Idee di patria. La letteratura della guerriglia in Italia

Come tutte le storie, anche quella della letteratura è gravata da un pregiudizio difficile da sradicare. Minaccioso come una censura che, seppur mai decretata da alcun organismo di controllo, sortisce l’effetto di occultare interi campi di sapere dall’enorme valore critico-culturale, questo pregiudizio è l’idea secondo la quale l’intera produzione mondiale di documenti scritti può essere divisa in due gruppi ben distinti: da un lato uno spazio “alto”, dove troverebbero cittadinanza il romanzo borghese, la poesia colta e la saggistica speculativa di matrice accademica; dall’altro lato un territorio “basso”, all’interno del quale andrebbero automaticamente collocate tutte le opere di natura eminentemente tecnica insieme a qualunque spunto – dalle scritte sui muri agli stornelli improvvisati “a braccio” – di natura popolare e, spesso, anche a qualunque traccia linguistica subalterna nell’economia e, di conseguenza, anche nei contenuti e nello stile.

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Roma noir: la normalità del male e il lato oscuro della periferia

Recensione e intervista di Silvana Mazzocchi, da Repubblica.it del 20 marzo 2009

a.romanoir2.0983279RACCONTARE chi non ha voce è arduo. Cercare, dietro le immagini rassicuranti, gli sfondi che nessuno ama vedere, mostrare una normalità del male che la cronaca nera relega nel diverso, nel distante, nel folle, in una parola nell’altro da sé. Un’operazione che può risultare ansiogena e dunque far pensare, intuire che, dietro alla carta patinata, c’è un’altra realtà. Un effetto non sempre bene accetto in tempi di leggerezza a tutti i costi. E’ il bello di Roma noir, l’ultimo libro di Cristiano Armati, già stimato autore di Cuori rossi. Le prostitute bambine della via Salaria, le periferie dove “alle otto di sera chiudono tutto. Anche i bar”. E la droga che ruba la vita, il sangue dei delitti e le rivolte dei ragazzi di borgata. I senza tetto e l’esistenza che si trascina buia, nelle baracche sotto i cavalcavia del raccordo anulare.

Racconti che si muovono tra fatti realmente accaduti e quelli possibili e che aiutano a conoscere l’altro volto della capitale, quello metropolitano comune a tante altre città. Lampi che s’insinuano nell’indifferenza diffusa che addormenta le coscienze, e che ne alzano il velo. Cristiano Armati, giornalista free lance, fa per mestiere l’editor. E’ abituato alle trame e alla parola scritta. Ma il suo linguaggio è originale, crudo. E il suo stile, potente, impetuoso come le sue storie. E come il mondo sotterraneo e clandestino che riporta in superficie.

ROMA NOIR: IL BOOKTRAILER

Roma noir racconta una città altra, nascosta?
Roma noir parla del lato oscuro di Roma, è vero. Nelle sue pagine scorrono omicidi, stupri e rapine a mano armata. Più in generale, gli scenari ricorrenti riguardano le periferie cittadine, i casermoni popolari e tutti quei luoghi a cui i mezzi di informazione – dalla stampa quotidiana alle guide turistiche… – non sono abituati a dare spazio salvo, quando accade un fattaccio, sbattere i mostri in prima pagina, esprimendosi per luoghi comuni ma senza indagare nelle pieghe dell’emarginazione e del disagio. Scrivendo il libro avevo in mente una tradizione letteraria e cinematografica importante ma pressoché dimenticata: la tradizione del neorealismo; una prospettiva che non si è limitata a dare spazio a voci autentiche, prese dalla strada, ma che ha mostrato come le “vite maledette” crescano con la complicità dell’indifferenza e della disuguaglianza. Per questo motivo credo che esista una vera e propria “Roma nascosta”: una vitalità tragica e disperata fino al punto da non trovare, nei salotti buoni della città, parole che possano descriverla o rappresentarla. Io ho cercato queste parole insieme a una lingua che potesse essere vicina all’esperienza delle borgate. Ad aiutarmi in questo percorso, i paesaggi di zone come Nuovo Salario o Primavalle, i luoghi dove sono nato e in cui vivo attualmente, insieme allo stupore che ho visto negli occhi di chi, lontano dai monumenti del centro, ci passa per caso. E puntualmente dice: ‘Ma davvero è sempre Roma questa qui?'”

