Brexit o non Brexit, si può ed è giusto discutere se e come – riassumendo con approssimazione i termini del dibattito in corso – l’esito del referendum britannico sia in grado di aprire spazi di opportunità utili all’avanzamento della causa della sovranità popolare o se non sia, piuttosto, un puro e semplice trionfo del lato oscuro della forza, incarnato dalle pulsioni xenofobe e parafasciste in ascesa in tutta Europa. Allo stesso modo è sacrosanto mettere all’indice il disprezzo per i poveri e i pregiudizi di classe che, senza vergogna alcuna, sono stati ostentati da intellettuali come Michele Serra e Roberto Saviano, immediatamente pronti a scagliarsi contro gli anziani, gli operai e gli abitanti delle zone periferiche, rei di aver condotto la terra d’Albione alla vittoria del leave. Intanto quello che ora accadrà in Gran Bretagna è che in ogni caso le élite economiche coadiuvate dall’ampio fronte della disinformazione borghese faranno esattamente quello che gli pare e gli piace (e quindi, a quanto pare, resteranno nella UE strappando qualche ulteriore vantaggio a loro favore), con l’ausilio e/o l’inazione e/o il massimalismo parolaio ma inconcludente e quindi complice dei laburisti e/o dei conservatori e/o dei movimenti più o meno qualunquisti o populisti o cittadinisti che dir si voglia – tutti uniti, fino a oggi, da una concezione politica basata sulle chiacchiere e, attraverso il ricorso alla delega, sulla strumentalizzazione di un’entità astratta detta “opinione pubblica”; tutti ugualmente incapaci, alla faccia della “partecipazione” di animare la messa in gioco – e quindi il ricorso alla piazza – di una qualunque base materiale collegata alle proprie posizioni. Esattamente come in Italia, quando vinse il NO alla privatizzazione dell’acqua e invece l’acqua è stata privatizzata. Ed esattamente come in Grecia, quando vinse il NO ai diktat della troika e invece questi diktat il paese ellenico li ha rispettati lo stesso, con gli interessi. Nell’uno e nell’altro caso, a continuare le proteste, anche nel nome di una democrazia reale, conquistata dal basso, è stata solo e unicamente l’unica sinistra degna di questo nome: quella di classe e, allo stato delle cose, autorganizzata. Per inciso, dalle nostre parti una buona metà della popolazione, se non di più, non va a votare. Strano, vero?
Categoria: In basso a sinistra
Piazza Verdi liberata
Mi succede / quando parto / per un posto, / pijo er treno / e finalmente / trovo er tempo / pe’ scrive / sulla carta / coll’inchiostro / quello che sento / che poi / è quello che penso.
Oggi / in direzione / di Bologna, / le parole / facevano / fatica / perché / se voi parlà / de Piazza Verdi / è il rispetto / che te fa / corre in salita.
Qui / quanta gloria c’è passata, / se parla de lotta / e quindi / de persone / che se so’ messe in gioco / pe’ trova’ / ‘na soluzione, / se no, / questo è poco / ma è sicuro / mo’ nun ce stavamo qui / a passà così le ore.
Adesso c’è chi ascolta / e c’è chi parla, / c’è chi beve / chi se bacia / e pure chi se fa’ ‘na canna, / ma pe’ fa’ cresce / tutta ‘sta passione / quarcuno qui / ha dovuto fa’ ‘na guerra cor padrone.
Me pare ieri / e invece guarda ‘n po’ / so quarant’anni, / er calendario / dice che stavamo ner ’77, / i fascisti s’affacciavano dalle fogne, / ma com’erano usciti / nelle fogne se sbrigarono
a tornacce.
Chiedetelo alle pietre de ‘sta piazza, / chiedetelo alle pietre, / addosso a ogni vetrina / spaccata / pe’ difenne ‘n partigiano / fucilato alle spalle / ‘na mattina.
Bandiere rosse / piansero quel lutto, / ma ora arzate l’occhi / e lo vedrete scritto / che ‘sta piazza nun è de Verdi, / ‘sta piazza è de Lo Russo, / un compagno nostro / che no / non è mai morto.
Ce stava pure lui qui l’altro giorno, / quanno da ‘sti pizzi ce voleva passa’ ‘n vigliacco, / er nome suo / scusate / non lo faccio / ‘ntanto lo sapete che se chiamo come er presidente der consiglio, / e je possa pijà ‘n corpo a quello stronzo / che a tutti e due non li manna a quer paese arzando ‘er braccio.
Erano i giorni / de piazza Verdi Barricata, / contro i fascisti / i razzisti / e l’infamoni, / quelli che fanno i sordi / sulla pelle de nonantri, / e che rideno si ner mare se rovesceno i barconi.
Perché dicono che i migranti vengono qui / e ce rubbeno ‘er lavoro, / ma maledetto è chi lo dice e maledetto è chi ce crede, / da Piazza Verdi Barricata / ner monno intero / s’è sparsa n’antra voce.
Ve ricordate de Ponte Stalingrado? / Sta sempre qui a Bologna / e dice «onore», / per chi
ha caricato puro li blindati / a mani nude / ma co’ la forza / che sta dentro a ‘n ideale.
Se chiama casa / lavoro / e reddito pe’ tutte e tutti / l’unica opera de cui ce ‘sta gran voja, / ce lo sa er popolo / che l’è annato a spiegà alle guardie / che a Piazza Verdi / hanno preso più
de quarche sveja.
Dentro all’università / ‘sta notizia / poco tempo fa è arrivata pure a ‘n professore, / uno che ‘nsegna – sì lo so, nun se sa come, / e che la guerra / secondo lui / a noi ce fa bene; / lo sai che c’è professo’? / Tu c’hai ragione / ma preparate a corre come ‘n matto, / perché l’unica guerra bona – te lo giuro / è quella che i poveri faranno contro l’oppressore.
Pijate / per esempio / gli occupanti, / quelli dell’Ex Telecom / giù alla Bolognina, / hanno passato ‘na giornata / – donne e omini / vecchi e ragazzini – / a combatte uniti ‘na battaglia / contro i giudici, / l’assessori, / i prefetti / e pure contro i cellerini.
