strategia da intendere come prassi del governo Renzi: ridurre gli organi del potere periferico a puri fantocci, dominati nei fatti da magistrati, prefetti e poliziotti scelti con cura tra i fedelissimi del Partito della Nazione e quindi piazzati nei posti ritenuti “giusti” dal nuovo Duce fiorentino.

Alla luce di simili considerazione, i valori dell’antifascismo trovano una compiuta necessità di dispiegarsi in forma diretta contro il Partito Democratico e le sue articolazioni. Mentre alle donne e agli uomini del PD ancora ciechi e sordi di fronte agli abusi compiuti da Renzi e dai suoi sgherri, ciechi e sordi di fronte al livello di violenza antipopolare di cui questo governo è colpevole; agli uomini e alle donne ancora organizzate all’interno di un Partito Democratico responsabile di scadere nell’abominio, insieme all’onta di essere detti senza mezzi termini fascisti e trattati come tali, non può che essere rivolto in forma di maledizione quanto scritto da Antonio Gramsci già nel 1917: “Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva (…). Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. (…) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

Venghino signori, venghino…

Grecia, che affare

Un applauso a “Panorama” perché, spezzando la tradizionale ipocrisia della stampa italiana, ha finalmente detto come davvero stanno le cose, e già questo è un evento: quando è stata l’ultima volta che un magazine berlusconiano ha detto la verità?

“Panorama”, invece, ha finalmente detto la verità. E la verità è questa: quando si parla di “crisi”, la fame non cade dal cielo, ma è connaturata a un sistema che consentirà a pochi ricchi di consolidare il loro capitale alle spalle di tutti gli altri.

Dunque venghino, signori, venghino. C’è la crisi, la Grecia è in bancarotta, la vita umana lì non costa più un cazzo, due spicci e vi diamo qualunque cosa.

Venghino signori, venghino: c’è la crisi. Le isole dell’Egeo ve le portate a casa al prezzo di un Box a Sesto San Giovanni, le statue del Partenone (quelle che ci sono rimaste) costano la metà di una borsetta di Prada, gli oliveti li sbrachiamo così ci fate i campi da golf e la carne umana (visto la ragazza messa in copertina sotto l’ombrellone? non mangia da dieci giorni, per un euro fa qualunque cosa), quella, la battiamo un centesimo al chilo.

Tanto ne abbiamo un sacco: dieci milioni di pezzi in Grecia e, a seguire, quaranta in Spagna e sessanta in Italia.

Venghino signori, venghino…

(Sullo sfondo si sentono risate uguali a quelle degli imprenditori a cui sono andati gli appalti dopo il terremoto dell’Aquila. Ve le ricordate?)

Dove comincia la Grecia? Dire NO significa organizzare la RESISTENZA o non significa nulla

Stiamo con la Grecia che dice NO.

Ma cosa succede davvero quando si dice NO?

Si è detto e si continua a dire NO in Val di Susa, per opporsi alla devastazione dell’Alta Velocità. E il risultato è stata la costruzione di un movimento di massa protagonista di una moltitudine di assalti ai cantieri della speculazione, episodi contraddistinti da generosità e coraggio, ma anche severamente puniti dall’apparato repressivo, attraverso leggi speciali e condanne esemplari. Per non parlare della violenza brutale della polizia.

Anche agli sfratti e agli sgomberi si dice NO. E si dice NO da tanto tempo, tutte le mattine, all’alba, formando picchetti che si oppongono all’abominio di famiglie con bambini piccoli buttati in mezzo alla strada a calci in culo dalla polizia. C’è un intero movimento che, in tutta Italia, si organizza per affermare concretamente il diritto all’abitare e per riprendersi ciò che affaristi senza scrupoli rubano in tutti i modi possibili e immaginabili. Anche, tra l’altro, concedendo alla polizia la licenza di manganellare senza pietà e di esplodere lacrimogeni ad alzo zero. I giudici vengono dopo le botte, ma non sono meno generosi dei poliziotti quando si tratta di dispensare misure restrittive e anni di galera.