Le sue storie sono romane; potrebbero accadere altrove?
“Le brutte storie accadono dovunque, ci mancherebbe. Ma Roma ha dalla sua degli scenari particolari. Penso al Tevere, per esempio. Un fiume che nasconde anfratti di assoluto degrado e che, nei momenti più inaspettati, ha rovesciato sulle spiagge del litorale i poveri resti di reati innominabili. Penso anche alla forma particolare della criminalità capitolina: un sodalizio che ha ereditato l’indipendenza che fu dei bulli romani ma che ha cercato la complicità delle istituzioni e della “malapesante” quando un affare come quello della droga ha garantito introiti miliardari al mercato dell’illegalità. Accanto a tutto questo, il particolare melting pot di cui la città è stata teatro, amalgamando prima l’emigrazione proveniente dalle campagne del meridione italiano e oggi i flussi proveniente da tutte le periferie del mondo. Accanto a tutto questo, serpeggiano malesseri almeno apparentemente minori ma enormemente diffusi: la penuria di alloggi, il costo della vita, le ore necessarie a spostarsi – tra mille disagi – da un punto all’altro di una città enorme… elementi che concorrono a dare alle storie ‘nere’ romane una loro assoluta particolarità”.

Quale futuro per le megalopoli?
“Abbiamo visto quello che è accaduto a Parigi: il disagio può essere ignorato, negato, represso… prima o poi esplode lo stesso però! Anche a Roma si sono vissuti episodi simili a quelli avvenuti oltralpe, basti pensare all’assalto alle caserme scatenatosi all’indomani della morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, ucciso da una pallottola esplosa da un operatore di polizia. C’è anche questa storia tra i ventisette racconti che compongono Roma noir: una raccolta che, più che prevedere il futuro, prova almeno a interpretare la realtà”.

Intervista a Cristiano Armati

Intervista di David Frati per Mangialibri.com

Poeta, performer, romanziere, saggista, giornalista, editor, appassionato polemista politico: Cristiano Armati è una delle voci più interessanti della controcultura italiana ma il suo percorso ha fatto prima tappa anche nella casella della cultura, che non guasta mai. E’ nato il giorno dei morti del 1974, e a chi gli chiede cosa farà in futuro risponde che il futuro può aspettare. Altrimenti che razza di futuro è?

Cosa si capisce di un popolo e di un Paese studiando la storia dei suoi criminali?

Cultura, popolo, Paese… sono tutti concetti che non rimandano a qualcosa che esiste in natura ma che, attraverso il linguaggio, contribuiscono a ordinare il caos indistinto del mondo in cui viviamo. La criminalità, da questo punto di vista, è come un’immagine sfocata e distorta: una realtà che si tende a negare e a mistificare e che spesso viene utilizzata per tranquillizzare le coscienze, per scaricare su determinati individui – i criminali – quelle che sono le colpe del nostro stile di vita e del nostro sistema sociale. Scrivere la storia della criminalità, allora, significa raccontare il passato mettendosi dalla parte di chi ha perso, mettere il dito nelle piaghe di ferite profonde, vite umane spezzate, sfide destinate alla sconfitta, esistenze che si consumano nei sinistri segreti delle galere, amori profondi distrutti dalla sentenza di un tribunale. Ecco: quando, per raccontare la criminalità, si abbandonano i toni di condanna – accorati, comprensibili e spesso “complici” nel loro essere scontati – che caratterizzano le pagine dei giornali e i fotogrammi dei notiziari televisivi, ci si addentra in luoghi in cui un posto come l’Italia non è più il Paese del sole, della pizza, dell’amore per la mamma e del mandolino ma una nazione fondata sullo stragismo di Stato ed edificata attraverso gigantesche speculazioni edilizie, un Paese dove la povertà diffusa si è scontrata e si scontra con il continuo invito all’edonismo veicolato dai mezzi di informazione, un luogo in cui un ladro, un assassino, un rapinatore può diventare l’eroe maledetto della disperazione collettiva, protagonista di sogni proibiti eppure veri, oggetto di ammirazione e, in alcuni casi, addirittura oggetto di rivendicazioni politiche e identitarie. Non c’è dubbio, insomma, che studiano la storia della criminalità si può capire moltissimo del popolo e del Paese che la produce. Una conoscenza che, per forza di cose, si scontrerà con la dimensione confortante delle tante verità ufficiali e che, nel momento in cui riuscirà a mettere a fuoco l’istantanea di un luogo molto più simile a quello in cui abitiamo… ci ricorderà chi siamo, facendoci un po’ male.

Come nasce la voglia di raccontare questi sessant’anni di cronaca nera da Salvatore Giuliano a Lupo Liboni?

a.ic2-9788854117549Protagonisti dell’immaginario collettivo, abitanti di film di successo e di canzoni popolari, ospiti fissi delle galere e dei tribunali, depositari di segreti inquietanti e di misteri, i criminali sono tra noi. Mi affascinava l’idea di mettere gli strumenti della narrazione al servizio di un’idea alternativa di storia e così ho scritto Italia criminale.

C’è un personaggio – tra tutti quelli di cui racconti le terribili gesta nel tuo libro Italia criminale – che ti ha colpito particolarmente?

