Ma davvero siamo convinti che quella del Fertility Day, con il suo sfoggio di valori a dir poco oscurantisti, possa essere archiviata alla voce “campagna di comunicazione pubblica fallita” e irrisa al grido di “epic fail”? O non è vero, piuttosto, che la Lorenzin, per conto del governo Renzi, è riuscita grazie a quei ridicoli – ma apertamente sessisti – manifesti con la clessidra e ai grotteschi – ma apertamente razzisti – opuscoli con i neri impegnati a fumare erba, a parlare con tutto quel mondo compreso tra le sfilate delle sentinelle in piedi e le adunate stile family day? Lo stesso mondo che in una regione come il Veneto è già riuscito – attenzione: è già riuscito! – a far ritirare dalle biblioteche scolastiche libri accusati di propagandare l'”ideologia gender” e che se arriva, con alcune sue propaggini, anche ad aggredire e uccidere gay e migranti (la relazione tra eventi squadristi e adunate delle sentinelle in piedi è ampiamente dimostrabile), si organizza ovunque, riempiendo le parrocchie, i bar di quartiere e le farmacie, di volantini inneggianti la “sacralità” della famiglia tradizionale (capita solo a me di vedere simile materiale, unito graficamente alla campagna della Lorenzin dallo stesso stile da pubblicazione dei Testimoni di Geova?). In breve, sono convinto che alla Lorenzin e al governo Renzi della “fertilità” freghi davvero poco e niente. Più importante, per loro, è continuare a scavare sempre più a destra nel tentativo di dare una base materiale al residuale consenso di cui godono. Il risultato, nel caso del Fertility Day, non riguarda semplicemente un concetto deformato e deformante di “salute”, ma ha a che fare con il tentativo di organizzare un nuovo movimento reazionario di massa. E da questo punto di vista, ricordando come la prima vittima dei regimi fascistoidi – e il governo del Partito Democratico non fa eccezione – sia sempre il senso del ridicolo, mi spiace constatare come il Fertility Day debba essere considerato un tentativo compiutamente riuscito.
Categoria: Antisessismo
Sara si poteva salvare
Sara si poteva salvare.
Lo affermano tutti i giornali, anche il «Corriere della Sera»
A pagina 5 dell’edizione di oggi, martedì 31 maggio, un virgolettato riprende le parole di Maria Monteleone, pm di Roma: «Il mio è un invito caldo a chi si imbatte in una ragazza di notte, in una strada isolate che chiede aiuto: fermatevi o chiamate immediatamente la polizia».
Chiamate la polizia, dunque.
Già, ma quale polizia?
La stessa che è intervenuta quando a urlare aiuto c’era Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi?
O quella che il 30 giugno del 2001 ha “affrontato” Michele Ferrulli a Milano riconsegnandolo morto ai suoi familiari dopo l’intervento?
Sara si poteva salvare. E Michele avrebbe potuto avere giustizia.
Invece la Corte d’Assise del capoluogo lombardo, assolvendo i poliziotti responsabili del trattamento, ha sentenziato che «il fatto non sussiste» e che i colpi inferti a Ferrulli erano necessari a vincere la resistenza dell’uomo.
Questo in fondo accade quando si fa confusione tra colpevoli e innocenti: tante donne che alla polizia si sono rivolte perché minacciate o perseguitate dall’ex di turno non hanno avuto un sostegno molto diverso dal nulla. E così, mentre molte di queste donne sono state aggredite e uccise dagli stessi che pure avevano denunciato, si omette sempre di spiegare come mai è proprio il nulla ciò che le attuali diramazioni dello Stato articolano di fronte al tema dei bisogni, qualunque genere di bisogni.
Sara si poteva salvare, in ogni caso.
Perché mentre lei veniva bruciata viva sono passati per via della Magliana, a Ponte Galeria, almeno due motociclisti, che hanno visto la ragazza urlare e dimenare le mani, ma non si sono fermati.
Hanno evitato di cimentarsi con un assassino, e forse anche con la sua pistola: oggi i giornali ci informano che chi ha ucciso Sara faceva la guardia giurata, ma non ci dicono se fosse armato o meno. Un silenzio necessario a sottrarsi dal tema della privatizzazione degli stessi corpi di polizia in atto, di fatto, da molto tempo in Italia?
Prima di quei motociclisti, in ogni caso, a non fermarsi sono stati una banda di speculatori, che hanno preso una delle poche zone verdi di Roma stuprandola con l’acciaio e con il cemento. E i marciapiedi? E l’illuminazione? E le piazze e i punti d’incontro? E tutte quelle opere in grado di favorire l’unica vera forma di sicurezza all’interno dei quartieri – la socialità diffusa, la possibilità di percorrere strade che le persone vivono e attraversano?
