L’amore che ho cercato

Recensione di Giuditta, da Libri.tempoxme.it del 27 febbraio 2013

L'amore che ho cercato di Cristiano ArmatiUn personaggio urticante Cappa, in L’amore che ho cercato di Cristiano Armati (Giulio Perrone, 2013), che ha il fascino perverso delle persone complicate. Ha il potere ipnotico di trascinarci in un’Africa vera, fatta di incontri e persone fatali, soprattutto donne, in contrasto con l’ipocrita e falsa Roma, in cui si ritrova a riprendere l’inconsistente vita di sempre, accanto a una donna, Sofia, che non ama ma che lo sopporta con passione e che sta per mettere al mondo una figlia. Cappa ha lasciato in Mali il vero se stesso e il grande amore della sua vita, Fatou, dopo aver sperimentato l’accoglienza di diverse donne.

Lo stile di Armati trascina in un turbine di sensazioni contrastanti, come multiformi sono i registri da lui usati, dall’alto al basso, che vale anche per il lessico che sa avvalersi delle forme scurrili e ampliarsi nella ricchezza di immagini e riflessioni. A volte greve e aggressiva, la filosofia di vita che è alla base dell’avventura africana di Cappa e che lo spinge all’irrequietezza e al disagio al ritorno a casa, tocca emotività profonde, espresse con lucidità tagliente:

Della famosa favola della volpe e l’uva, a me è un certo senso paradossale che la pervade ad avermi sempre affascinato. Perchè quando la volpe lascia perdere l’uva e se ne va dicendo che tanto l’uva è acerba, tutti godono nel vedere la volpe come una fallita e un’incapace. Mai nessuno che si chieda se l’uva non fosse stata acerba per davvero. Un modo come un altro per non immalinconirsi troppo. Perchè la volpe, in realtà, ha avuto la forza di fare esattamente ciò che a chi legge la favola è ignoto: rifiutare quello che passa il convento. Pensare che non sia affatto meglio accontentarsi. Cercare altrove anche quando il prezzo da pagare è quello di non mangiare affatto.

Cappa nella vita non è disposto ad accontentarsi, ma nello stesso tempo non trova la forza e la risolutezza di portare avanti un progetto più ampio di una vacanza. Esponente eccentrico di una generazione in bilico, che non sa da che parte andare e si ritrova allo sbando:

Giro su me stesso, prendo due volte il guardrail e mi fermo finalmente addosso a un palo, entrato dentro al cofano e arrivato a sfondare il parabrezza.

Sarà questo il punto di arrivo? La meta auspicabile?

Nell’Africa è il capovolgimento delle prospettive, l’unico luogo in cui Cappa ritrova un equilibrio, ma è come guardare il mondo a testa in giù, in un frenetico e continuo girovagare tra donne, alcool e bivacchi. Uno sguardo frammentato, che slitta dal piano personale a quello sociologico e politico, con punture fulminee che lasciano un fastidioso e persistente prurito. Armati, con la sua prosa tagliente, riesce a non edulcorare il mondo africano ma nello stesso tempo a mostrarne l’estrema libertà, il sogno, l’incanto che travolge Cappa. Un antieroe che non cerca simpatia nei lettori, ma che si lascia raccontare in tutta la carica sovversiva della sua figura:

Rispetto per quelle che sono le prerogative umane: mangiare quando si ha fame, andare a letto quando si ha sonno, conoscere l’amore quando è propizio il vento. Alzo le braccia al cielo e spero presto. Presto io e una donna nello stesso letto: la porta chiusa in faccia a tutti e la vergogna trasformata in un concetto alquanto strano; roba che non provano quelli come me: i nati privi del peccato originale.

Personaggi come Cappa, con l’acredine lucida verso il mondo in cui viviamo, con la violenza tracotante che è propria della loro indole, sono i più indicati a squarciare il velo inconsapevole con cui il nostro sguardo si poggia sulla realtà che ci circonda e sull’altrove.

 

“Ribellarsi è giusto”. L’orizzonte di Fidel Castro e della Rivoluzione Cubana

Si potrebbe parlare del 10 ottobre del 1868 e sostenere di trovarsi in quel di Yara, la cittadina della provincia di Oriente dalla quale Carlos Manuel de Céspedes y Quesada aveva lanciato il famoso «grido» con cui si invitavano tutti i cubani a imbracciare le armi e a lottare per l’indipendenza. Non fosse stato chiaro in quel momento, ci avrebbe immediatamente pensato Antonio Maceo, il «Titano di bronzo», uno dei comandanti del primo esercito rivoluzionario, a precisare che «la libertà non si mendica, ma si conquista con il filo del machete».

In realtà, quasi un secolo divide il periodo glorioso in cui a Cuba si iniziava a combattere per abolire la schiavitù e per cacciare gli spagnoli rispetto al momento in cui un pugno di giovani male armati, capitanati dall’avvocato Fidel Alejandro Castro Ruz, decide di assaltare la caserma Moncada e la stazione militare di Bayamo con l’intenzione di incitare il popolo e l’esercito alla ribellione, sconfiggere il dittatore Fulgencio Batista, instaurare un governo rivoluzionario e, finalmente, grazie all’adozione di precise misure politiche ed economiche, dare un senso compiuto alla tanto sospirata «indipendenza» e alla così a lungo agognata «libertà».

I giorni di Fidel Castro sono quelli successivi al 26 luglio del 1953 quando, alle 5 e 15 del mattino, era stato lanciato il coraggioso attacco agli obbiettivi militari prescelti e quando, subito uno sfortunato rovescio, il manipolo di ribelli era stato costretto a organizzare una veloce ritirata, braccato dai soldati di Batista, immediatamente pronti a uccidere e a torturare, a sparare colpi a bruciapelo su prigionieri inermi ma anche a cavare occhi e a strappare testicoli per ottenere impossibili confessioni pur di mantenere un regime fondato sul più bieco nepotismo e sulla corruzione dilagante e generalizzata dei pochi approfittatori a cui appartenevano le leve del potere.