Horst Fantazzini, il “rapinatore gentile”, Renato Vallanzasca, Danilo Abbruciati della banda della Magliana, Paolo Casaroli, Sante Notarnicola e Ugo Ciappina sono, dal mio punto di vista, i personaggi più interessanti del libro. Accanto a loro vorrei ricordare la figura di Jim Brown, uno strano bandito nero che, durante la seconda guerra mondiale, dissertò l’esercito degli Stati Uniti per mettersi alla testa di un gruppo di rapinatori toscani, specializzati nel depredare i camion a stelle e strisce lasciando sui luoghi del delitto una strana firma: gli autisti, infatti, venivano regolarmente ritrovati ammanettati a qualche palo, illesi ma completamente nudi. Un gesto provocatorio e difficilmente spiegabile senza fare riferimento alle future lotte di emancipazione dei neri americani, al black power e a Malcom X: un discorso estremamente affascinante se si pensa che non stiamo parlando di New York, Los Angeles e Chicago ma della campagna italiana anni ’40!

Perché le canaglie sono sempre un po’ simpatiche? A parte gli scherzi: da dove nasce il fascino del crimine secondo te? E perché i libri come Italia criminale (o come Roma criminale) hanno tutto questo successo?

a.rc.293La “canaglia”, molto spesso, è qualcuno che alla resa dei conti si ritrova da solo a combattere contro tutto e contro tutti. Credo che sia questa situazione ad accendere la fantasia del “pubblico” e a muovere nella gente sentimenti, se non di pietà, almeno di simpatia. Le storie di criminalità, poi, sono sempre storie forti: storie di sesso e di sangue che si imprimono nella memoria e che – complice una scrittura poetica e intrigante (spero) – diventa emozionante ricordare anche attraverso la lettura di libri come “Italia criminale” e “Roma criminale”.

La maggior parte delle volte chi scrive di un argomento non ama leggerne: capita così che gli autori dei thriller più sanguinari siano fan della narrativa romance, o che degli storici adorino Stephen King. E’ così anche per te o il crimine ha appeal su di te anche come lettore?

Come lettore, in effetti, non mi sento appagato né dal thriller classico né dalla cronaca nera. Preferisco frequentare i romanzi di Charles Bukowski, Mohamed Choukri e Abasse Ndione. Ho una forte simpatia per la narrativa di Gianluca Morozzi e, per stare all’interno di un genere più simile a quello di “Italia criminale”, per i noir mediterranei di Bruno Ventavoli. L’esperienza letteraria più emozionante che ho vissuto negli ultimi tempi, però, è quella che mi viene dalla lettura delle poesie di Francesca Genti e del suo “Il vero amore non ha le nocciole”: versi romantici e di grandissima forza espressiva, una scrittura bellissima ma che, effettivamente, sarebbe difficile archiviare alla voce “letteratura criminale”.

Perché raccontare le storie delle vittime di quella che tu nel tuo saggio Cuori rossi definisci “la terza guerra civile italiana”? E soprattutto la voglia di raccontarne la quotidianità nascosta dietro al ritratto pubblico?

Cuori rossi di Cristiano ArmatiLa voglia di raccontare le storie delle vittime, o meglio, dei caduti della sinistra italiana, mi è venuta in due momenti diversi. Intanto, mentre facevo le ricerche necessarie a scrivere “Roma criminale” e “Italia criminale”, mi sono imbattuto in molte tracce che, con grande parzialità, rimandavano a quella che era stata la vita delle innumerevoli persone – ce n’è per tutti: uomini, donne, vecchi e bambini – uccise da aggressioni neofasciste o dalle forze dell’ordine nel corso dei sessant’anni di storia della Repubblica Italiana. In un primo momento mi sono limitato a mettere da parte tutti i documenti e a pensare. Poi, quando ho iniziato a ritrovare i nomi dei “cuori rossi” scritti da mani ignote sui muri dei quartieri dove erano nati o delle vie dove hanno trovato la morte, ho capito che le loro storie non erano state dimenticate, al contrario, non solo vivevano nei ricordi dei tanti che gli erano stati vicini ma erano state trasformate in simboli che, con il passare del tempo, rimandavano agli stessi ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. Dietro i ricordi che era possibile associare ai “cuori rossi”, però, non si nascondevano soltanto discorsi sui massimi sistemi, al contrario, si agitavano ritratti più intimi: racconti di passioni e di scelte quotidiane, dettagli sui gusti letterari e musicali, abitudini, soprannomi e piccole o grandi manie… ecco, calandomi in questo magma di rabbia ed emozione, ho capito che sarebbe stato molto più interessante non limitarsi a raccontare il contesto generale a cui può essere imputata la morte dei “cuori rossi” italiani ma provare a parlare direttamente delle singole persone, nel tentativo di ascoltare ancora una volta la loro voce.