Ma se questo contesto è figlio – come e è figlio – della violazione sistematica di piani regolatori e norme edilizie, dove sono le condanne dei palazzinari responsabile di questi scempi?
Sarà però si poteva salvare.
Come si salvano, ogni giorno, decine di donne sole, spesso con bambini e bambine piccole, ancora più spesso già capaci di affrontare e vincere storie di botte subite dentro casa – capaci di cacciare da loro stesse la presenza di uomini violenti e di affrontare un lavoro che non c’è o si perde e quindi un affitto che non si riesce a pagare. Ci pensano altri uomini, e anche altre donne (la polizia), a questo punto, ad arrivare ancora nel cuore della notte: a rompere le inferriate delle finestre e a cacciare quelle donne e i loro figli in mezzo alle strade.
Di fronte a un simile scempio, sono in tanti e in tante a girarsi dall’altra parte. Ma non tutti e non tutte. Altri e altre in simili casi si organizzano e accorrono: difendono lo sfratto e la dignità; spesso ne ricavano un rinvio dell’esecuzione del provvedimento (firmato da un magistrato), ancora più spesso denunce per resistenza aggravata e un numero incalcolabile di manganellate, sferrate tenendo il tonfa dalla parte opposta rispetto al manico, apposta per fare più male (la legalità…).
Si ricorda spesso, tra l’altro, come la violenza di genere non abbia né classe né tantomeno “razza”. Ed è senz’altro vero. Eppure ci si è mai confrontati – prima di archiviare il tutto alla voce “femminicidio” – con l’enorme numero di reati compiuti in ambiente domestico ai danni di mogli, fidanzate ed ex da appartenenti alle forze dell’ordine o da guardie giurate? Ci si è mai confrontati, o invece in questo caso non sono stati solo due motociclisti a scappare, anche con l’enorme numero di casi in cui nelle caserme, nei carceri, nei CIE a stuprare sono proprio gli appartenenti alle forze di polizia?
Sara però si poteva salvare.
Come ci si salva a Ventimiglia, per esempio. Dove pure non mancano gli uomini e le donne che non hanno alcuna intenzione di girarsi dall’altra parte.
Ci sono tante donne lì e Sara è in ognuna di loro. Ognuna di loro costretta a subire una doppia oppressione, di genere e di classe: e la magistratura magari si girasse dall’altra parte, no, non si gira affatto. Ma spalanca gli occhi e distribuisce condanne e fogli di via.
Sara però di poteva salvare.
Con una ruspa in grado di passare sopra a mille bar con i quattro tavolini di plastica fuori e, seduti con una birra in una mano e la ricevuta delle scommesse nell’altra, un gruppetto di ragazzi – maschi, cattolici, eterosessuali e italiani per lo più – soli con la propria testa bacata. Passa una donna come Sara e qualunque coglione presente si sente autorizzato ad aprire la bocca: «quanto sei bona, vieni qui bella, anvedi che bocce, aoh, ciò un cazzo pieno d’amore per te…».
Questo, fin da quando Sara – una Sara per tutte – era ancora piccola, undici o dodici anni, aspetta le donne in ogni angolo di strada: un’intimidazione continua, un eterno fischiare, uno stalkeraggio diffuso a cui si demanda il sacro compito di imporre le cose così come stanno in questa società. Una società dove il ricco ha il povero, il povero ha l’immigrato e tutti hanno le donne contro cui – boccia di birra in una mano e ricevuta della scommessa nell’altra – sfogare l’ansia generata da un possesso eternamente negato: il possesso dell’uguaglianza, della giustizia, della libertà, della fraternità e della sorellanza.
Sara si poteva salvare, certamente.
Bloccando tutti gli sfratti, gli sgomberi e i pignoramenti.
Travolgendo tutti i reticolati di filo spinato.
Distruggendo tutte le macchine dell’umiliazione e dello sfruttamento.
Spezzando il cortocircuito che perpetua lo sfruttamento all’interno dei rapporti personali, sacrificando le donne al simulacro del “possesso” e innescando la mentalità che si sente autorizzata a punire i rifiuti di sottostare a una simile logica – la stessa logica che trasforma gli esseri umani in merce quando fanno gli operai e le operaie e le donne in cose all’interno dei rapporti di coppia.
Sara si poteva salvare.
Imboccando con decisione la strada della decolonizzazione del cuore e del pensiero, l’unica dove è possibile cominciare ad articolare davvero la parola «amore».
Qualcuno e qualcuna a un simile processo dà il nome di Rivoluzione e la descrive come un cambiamento dello stato di cose presenti.