Ancora, si è sempre detto NO allo sfruttamento sul lavoro, ed esiste la ferma intenzione di continuare a farlo. Insieme ai lavoratori della logistica, per esempio. Buttandosi sotto le ruote dei TIR quando si tratta di scioperare e ottenere il blocco delle merci. Resistendo ora e sempre alle feroci cariche della polizia…

Ecco: RESISTERE. Questa parola viene pronunciata raramente, eppure è di RESISTENZA che stiamo parlando quando si afferma la necessità di dire NO. Un NO senza RESISTENZA, infatti, non è una presa di posizione. Può essere un vezzo intellettuale, un modo per tenere buona la propria coscienza, un’opportunità per essere alla moda rispetto a idee di volta in volta assorbite dalla marea del politicamente corretto. Può essere tante cose un NO senza RESISTENZA. Perfino qualcosa di utile rispetto alla residua possibilità che ha l’opinione pubblica di influenzare scelte che vengono prese altrove… ma conta ancora qualcosa l’opinione pubblica?

Prendiamo una battaglia “democratica” come il referendum per l’acqua pubblica. La vittoria, teoricamente, ha arriso al NO alla privatizzazione, ma sono forse cambiate le cose? Oppure quel NO, spogliato dalla concretezza di una RESISTENZA, è stato bellamente ignorato da un processo di svendita dei beni pubblici che continua senza alcuna remora a violentare la volontà popolare?

E non è esattamente questo processo di svendita preteso dalle autorità economiche europee ciò che si sta mangiando la Grecia sempre più velocemente e che anche alle nostre latitudini non lascia alcuno spazio all’ottimismo?

La stessa situazione in cui è scivolato il governo Tsipras dopo aver acceso le speranze di molti, non sta dimostrando con la catastrofe economica scatenata dalle banche in Grecia come una reale alternativa vada organizzata prima di tutto sul piano materiale? Che non è una riforma o un accordo con i lupi della Troika ciò che risparmierà a interi popoli di sprofondare in quella barbarie così familiare alle bramosie del capitalismo?

Ma in ogni caso, se foste voi, qui o altrove, quei territori violentati dalle grandi opere inutili, dalle discariche e dalle trivellazioni; se foste voi quelle famiglie sfrattate o quei lavoratori ridotti alla fame, vi affidereste all’opinione pubblica? Sperereste in una riforma? Dareste importanza a qualche concessione padronale? E se oggi, in Grecia, fosse vostra la famiglia ridotta al prelievo massimo di 60 euro (i più fortunati!), quale credito sareste disposti a dare a un NO pronunciato altrove, con tanta indignazione, magari, eppure incapace di mettere in gioco alcunché?

La verità è che non è semplice sapere dove effettivamente inizi la Grecia. La Grecia è una metafora. E in molte case basterà alzare gli occhi verso lo scaffale dei libri e allungare una mano verso Omero o Platone per sprofondare in una cultura che è già nostra. Fuori da ogni metafora, però, la Grecia è ancora più vicina. Piange le lacrime dei bambini sfrattati ogni giorno e dei figli di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, vive le tensioni dei territori deturpati dalle grandi opere inutili e dannose o di un sistema-scuola ridotto al lumicino, manifesta lo scandalo del commercio di carne umana con i migranti accampati sugli scogli di Ventimiglia o, con i lavoratori della logistica, lotta senza tregua per rendere accettabile la propria condizione.

Non serve aspettare l’esito del referendum per schierarsi con la Grecia. Per strada, nelle piazze, le decisioni sono già state prese. La parola NO le riassume tutte.

Ma come sempre è stato sarà la RESISTENZA ad affermarle davvero mentre è nella RIAPPROPRIAZIONE che si nasconde il segreto di un’esistenza finalmente liberata dal ricatto della fame.

Tutto il resto sono chiacchiere che lasciano il tempo che trovano nel momento in cui, a servire davvero, sono parole finalmente degne di essere chiamate pietre.