Le storie terribili di Cuori rossi rappresentano episodi – tragici ma legati a fatti contingenti – oppure elementi di una simmetria, tappe di un percorso comune nelle quali la casualità ha poco spazio?

Quando si viene uccisi da una pallottola esplosa dalle forze dell’ordine, non si viene uccisi dalla “casualità”, ma da un progetto che, in nome dell’ordine pubblico, non esita a criminalizzare ciò che in democrazia dovrebbe essere concepito come un “diritto”: manifestare il proprio dissenso, prima di tutto. Allo stesso modo, quando si viene uccisi da un’aggressione neofascista, non è il “caso” che toglie una vita. A togliere la vita, invece, è una cultura della sopraffazione che troppo spesso, dietro i concetti mistificati di “onore” o di “virilità” ha covato la pratica dell’attacco squadrista e la volontà di colpire tutto ciò che – posizioni politiche, preferenze sessuali o colore della pelle – poteva essere classificato come “diverso”. Se a tutto questo si aggiunge che sull’Italia pende un sistema di controllo sociale targato CIA – un vero e proprio piano di annientamento della sinistra elaborato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale – si capisce che la casualità, con le storie raccontate da “Cuori rossi”, non ha davvero nulla a che fare.

Cuori rossi, cuori neri… le differenze secondo te sono soltanto di schieramento oppure la linea di pensiero secondo la quale tutti i militanti in fondo sono uguali e ciò che li definisce è solo la dimensione della militanza in sé è un inganno?

Negli ultimi anni, in Italia, si è assistito al trionfo della negazione della matrice politica della violenza: una negazione funzionale alla “corsa al centro” in cui si stanno impegnando tutti i partiti del così detto “arco costituzionale”. Su questo altare, però, è lo stesso spirito della Costituzione a essere sacrificato, dimenticando che l’Italia è prima di tutto una Repubblica nata grazie alla Resistenza. Credo che basti affermare questo per sottolineare come sia impossibile mettere i “rossi” e i “neri” sullo stesso piano. E non è certo un caso se, dietro l’etichetta di “rossi”, ci sia la grande tradizione del Movimento operaio e democratico, mentre la parola “neri” indica ancora oggi gli eredi di un regime responsabile di atroci efferatezze, a cominciare dalla complicità con le camere a gas della Germania hitleriana: si tratta di un punto sul quale è sempre necessario fare chiarezza, a meno che non si preferisca fare finta di niente e dimenticare…

Che effetto ti fa – a te che nasci come poeta e come romanziere – essere ormai percepito da decine di migliaia di lettori come giornalista-saggista?

È una domanda bella e complessa. Sopratutto è una domanda tutt’altro che ovvia. La differenza tra scrittura narrativa e scrittura saggistica, infatti, è senz’altro presente tra gli addetti ai lavori. Andando tra il “pubblico”, invece, ho avuto modo di scoprire che le cose stanno in maniera diversa e lo “scrittore” torna a essere semplicemente “colui che scrive”. Per quanto mi riguarda, comunque, le dimensioni della narrativa, della poesia e della letteratura d’inchiesta, non sono altro che diverse sfaccettature della stessa materia (e recuperando gli anni del mio impegno universitario posso aggiungere a queste categorie anche la scrittura etnografica… avrei un paio di saggi inediti sull’argomento!): la pubblicazione di una silloge di poesie piuttosto che di un articolo di critica letteraria può far pendere la percezione del tuo lavoro da una parte o dall’altra… ma dietro ci sono sempre io! E da questo punto di vista posso anticipare una novità: a febbraio, sempre per la Newton Compton, uscirà un mio nuovo libro di racconti. Si chiamerà “Roma noir” e sarà un libro di narrativa a tinte forti: chi mi ha seguito fino a qui troverà in questo volume qualche eco di “Italia criminale” e alcuni personaggi già tratteggiati in “Rospi acidi e baci con la lingua”. Chi ha creduto di potermi incasellare in una categoria precisa, forse, resterà deluso: ma per me è importante scrivere, non certo rivestire un ruolo!

Che peso ha Roma nella tua scrittura, nel tuo immaginario, nei tuoi interessi? Ti senti uno scrittore “romano”?

Roma ha un peso senz’altro notevole in quello che scrivo. Ma si tratta, com’è normale, di una “mia” Roma. Si tratta, in modo particolare, di una Roma sospesa tra le borgate della zona nord e i paesi della provincia: una città che, a livello narrativo, è stata messa spesso in ombra dagli innumerevoli racconti ambientati nei suoi quartieri più borghesi o ai margini del suo immenso patrimonio artistico. Nei miei libri, invece, la stazione degli autobus di Saxa Rubra diventa più importante del Colosseo e i portici delle case popolari di Nuovo Salario un luogo decisamente più vitale dei Parioli. Anche la lingua, ovviamente, ne risente e, tenendo presente queste coordinate, non ho problemi ad affermare che sì, mi sento uno scrittore “romano”.