Sconfitti, ma come si vedrà niente affatto vinti, i resti della piccola avanguardia castrista – cioè il nocciolo duro del Movimento «26 luglio» – si ritroveranno, rigorosamente isolati, nelle celle di un carcere e quindi, in momenti diversi, alla sbarra degli imputati nel tribunale improvvisato all’interno della Sala delle Infermiere dell’Ospedale «Saturnino Lora» di Santiago di Cuba, il luogo in cui Fidel pronuncerà il discorso divenuto famoso in tutto il mondo con il titolo di La storia mi assolverà.

In realtà, nella Sala delle Infermiere, tutto sembrava sapientemente e violentemente orchestrato dal regime affinché la voce del malcontento popolare raccolta dal Movimento «26 luglio» fosse soffocata nel silenzio insieme alle istanze della parte più progressista della gioventù cubana; quella «Generazione del Centenario» che, a cento anni dalla nascita di José Martí, era pronta a battersi per pretendere le conquiste sociali già annunciate da «L’Apostolo» dell’indipendenza, ma, nei fatti, disattese da governi asserviti al proprio tornaconto personale oltre che al giogo dei nuovi padroni statunitensi e agli interessi dei vari potentati economici e mafiosi, colpevoli di aver trasformato Cuba in un bordello a cielo aperto, sempre pronto a soddisfare i voraci appetiti dei corrotti signori locali e/o dei ricchi turisti e uomini d’affari nordamericani.

Così, mentre le multinazionali della frutta prosperavano sulle spalle dei contadini e le aziende statunitensi del telefono e dell’elettricità pretendevano dalla popolazione cubana tariffe triple rispetto a quelle applicate nella madrepatria, a Cuba una fascia sempre più ampia di sottoproletariato urbano e rurale pativa la fame, sopravvivendo a stento in capanne senza né acqua né luce o in misere baraccopoli mancanti di tutto, preda dell’analfabetismo di massa e della piaga endemica della disoccupazione.

La situazione – gravissima – non poteva certo definirsi «casuale». Al contrario, non era altro che la diretta conseguenza della realtà neocoloniale: un assurdo sistema che rapinava (e continua a rapinare) i paesi come Cuba delle loro materie prime per poi derubarli una seconda volta, rivendendo a prezzi maggiorati il frutto delle lavorazioni industriali eseguite esternamente. In teoria si tratta di un perfetto strumento di sfruttamento e di dominio, nella pratica – come è stato dimostrato – soltanto una feroce «tigre di carta», capace di perpetuarsi a patto di mantenere (a spese dei dominati) un implacabile esercito di dominatori e, a livello ideologico, di spacciare come «giusto», «normale» o «naturale» ciò che, in realtà, è il frutto amaro dello sfruttamento e dell’arbitrio.

a.FIDEL-26-JULIOQuesta è la situazione in cui, dopo settantasei giorni di isolamento, il 16 ottobre del 1953, Fidel Castro prende la parola. Il Pubblico Ministero si è già espresso spendendo appena qualche minuto per chiedere nei confronti del leader del Movimento «26 luglio» ben ventisei anni di carcere. Che una simile pretesa si fondi su un testo di legge contrario alla stessa Costituzione cubana, stravolta dopo il colpo di Stato di Batista del 10 marzo del 1952, non sembra avere nessuna importanza. E che esercitare il proprio diritto alla difesa all’interno di un finto tribunale, circondato da militari armati fino ai denti, sia quanto meno una beffa, non crea alcun problema al regime di Batista, per il quale il processo a Castro e al «26 luglio» è soltanto l’ultimo atto di un copione repressivo già messo in scena con successo. Invece, messo con le spalle al muro, Castro non accetta neppure per un minuto di vestire i panni della vittima predestinata. Al contrario, il futuro Líder Máximo della rivoluzione cubana capovolge i termini della questione e, da accusato, si trasforma in accusatore, ridicolizzando la giurisprudenza di Batista insieme ai suoi strumenti di dominio e alla sua ideologia totalitaria. In questo modo, la liquidazione dell’opposizione diventa l’inizio della fine per la dittatura che regge le sorti dell’Isola: un passaggio che sarebbe un grave errore considerare di semplice natura retorica, venendo a fondarsi, all’interno del discorso di Castro, su una strategia ben precisa, destinata a demolire le armi dell’avversario e, contemporaneamente, a indicare una precisa alternativa politica per la gestione dei destini di Cuba. Rispetto a questo discorso, i punti salienti de La storia mi assolverà, riguardano:

Le forze messe in campo dal nemico

 Non ha nessuna importanza, nota Castro, che il regime di Batista possa contare sulla protezione di un esercito ben armato e ben addestrato, e su un servizio di spionaggio foraggiato con milioni di pesos. La storia (non solo) cubana – insieme all’attualità della protesta sociale in America Latina – insegna che un esercito più numeroso di quello di Batista, cioè l’esercito spagnolo, è già stato sconfitto da cubani disposti a lottare persino a mani nude oltre che a colpi di machete. Perché: «Così lottano i popoli quando vogliono conquistare la loro libertà: lanciano pietre contro gli aerei e capovolgono i carri armati!».

La definizione delle parti in lotta

La visione castrista è quanto mai chiara. Il campo della battaglia è diviso tra due schieramenti. Da una parte l’esigua minoranza degli oppressori e i loro sostenitori, cioè: «Quegli strati agiati e conservatori della nazione sempre pronti a inchinarsi davanti al padrone di turno fino a spaccarsi la fronte per terra»; dall’altra la stragrande maggioranza degli oppressi, vale a dire l’intero «popolo», che si definisce come tale – superando qualunque mistica reazionaria fondata sul «sangue», sulla «lingua» e sul «territorio» – proprio nel momento in cui riconosce se stesso all’interno di una «comunità in lotta».