Il carabiniere di Desenzano sul Garda: street art is not dead

Il carabiniere di Desenzano sul Garda

Quando tutto sembrava perduto. Mentre il segno dirompente della street art appariva sul punto di soccombere di fronte al duplice attacco scatenato sui ribelli dell’arte dall’apparato repressivo e dalle logiche dei benpensanti, da Desenzano sul Garda i teppisti dimostrano di avere ancora molte frecce nel loro arco e, con il favore delle tenebre, realizzano questo capolavoro, ficcando la colonnina dell’autovelox sopra la testa di un milite di bronzo, posato tra le strade della cittadina lombarda dallo zelo dell’Associazione Nazionale Carabinieri.

Gli storici dell’arte e i critici più attenti ammirano basiti il lavoro degli ignoti artisti. C’è chi sottolinea, soffermandosi sulla cappa di metallo calata sul volto bronzeo del militare, l’efficacia della rappresentazione dell’eterna lotta tra la “legalità” istituzionale e la “giustizia” popolare. Altri si spingono ancora oltre e affermano, analizzando l’opera, di come attraverso l’istallazione si sia voluto condensare un “non vedo – non sento – non parlo” a cui, come le celebri tre scimmiette con le mani sulla bocca, gli occhi e le orecchie, le forze dell’ordine si sarebbero votate, evitando di prendere qualunque posizione diversa da una presunta necessità di obbedire agli ordini a prescindere da ogni logica di umanità o buon senso.

Tutti, in ogni caso, sono concordi nell’affermare come da Desenzano sul Garda arrivi la necessità di affermare il senso autentico dell’arte di strada: quello di spezzare il monopolio dei significati detenuto dalle classi dominanti per imprimere sui muri e sugli arredi urbani un senso alternativo che, instancabilmente, ricorda come un altro mondo sia non solo possibile ma necessario.

Mafia Capitale: il film che non piacerà al Partito della Nazione

Guardo pochissima televisione. E non sono di tipo ideologico le questioni che mi tengono lontano dal piccolo schermo. Ma il fatto è che, con il suo corollario di situazione comoda e luce soffusa, per me la televisione significa prima di tutto sonno, a prescindere dall’interesse che possa nutrire per un determinato film o programma.

Al contrario, di natura squisitamente ideologica è l’avversione radicale che nutro nei confronti della televisione a pagamento. Non solo, infatti, Sky non mi ha mai avuto né mi avrà mai, ma non sono neppure poche le polemiche da pianerottolo in cui, con i miei vicini paytvdotati, ho sostenuto la tesi luddista secondo la quale l’unica televisione a pagamento buona è quella eventualmente ottenibile con una scheda criptata o altri mezzi pirata. Prima di tutto perché, veicolandosi attraverso l’etere o dipanandosi grazie a cavi ospitati dal sottosuolo, qualunque segnale televisivo utilizza per esistere l’aria e la terra, beni che in nessun caso mi sono mai immaginato di privatizzare; e in secondo luogo perché reputo la televisione a pagamento responsabile di quella grande confusione in cui è precipitato il «mondo di sotto» al quale appartengo, capace persino di scegliere di pagare il proprio intrattenimento a prezzo di rinunce fatte scontare ad alcune tra le tante cose, decisamente più belle, messe a disposizione dalla vita. Ogni volta che un abbonamento Sky viene sottoscritto, c’è un viaggio che muore; una giornata al mare da regalare alla propria famiglia in meno; una cena romantica perduta; una colossale sbornia in giro per locali con gli amici a cui si rinuncia a partecipare; libri, dischi e ogni altra sorta di occasioni ludiche e formative sottratte a se stessi per prendere parte in modo isolato a ciò che viene venduto come un’irrinunciabile esperienza collettiva, che si tratti di una finale di champions legue o di un kolossal trasmesso in prima visione.

Per questa ragione, qualche sera fa, trovatomi a casa solo e pensieroso e volendo sfogare questa solitudine e questi pensieri, mi sono seduto sul divano e ho acceso la televisione, sintonizzandomi sul canale pubblico chiamato «Rai Movie». In modo pressoché immediato, complice l’ora tarda, gli occhi hanno cominciato a chiudersi da soli, precipitandomi in uno stadio in cui facevo qualche difficoltà a capire se stavo dormendo, e quindi sognando, o se era il film in programmazione a mostrarmi ciò che comunque, a un certo punto, vedevo.