Quanto c’è di autobiografico nel tuo Rospi acidi e baci con la lingua?

Moltissimo. Ma l’abitudine di scrivere di ciò che sento e vedo è la caratteristica principale della tradizione alla quale mi sento di appartenere: la tradizione del realismo sociale; un modo di intendere – e di vivere –  l’estetica dell’arte che può essere rintracciato nei libri di autori come Pier Paolo Pasolini, Elio Vittorini o Cesare Zavattini, soltanto per limitarsi ai nomi di alcuni mostri sacri che mi sono particolarmente cari.

Sei spesso protagonista di reading poetici nei quali l’elemento musicale ha un peso non indifferente: vuoi parlarcene?

È vero, insieme al polistrumentista punk Romano Pasquini porto avanti uno spettacolo di speaking words che mi appassiona molto. Un reading sospeso tra l’immediatezza ritmica del rap e la grande scuola dell’ottava rima romana. Il testo che stiamo portando in giro per l’Italia in questo periodo si chiama “Tutta robba rubbata a Milano”: trenta minuti di amore, lotta e realtà post-urbana. Il nostro desiderio è quello di trovare il tempo e le energie per ampliare il discorso, coinvolgere altri performer e musicisti e arrivare a incidere un disco sperimentale.

Gli eterni anni di piombo. Vita e morte dei “cuori rossi”

Recensione di Matteo Tonelli, da Repubblica.it del 25 ottobre 2008

a.cuoriROMA – “Tutti gli anni sono di piombo”. Con la loro scia di sangue che parte nel 1944 con la strage del pane a Palermo, passa per gli anni ’70 e arriva ai giorni nostri. Si chiama Cuori rossi il libro scritto da Cristiano Armati (Newton Compton. 473 pagine. euro 16,90). Quasi cinquecento pagine per raccontare “la terza guerra civile italiana”, le storie delle tante vittime con il cuore che batteva a sinistra. Un libro che è un’esplicita risposta a quel Cuori neri uscito un anno fa che parlava dei morti di destra degli anni ’70.
Armati però va oltre. Non circoscrive il periodo. Parte da lontano, con la strage di Portella della Ginestra e quella della Fonderia Riunite a Modena nel 1950. Braccianti e operai massacrati mentre rivendicavano i loro diritti. Vittime, loro come quelli che verranno in seguito, “della violenza fascista e di una violenza a cui nemmeno le forze dell’ordine possono dirsi estranee”. Armati ripercorre le vite, spezzate, di tanti militanti o simpatizzanti della sinistra uccisi dai neofascisti o dalla polizia. Li lega tra di loro, come protagonisti di un’unica trama che si svolge negli anni. Ciò che viene fuori, però, non è un’enciclopedia, una semplice raccolta cronologica di fatti di sangue. E’ piuttosto il tentativo di spiegare quella “terza guerra civile italiana”, un conflitto “a bassa intensità”, in cui si sono intrecciati (e per Armati si intrecciano ancora), “eserciti clandestini, servizi segreti deviati, collusioni con la criminalità, per intimidire e spesso uccidere pensieri scomodi e persone ritenute pericolose”.
Come Alceste Campanile, Peppino Impastato, Fausto e Iaio a Milano e Valerio Verbano freddato davanti agli occhi dei genitori a Roma. E ancora la mattanza del G8, il corpo di Carlo Giuliani riverso in una pozza di sangue. Auro Bruni che muore nell’incendio del centro sociale Corto Circuito a Roma. E Federico Aldrovandi per la cui morte sono sotto processo alcuni poliziotti.
E si arriva così ai giorni nostri con la storia di Renato Biagetti, ucciso a coltellate a Roma al termine di un concerto di un centro sociale. E alle recentissime aggressioni organizzate dai militanti dell’estrema destra a Roma e a Verona.
E così, c’è anche spazio per chiedersi, come fa l’autore, se la morte di ragazzi come Luca Rossi, Francesco Lorusso o Giorgiana Masi, uccisi da “pallottole vaganti” può essere spiegata davvero come una tragica fatalità o se ci sia altro. Magari quella guerra non dichiarata ma spietata che ha lasciato sul terreno decine di cuori rossi. Spezzati.