La gente come noi non molla mai / è ‘na canzone / che canta l’occupante / e il facchino / che paura non ne ha / pure se in Emilia / lo tenevano a fa’ lo schiavo le cooperative der quattrino.
Un bel giorno / però / la musica è cambiata, / «Ah Poletti, mettitece te a caricà i TIR a tre euro all’ora!», / ce so’ i compagni e le compagne a fa’ er picchetto, / contro gli sfratti / oppure ‘ndo er lavoro nun è giusto, / ovunque finché nun arzamo er pugno / come alla Granarolo / quannè che avemo vinto.
Tutto questo / e mille cose ancora / deve raccontà / chi co’ l’occhi sua l’ha visto / dentro Social Log, al Crash, al Cua, al S.I. Cobas, al Cas / il desiderio che tanto grande ha fatto questo posto: / è la fame / e la sete di giustizia, / è quello che da sempre / s’è chiamato / «comunismo».
Per questo / voi / nun je credete / a chi sostiene che n’ammazza più la penna che la spada, / Piazza Verdi / ‘sta cosa qui / ce l’ha ‘nsegnata: / i geni nun cadranno mai dar cielo / se tutti insieme nun je damo ‘na spallata.
Perciò / scusateme se so’ venuto qui a parla’ romano, / ma che devo fa’? / Conosco solo questa lingua / e co’ lei lo dico a voce alta: / viva Bologna libera e meticcia!
La carota arancione e il mistero delle liste sbagliate
Potrebbe essere una mossa “intelligente”: piuttosto che rassegnarsi alla necessità di ritrovare nelle lotte reali un’identità di sinistra, “sbagliare” nel momento della consegna delle liste. Così quell’approssimativo cinque per cento degli odierni sondaggi può essere congelato e venduto a Giachetti, a cui un pugno di voti potrebbe costare non la vittoria, ma l’automatica esclusione persino dal ballottaggio. Allo stesso modo, alzare le braccia e scuotere la testa di fronte all’“errore materiale”, correndo poi a ripararsi sotto l’ombrello del renzismo, non è forse la strategia migliore per quel pezzo di ceto politico deciso a difendere con le unghie, con i denti, e magari pure con qualche “distrazione” di troppo, il proprio ruolo di stampella “sinistra” del Partito Democratico e relative poltrone?
«Non c’erano altre scelte», potrà dire in futuro chi intende far ingoiare la carota arancione ai resti – cioè: ai resti dei resti dei resti – di un elettorato recalcitrante a portare acqua al mulino di un PD che, evidentemente, continua a stringere il bastone dalla parte del manico, per abbassarlo spesso e volentieri sulle teste di chi contesta a qualunque titolo le gesta del ducetto di Rignano.
Che poi, insomma, per fortuna che esiste il complottismo. Altrimenti bisognerebbe ammettere che in giro c’è una manica di persone che sbandiera a destra e a manca la propria convinzione di possedere le ricette giuste per temperare il capitalismo (non c’è mai riuscito nessuno semplicemente perché è impossibile), ma che poi non sa nemmeno mettere un po’ di nomi e di cognomi in colonna.
«È il riformismo bellezza».
C’era una volta l’oppio dei popoli…
C’era una volta l’oppio dei popoli. Ma poi è arrivato il Capitale e se lo è fumato tutto per combattere la caduta tendenziale del saggio di profitto. Adesso ai popoli è rimasto il puzzone: due scudi al grammo. E se le guardie ti beccano ti fanno fare la fine di Stefano Cucchi.
Tutti o nessuno: oltre la “moratoria giubilare per gli spazi sociali”, fermiamo sfratti e sgomberi
Una moratoria giubilare per gli spazi sociali… è quanto emerge dalla partecipatissima assemblea indetta ieri, 27 gennaio, negli spazi di ESC sotto sgombero. Un’occasione, per il Movimento, di guardarsi negli occhi e ripartire sulla base di un’idea di sinistra semplice e chiara. Un’idea fondata sul principio secondo il quale dove ci sono i diritti non c’è il mercato: NO allo sgombero degli spazi sociali, dunque. E anche NO alla privatizzazione dei servizi pubblici e sociali. Ma, a proposito della sintesi assembleare e/o a come questa viene resa pubblica, dove è finito il NO agli sfratti? Dove si parla di NO agli sgomberi delle occupazioni abitative? Dove è finito lo sforzo per mettere in pratica un linguaggio capace di parlare per tutti e di tutti e non solo di sostenere rivendicazioni sacrosante ma parziali? Come si dimostra la solidarietà attiva nei confronti di chi, in questo momento, non ha neppure la possibilità di iscrivere suo figlio nel proprio nucleo familiare – per non parlare di cure mediche e diritto all’istruzione negati – grazie al piano casa di Renzi e Lupi, frutto della stessa ideologia che ora vuole mettere a valore gli spazi sociali procedendo con gli sgomberi? Come si inverte una simile tendenza e, a proposito di pratiche, come si sostiene la parola d’ordine “CON OGNI MEZZO NECESSARIO”, utilizzata nei manifesti affissi in questi giorni per descrive ciò che si è disposti a fare per la difesa degli spazi sociali, se non ci si mette in gioco quando a essere buttati per strada sono uomini, donne, vecchi e bambini? E, in modo particolare, come si può pensare di andare “oltre noi stessi”, un altro richiamo ripetuto più volte nel corso dell’assemblea, quando in quel “noi stessi” fatto di persone senza casa che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena non ci siamo mai?
La richiesta di una moratoria giubilare per gli spazi sociali a Roma è sacrosanta. Ma se non viene estesa agli sfratti e agli sgomberi nel loro complesso, a cominciare da quelli che si abbattono sulle occupazioni abitative, se non incarna cioè una prospettiva di salvezza davvero collettiva – o tutti o nessuno: non ci si può “salvare a pezzi”! – come quella che prevede un cambiamento radicale dell’esistente, non ha nessuna possibilità di rappresentare quell’opposizione alle politiche neoliberali che dice di voler essere. E, sganciata da una piattaforma popolare nel senso più esteso del termine, a dire la verità, non ha neppure alcuna possibilità di successo. A parlare nelle periferie resterà l’estrema destra spalleggiata dalle forze dell’ordine oltre che da un senso comune a cui è stata inculcata l’idea che la sinistra sia nella realtà roba da ricchi. Dopo di che sarà necessario difendere se stessi dall’avvento di un regime di stampo fascista, altro che dagli sgomberi degli spazi sociali.