I limiti della legalità

Il processo al «26 luglio», da un punto di vista strettamente giuridico, è di per sé frutto di un paradosso. Come è possibile infatti che un regime – quello di Batista – apertamente fondato sulla violazione della Costituzione cubana, stravolta dal colpo di Stato del 10 marzo, si possa permettere di giudicare nei termini della legge chi a quella Costituzione si richiama e che quella Costituzione difende? E come possono i rappresentanti di un pugno di sfruttatori ergersi a pontefici della voce della massa di sfruttati; processare cioè quello stesso «popolo» a cui tutti i poteri dovrebbero essere costituzionalmente demandati?

Il diritto alla ribellione

È il passaggio a cui Fidel Castro dedica maggiore energia, evidentemente sulla scia della convinzione che sconfiggere l’ideologia del nemico sia più difficile che avere la meglio su un esercito di uomini armati. Compiendo l’impresa, l’arringa di Castro si trasforma in un saggio di storia del diritto costituzionale che, partendo dagli albori greco-romani, si spinge fino alle dottrine politiche contemporanee. L’analisi di Castro è estremamente interessante perché tutta protesa a cogliere i passaggi che, storicamente, consentono di dare corpo al diritto alla ribellione. Da San Tommaso, che nell’ambito del conflitto tra Chiesa e Impero riconosceva ai sudditi la possibilità di ribellarsi ai tiranni se i loro ordini si fossero posti contro la legge di Dio, fino al Thomas Paine padre dell’indipendenza degli Stati Uniti, che invitava alla ribellione chiunque si trovasse assoggettato a un regime nemico del principio dell’uguaglianza degli uomoni, passando per i riformatori luterani, i monarcomani liberali e gli illuministi. Pensatori estremamente diversi, ma legati a uno stesso filo rosso e a un’identica considerazione. Perché tutti coloro che a vario titolo hanno contribuito a dare corpo al motto «ribellarsi è giusto» – che facessero riferimento a Dio, alla Libertà o all’Umanità – lo hanno fatto concependo le loro dottrine all’interno di un orizzonte più vasto di quello strettamente teoretico e speculativo. Un orizzonte «più vasto» abbracciato anche da Castro che, nel suo discorso, dopo aver ripercorso le principali tappe di quella che è stata la lotta mai conclusa per la liberazione della schiavitù dell’uomo sull’uomo, attraversa i concetti di «Patria» e di «Popolo» – eredità fondamentale delle lotte sociali e anticoloniali sudamericane – per arrivare a indicare l’unica prospettiva rivoluzionaria degna di questo nome: il Socialismo.

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Nell’Accademia, come nel senso comune, accade spesso di sentire parlare della rivoluzione cubana e della stessa biografia di Fidel Castro alla luce di alcune fasi, contrassegnate da date precise. In modo particolare, il 2 dicembre del 1961, dopo aver sventato alla Baia dei Porci un colpo di Stato organizzato dalla cia (17 aprile 1961) e dopo aver nazionalizzato le raffinerie statunitensi che rifiutavano di raffinare il petrolio importato dall’Unione Sovietica, Castro parla alla Nazione definendo se stesso «marxista-leninista» e dichiarando «comunista» la natura della Rivoluzione.

Questo discorso, in sostanza, rappresenterebbe lo spartiacque tra un Castro animato da una sorta di socialismo utopistico di stampo quasi mazziniano e il Castro comunista contro il quale si scagliano i tanti detrattori reazionari, sempre pronti a gettare fango addosso alla rivoluzione cubana. Sconfessare i miopi demolitori del mito del comunismo tropicale, magari citando gli straordinari progressi cubani in tutti i campi del vivere civile, non è l’obbiettivo di questa introduzione. Più interessante, invece, è rileggere La storia mi assolverà per notare, dalla giusta distanza prospettica, come l’approdo di Cuba al socialismo non derivi in maniera diretta né dalle particolari condizioni geopolitiche degli anni della guerra fredda, né da una successiva elaborazione teorica compiuta dal Líder Máximo. Al contrario, proprio questo è «l’orizzonte» a cui tende il percorso rivoluzionario della Cuba di Castro, con una chiarezza talmente luminosa da rendere La storia mi assolverà un perfetto manuale pratico di avvicinamento al socialismo reale, una vera e propria guida alla realizzazione concreta di quanto pensato da Friedrich Engels in persona che, nel lavoro di preparazione alla redazione de Il Manifesto del Partito comunista, afferma chiaramente:

Prima di tutto la rivoluzione del proletariato introdurrà una costituzione democratica, e con questo strumento favorirà il dominio politico diretto o indiretto della classe operaia. (…) La democrazia sarebbe del tutto inutile per il proletariato se non venisse usata immediatamente come strumento per avanzare ulteriori rivendicazione che intacchino direttamente la proprietà privata e garantiscano l’esistenza al proletariato. Di queste misure, le più importanti, per come già adesso suggerisce la situazione vigente, sono le seguenti: 1. Limitazione della proprietà privata mediante imposte progressive, forti imposte di successione, abolizione della successione per via collaterale (fratelli, figli di fratelli ecc.), prestiti forzosi, eccetera. 2. Espropriazione graduale dei proprietari fondiari, degli industriali, dei proprietari di ferrovie e degli armatori navali, in parte mediante la concorrenza dell’industria nazionalizzata, in parte direttamente, tramite indennizzo in titoli di stato. (…) 7. Aumento delle fabbriche nazionali, delle officine, delle ferrovie e delle navi, dissodamento di tutti i terreni incolti e miglioramento di quelli già dissodati, nella stessa proporzione con la quale aumentano i capitali e gli operai a disposizione della nazione. 8. Educazione di tutti i ragazzi, a cominciare dal momento in cui possono fare a meno delle prime cure materne, in istituti nazionali e a spese della nazione. Educazione e lavoro di fabbrica insieme. 9. Costruzione di grandi palazzi sui terreni nazionali, destinati ad abitazioni collettive per comunità di cittadini impegnati nell’industria o nell’agricoltura, unificando in questo modo i vantaggi sia della vita cittadina che di quella rurale, senza condividere l’unilateralità e gli svantaggi di tutti e due i modi di vivere. 10. Demolizione di tutte le abitazioni e di tutti i quartieri malsani e malcostruiti. (…) Ovviamente tutte queste misure non possono essere attuate in un solo momento. Ma l’adozione di uno qualunque di questi provvedimenti comporterà sempre l’introduzione dell’altro. Una volta compiuto il primo assalto radicale contro la proprietà privata, il proletariato sarà costretto ad andare sempre più avanti, a concentrare sempre più nelle mani dello stato tutto il capitale, tutta l’agricoltura, tutta l’industria, tutti i trasporti, tutti gli scambi (Friedrich Engels, Il libretto rosso dei Comunisti, Red Star Press, 2012).

È Engels che scrive, eppure sembra di sentire Fidel Castro che parla nella Sala delle Infermiere. Nel momento in cui, sviluppando il ragionamento su cui si poggia la difesa per i fatti del 26 luglio, il Líder enuncia il «programma del Moncada», spiegando le celebri «cinque leggi rivoluzionarie» a cui si sarebbe uniformata la nuova politica cubana:

La prima legge rivoluzionaria restituiva al popolo la sovranità e proclamava la Costituzione del 1940 quale vera legge suprema dello Stato. In attesa che il popolo avesse deciso di modificarla e agli effetti della sua entrata in vigore e della condanna esemplare di tutti coloro che l’hanno tradita (…). La seconda legge rivoluzionaria concedeva la proprietà inconfiscabile e inalienabile della terra a tutti i coloni, i subcoloni, i fittavoli, i mezzadri e gli abusivi (…). La terza legge rivoluzionaria accordava agli operai e agli impiegati il diritto di partecipare al trenta per cento degli utili di tutte le grandi imprese industriali, commerciali e minerarie, zuccherifici inclusi (…). La quarta legge rivoluzionaria concedeva a tutti i coloni il diritto di partecipare agli utili della raccolta della canna da zucchero nella misura del cinquantacinque per cento (…). La quinta legge rivoluzionaria ordinava la confisca dei beni dei colpevoli di peculato e dei loro aventi causa o degli eredi relativamente ai beni ottenuti per testamento o ab intestato dalla dubbia fondatezza. (…) Queste leggi sarebbero state proclamate immediatamente e, una volta terminata la lotta e svolto un esame minuzioso del loro contenuto e dei loro effetti, sarebbero seguite un’altra serie di leggi e di norme fondamentali come la riforma agraria, la riforma della scuola e la nazionalizzazione del trust elettrico e del trust telefonico, con la restituzione al popolo delle eccedenze illegali che i monopoli hanno continuato a riscuotere con le loro tariffe e il versamento al fisco di tutte le somme estorte alla finanza pubblica.

Questo è il cuore del discorso di Castro, più che di una difesa, in effetti, si tratta di una rivendicazione per quanto accaduto il 26 luglio e, cosa ancora più importante, è questo il punto che segna la fondamentale differenza qualitativa tra la rivoluzione castrista e i conflitti per l’indipendenza e la libertà combattuti fino a quel momento a Cuba. Perché il Programma del Moncada è la base che consentirà a Castro e ai compagni del Movimento «26 Luglio» di passare dall’ammirevole e coraggioso socialismo di un Martí o di un Chibás ad un’altrettanto coraggiosa, ma concreta, azione rivoluzionaria. Un cambiamento reale che, non a caso, permetterà al «26 Luglio» di guadagnare una volta per tutte la giustizia sociale, inseguita dai cubani dai tempi della lotta per l’abolizione della schiavitù, e l’indipendenza politica, che per molte società sudamericane, schiacciate dall’ombra del gigante statunitense, resta ancora un mito. Allo stesso modo, il Programma del Moncada è l’orizzonte in cui tutto il celebre discorso castrista sulla rivoluzione e sulla libertà acquista senso. Il palco ideale sul quale, oggi come allora, è possibile affermare che «ribellarsi è giusto», sfidando i sempre severi giudici delle lotte sociali con una splendida affermazione: «Condannatemi pure. La storia mi assolverà».

a.379320_331560686949203_853950314_nPostfazione al volume Il libretto rosso di Cuba, a cura di Cristiano Armati

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a.stealth-23ec211d0365be0665abf1354689014dDISPONIBILE ANCHE IN EBOOK

Continuare a disobbedire agli ordini. L’eredità morale degli Arditi del Popolo

a.arditi2Capita, incontrando alcuni libri, di rendersi conto che leggerli (o magari, come in questo caso, scrivere per loro conto un’introduzione) non significa avere a che fare con la carta e l’inchiostro, ma con delle realtà in grado di assumere una consistenza addirittura fisica: presenze che sarebbe più giusto assimilare a dei vecchi amici piuttosto che a delle voci bibliografiche da mettere al sicuro in qualche schedario.

Naturalmente è più facile che una simile identificazioni scatti quando il libro in questione, anziché discendere da un programma accademico, venga direttamente dalla strada, proprio come Dal nulla sorgemmo. La legione romana degli Arditi del Popolo, scritto da Valerio Gentili.