Poverino

La mattina ho gli occhi chiusi come i gatti appena nati. E ho la barba lunga anche se sono appena stato dal barbiere. Tutt’intorno, i rubinetti gocciolano. E l’aria sembra sia appestata dal cadavere di un cane morto, nascosto da qualche parte, sotto il letto. La prima macchinetta di caffè si risolve in una bestemmia quando, sul fuoco, ci finisce senz’acqua. E per andare al bar è tardi, vicino casa nemmeno in doppia fila c’è posto.
Lo schienale della macchina – qualche ubriaco, di notte, ha urtato lo specchietto che adesso pende sul lato del guidatore come un braccio spezzato – mi fa sentire sulla schiena una chiazza di sudore, sempre più grande, sempre più grande. E la gente che mi circonda è come me, rinchiusa in un rancore che nasce da qualche parte ma che ormai è divento un’abitudine sorda: il bisogno impellente di imprecare, di stringersi dentro uno sguardo torvo, di morire a poco a poco, salutando con il clacson che lacera i timpani la sentenza con cui, tutte le mattine, si monta in macchina per andare a lavorare.
Fantasie di morte per la signora che si piega le ciglia al centro della carreggiata e l’uomo grasso e brutto, con le dita infilate nel naso come per cercare un’illuminazione. Bestemmie per chi tiene alti i giri del motore con la pretesa di infilarsi nel varco lasciato libero da un autobus in manovra. Atroci sofferenza anche per i bambini, incolonnati con la grazia della carne in scatola davanti ai cancelli della scuola. Incubi per l’orologio che, all’incrocio tra via dell’Acqua Fredda e la complanare che porta alla Pisana, sentenzia un ritardo impossibile da recuperare: merda; il sole rimbalza sull’asfalto e mi ferisce. Il desiderio fugge strisciando nelle cunette pur di non sedermi accanto. Le ascelle, irritate, mi bruciano e i sedili in finta pelle della mia macchina non mi consolano: il semaforo è rosso. Mi fermo. E la vedo. Fa caldo ma lei non suda. Solo la sua pelle, scura, sembra diventare più morbida mentre si porta un ragazzino al seno. Le macchine finalmente stanno zitte. Lei, allegra, le accosta tendendo la mano. Io l’aspettavo: mi costa un euro ogni giorno farmi spiegare la vita. Quando arriva il mio turno, Lei mi dice soltanto: «Domani parto».
«E dove vai?»
«A casa, in Bosnia. Mi faccio un po’ di vacanze, ritorno tra due mesi».
Le porgo la mia moneta, adesso anche io sorrido.
«E tu, quand’è che vai in vacanza?», mi chiede.
Io non vado in vacanza. Ad agosto mi chiudo dentro casa, sudo e scrivo: «Io devo lavorare, per me niente vacanze».
Lei si stringe nelle spalle: «Ma dai». Poi mi carezza la guancia e, sulla mia condizione, riflette: «Poverino…».
Il semaforo è verde e qualcuno, da dietro, riprende a suonare. Metto la prima e lei resta lì: avanzo e la saluto con gli occhi.
Affondo il piede sull’acceleratore e ci metto pochi secondi a superare i cento all’ora. Guardo il contachilometri salire mentre mi lancio in un sorpasso a destra. Poi anche io lo penso.
«Poverino…».

Quando l’uomo bianco è perplesso

Lo zenzero, contorto, aspettava affastellato alla rinfusa. Faceva compagnia a porri giganteschi, dal sapore forte e di color verde scuro. Le patate dolci erano impilate dentro cassette di legno, venivano dall’India, il paese di Indira.
Di Indira mi piacevano i vestiti: velluti dorati sulla pelle scura e, sull’ombellico, un anello d’argento e pietre dure. Lei l’avevo conosciuta camminando: la via Appia per piazza San Giovanni, poi su, attraverso Piazza Santa Croce fino a Piazza Vittorio, tra i banchi del mercato, sotto al sole. L’uomo del pesce dava ai gatti quello che gli era rimasto: branchie, fegatelli, squame, tante spine, un carapace vuoto di granchio. Indira stava là, poi mi avrebbe svelato di essere capace di capire il sesso dei gattini dallo sguardo.
Io, Indira, la guardo negli occhi: lei, ferma con le buste della spesa tra le mani; più tardi sarei rimasto incantato nel vederla cucinare. Sono io che le porto le buste della spesa su per le scale del palazzo con i soffitti alti e le finestre spalancate sopra il mercato. L’ascensore è rotto. Indira abita al quinto piano. Quando passa la metropolitana trema tutto il pavimento, intanto faccio come mi dice lei e mi metto seduto. Zenzero, cannella, curry, pepe nero, noce moscata: Indira conosce mille modi per addomesticare il riso basmati. Le polveri si infiammano nella padella rovente, si sciolgono in olio profumato. Indira, da bere, mi ha dato un bicchiere di yogurt bianco pieno di cubetti di ghiaccio. Non bastano alle mie passioni per smettere di sognare più caldo del sole che fuori sta sciogliendo l’asfalto. Il riso basmati arriva in un piatto incorniciato da elefanti azzurri, lo prendiamo con le dita e lo mangiamo. Con la lingua rubiamo i chicchi che ci facciamo scappare dalle labbra. Girando intorno al piccolo tavolo di legno della cucina, Indira viene a prendermi. Una sua mano stringe la mia sulla pelle calda della pancia fermando il gioco che cercavo intorno al cerchio d’argento dell’ombellico. Poi, vicino alle orecchie, Indira sussurra: “Aspetto un bambino”.
Sotto casa di Indira è quasi finito il tempo del mercato. Mille cassette per la frutta sfasciate e torzoli marci di insalata non turbano l’ordine dei sacchi pieni di spezie che vende Alì. Lui se ne sta seduto su una sedia di vimini e aspetta i clienti. Con una premonizione risponde al mio saluto: “Quando l’uomo bianco è perplesso mangia il cous-cous”.