PS: nella “giornata della memoria” si rende noto che il 28 gennaio, alle 5 del mattino, si procederà allo sgombero dello stabile di via Prenestina 1391, di proprietà dei padri Monfortani e tenuto vuoto da più di dieci anni. Con il manganello dello sgombero sulla testa, inutile precisarlo, non c’è alcun diritto sociale per nessuno. E citando Primo Levi, dato il valore simbolico della data, non c’è neppure Dio. Altro che “giubileo”.
Piero Bruno: passione e morte di uno studente comunista
22 novembre, giornata storta. Il cielo grigio promette la pioggia e il vento se la prende con chi passa per le strade di Roma, quasi urlando che è meglio per tutti restare a casa. Ci sono giorni, però, in cui la libertà non accetta di restare casa. Non lo accetta l’8 giugno del 1960, tra Catete e Bengo, quando alla notizia dell’arresto di António Agostinho Neto una folla di sostenitori del Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola (MPLA) si mette in marcia reclamando il rilascio del loro leader. E non lo accetta nemmeno in Italia, il 22 novembre del 1975, mentre un corteo di duemila persone affronta il freddo intenso per chiedere a gran voce il riconoscimento dell’indipendenza della nazione africana, uscita vincitrice dal confronto con il regime coloniale portoghese.
L’8 giugno del 1960 l’esercito di occupazione del dittatore lusitano António de Oliveira Salazar aveva aperto il fuoco sulla folla ammazzando trenta persone. A Roma, quindici anni dopo, dalla testa del corteo che si snoda tra piazza Santa Maria Maggiore e piazza Navona si sgancia un gruppetto di giovanissimi militanti di Lotta Continua. I duemila che hanno preso parte alla manifestazione continuano a gridare slogan contro l’imperialismo e a salutare, nell’Angola di Neto, un altro paese in cui il marxismo ha consentito di portare al potere un rappresentante del proletariato. Le parole d’ordine della manifestazione sono musica per le orecchie dei ragazzi che imboccano via Muratori: lì, all’incrocio con largo Mecenate, c’è il cancello dell’ambasciata dello Zaire, uno Stato che attraverso il governo del feroce Mobuto sostiene per conto degli Stati Uniti le forze che si oppongono ai movimenti popolari in Africa centrale. Nell’animo di quel pugno di manifestanti c’è la volontà di andare oltre gli slogan e per questo, istruiti dal servizio d’ordine di Lc, alcuni giovani stringono tra le mani biglie d’acciaio e bocce piene di benzina, l’ingrediente necessario per portare a termine un’azione dimostrativa; una “fiammata”, come si diceva negli anni Settanta, da accendere in faccia ai nemici della Repubblica popolare dell’Angola per fare arrivare fino in Africa il rumore del Movimento e la sua solidarietà.
Idee ambiziose, quelle che girano per Roma il 22 novembre. Idee destinate a restare sull’asfalto. Perché quando il gruppo di ragazzi arriva a intravedere il portone dell’ambasciata dello Zaire si sente gridare: «Eccoli! Eccoli!».
Non c’è nemmeno il tempo di indietreggiare. Un gruppo di poliziotti e carabinieri, appostato nelle vicinanze, inizia a sparare. Le bottiglie incendiare volano senza procurare danni. Viene lanciato qualche sasso e due macchine, trascinate in mezzo alla strada, sono rovesciate per evitare una carica. Per difendersi è troppo tardi: due manifestanti sono feriti alla testa ma, miracolosamente, riescono a mettersi in salvo rientrando nel corteo; un terzo, colpito alla schiena, si accascia: il suo nome è Piero Bruno. Sulla sua carta di identità c’è scritto che è nato a Roma l’8 dicembre del 1957.
Piero abita alla Garbatella insieme ai genitori e a due sorelle. Studia da elettrotecnico e ama tante cose: la musica, le immersioni subacquee e Barbara. La mattina varca il portone dell’istituto tecnico industriale Armellini, per il resto, oltre a frequentare la sezione di Lotta Continua della Garbatella: «Faceva ciò che era giusto fare: autoriduzioni nei lotti popolari, gruppi di studio per evitare bocciature, cortei, collettivi».
In via Muratori, Piero è solo un corpo che urla di dolore: qualcuno gli si avvicina tentando di metterlo in salvo ma neppure adesso, quando è palese che nessuno è più in grado di nuocere in alcun modo, viene dato l’ordine di far tacere le armi. Il soccorritore viene colpito a un braccio e le pallottole infieriscono ancora sul ragazzo steso a terra ferendolo nuovamente, questa volta al ginocchio. Tanto basta ai tutori dell’ordine per sentirsi finalmente padroni della situazione. Un agente senza divisa esce allo scoperto e il modo in cui tratta Piero non sfugge allo sguardo allibito di una signora affacciata alla finestra di casa sua, in via Muratori:
Ho […] sentito che il ragazzo disteso per terra di lamentava e contemporaneamente ho visto un uomo in borghese sbucare attraverso i poliziotti che si è avvicinato di corsa al ragazzo, disteso per terra urlando, presso a poco «Ti pare questo il modo di ammazzare un collega» e ancora, «Cane, bastardo, carogna», ho quindi visto che l’uomo ha puntato la pistola verso il ragazzo disteso per terra, urlando «Ti ammazzo» e ho sentito il clic del grilletto. Il ragazzo ha gridato «No» ed ha fatto il gesto di coprirsi il volto con le mani. Quindi l’uomo, chinandosi sul ragazzo gli ha detto «ma io ti ammazzerei veramente» e lo ha scosso (dichiarazioni rese da una testimone alla competente autorità giudiziaria, 1975).