«Venire dalla strada», in questo caso, è un’espressione che non ha nulla di metaforico. E oggi, a oltre tre anni di distanza dalla pubblicazione della prima edizione del volume (2009), posso tranquillamente raccontare che io stesso ebbi modo di conoscere questo testo, prima che attraverso la sua lettura, grazie a una serie di manifesti che a un certo punto – ostentando il simbolo del teschio con il coltello tra i denti in campo nero – invasero diversi quartieri romani, a partire da San Lorenzo.

Incuriosito da sempre da tutto ciò che dicono i muri, risalii al progetto implicito in quell’attacchinaggio – riproporre all’attenzione della sinistra italiana il patrimonio rimosso del combattentismo progressista – e arrivai a conoscere Valerio Gentili: giovane storico «d’area» con il quale, in qualità di editor, iniziai una collaborazione che avrebbe prodotto, oltre a Dal nulla sorgemmo, anche Roma combattente (Castelvecchi, 2010), Bastardi senza storia (Castelvecchi, 2011) e Antifa. Storia contemporanea dell’antifascismo militante europeo (Red Star Press, 2013).

Nulla di strano, dunque, se tornare a scrivere di quello che fu l’esordio letterario di Valerio Gentili possa significare – sovrapponendo parole vecchie e nuove – rievocare quel malcelato senso di appartenenza già provato di fronte alla visione del teschio con il coltello. In modo particolare, la lettura di Dal nulla sorgemmo ha sempre richiamato alla mia memoria un’immagine difficile da mettere a fuoco. Catturato dalla prosa asciutta e dal rigore mostrato dall’autore di questo libro bello e necessario, approfondivo la conoscenza di uomini e simboli dai contorni leggendari ma, seppur rapito dalle tante informazioni inedite contenute nel volume, continuavo a pensare al luogo e al tempo in cui questa immagine, evidentemente ridotta a un ricordo seppellito nell’inconscio, doveva essersi materializzata forte e chiara davanti ai miei occhi.

a.2arditipopolo1Avvincente come un romanzo in cui il lettore capace di rispettare il patto narrativo non può fare a meno di immedesimarsi nelle situazioni descritte dall’autore, Dal nulla sorgemmo, vale a dire la storia delle prime formazioni armate che strenuamente si opposero al fascismo, lega in un discorso coerente l’avventura fiumana di Gabriele D’Annunzio e dei suoi legionari insieme al freddo intenso delle trincee della prima guerra mondiale, il clima di povertà e disperazione precedente il periodo di scioperi e repressione noto come «il biennio rosso» e l’avvento della violenza delle camice nere di Mussolini, finanziate dagli industriali, sottovalutate dai partiti della sinistra istituzionale e appoggiate dal grosso delle forze di polizia. Talmente è vivido il racconto di Valerio Gentili che, tra le pagine del suo libro, sembra di sentire crepitare le mitragliatrici utilizzate dai fascisti per assaltare le case del popolo, le leghe contadine e le sedi dei giornali dissidenti. Un’aggressione brutale e indiscriminata contro ogni luogo o persona decisi a opporsi all’ordine voluto dal Duce che, oggi, sarebbe più facilmente scivolata nel dimenticatoio se, a ostacolarla con più coraggio che mezzi, non ci fosse stata l’abnegazione e spesso il sacrificio estremo di una strana razza di soldati anarchici, repubblicani e comunisti – gli Arditi del Popolo – capaci di non confondere la necessità di obbedire agli ordini propria di qualunque sistema gerarchico con il pericolo di trasformarsi in servi di un potere volgare e assassino: un regime capace, tra le altre cose e al pari del complice nazista, di rinchiudere uomini, donne e bambini in vagoni piombati diretti ai campi di sterminio (ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici… le loro grida continuano a pesare come macigni sulla coscienza di chi ancora oggi si propone come erede di quella stagione sanguinaria) annullando qualunque «garanzia democratica» con la forza e il terrore.

Malgrado il tremendo potenziale offensivo a disposizione, le «forze del male» in camicia nera avrebbero conosciuto una clamorosa sconfitta quando, serrati i ranghi, l’esercito popolare dei Partigiani sarebbe stato in grado di rispondere alla violenza colpo su colpo e persino a sostenere vittoriosamente scontri in campo aperto. Grazie a questo, nella «Repubblica democratica fondata sul lavoro» non ci sarebbe dovuto più essere nessuno spazio né per il fascismo né per i fascisti: relitti sociali con i quali si è troppo a lungo creduto di aver chiuso i conti per sempre.

a.arditiLa realtà, purtroppo, è molto diversa dalla buone intenzioni. E se le affermazioni elettorali dell’estrema destra europea – Francia, Grecia, Inghilterra, Ungheria… – sono sotto gli occhi di tutti, la nuova edizione del libro di Valerio Gentili non si limita a osservare il fenomeno del cosiddetto «neofascismo», ma, scavando tra le pieghe di ciò che accade stabilisce un inquietante parallelismo. Perché se gli Arditi del Popolo, sulla scia del proprio valore morale e militare, non ebbero particolari problemi nel rompere il monopolio fascista della violenza, furono comunque costretti a incassare il disprezzo e la mancata collaborazione di tutti i partiti della sinistra istituzionale che, con la lodevole ma isolata eccezione di Gramsci, contribuì in modo decisivo al tramonto di quell’esperienza. Allo stesso modo, dopo la seconda guerra mondiale e dopo un periodo di relativa tenuta del fronte antifascista, l’opposizione di piazza agli eredi di Mussolini ha conosciuto un progressivo isolamento, fino a diventare appannaggio quasi esclusivo di una nuova generazione di ribelli di strada – i militanti dell’Antifa – armati di passione e coraggio, ma sistematicamente accusati di teppismo, balordaggine e superficialità delle formazioni istituzionali. Anche in Italia, da questo punto di vista, fanno storia i titoli «rissa tra ubriachi» con cui i mezzi di informazione – e i più importanti rappresentanti dell’«arco costituzionale» con loro – si sono affrettati a bollare gli omicidi di antifascisti come Davide Cesare «Dax» (Milano, 16 marzo 2003) o Renato Biagetti (Roma, 27 agosto 2006): volgari testimonianze di come, entrando nel nuovo millennio e affrontando, insieme a una crisi economica epocale anche il ritorno di fiamma delle ideologie più reazionarie, la pratica antifascista si ritrovi a vivere una nuova stagione di isolamento e marginalità, consumata nel nome diell’inesistente pace sociale necessaria a chi si è fatto alfiere dell’imperante ideologia dei «sacrifici».