Occorre precisare che mi trovavo tipo in quarta serata, e che quindi il palinsesto del mio canale Rai stava raschiando il barile del suo magazzino-titoli offrendo un qualche B, C o D-Movie di cui non ricordo il titolo ma soltanto qualche pezzo di trama, simile, credo (non sono mai stato un cinefilo, ed è già tanto che non scriva «cinofilo»…), a decine di altri film simili. Un film dove, a un certo punto, una qualche accusa terribile viene lanciata da un gruppetto di cospiratori malvagi contro un innocente; con l’innocente che, smessi i panni del buon padre di famiglia e/o del marito affettuoso, lavoratore serio ed esemplare, si trasforma in una sorta di macchina da guerra per smentire le bugie di cui è vittima. Sottraendosi alla cattura da parte della polizia, allora, l’eroe in questione si munisce di armi da fuoco che inizia a usare senza risparmio, sgominando decine di cattivi o presunti tali. Alla stessa maniera, ingaggiando inseguimenti a rotta di collo con i tutori dell’ordine, provoca incidenti terrificanti, con TIR che sbracano negozi e automobili che volano tra i ponti. Dopo essere passato anche per gli esplosivi e le bombe a mano per trovare gli argomenti utili a dimostrare la propria innocenza, questo eroe riesce effettivamente nell’intento: non è colpevole di nulla, ma sono stati i cattivi, magari pure con qualche talpa nella polizia, a fabbricare le prove per incastrarlo; ora che tutto è chiaro non gli resta che ricevere calorose pacche sulla spalla insieme alle scuse ufficiali. I morti, i feriti, le devastazioni che ha provocato non contano più nulla: era suo diritto difendersi; raggiunto lo scopo, può tornare alla sua casa, dove c’è una moglie bellissima che lo aspetta, e sprofondare nuovamente nelle sue abitudini quotidiane.

Nemmeno il tempo di assaporare il finale di questo anonimo film, che, grazie al ponte d’oro costruito per me dal sonno, a scorrere sullo schermo sono le notizie del telegiornale. Si parla di Buzzi, di Carminati, di Mafia Capitale…

L’annunciatrice, con fare compunto, snocciola i dati forniti dalla magistratura: tot arresti, tot avvisi di garanzia, tot dimissioni di uomini politici delle più disparate appartenenze di partito eccetera eccetera. Di fronte a un’assenza, però, mi pare di tornare lucido e, all’improvviso, di non avere più sonno, ma, al limite, sempre e comunque voglia di sognare.

L’assenza, in questo come tutti gli altri spacci di notizie riguardo a Mafia Capitale, riguarda la domanda più importante, vale a dire: da dove, tutto questo, è cominciato?

Ebbene, il terreno di questa nuova generazione affaristico-criminale è quello, drammatico (non certo per loro), dell’emergenza abitativa, nella sua doppia veste di fenomeno di impoverimento generalizzato, con conseguenza perdita della casa e/o del reddito necessario a mantenersi un tetto sopra la testa, e di business dell’accoglienza, con particolare riferimento ai migranti e, in modo particolare, ai richiedenti asilo e a coloro che hanno acquisito lo status di rifugiato politico.

Si tratta, come è ovvio, di due facce dell’identica medaglia: la morte, avvenuta in Italia, di qualunque politica dedicata all’edilizia residenziale pubblica, con il conseguente azzeramento nella disponibilità di case popolari, a cui peraltro i rifugiati avrebbero pieno diritto (lo afferma, parlando di legalità, la Convenzione di Ginevra, sottoscritta dall’Italia nel 1951).