Sono le stesse persone che se vedono Sara gridare e gesticolare in cerca di aiuto si fermano e intervengono come si sono fermati e sono intervenuti quando un’altra Sara doveva essere buttata in mezzo a una strada da uno sfratto; quando un’altra Sara ha avuto la necessità di un’atmosfera solidale al culmine di una storia di violenza domestica; quando un’altra Sara si è vista attaccare per il modo in cui veste, parla o ama (nessun contesto è escluso dal problema).
Sono le stesse persone che rispetto alla voce “sessismo” non si limitano a generare una teoria ma costruiscono una pratica di combattimento quotidiano, capace di strappare libertà e autonomia: capace di costruire quel processo di decolonizzazione non solo necessario, ma indispensabile.
Un processo di decolonizzazione capace di rovesciare quei tavoli in quei bar – in tutti i bar – dove oggi, con Sara bruciata viva, torme di uomini (maschi, bianchi, cattolici, eterosessuali… a chi se non al loro ego malato e represso si rivolge il fortunato e orrido slogan «prima gli italiani»?) continuano a sedere, a fischiare, a importunare, a incarnare il ruolo di agenti di una colonizzazione capace di salvare solo il profitto.
Invece è Sara che si poteva salvare.
Sguattere & Guatemala
Che si parli di sguattere o di Guatemala, è normale che esista gente incapace di provare rispetto al di fuori di quanto previsto dai propri pregiudizi di classe, genere o razza (cioè a partire da diverse quantità di melanina presenti sulla propria pelle… bah). Per questo esistono i gulag.
Omofobia, antisessismo e ipocrisia: il caso Sarri
La verità – che parolone! – è che il calcio mainstream fa talmente schifo che quando sulla scena si presenta un personaggio come il sor Sarri: un signore di mezza età con lo stile dell’abitué del bar dello sport e non un fotomodello mancato olezzante lacca e silicone; quando a poggiare il culo sulla panchina è uno che non ha fatto differenza tra campi di terra malamente battuta e grandi platee televisive e che ha affrontato un percorso estraneo al riprodursi incestuoso tipico delle elite (sportive, economiche e politiche non fa nessuna differenza); quando a impossessarsi del prime time, delle pagine dei giornali e, magari, anche del campionato è un tipo che, addirittura, è in odore di comunismo… beh, ci mancava soltanto che Sarri avesse scelto di tenere corsi di antisessismo all’università per conferirgli il premio Lenin e a questo punto, riconciliati con l’orrore della mercificazione imperante, ci saremmo potuti rimettere le ciabatte in tutta tranquillità e continuare a passare i pomeriggi della nostra breve vita davanti a Sky.
I fatti sono andati diversamente. Sarri ha avuto a che ridire con Mancini e ha apostrofato l’ex golden boy doriano al grido di «frocio», «finocchio» e/o cose simili.
Troppo perfetto per essere vero, l’uscita di Sarri, per altro resa pubblica dallo stesso Mancini in differita, ha deflagrato come un sampietrino scagliato contro la vetrina di un negozio del centro. Ad alzare la voce contro l’allenatore del Napoli ci ha immediatamente pensato «la Repubblica», che quando non parla di Renzi ha la coscienza limpida di un neonato, auspicando in ordine crescente il licenziamento, la radiazione, la crocefissione di Sarri, che va bene tutto – dal jobs act alla buona scuola, dalla trivellazioni all’Alta Velocità – ma se si parla di omofobia allora è uno scandalo perché siamo un paese civile bla, bla, bla…
A dire il vero, e stendendo un velo pietoso su una certa dose di razzismo implicita in tanti discorsi sull’Italia Meridionale, Sarri ha trovato altrettanto presto validi argomenti di difesa e, a suo favore, si è schierato un fronte allargato, ed ecco che le bandiere del «Mancini spia» hanno cominciato a sventolare insieme a quelle di un insospettabile movimento «omosessuali pro Sarri», armato dell’immancabile «non sono d’accordo con la tua opinione ma darei la vita affinché tu possa esprimerla», che evidentemente fenomeni tipo l’ascesa di Hitler non sono bastati a dimostrare come esistano “opinioni” (e l’omofobia è tra queste) rispetto alle quali la vita è il caso di metterla in gioco affinché non si esprimano più e non il contrario.