Roma criminale di Armati e Selvetella

Recensione di Luca Moretti, da Terranullius.it

a.roma-criminale_1157_x600Con la morte di Remo, il Natale di Roma era compiuto e Amor sarebbe stata la parola esoterica che i pontefici avrebbero sussurrato nei secoli dei secoli nelle zone più recondite delle loro celebrazioni. Da quel momento in poi non aveva più nessuna importanza il luogo da dove si veniva, né si sarebbe dato credito a ciò che ognuno si lasciava alle spalle: chiunque avesse avuto la voglia di entrare nel solco tracciato da Romolo e santificato da Remo sarebbe diventato il figlio del dio della guerra e della dea dell’amore, sarebbe diventato un romano.

Ci sono momenti in cui Roma mi è sembrata oscura, buia: quando hanno ammazzato Paolo Frau ad Ostia, quando periodicamente andavo a fumare all’Idroscalo, luogo scempio dell’omicidio di Pasolini o quando mi fermavo davanti alla lapide in onore di Paolo Rossi alla Sapienza. Sono pochi anni che si cerca di dare una sistemazione concettuale al crimine romano, in fin dei conti Roma è la capitale, a Roma ci sono i ministeri e gli stronzi in doppiopetto, a Roma c’è il Tevere che trasborda e topi grandi come lontre, ma questa è un’altra storia e in certe fogne è meglio non scavare.

Roma è stata, è e rimarrà nei secoli una città oscura, che nel crimine di piazza come in quelli di palazzo, ha fondato il suo benessere e la sua sopravvivenza, è stata il luogo di convivenza corale tra pezzenti e politici, killer e ingegneri, folli e tristemente sani di mente.

Cristiano Armati e Yari Selvetella attraversano la Città Eterna spinti da un vento freddo che ricongiunge e si fa sintesi del luogo, dalle borgate pasoliniane fino ai centri più oscuri del potere. Roma Criminale ripercorre la storia della capitale dalla sua fondazione, a partire da Romolo, nuovo Caino, fino alle cronache recenti, all’omicidio di Marta Russo e al fuggitivo Liboni.

Delitti cruenti e stupri di gruppo legano indissolubilmente la storia recente con quella passata: Sonzogno, Pecorelli, Pasolini sono solo alcune delle vittime di una Città che ha visto quotidinamente farsi rosso il sangue sulla lama del coltello. Nonostante la prudente impostazione saggistica, il libro presenta un grande talento affabulatorio; ci chiediamo se la bravura sia degli autori o, ancora, dell’Eterna Meretrice, con i suoi sampietrini e le sue chiese, un locus amenus finalmente riconsegnato alla patria del noir, che nulla ha da invidiare alle moderne ambientazioni francesi o americane. E’ un libro da leggere e sfogliare, in cui poco importa la cronologia dei singoli casi, essi hanno vita propria e una soluzione ancora lontana.

La leggenda di Anagnina

Dove finisce la città e comincia la periferia, ci vogliono venti fermate di metropolitana per arrivare fin qui partendo dal centro e scendendo alla stazione di Anagnina. Nelle aiole sono stati piantati i semafori: la loro luce rossaè una benedizione per quelli venuti da paesi lontani a lavare i vetri delle macchine in cambio di tanti insulti e qualche monetina. La poca erba corrosa che è rimasta ai lati della strada è buona soltanto alla pancia stremata di un cammello che sogna il deserto e sputa per terra quando la frusta del domatore glielo chiede: una volta all’anno, qui ad Anagnina arriva il circo con le sue roulotte scassate e il suo tendone scolorito. Con un euro si prende lo zucchero filato. Con tre euro si possono lanciare cicche arroventate a scimmie moribonde. Con cinque euro si assiste allo spettacolo completo: i gargarismi di fuoco della donna cannone, la lotta di un sandokan pelato con il feroce alligatore, l’eccitazione per i giorni migliori di una ballerina brasiliana, più nuda delle sue gambe con le vene varicose.