A parlare sono i numeri. In una città come Roma, l’incidenza dell’edilizia popolare sul patrimonio immobiliare è ferma oggi al 3%, ben quattro punti percentuali in meno rispetto a quanto toccato una trentina di anni fa, ma comunque ben lontano dalla media europea, che assegna alle case popolari valori intorno al 12%. Parliamo, in questo caso, di metropoli come Londra o Berlino, cioè di templi del capitalismo avanzato e non certo di paradisi del socialismo reale. Infatti è proprio in questa macroscopica differenza che si consuma la natura mafiosa del regime italiano. L’attacco alle case popolari, non a caso, è funzionale sia a drogare il mercato immobiliare a vantaggio di una cricca di palazzinari e di operatori del business finanziario della cartolarizzazione (la pratica di trasformare in cedole dal valore arbitrario quote di proprietà immobiliari: do you remember la crisi dei mutui subprime?) e, contemporaneamente, di un sottobosco travestito da cooperazione sociale (Buzzi&Co. sono solo la punta dell’iceberg) e pure verniciato di sinistra (o di solidarismo cattolico), interessato a rendere sistemica l’emergenza per continuare a fare affari affittando al comune per qualcosa come 2000 euro al mese ognuno i loculi in cui vengono intubate le famiglie ridotte a vivere in strada dopo aver perso lavoro e casa con la crisi.

a.timthumbIl sogno, di fronte a una simile situazione, è quella di una massa brutta, sporca e cattiva, in grado di coagularsi per scagliarsi compatta contro i suoi affamatori armata di un simbolo nuovo e antico allo stesso tempo: un bel palo appuntito; uno di quei semplici attrezzi utilizzati per somministrare il connesso supplizio dell’impalatura; ultimo mezzo di dissuasione per la congrega di politici corrotti e per tutti i corpi intermedi che hanno edificato il peculiare sistema di sfruttamento italiano, mafioso perché incapace di tenere conto persino di quel minimo di welfare altrove somministrato per tenere basso il conflitto sociale…

Sempre sul divano, ormai in stato di trance per colpa della micidiale accoppiata sonno-telegiornale, non mi restava che assaporare un’altra notizia. Pare, infatti, che a Roma bisognerà starsene belli tranquilli, visto che papa Francesco I avrebbe deciso di proclamare il Giubileo…

L’idea è fantastica. Tant’è che già si parla di approfittarne per imporre il divieto di scioperare e di manifestare per non disturbare i necessari lavori, e poco importa se questi lavori toglieranno ulteriori risorse a ciò che spetterebbe all’emergenza abitativa: il modello Expo lo ha già insegnato, l’importante è accaparrarsi un posto da volontario – rigorosamente non pagato – con cui fregiare il proprio curriculum, per tutto il resto (nuove speculazioni immobiliari, colate di cemento ovunque e azzeramento di vigilanza grazie a qualche commissario a cui conferire poteri speciali) c’è Mafia Capitale; a cui sarebbe davvero più corretto togliere ogni connotazione etnica per iniziare a parlare compiutamente di Mafia Nazionale, e non certo per riferirsi alle organizzazioni vecchio stile di picciotti siciliani o calabresi, ma al Partito della Nazione, dove un simile sistema ha trovato la sua degna consacrazione… a che cosa è servito, altrimenti, il decreto con cui il fu ministro Lupi ha stabilito di privare della residenza chi vive in stabili occupati e di vendere le case popolari?

Inutile specificare, rimpallando tra il film su Rai Movie e uno a piacere tra i telegiornali di regime, che a differenza di quanto accaduto al povero eroe ingiustamente calunniato, coloro che in questi anni hanno attaccato concretamente il sistema mafioso e il business dell’accoglienza, vale a dire i militanti dei Movimenti per il Diritto all’Abitare, non si sono mai visti rimettere tutti i reati di cui sono stati accusati: dalla resistenza aggravata all’invasione di edificio, ogni denuncia è restata al suo posto, e giorno dopo giorno dispensa misure restrittive e anni di galera. È proprio qui, però, che l’idea di papa Francesco potrebbe rivelarsi davvero geniale, almeno per quella massa brutta, sporca e cattiva comparsa a un certo punto del sogno o della visione con tanto di palo appuntito in testa. L’idea di lanciare un grande, autentico Giubileo popolare. Come è stato scritto:

Secondo l’Antico Testamento il Giubileo portava con sé la liberazione generale da una condizione di miseria, sofferenza ed emarginazione. Così la legge stabiliva che nell’anno giubilare non si lavorasse nei campi, che tutte le case acquistate dopo l’ultimo Giubileo tornassero senza indennizzo al primo proprietario e che gli schiavi fossero liberati.