Piero Bruno, in realtà, non ha ammazzato nessuno. Eppure gli insulti non sono l’unica forma di mistificazione praticata quel pomeriggio dalle forze dell’ordine. L’ospedale San Giovanni è vicinissimo al luogo dell’agguato ma, anziché correre al pronto soccorso, si preferisce trascinare il ferito per decine di metri per fare in modo che il suo corpo finisca molto più vicino all’ambasciata dello Zaire e dare l’idea che i proiettili lo abbiano raggiunto mentre attaccava la polizia e non, come è accaduto, mentre tentava la fuga. Gli stessi bossoli, esplosi in una quantità così numerosa da formare un tappeto lungo la strada insanguinata, vengono raccolti in fretta: l’esatto ammontare del loro numero, in questo modo, non potrà mai più essere appurato.
Intanto si perde tempo prezioso. Sono soltanto le venti e trenta quando, con i proiettili in corpo e addosso il pallore dei morti, Piero Bruno entra in sala operatoria. Per “sicurezza” la polizia lo piantona come se fosse nelle condizioni di poter scappare da un momento all’altro. E lui, con un filo di voce, ha ancora la forza di sussurrare: «Ci penseranno i compagni a vendicarmi…».
Sono le sue ultime parole. Piero riesce a superare la notte ma, dopo due interventi chirurgici e il sopraggiungere di un blocco renale, nel pomeriggio del 23 novembre del 1975 smette di respirare. Gli mancavano soltanto quindici giorni. Poi avrebbe festeggiato il suo diciottesimo compleanno.
*
Ma chi ha ucciso Piero Bruno?
Quando questa domanda viene posta in relazione al nugolo di militanti di sinistra uccisi dalla polizia la risposta più caratteristica è il silenzio mentre depistaggi e forzature giuridiche sono la regola più che l’eccezione della via giudiziaria alla ricerca della verità su chi muore per motivi di “ordine pubblico”.
Il caso di Piero Bruno, da questo punto di vista, è diverso dagli altri ma allo stesso tempo più atroce. Molto semplicemente, infatti, è stato possibile risalire all’identità dei militi che, agli ordini del vicequestore Ignazio Lo Coco, aprirono il fuoco il pomeriggio del 22 novembre 1975. I loro nomi, con le loro testimonianze, sono ancora lì, insieme ai buchi sui palazzi di via Muratori, tra le carte di un’inchiesta aperta dalla Magistratura per fare luce sul caso.
Si tratta del sottotenente dei carabinieri Saverio Bossio: «Ho esploso due colpi di pistola in direzione di un gruppo di persone col volto coperto che si trovava alla fine di via Muratori dalla parte del quadrivio».
Della guardia di pubblica sicurezza Romano Tammaro: «Mi sono avvicinato a loro sulla destra, ed ho visto un ragazzo a terra e due che lo trascinavano. Ho preso la pistola ed ho esploso dei colpi a scopo intimidatorio. I colpi erano diretti a terra».
E del carabiniere Pietro Colantuono: «I colpi che ho sparato, stando in piedi, li ho esplosi con l’avambraccio ad angolo retto rispetto al braccio, e quelli che ho esploso da terra, con l’avambraccio verso l’alto sempre in direzione del gruppo di giovani».
All’appello manca soltanto un altro personaggio, il più importante e, in un processo virtuale, senz’altro l’imputato principale. Si tratta di Oronzo Reale: il ministro degli interni a cui si deve la paternità della legge che porta il suo nome.
La Legge Reale, approvata il 22 maggio del 1975, concede alle forze dell’ordine di utilizzare le armi da fuoco con estrema disinvoltura, rende possibile la perquisizione personale senza l’autorizzazione di un magistrato, prescrive l’arresto per chiunque sia trovato in possesso di “armi improprie” (lasciando alle forze dell’ordine la discrezionalità di decidere cosa possa essere considerato arma impropria) e reintroduce la misura del soggiorno obbligato per ragioni politiche già in auge nel periodo fascista. Le conseguenze di queste misure sono note: soltanto tra il 1975 e il 1990 sono almeno 685 le persone uccise sulla base della legge Reale e, tra queste, almeno 208 sono risultate colpevoli soltanto di non essersi fermate a un posto di blocco o, più tragicamente, si essersi trovate nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Qualsiasi momento, cioè, in cui la polizia perde la testa e spara.
Con questi presupposti la sentenza di archiviazione pronunciata dal giudice istruttore in relazione alla morte di Piero Bruno nel 1976 è poco più di una formalità. A nulla serve un collegio difensivo che, nel tentativo di fare chiarezza sull’omicidio del ragazzo, arruola il senatore Umberto Terracini e Giuseppe Mattina, uno dei fondatori di Soccorso Rosso. Nelle aule in cui venne discusso il caso furono sostenute le teorie più assurde, come quella di un colpo di pistola che rimbalza sul terreno e, colpendo il ginocchio di Piero Bruno, impegnato in una torsione mentre lancia una molotov, si incunea nel suo corpo fino a risalire lungo la spina dorsale lacerandogli l’aorta. Una battuta di Dario Fo legata alle tante morti violente di quegli anni recita: «Non è la polizia che spara per uccidere, sono gli studenti che volano».
Ma c’è poco da ridere. Assolvendo i poliziotti che spararono a Piero il giudice sentenzia: «Se per gli interessi superiori dello Stato, congiuntamente alla difesa personale, si è costretti a una reazione proporzionata all’offesa, si può compiangere la sorte di un cittadino la cui vita è stata stroncata nel fiore degli anni, ma non si possono ignorare i principi di diritto».