Contro una simile prospettiva, non resta che tornare ai capitoli finali di Dal nulla sorgemmo. Tra gli stessi passaggi in cui – mentre l’epopea degli Arditi volge al termine e i boia in camicia nera, nelle loro prigioni, innalzano i cavalletti per estorcere con le pinze arroventate e i fili elettrici impossibili confessioni ai loro fieri oppositori – l’immagine a cui affidare il ruolo di introdurre un libro così importante, assume finalmente una consistenza concreta. All’improvviso, infatti, mi sono ricordato di un sentiero arrampicato tra le montagne della provincia di Cuneo: un tratturo ammorbidito dall’erba, come se la Natura stessa volesse ancora aiutare il suo segreto a sfuggire alla vista del passante occasionale o della spia. In questa località, amena soltanto all’apparenza, la consistenza della terra battuta cede d’un tratto il passo alla solidità della pietra viva, infilzando uno scalino dopo l’altro fino alla sommità di un monte. Qui, dove l’aria è rarefatta dall’alta quota e il cielo perennemente terso, la sacralità del luogo è affidata a un circolo di croci di legno, tese sulla serenità della valle sottostante come sentinelle. Si tratta delle tombe di un gruppo di partigiani caduti nel corso della guerra di Resistenza, come direbbe Piero Calamandrei, uomini «che volontari si adunarono per dignità e non per odio. Decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo». Tra di loro, ugualmente segnalato da una croce ma a differenza degli altri privo persino del conforto di un nome, c’è un partigiano ricordato da una targa che si limita a dire «tedesco anonimo»: un soldato dell’esercito del male che, evidentemente, non ebbe paura di gettare alle ortiche la sua uniforme per continuare a combattere dalla parte giusta. La sua lezione, affidata a quel sacrario della provincia di Cuneo, andrebbe trasferita nei tribunali di guerra in cui i tanti aguzzini fascisti e nazisti insistono a scrollare le spalle di fronte alle loro responsabilità, continuando a ripetere di avere solo «obbedito agli ordini»; quasi pretendendo, con simili scuse, non soltanto il perdono, ma anche il riconoscimento di un’inesistente dignità.

A pensarci bene gli Arditi del Popolo di cui parla Valerio Gentili sono simili al soldato tedesco senza nome venuto a morire tra montagne tanto lontane da casa sua: combattenti che ebbero la capacità e la forza di disobbedire agli ordini rifiutandosi di diventare la manodopera del terrore al servizio di forze antipopolari ma che, malgrado tutto, faticarono a trovare posto in quella tradizione di giustizia e libertà a cui dovrebbe continuare a ispirarsi la Repubblica italiana. Le ragioni del sostanziale silenzio su una simile esperienza, mai valorizzata come avrebbe meritato, sono tante. A Valerio Gentili e al suo Dal nulla sorgemmo va il plauso di averle ripercorse insieme alle vite e alle avventure degli eroici protagonisti di quell’esperienza. Una storia da conoscere e da fare propria. Affinché nessuno possa ancora pensare di giustificare l’abominio. E affinché molti possano continuare a disobbedire agli ordini.

a.dalnullaIntroduzione al volume Dal nulla sorgemmo. La Legione Romana degli Arditi del Popolo di Valerio Gentili, Red Star Press

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L’esercito. Un diritto dimenticato?

“Bastardi senza storia” di Valerio Gentili si apre ponendo all’attenzione dei lettori un importante problema storiografico: è proprio vero, si domanda l’autore, che l’affermazione dei fascismi europei poté verificarsi semplicemente a causa della mancanza di avversari in grado di opporsi militarmente alla trionfale avanzata degli uomini di un Hitler o di un Mussolini?

Una consolidata vulgata storica non avrebbe esitazioni e risponderebbe al quesito in modo positivo. Valerio Gentili, al contrario, dimostra che non fu il monopolio della violenza a spianare la strada del potere alle camicie nere e alla croce uncinata. Al contrario, mentre innumerevoli movimenti di matrice socialcomunista ricorsero alle armi per rispondere colpo su colpo alle aggressioni nazifasciste, l’azione di questi gruppi venne depotenziata o vanificata dall’eccessiva fiducia che le forze riformiste riposero nella tenuta delle istituzioni democratiche e/o dal timore, covato dagli esponenti dei partiti rivoluzionari, di vedersi scavalcare a sinistra da uomini in grado di imprimere una svolta non soltanto all’autodifesa del movimento operaio ma allo stesso fenomeno della lotta di classe. Sono esattamente questi uomini i “bastardi senza storia” a cui il lavoro di Valerio Gentili è dedicato: non burocrati né funzionari di partito, ma semplici militanti di base, giovani ribelli e, soprattutto, reduci della prima guerra mondiale: soldati che dopo aver difeso la Patria mordendo il fango delle trincee di tutta Europa si ritrovarono gettati in una pace fatta soltanto di ingiustizia sociale e miseria. “Bastardi senza storia” si nutre di questo humus per restituire ai suoi lettori le gesta di organizzazioni dai nomi inequivocabili, dalla tedesca Lega dei combattenti rossi di prima linea agli italiani Arditi del popolo (solo per fare alcuni nomi), e per spiegare in quali circostanze nacquero simboli come le bandiere rosso-nere o gesti come quello del saluto a pugno chiuso. Si tratta di una storia che ha il sapore di una vera e propria scoperta, non soltanto perché consente di recuperare le radici che legano il fenomeno del combattentismo progressista alle sottoculture politicizzate del sottoproletariato giovanile, ma perché, raccontando il contributo offerto dai soldati alla lotta antifascista e alla guerra partigiana, Valerio Gentili affronta un nervo scoperto degli attuali sistemi politici occidentali. Un problema che, per non perdersi in tanti giri di parole, può essere impostato in questi termini: qual è il ruolo dell’esercito in un Paese democratico? Come può essere impiegato? E soprattutto: chi deve essere chiamato a farne parte?