Adattando ai giorni nostri una simile prospettiva, il programma del prossimo Giubileo dovrebbe contemplare:

  • L’azzeramento di tutti i debiti nei confronti di Equitalia;
  • La regolarizzazione a tempo indeterminato di tutti i contratti atipici insieme a quella di tutti i lavoratori precari;
  • La nazionalizzazione di tutte le imprese che, in regime privatistico, erogano servizi utili alla collettività;
  • L’amnistia generalizzata a favore dei prigionieri dello stato italiano attualmente in carcere;
  • E, naturalmente:

La requisizione immediata di tutto il patrimonio immobiliare sfitto, direttamente proporzionale ai numeri dell’emergenza abitativa nonché sola misura in grado di fare fronte allo stato di crisi e di debellare Mafia Capitale o Nazionale che dir si voglia.

In alternativa, l’unica soluzione per combattere concretamente i mafiosi saldamente in sella è, come sempre, quella di occupare tutto. Espropriare gli espropriatori per tornare a disegnare una prospettiva di classe che è anche una prospettiva di salvezza rispetto alla barbarie che ci attende dietro l’angolo di un capitale boccheggiante e per questo feroce nella sua pretesa ristrutturazione. Occupare tutto, dunque. Per togliere di mezzo il mondo di sopra. E perché non si sta parlando di un film, ma della vita reale. L’unico ambito in cui, collettivamente, è decisivo tornare a ritagliarsi un ruolo da protagonisti.

Milano pulisce ancora

Tanti discorsi sulla libertà di espressione e il diritto alla critica sono improvvisamente svaniti nel nulla. “Colpevole” della grande amnesia collettiva seguita al delirio securitario andato in scena a Milano dopo il primo maggio, un po’ di sana street art e un pugno di artisti concordi nel definire Expo per quello che è: una truffa in grande stile, rappresentabile attraverso le centinaia di sfumature di cazzo prescelte dagli autori chiamati a raccolta da Guerrilla Spam & Hogre per demistificare la retorica renziana del grande evento.

I politici che credevano di potersela cavare con due spicci per parlare di riqualificazione urbana, scoprono l’acqua calda. E cioè che l’arte non è nata per arredare la tavola dei potenti. E che la street art appartiene ai vandali: gli eternamente infamati, spesso arrestati, a volte oggetto di colpi di pistola esplosi dalle guardie contro di loro… sono sui muri alla stessa maniera in cui i “teppisti” sono per le strade. Anche la circostanza è la stessa: parliamo sempre del primo maggio; e il comune di Milano, mentre patrocinava la rimozione delle scritte “Carlo Vive”, comparse dopo il passaggio della manifestazione, provvedeva anche a “ripulire” la città dalle opere su cui troneggiava forte e chiaro il motto “No Expo”.

Se mai ce ne fosse stato bisogno, ecco dimostrata tutta la pretestuosità dei discorsi contro la “violenza” del corteo del primo maggio. E così come non esistono manifestanti buoni e manifestanti cattivi, non è neppure vero che esiste un modo “civile” di esprimere il proprio dissenso. Tutto ciò che colpisce nel segno, infatti, viene ridotto al silenzio e censurato.

D’altronde, se non viene diffamata e oscurata, che protesta è?

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Milano: una parte della street art No Expo rimossa dal Comune

Il diritto di critica secondo Matteo Renzi

Chi dice che ogni protesta è legittima purché “si esprima civilmente” intende dire che per conservare i propri privilegi è disposto a tutto, anche a spaccare la testa a manganellate a una ragazzina.