Tralasciamo i commenti di chi è disposto a vendere l’anima al diavolo pur di festeggiare lo scudetto della sua squadra, ma, per no fare la figura dei bambini che si difendono dalle sculacciate della mamma additando le marachelle dei fratellini, evitiamo anche i paragoni con altri episodi impuniti: tipo la disinvolta esibizione di celtiche e boia chi molla da parte del portierone nazionale Gigi Buffon o la naturalezza con cui il famigerato Tavecchio, sempre saldo sul trono presidenziale, ha dato fiato alle sue trombe razziste e omofobe. Moltissimi articoli dedicati all’affaire Sarri, praticamente tutti, si addentrano nei loro distinguo dopo stucchevoli preamboli costruiti a colpi di «fermo restando la condanna dell’omofobia» e «pur riconoscendo la gravità delle espressioni utilizzate dal tecnico napoletano». Articoli che, in alcuni casi, i migliori, proseguono con argomentazioni tipo «però quando Salvini afferma le stesse cose gli riconoscete massima agibilità politica, mica vi indignate, eh!»; tutte cose vere e sacrosante, come però a essere vera e sacrosanta è anche la chiosa necessaria ad arginare ciò che rischia di essere banale. Una chiosa chiara e concisa tipo: «Grazie al cazzo!».
Se tra le colonne dei nostri giornali esistesse davvero la coerenza, affacciandoci alla finestra avremmo l’occasione di vedere un mondo assolutamente diverso da quello che abitiamo: un mondo dove, ma solo per fare un esempio al volo, si discuterebbe delle onorificenze assegnate a certi ragazzi di Cremona per il loro antifascismo, valore sacro della Costituzione italiana, e non certo della repressione di cui sono vittime…
Continuare su questa strada è inutile, l’evidenza dell’ipocrisia imperante parla da sola. Eppure se un Salvini qualunque viene invitato ovunque proprio per inneggiare al sessismo più becero (come al razzismo più becero e al fascismo), mentre l’espressione di Sarri provoca simili bordate di indignazione una ragione deve pur esserci. E a ben vedere questa ragione c’è: il Sarri omofobo, infatti, diventa immediatamente e anche suo malgrado un ostacolo sulla via dell’avanzato stato di trasformazione del calcio, da sport a spettacolo, e degli impianti sportivi, da territori tendenti a esprimere valori antagonisti rispetto alle logiche di dominio a teatri in cui si paga il biglietto per comprare il proprio seggiolino numerato. Il finocchio di Sarri, in questo percorso, è un bel bestemmione smoccolato in cattedrale durante l’omelia del vescovo e, magari a livello inconscio, è proprio in questa rottura che il ruvido tecnico toscano trova difensori che nulla hanno a che spartire con sessismo e omofobia. Anche noi, da questo punto di vista, non facciamo fatica alcuna a iscriverci al club. E non per la comprensibile ma infantile simpatia nei confronti del politicamente scorretto a cui pure non siamo immuni, ma perché crediamo che «l’odierna società dello spettacolo col babau del sessismo e dell’omofobia riuscirebbe non solo a difendersi, a vivere più tranquilla, ma anche a convincere una parte degli spettatori a collaborare con lui, a schierarsi dalla sua parte. Combattere il sessismo e l’omofobia lasciando indisturbato il suo perenne generatore, e anzi illudersi di trovare in questo un difensore contro quello, significa continuare ad avere sulle spalle l’uno e l’altro».
Chiudiamo questa riflessione riconoscendo la paternità del virgolettato finale a Luigi Fabbri e al suo La controrivoluzione preventiva. Scritto nel 1926, il libro di Fabri parlava di «fascismo» e non di «sessismo e di omofobia» e scriveva «Stato capitalista» e non, come abbiamo fatto noi prendendo in prestito le sue parole, «società dello spettacolo». Il senso di simili affermazioni, però, resta perfettamente sovrapponibile. E a questo punto il caso-Sarri può tranquillamente essere archiviato.
(Pubblicato in versione ridotta su Sportpopolare.it il 21 gennaio 2016)
Le nostre origini: una risposta a chi pensa di usare “figli di puttana” come insulto
Di puttana, di banditi, di facchini, di cameriere e di marinai, di partigiani e partigiane, di occupanti di case e di sfrattati, di carcerati e di combattenti per la libertà, di raccoglitori di legna e di attingitori di acqua, di lavoratori e lavoratrici del braccio e del pensiero, di chi ha letto milioni di libri e di chi non sa nemmeno parlare, di migranti provenienti da ogni dove e di chi, da ogni dove, non si è mai spostato: di chiunque siamo figli e figlie, rivendichiamo con fierezza le nostre origini in seno a quel popolo in marcia contro l’unica differenza contro la quale ci battiamo ora e sempre. La differenza insanabile tra chi viene sfruttato e chi sfrutta. Ciò che costoro pensano come un insulto per noi è il vanto che rivela la natura sessista, razzista e fascista che vorrebbero imporci: non ci riusciranno mai. In alto la nostra banda! Occupiamo tutto! (Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa di Roma)