Per affrontare un simile problema potrà essere utile restringere il campo all’Italia e osservare la questione in prospettiva, notando come, dalla fine del secondo conflitto mondiale ai giorni nostri, si sia passati da un esercito popolare, a cui ogni cittadino italiano aveva il diritto e il dovere di appartenere, a un esercito di professionisti o, per dirlo con una parola politicamente scorretta in tempi in cui il lessico italiano si è appesantito di termini quali “escort” o “contractor”, di mercenari.

 I risultati di un simile cambiamento (milioni di coscritti forse sollevati da un dovere ma senz’altro privati di un diritto) sono sotto gli occhi di tutti nel momento in cui, parlando di difesa di obiettivi sensibili, diventa sempre più facile imbattersi in militari impiegati per strada con ambigui compiti di polizia. Si potrebbe andare oltre e sottolineare come, nel momento in cui l’esercito restringe a un nucleo di professionisti il suo reclutamento, diventi più semplice per i suoi appartenenti dimenticare di esistere per essere al servizio del popolo, riducendosi a semplice braccio armato dello Stato. Qui il celebre slogan “Arditi non gendarmi” con il quale gli Arditi del Popolo si opposero strenuamente al fascismo ha il potere di saldare il passato al presente, per chiedersi se i partiti progressisti non stiano tornando a ripetere un errore che fu fatale già ai tempi degli anni orribili in cui fascisti e nazisti furono liberi di scatenarsi in un’orgia di morte e distruzione. L’errore, oggi come allora, sarebbe quello di respingere il concetto stesso di esercito in un territorio strettamente conservatore, regalando alla destra più reazionaria un sapere e un potere delicatissimo come quello militare. Contro questo rischio, “Bastardi senza storia”, con la sua capacià di fascinazione, può essere considerato un valido antidoto. Perché se, come ancora ci ricorda l’articolo 52 della Costituzione, la difesa della Patria è “sacro” dovere del cittadino, pensare di poter dormire sonni tranquilli delegando la tutela dei propri diritti a un pugno di dipendenti statali equivale a bestemmiare.

Bastardi senza storiaIntroduzione di Cristiano Armati al volume “Bastardi senza storia. Dagli Arditi del Popolo ai Combattenti Rossi di Prima Linea, la storia rimossa dell’antifascismo europeo” di Valerio Gentili

Chi era Robin Hood? Scene di sesso e di lotta di classe nella foresta di Sherwood