*
La storia, per fortuna, non si fa nelle aule dei tribunali. E se gli stessi giudici, avvolti nelle loro toghe lucide e nere, possono essere inappuntabili quando si tratta di applicare alla vita quotidiana le regole della legalità, la giustizia resta comunque un’altra cosa. Che si tratti di sensibilità, di utopia o di «istinto di classe», nella sentenza che archivia il caso di Piero Bruno di giustizia non c’è traccia. Per recuperare questo sentimento, lo stesso in cui eccellono i folli e i bambini, bisogna cercare altrove. Nelle parole «tu vivrai», per esempio. Cioè in un verso della poesia La libertà è un sogno scritta da Antonio Pinto, un soldato impegnato nella guerra d’indipendenza angolana commosso alla notizia di un compagno morto per la sua stessa causa in un Paese tanto lontano:
La libertà è sogno / sogno colmo di desiderio / lungo cammino di guerra e d’amore / percorso da gente di ogni terra / cammino di proletari, di guerriglieri.
È volontà ferma / di chi soffre, di chi vince / sul cammino del futuro, che è nostro.
Libertà è grido / è grido che tu hai gridato / arma che tu hai impugnato / sete che non hai saziato / vita che hai perduto.
Vermi ti rubarono la vita / vermi si nutrono ora del tuo corpo.
Ma tu vivrai!
E viva sarà la volontà nei cuori / che un altro mondo e gente vedranno / oltre il tuo esempio luminoso / vivrai!
Di te che lontano sei caduto per la nostra causa questo ci resta: / la libertà non è di un solo popolo / da te ci viene la forza / perché la lotta continui / fino alla vittoria finale.
Ancora nel corso delle celebrazioni per il trentennale, alla Garbatella si inaugura il murales realizzato dal CSOA “La Strada”: un affresco dove, al volto di Piero, si affianca quello di Carlo Giuliani, ucciso nel corso della protesta organizzata a Genova contro il G8 del 2001.
Si tratta di una connessione che non è dettata soltanto dal destino che, a distanza di tanti anni, riesce a iscrivere il nome di Piero Bruno e quello di Carlo Giuliani nello stesso libro nero della giustizia negata, ma anche dalla volontà di affermare la forza di una tradizione importante e fin troppo spesso dimenticata. La stessa tradizione che negli anni Settanta, per capire i propri morti, ricorreva alla memoria della Resistenza e che, se si trattava di parlare di ragazzi come Piero Bruno, non aveva dubbi: “nuovi partigiani”; questo è il loro vero nome.
Primo Maggio: e se la faccia ce la mettessimo tutti e tutte?
“Noi le facce non le mettiamo”. Dopo la notizia dei dieci arresti eseguiti ieri tra Italia e Grecia ai danni di persone sospettate di aver animato la protesta del Primo Maggio No Expo, non sono mancati i mezzi di informazione indipendente che, per rispondere alla scelta forcaiola (la solita) del “Corriere della Sera”, immediatamente pronto a pubblicare le facce dei presunti black bloc, si sono affrettati a marcare una differenza: da un lato c’è il diritto e uno straccio di deontologia professionale, dall’altro fogli padronali stile “Corriere della Sera”.
Non c’è alcun dubbio che continuare a far pesare sempre e comunque a giornalisti come quelli in forza a il “Corriere” l’evidenza delle loro malefatte sia cosa buona e giusta, anche se è altrettanto innegabile come rinfacciare ai mezzi di informazione la propria natura di servitori del potere abbia lo stesso sapore scontato della scoperta dell’acqua calda.
Restando sul terreno della vetrina infranta dell’Expo milanese, davvero chi, da sinistra, ha speso parole di fuoco e di fiamme contro il “blocco nero” non aveva alcuna idea che i propri distinguo, i propri attacchi, il proprio giocare la partita dei “buoni” contro quella dei “cattivi”, si sarebbe tradotta prima in una strumentalizzazione, poi in una giustificazione ideologica non soltanto rispetto agli arresti, ma anche rispetto all’eccezionale durezza che si stanno meritando gli arrestati?
“Anche chi ha contestato democraticamente l’inaugurazione di Expo”, è scritto tra le righe di tutti i giornali e si legge dietro le fotografie di tutti gli arrestati, si è schierato compatto contro i “soliti teppisti”. A testimoniarlo, un esempio su tutti: l’articolo con cui il “Corriere della Sera” ha anticipato – evidentemente e ovviamente ben informato dalla Questura, di cui è abituale velina – gli arresti rispetto ai quali oggi ci si esprime. Come?
Passando in rassegna commenti ed opinioni, emerge o (1) la contestazione del reato di devastazione e saccheggio, residuato bellico del fascista Codice Rocco, pensato per situazioni di guerra e quindi assolutamente inappropriato per episodi come Expo2015 e, più indietro nel tempo, Genova2001; o (2) la condanna della gogna mediatica a cui la stampa main stream si è abbandonata con gusto orgiastico.
Per quanto riguarda la contestazione del reato di devastazione è saccheggio, si potrebbe dire che la battaglia utile alla sua cancellazione sarebbe cosa buona e giusta nella misura in cui potrebbe lavorare a una sempre utile ricomposizione di classe, evidenziando come le contraddizione per cui si scontano dieci anni per un bancomat rotto sono inaccettabili alla luce del governo ladro e mafioso che siamo costretti a subire. Eppure… se è opinione corretta e comune che dietro il famigerato reato di devastazione e saccheggio vi sia prima di tutto una forzatura, considerando che in punta di diritto quella legge non parla delle situazioni a cui viene applicata oggi, chissà cosa si potrebbero inventare – visto che di arbitrio stiamo parlando – una volta abrogata!
Forzatura per forzatura, tolta la devastazione e il saccheggio, potrebbero arrivare con lo stesso arbitrio le accuse di tentato omicidio anche per aver lanciato una bottiglietta di plastica vuota, o di associazione a delinquere per essere in possesso della tessera di una biblioteca… considerazioni che portano direttamente al secondo punto della questione, quello che ha a che fare con la condanna – più o meno di maniera – della gogna mediatica a cui i sospetti black bloc sono stati esposti, ovviamente senza che per loro abbia mai avuto alcun valore il “garantismo” di cui tanti si riempiono la bocca. Questo solo per dire che di fronte a fenomeni di insorgenza sociale non si può pretendere di avere salva la coscienza compartimentando la propria indignazione: è assurdo pensare di condannare pezzi di Movimento e addirittura additarli (alle attenzioni della Questtura) per poi stupirsi della durezza della repressione (“Ma come, dieci anni per una vetrina!”) o della connessa gogna mediatica (“Ma come, pubblicano i volti dei sospettati in dispregio delle garanzie democratiche!”). Per dirla in altri termini, rispetto ai fenomeni di insorgenza sociale, o si è dalla parte della soluzione che questi auspicano, o si è parte del problema, difficile pensare a comode vie di mezzo. Ed è per questo, che parlando di Expo, non sento la necessità di dire che “io le facce non le pubblico”, al contrario, ho voglia di dire che io la faccia ce la metto.