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Bologna, 3 maggio 2015: dopo le polemiche sulle “violenze” nel corso della manifestazione No Expo di Milano, la polizia carica violentemente un gruppo di manifestanti, decisi, in occasione della visita di Matteo Renzi, ad esprimere tutto il proprio dissenso contro la guerra ai poveri promossa dal governo del Partito Democratico e, in modo particolare, contro la terrificante riforma chiamata “Buona Scuola” dagli esperti del marketing assoldati dal PD.

Lotta di classe e prospettive di salvezza: perché tanto odio? Perché abbiamo smesso di dire vogliamo tutto!

Ogni giorno masse di uomini e di donne aprono gli occhi e si scoprono a disagio con se stessi e con il mondo. Stanno male, ma non sanno dire bene il perché. Nel profondo del loro disagio, in realtà, si agita perenne lo spettro delle preoccupazioni economiche, l’ansia di non essere in grado di garantirsi un futuro degno di questo nome o quella, ancora peggiore, di non poter contribuire alla felicità dei propri figli o delle persone che amano; l’ansia, concreta, di non riuscire a pagare l’apparecchio per i denti al proprio bambino, di acquistargli gli occhiali di cui ha bisogno, di versare la quota per la gita scolastica o di saldare il tecnico che deve aggiustare la caldaia, quando il problema non è direttamente con il padrone di casa a cui si devono le minacce di sfratto. Una simile situazione, con il suo vissuto collettivo e la sua stratificazione generazionale, basta e avanza per rispondere alla domanda “perché tanto odio?” che possiamo farci osservando il crudele nervosismo da cui siamo assediati. Un “perché tanto odio?” di fronte al quale è facile restare attoniti se si ascolta la facilità con cui, tanto i politici quanto le persone della strada, augurano ai migranti di morire in mare o ai rom di essere bruciati vivi insieme ai loro figli. Che poi, a ben vedere, si tratta degli stessi politici e delle stesse persone della strada secondo cui gli omosessuali, ammessa e non concessa la libertà di coltivare nel privato la propria “perversione”, non dovrebbero avere alcun diritto di esporsi sulla scena pubblica e nemmeno il diritto di camminare mano nella mano o baciarsi, pena il legittimo risentimento di chi li osserva, e che se li aggredisce sono loro “che se la sono andata a cercare”. All’interno di questa linea di pensiero, tutt’altro che isolata, le stesse donne restano, se stuprate o uccise, quelle “che se la sono andata a cercare”… essendo “tutte puttane” a meno che non si parli delle proprie madri, sorelle o mogli, vale a dire a meno che tutte le donne non accettino di vivere all’interno di ruoli patriarcali nemici della propria voglia di esprimersi nei mille modi che ognuna può fare propri rispetto alle mille possibilità conosciute e a tutte quelle ancora da scoprire, cominciando, magari, proprio da quella possibilità che porta a denunciare la stessa “puttanofobia” come uno dei mali sociali da cui siamo irrimediabilmente afflitti. La domanda, in ogni caso, resta la stessa: “perché tanto odio?”. E la domanda si fa tanto più atroce quanto più ci si rende conto che la risposta, rispetto a quella massa di uomini e donne che tutte le mattine aprono gli occhi solo per scoprirsi in perenne disagio con se stessi e con il mondo, esiste da sempre. Tanto è chiara questa risposta, infatti, che i numerosi veli religiosi imposti a originarie rivendicazioni di carattere sociale e alle prospettive di libertà dei popoli oppressi, oggi – grazie all’insaziabile sete di capri espiatori da cui siamo animati – fa gridare all’estremismo islamico e lo addita come nemico pubblico numero uno, fa tranquillamente accettare persino la prospettiva di una guerra mondiale pur di non provare ad affrontare una semplice verità; pur di non provare ad articolare questa risposta primordiale. E questa risposta, censurata dalle sovrastrutture che accecano la coscienza di tutti, ha a che fare esattamente con quella tranquillità rispetto alla quale dovrebbe essere possibile affrontare il presente e il futuro e passa per una società dove la casa, la salute e la scuola siano la cornice di un percorso costruito in comune e garantito, insieme al diritto inviolabile al reddito e alla dignità, quando, al contrario, ci si ritrova in una situazione in cui è la stessa sopravvivenza – letteralmente – a essere messa in discussione. La risposta al disagio sociale ed esistenziale, al disagio che è esistenziale proprio perché è sociale, e che è sociale in quanto affonda le sue radici nell’economia differenziale in cui viviamo; questa risposta esiste da sempre e si chiama lotta di classe: vale a dire capacità di affidare alle proprie difficoltà responsabilità chiare, responsabilità figlie di quella divisione tra ricchi e poveri alla quale si è accettato di delegare l’accesso ai diritti più elementari e che, ogni giorno, condanna alla paura della morte fisica e sociale le stesse masse di cui stiamo parlando. Con la lotta di classe, quando la mattina si aprono gli occhi, non si ha voglia di affogare migranti, cacciare islamici o bruciare rom. Né, all’affannosa ricerca di un capro espiatorio, si viene rosi dalla necessità di sentirsi superiori agli omosessuali se eteresessuali, alle donne se si è uomini o ai neri se si è bianchi. Con la lotta di classe si stabilisce una volta per sempre che gli uomini e le donne sono nati uguali di fronte alla felicità di cui è intessuto il mondo, e ci si muove con l’obbiettivo di riconquistarla in tutte le sue forme e attraverso tutte le opportunità – molte ancora sconosciute – che sono capaci di offrirci le nostre menti e i nostri corpi. La lotta di classe è la strada del nuovo umanesimo in quanto uccide il capro espiatorio che ognuno sente la necessità di vedere nell’altro e perché indirizza l’odio direttamente alla fonte del male: verso il sistema padronale, fonte di abominio e di disagio generalizzato. Ognuno può scoprire autonomamente chi è che ha l’interesse di spostare questo odio dalla lotta di classe alle tante sfumature di presunta “diversità” di volta in volta additate come nemiche del popolo. E anche chiedersi come mai, dal razzismo all’uguaglianza di genere, persino quei diritti cosiddetti “a costo zero”, dal matrimonio gay allo ius soli, restano – in una società divisa in classi – tanto combattuti e tanto osteggiati da risultare negati a tutti gli effetti. La morale della favola? Difficile trovare mezze misure. Combattere il razzismo o la disuguaglianza di genere è l’obiettivo di qualunque vita degna. Ma per farlo davvero, alla domanda “cosa vogliamo?” bisogna inevitabilmente tornare a rispondere: “tutto!”.