Al circo di Anagnina, ormai, hanno smesso di esibirsi le star internazionali: l’uomo-bruco è morto e Jack “faccia da cane” è andato a vendere la sua deformità altrove. Arriva la sera e le tribune restano vuote. Spettacolo dopo spettacolo, il circo naufraga senza nessun testimone. Il domatore dimentica di essere spietato, spalanca le gabbie e dice alle sue bestie: “Arrangiatevi se volete trovare da mangiare”.

L’erba secca andava bene al cammello e, nelle fogne aperte sotto il cielo, trovò rifugio il feroce alligatore. Ma alla ballerina il cibo non bastava, lei poteva vivere soltanto di danza e di passione. Passione offerta ai lavavetri e comprata a prezzi popolari: dieci euro per la bocca, venti per l’amore. Amore senza precauzione: dalla pancia delle ballerina saltò fuori una bambina che aveva addosso i cinque continenti. Il bruno della terra, il giallo del sole, il rosso del furore, il bianco del freddo in fondo al cuore. La bambina si presentò al mondo dalla parte dei piedi e, come levatrice, ebbe soltanto la Donna Cannone. Così, appena nata, la bambina perse la mamma e trovò un padrone: un domatore di seconda classe, un dittatore che non aveva ancora imparato a nascondere la frusta e ad accendere la televisione. Tra tutti i santi del calendario e i cartelli della metropolitana, il domatore fece confusione e non trovò alla bambina un nome più bello di quello di Anagnina. Anagnina Sanchez per l’ufficiale di stato civile un po’ ubriaco che dimenticò i dati necessari alla sua registrazione. Lui beveva tanta grappa e Anagnina non seppe più quanti anni aveva. Da ragazzina, Anagnina abitò insieme a quelli del circo, ma soltanto finché fu capace di entrare tutta intera dentro una scatola di scarpe, perché le ossa che si allungano per accogliere la carne non fanno bene alla carriera di una contorsionista. Le tette che si gonfiano, invece, alzano il coperchio della scatola e dicono al domatore che è arrivato il momento di insegnare ad Anagnina come si fa a soddisfare quel desiderio di ballare che una volta era stato di sua madre ma che adesso era suo. Lo stesso desiderio che salva Anagnina dalle ire di un controllore quando, sulla metropolitana, viene sorpresa a viaggiare senza biglietto. Troppo cresciuta per essere ancora una contorsionista, Anagnina era stata mandata via dal circo con un’unica consolazione: un talismano che la donna cannone aveva confezionato lucidando nella sua barba un dente di cammello. Con questo amuleto appeso al collo, Anagnina seguì il controllore negli uffici dove stampano i biglietti della metropolitana: se era cresciuta troppo per fare la contorsionista, Anagnina era cresciuta al punto giusto per cominciare a fare la puttana. Anagnina obbedisce ai clienti e, se si mette in ginocchio, non lo fa certo per pregare, ma per impastare il suo pane con chi paga: domatori di leoni, controllori di biglietti e poi soprattutto poliziotti. Gente interessata a verificare che Anagnina fosse in regola con la questione dei permessi di soggiorno e quella dei passaporti.

I poliziotti chiudono gli occhi sui documenti che Anagnina non ha mai avuto e li riaprono davanti a qualcos’altro: il corpo di una ragazza completamente nuda con, appeso al collo, il dente di un cammello avvelenato dal monossido di carbonio che l’animale mangiava insieme all’erba di Anagnina, non la ragazza, ma la stazione della metropolitana. Luogo sperduto dopo le ore di punta, la stazione di Anagnina viene popolata, improvvisamente, da una lunghissima processione di persone in uniforme: poliziotti, guardie di finanza, ispettori forestali, carabinieri. Si raccontavano l’uno con l’altro, i militari, quello che stava succedendo grazie al corpo di una ragazza che aveva addosso tutti i continenti e che trasformava i gradi delle divise e le mostrine in miracolosi rimedi contro i mali. Così le guardie smisero di essere sergenti, caporali, marescialli e capitani; persero le  pistole ai fianchi, le le torture in caserma e le ulcere gastrointestinali e, come per magia, diventarono giardinieri, fornai, pasticceri, muratori e falegnami.

Questa storia, accaduta allora, adesso è una leggenda: qualcosa che si sente raccontare a bassa voce dai più vecchi tra tutti i pendolari. Qualcosa che consiglia a tutti di cercare bene perché da qualche parte deve pur danzare ancora la seconda bocca della ragazza che si chiama come una fermata della metropolitana: Anagnina; la ragazza che, prima di diventare santa, era stata guaritrice di poliziotti, puttana, contorsionista e ballerina.