La trovate qui, in basso a sinistra, dove è sempre stata. Mentre è impegnata a lasciare traccia del proprio dna su un pericolosissimo scovolino utile a fare le bolle di sapone, si fa una domanda: e se per dimostrare solidarietà e complicità con gli arrestati del primo maggio la faccia la mettessimo tutte e tutti, rispetto ai fatti di Milano come in rapporto ai luoghi dove le lotte reali conquistano a spinta la propria volontà di cambiare l’esistente, non questo l’unico, vero passo avanti?
TUTTI LIBERI! TUTTE LIBERE!
La faccia della fiducia
Strana questa statistica sull’affidabilità, ho fatto le stesse domande al bar della coltellata vicino a dove abito e, parlando di notai, il discorso è finito subito, che “chi non è bono a chiude co’ ‘na stretta de mano vor dì che è ‘n mezzo ‘nfame. Allora artro che’r notaro, je ce serve ‘a spiritosa”.
Per quanto riguarda poi la fiducia, al primo posto si sono piazzati i rapinatori, “perché ce se po’ fidà de chi va a saltà ‘n bancone”, tallonati dai ladri, “quelli che vanno a lavorà ai Parioli, famo a capisse”, seguono a una certa distanza i pusher, perché un lavoro sicuro è vero che ce l’hanno, però “vabbè, so’ affidabili finché je conviene, ma a spigne so’ boni tutti”.
Ho provato a domandare delle forze dell’ordine, ma uno m’ha guardato brutto e ha sbraitato “forze dell’ordine lo dici a tu’ sorella”, allora ho lasciato perde. Pe’ vede’ dove se sarebbero piazzati banchieri, politici o assicuratori, lo confesso, m’è mancato er core.
Chi se la canta, chi se la suona e chi se la lotta. Expo non è finito
Dicono che Expo sia finito. Senza contestazioni, a quanto pare. Tutta colpa di quei “riot che asfaltano il movimento”, commenta beffardo il «Corriere della sera», arrivando a citare «il manifesto» per riproporre un’analisi della giornata del primo maggio e persino immaginando di avere dalla sua chi la pensa così insieme alla Questura, che si è presa sei mesi di tempo per schedare, etichettare, analizzare e dio solo sa cos’altro. Ora si procederà agli arresti, informa il giornale padronale per eccellenza, ovviamente senza vergognarsi di mostrare il piacere che prova nel pensare all’eventualità di nuove persone in carcere.
I “buoni”, suggerisce l’articolo, scritto da qualcuno che dimostra di conoscerli bene, o persino di essere uno di loro, sarebbero stati talmente intimoriti dai “cattivi” da non riuscire più neppure ad avanzare una qualche critica, civile naturalmente, ad Expo, come invece le regole del gioco democratico vorrebbero. Un po’ come quando di tanto in tanto arrivano le elezioni e ci viene data l’opportunità di scegliere tra una Moratti e un Pisapia, e che non si venga a dire che alle nostre latitudini la mancanza di pluralismo rappresenti un problema!
Un Renzi, per esempio, è talmente convinto di un simile assunto che a passare per il vaglio elettorale non ci pensa neppure: perché perdere tempo se poi, come a Milano, gli unici che dimostrano di avere qualcosa da dire sono incompatibili come le vetrine che rompono e gli interessi di classe che incarnano?
Si prenda piuttosto esempio da Expo. E che i suoi uomini più efficienti, a partire dal prefetto Tronca, vadano a mettere ordine a Roma, dove, licenziato l’inutile sindaco Marino, al rispetto delle famose regole democratiche ci pensa il governo stesso, preferendo a qualunque forma di progettualità politica un controllo territoriale esercitato direttamente dalla polizia.
Certo, quella di Expo è stata una storia strana. Dal punto di vista della contestazione, infatti, non si è mai visto un problema che smette di esistere a causa della gestione di una singola giornata. Anche perché, se fosse così, non esisterebbe il problema, ma soltanto le persone che lo agitano, mentre pare che le questioni sociali funzionino nel modo esattamente opposto: è la loro esistenza a provocare agitazione, non il contrario. E qualcosa, nell’osservazione della realtà, sembra suggerire che il tema delle grandi opere e dei grandi eventi, simulacro della rapina perpetrata dagli sfruttatori ai danni degli sfruttati, esista eccome. Con buona pace di chi se la canta e se la suona, insomma, c’è anche chi se la lotta. E infatti, insieme a Tronca, quante centinaia di milioni hanno già mandato a Roma per consentire ai soliti noti di continuare a fare baldoria con l’imminente Giubileo?
Nello stesso lasso di tempo, invece, quante case popolari sono state assegnate? Quali garanzie per una scuola aperta a tutti e per una sanità efficiente e gratuita ottenute? E quali conquiste di diritti, dallo ius soli al reddito di cittadinanza (universale e incondizionato), sono state nel frattempo ascritte all’odierna civiltà del neoliberismo globale incarnato da Renzi e dalle sue giunte, arancioni o militari che siano?
Il silenzio di fronte a queste domande è imbarazzante come l’assenza dei “buoni” sullo scenario delle battaglie combattute ogni giorno in tutta Italia per la casa, il lavoro, la scuola, la sanità (altro che “assenza di contestazioni”, come scrive il «Corriere della sera»)… mentre chi di tutto questo è privo le vetrine in frantumi del primo maggio le ha ascoltate eccome. E ha sorriso. Mica è corso a piangere in Questura. L’istituzione repressiva per eccellenza, d’altro canto, era troppo indaffarata. Ora deve persino accollarsi di tirare avanti la baracca del Giubileo. E allora, senza neppure considerare la sorte delle tonnellate di metri cubi di cemento in procinto di essere abbandonate o regalate a qualche speculatore a Milano, si può dire che i nomi siano cambiati, ma come si fa a pensare che Expo sia finito?