Chi si è permesso di devastare Roma?

I tifosi del Feyenoord in trasferta a Roma fanno un po’ di casino in centro e Marino si incazza come un picchio. Il sindaco di Roma protesta con il Prefetto, il ministro degli Interni, quello degli Esteri e pure con l’ambasciatore dell’Olanda. Quante volte lo deve ripetere che non è che uno può venire a Roma e fare come gli pare? Per saccheggiare la città c’è una regolare lista d’attesa affollata di palazzinari, intrallazzatori, tangentisti, mafiosi e ladri di prima qualità. I tifosi olandesi non hanno nemmeno qualche palazzo in centro affittato a pochi euro al mese con gli impicci, come si permettono di parlare? Non possono competere neppure con la fondazione di Marino o con SEL, dove si presentano? A Campo dei Fiori hanno alzato la testa, è vero. Ma provassero a venire a prendersi la loro fetta di business tra i lupi delle cooperative che si spartiscono la torta dei soldi pubblici destinati ai residence o ai centri di accoglienza e poi vediamo se fanno ancora tanto i gaggi o se non si ritrovano tutti incaprettati in un attimo dentro a qualche sfascio fuori dal raccordo. E poi parliamoci chiaro, con tanti professionisti affermati a livello internazionale che derubano la Capitale e sventrano il suo territorio a tempo pieno, non è che un affare serio come il saccheggio può essere lasciato a un branco di dilettanti per cui lo stupro paesaggistico è solo un passatempo. E che cazzo.