Resistere allo Stato
Probabilmente il merito andrà al fatto che, come tutti i classici, Stato e rivoluzione di Lenin è un libro «che non ha mai finito di dire quello che ha da dire». Eppure il momento in cui questa nuova edizione di una delle opere più rappresentative del padre della rivoluzione d’Ottobre vede la luce sembra essere stato previsto dal caso per sbalordire gli scettici, ai quali non resterà, una volta sbarrati gli occhi, che scegliere tra due alternative: 1) considerare Lenin come un novello Nostradamus, riconoscendo quindi alla preveggenza uno status di tipo scientifico; 2) ripensare al marxismo-leninismo, in rapporto alla sua capacità di leggere il reale e, di conseguenza, di indicare una via di uscita dal mondo mercificato del Capitale.
Il mondo mercificato del Capitale, ovviamente, è quello in cui siamo costretti a vivere. In genere con la convinzione, indotta dal Capitale stesso, di essere afflitti da problematiche senz’altro gravi (la povertà, la disoccupazione, lo sfruttamento senza limiti e la cementificazione dei nostri territori, la crisi degli alloggi, eccetera), ma in fondo «naturali», come se invece che di precise conseguenze dei rapporti sociali vigenti, e quindi della relazione asimmetrica tra sfruttatori e sfruttati, stessimo parlando di fenomeni atmosferici tipo pioggia o grandine.
Ma una volta chiarito come l’unica cosa «naturale» su questa terra sono, e saranno sempre, gli sforzi con cui gli oppressi tentano di spezzare le loro catene, qual è, invece, l’attualità rispetto alla quale Stato e rivoluzione è in grado di intrattenere un dialogo risolutivo?
Ebbene, nel momento in cui scrivo, mentre dalla stessa redazione della casa editrice e dalla tipografia s’intensificano i richiami all’urgenza di chiudere il tutto e di andare in stampa (siamo pur sempre in un regime capitalistico, e come la vita chiamata a contenerli, anche gli spazi della riflessione e dell’analisi si comprimono combattendo una feroce battaglia per lo loro stessa sopravvivenza…), si consuma l’infelice epopea del leader greco Alexis Tsipras e di Syriza, l’organizzazione che anche in Italia aveva trovato numerosi epigoni insieme a vecchi e nuovi arnesi della sinistra parlamentare pronti a saltare sul carro di un vincitore incapace di rivelarsi tale. Ma cosa è successo effettivamente in Grecia?
Il paese ellenico, aggredito dai desiderata del comitato d’affari malamente nascosto dalle vesti istituzionali dell’Unione Europea e restato senza ossigeno in virtù degli interessi di un debito insostenibile, è passato per una battaglia parlamentare e per un referendum popolare che, dopo aver rispedito al mittente i diktat della signora Merkel e dei suoi sodali, non è riuscito a ottenere nulla di molto diverso di quanto già preteso dagli strozzini della Troica. Infatti, come riassume il Collettivo Militant sul suo blog: «Nella notte tra il 13 e il 14 agosto il parlamento ellenico ha approvato il terzo piano di aiuti, corredato dal terzo pacchetto di misure che l’Eurozona ha preteso come prova della “buona” volontà. Buona per modo di dire dato il contenuto delle misure. Sono state infatti approvate circa 57 riforme, che vanno dalla reintroduzione dei licenziamenti collettivi alla revisione della contrattazione aziendale, dall’abolizione delle baby pensioni fino alle privatizzazioni, nodo fondamentale di questo terzo pacchetto. Entro ottobre dovranno essere presentate le offerte per le privatizzazioni del porto del Pireo e di Salonicco, verranno inoltre privatizzati la rete elettrica Admie e gli aeroporti regionali» (http://bit.ly/1IJYSmC).
Alla Grecia, in sostanza, non restano più neanche gli occhi per piangere. E la speranza di Tsipras, mentre Syriza si spacca e il paese va verso nuove elezioni, si traduce in un territorio depredato della sua stessa sovranità, una specie di zona economica speciale occulta dove pochi, grandi investitori potranno fare qualunque cosa di uno spazio completamente privatizzato, mentre nel corso della crisi la stessa aspettativa di vita dei greci è calata significativamente proprio in virtù delle politiche di austerità adottate per ridurre i costi della spesa pubblica a discapito di qualunque esigenza della popolazione (vedi la relativa ricerca pubblicata dalla rivista medica «Lancet», http://bit.ly/1Q8TqjC).
Si potrebbe dire, e sarebbe senz’altro corretto, che l’errore di Tsipras sia stato quello di muoversi all’interno di un orizzonte in cui l’istituzione europea viene vissuta come riformabile. Eppure, ammesso e niente affatto concesso che quello di Tsipras sia un errore piuttosto che la precisa scelta di un partito liberal (anche la parola «socialdemocrazia» sembra forte di fronte ai risultati raggiunti…) e non di un’organizzazione di classe, la parabola di Syriza dà la parola a Lenin rispetto a un orizzonte ancora più vasto. Lo Stato di cui parla Lenin nel suo libro, infatti, non è nient’altro che il «prodotto dell’antagonismo inconciliabile tra le classi», e poco importa se l’esigenza di un suo rafforzamento lo abbia fatto passare dai confini nazionali a quelli europei. L’intento resta pur sempre quello di razionalizzare le politiche di dominio, rendendo sempre più efficace la tutela da parte degli organismi spacciati come pubblici di ciò che sono soltanto gli interessi di pochi.
Rispetto a simili istituzioni il compito di una struttura politica che si muove nella tradizione del movimento operaio resta identico. Si tratta, come scrive Lenin, di assumere su di sé la «funzione di guida rivoluzionaria del popolo nella lotta contro la borghesia». Tutto il resto, all’epoca di Stato e rivoluzione, coincideva con i termini di «revisionista» o di «opportunista», utilizzati da Lenin a mo’ di insulto contro i «rinnegati», contro, cioè, chi, in cambio di un comodo posto in parlamento, aveva impiegato davvero poco ad anestetizzare il marxismo, sfruttando il prestigio del materialismo tra le masse per un uso e un consumo antitetico rispetto alle autentiche necessità rivoluzionarie degli sfruttati.
Da questo punto di vista, Stato e rivoluzione è un libro di filologia marxista e viene portato avanti tenendo ben presente l’esigenza di fare chiarezza su ciò che davvero avevano scritto Marx ed Engels. Un’operazione quanto mai necessaria, considerando come la coeva legislazione antisocialista aveva prodotto una quantità imprecisata di versione edulcorate di libri come lo stesso Manifesto del Partito comunista, mentre dove non era arrivata la censura ci avevano pensato diversi autori provenienti dal campo del materialismo dialettico ad edulcorare con il loro revisionismo il senso di quanto originariamente affermato dai grandi filosofi tedeschi.
Il campo di battaglia su cui si stava combattendo l’accesa disputa era sostanzialmente uno: quello della rivoluzione. Perché, come dimostra Lenin in modo inequivocabile, se parliamo di Marx ed Engels parliamo di un processo al culmine del quale: «il proletariato distrugge l’“apparato amministrativo” e tutto l’apparato dello Stato per sostituirlo con uno nuovo, costituito dagli operai armati».
Il corsivo nel testo è dello stesso Lenin. Ai nostri tempi, invece, appartiene il problema di respingere nel terreno della superstizione (o del vile interesse personale) la posizione di chi crede nella possibilità di arrivare a un capitalismo «dal volto umano», come se fosse possibile chiedere a una balena di essere grande come un pesce rosso e di farsi le sue nuotate in una boccia di cristallo. È vero anche che se Lenin chiudeva il suo libro portando a casa il risultato epocale del trionfo della rivoluzione d’Ottobre e che se Marx e Engels scrivevano avendo ben chiari esempi come quello della Comune di Parigi, cioè la madre di tutte le rivoluzioni proletarie, in tempi come i nostri è diventato difficile dedicare parole a progetti di riscatto universale senza essere, nella migliore delle ipotesi, relegati in una galleria popolata da personaggi bizzarri e nostalgici, vecchi ancora rincoglioniti dalla sbornia presa con un liquore imbottigliato dal Novecento. Eppure riferimenti più vicini a ciò che quasi possiamo toccare con mano non mancherebbero. Pensiamo per esempio alla Resistenza al fascismo: cosa è stato quel glorioso movimento – non a caso reduce da settant’anni di attacchi opportunistici – se non il frutto di un’organizzazione popolare decisa a far valere il proprio NO all’abominio?
La Grecia, per tornare all’esempio iniziale, ha detto NO alla Troica. Ma il comportamento di Tsipras e di Syriza ha impedito al Paese di organizzare i fermenti di rivolta in una Resistenza. Il fallimento, in questo modo, è stato inevitabile ma, leggendo Stato e rivoluzione, non certo imprevedibile. Mi riferisco in modo particolare al passo in cui Lenin, appoggiandosi a Marx ed Engels, spiega come: «L’onnipotenza della ricchezza è, in una repubblica democratica, tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo».
Mentre, continua Lenin: «I democratici piccolo-borghesi (…) aspettano dal suffragio universale proprio qualche cosa “di più”. Essi condividono e inculcano nel popolo la falsa concezione che il suffragio universale possa “nello Stato odierno” esprimere realmente la volontà della maggioranza dei lavoratori e assicurarne la realizzazione».
Non è forse questo quello che è successo in Grecia? Non sventolavano forse, in quel paese come in moltissimi altri, mille bandiere con l’orgogliosa scritta «OXI»? E non è stato forse quell’OXI, cioè quel NO greco, a trionfare nel corso del referendum anti Troica citato poco fa? Eppure quale è stato l’esito dell’espressione democratica della volontà popolare greca?
E se non vogliamo attraversare l’Adriatico, restiamo in Italia, e chiediamoci piuttosto, parlando per esempio del referendum dedicato all’acqua pubblica, quale sia stata la sorte di quel voto: apparentemente, il trionfo schiacciante di un NO alla privatizzazione…
Esattamente come nel caso dell’OXI greco, la sorte del NO italiano è stata quella di una volontà popolare ridotta a semplice carta da culo dai poteri forti: e come poteva essere altrimenti visto che è solo per loro e la loro tutela che è nato quell’organismo socio-politico definito «Stato»?
Per questa ragione, e per una lettura di Stato e rivoluzione coerente con ciò che resta della volontà di essere sempre e comunque quel «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente», si può pensare di ripartire dai NO espressi dalla volontà popolare con una nuova consapevolezza. Che si tratti di lottare contro le grandi opere inutili e imposte (dalla linea ad Alta Velocità alle trivellazioni), contro gli sfratti, contro lo sfruttamento del lavoro o il razzismo nei confronti di rifugiati e migranti, dire NO significa organizzare la Resistenza o non significa nulla (http://bit.ly/1Oc5Vtt).
Mi sembrerebbe, questo, un buon modo per ricominciare a tracciare dei confini precisi tra la sinistra di classe e le organizzazioni filo-padronali e/o piccolo borghesi da cui siamo afflitti, quando non direttamente governati. Mi sembrerebbe, questo, un buon modo per evitare settarismi, affondare le proprie radici nel solido terreno dei bisogni e, alla domanda «cosa vogliamo?», continuare a rispondere «tutto» ricordandoci che non stiamo parlando di una delibera, di una riforma o di un qualche accordo sindacale. Ma di assaltare il cielo.
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“Resistere allo stato”, in Vladimir Lenin, “Stato e rivoluzione”, a cura di Cristiano Armati, con un saggio su Lenin e lo Stato di Iñaki Gil de San Vicente; Red Star Press, 2015