Joseph Walker McSpadden, nel 1904, licenzia il suo Le avventure di Robin Hood con una prefazione in grado di arrivare in pochi passaggi al cuore del problema: «Le canzoni e le leggende su Robin Hood e la sua allegra brigata di fuorilegge hanno affascinato per più di cinquecento anni lettori giovani e non», afferma l’autore, ma Robin Hood: «È esistito davvero?».
In quanto scrittore, McSpadden sa bene che, sul fronte dell’immaginario, la realtà non ha mai avuto bisogno di un certificato di esistenza in vita. E che se c’è un buon motivo per considerare «veri» tutta quella massa di documenti scritti o tramandati oralmente di volta in volta definiti come miti, leggende, favole o racconti popolari (e il discorso vale anche per i romanzi, le canzoni e le poesie), questo motivo ha a che fare con il fatto che i miti, le leggende, le favole e i racconti popolari sono efficaci come poche altre cose nel momento in cui, quella stessa realtà alla quale devono faticare per dimostrare di appartenere, si rivelano perfettamente in grado di influenzarla fortemente e addirittura di plasmarla a loro immagine e somiglianza. Basta questo per spingere McSpadden ad affermare che: «Sarebbe bello se riuscissimo a prescindere dalla realtà storica e a credere agli eroi leggendari col cuore». Come dargli torto? Parlando di Robin Hood, una complessa ragnatela di significati ha incarnato nella figura mitologica del «ladro che ruba ai ricchi per dare ai poveri» i valori della libertà, dell’amicizia, del coraggio e della lealtà: simboli che nessuna rigorosa indagine filologica è in grado di interpretare nel momento in cui, come fa l’Oxford Dictionary of National Biography, si prende la briga di dedicare una sua intera voce a un personaggio – caso unico – soltanto per dimostrare la sua mancata esistenza…
In effetti, dopo gli anni d’oro compresi tra il Quindicesimo e il Diciannovesimo secolo, quando generazioni di studiosi si adoperarono in tutti modi, dando per scontata la veridicità di Robin Hood, a trovare per il «Principe dei ladri» una data di nascita certa e una genealogia inoppugnabile, i ricercatori contemporanei hanno riconsiderato tutto il materiale giunto fino a noi, bollando le conclusioni precedenti come assolutamente inaffidabili, decisamente fantasiose e oltremodo carenti. In una parola: false. Robin Hood, insomma, non è mai esistito. E pazienza se al di là delle ballate che lo vedevano protagonista – un certo Robin, in compagnia di Little John, fa la sua comparsa già nel 1420 nella cronaca in versi della Scozia pubblicata da Andrew de Wyntoun, né, stando agli scienziati della letteratura, si può dar credito allo Scotichronicon di John Fordune e Walter Bower, compilato tra il 1420 e il 1450, o alla History of Greater Britain di John Major (1521), visto che questi scrittori sono convinti di aver avvistato lo stesso Robin Hood rispettivamente: intorno al 1266, tra i sostenitori di Simone V di Montfort detto «il Vecchio», conte di Leicester e animatore di una rivolta contro Enrico III destinata a concludersi con la sua morte; e nel biennio 1193-94, quando Riccardo I d’Inghilterra, «Cuor di leone», si trovava prigioniero in Germania dopo aver combattuto in Terra Santa.
La versione di Major, seppur non suffragata da prove, si alimentò e finì per amalgamarsi con le anonime e più antiche ballate dedicate a Robin Hood, quindi riuscì a imporsi come verità ufficiale sulla vita dell’eroe accanto ai versi composti dal poeta William Langland per il suo Piers Plowman (1377). Per Robin Hood, a questo punto, mancavano ancora una vera data di morte, «trovata» nel 4 dicembre 1198, e un epitaffio da immaginare inciso sulla sua pietra tombale, tradizionalmente «rinvenuta», tra diversi altri luoghi, nella cittadina di Kirklees. Tutti elementi che vengono presentati come fatti certi dal poema The True Tale of Robin Hood, scritto da Martin Parker nel 1632, un periodo in cui la biografia dell’eroe di Sherwood non ha nulla da invidiare, in quanto a ricchezza di informazioni, alle notizie disponibili per i vari protagonisti della storia «reale».
A tutto ciò non resta che aggiungere la complessa genealogia affibbiata a Robin Hood, sulla scia di documenti assolutamente inattendibili, dal membro della Society of Antiquaries William Stukely (1746), secondo cui Robin sarebbe stato un certo Robert Fitzooth, di nobili natali, per capire come mai, da quel momento in poi, dedicarsi alla decostruzione del mito del bandito inglese per sottolineare la sua totale appartenenza al mondo della fantasia sia diventato lo sport preferito dei cultori della storia medioevale britannica in quell’epoca «di scetticismo e incertezza» – la nostra – a cui lo stesso Joseph Walker McSpadden si duole di appartenere.
Una volta fatti i conti con la storia, e accettate con gli opportuni distinguo psico-antropologici le inoppugnabili prove con cui si afferma l’inconsistenza biografica di Robin Hood, non resta che ripartire dal luogo in cui tutto è cominciato: il corpus di scritti dedicati al fuorilegge più celebre di Inghilterra e alla sua «allegra brigata».
Si tratta, nella fattispecie, di una serie di ballate – Robin Hood e il monaco, Robin Hood e il vasaio, La morte di Robin Hood, Robin Hood e Guy di Gisborne… – a cui bisogna aggiungere il frammento di una commedia quattrocentesca e altro materiale incompleto compilato tra la fine del Quindicesimo secolo e la prima metà del Sedicesimo secolo: un periodo in cui l’arte del torchio era sufficientemente sviluppata e le ballate popolari di Robin Hood talmente celebri da spingere gli stampatori a produrre ciò che resta uno dei più grandi bestseller della letteratura medioevale. Da questa base, naturalmente, è partito McSpadden per la sua novellization delle leggende di Robin Hood: un lavoro che consente al lettore di respirare l’originaria atmosfera sassone dove era vissuto un bandito letterario che, fino a oggi, era conosciuto in Italia, oltre che grazie al celebre cartone animato della Disney, sopratutto in virtù del romanzo Robin Hood. Il Proscritto di Alexandre Dumas, pubblicato postumo nel 1873. Questa base, però, disponibile al lettore italiano grazie a Le ballate di Robin Hood curate da Nicoletta Gruppi per Einaudi (1991), è anche la stessa a cui bisogna tornare se, al di là dell’intrattenimento offerto dalla lettura dei testi, si è convinti che la dimensione psico-sociale dell’esistenza umana – luogo in cui Robin è senz’altro radicato – basti da sola a spingere qualunque osservatore interessato ad accostarsi a un fenomeno con la stessa serietà e passione con la quale si è soliti trattare la «realtà».
Se c’è un buon motivo per cui, come ha fatto la Walt Disney, è possibile rappresentare Robin Hood con le fattezze di una volpe, questo motivo risiede nell’atmosfera perennemente scherzosa che domina buona parte dei versi dedicati al bandito di Sherwood. Robin Hood, nelle ballate originali, è una specie di Ulisse: valoroso, senz’altro, ma prima di tutto scaltro, un uomo in grado di risolvere le situazioni più disperate ricorrendo ad ogni genere di astuzie, spesso facendo leva sulle debolezze morali scorte nei suoi interlocutori e dimostrando, in questo modo, di essere abile con l’arco, la spada e il bastone, ma, soprattutto, di essere un fine psicologo.
Spesso, a dire il vero, Robin Hood è anche goffo, sbruffone e avventato. Tutte caratteristiche che consentono ad altri personaggi, a volte più furbi o più forti di lui, di impartirgli sonore sconfitte in combattimenti talmente leali da sfociare, immancabilmente, nell’amicizia tra i due contendenti e la conseguente cooptazione del vincitore di turno nella banda capitanata da Robin. Memorabili, da questo punto di vista, sono gli incontri di Robin Hood con Will Scarlet, Fra’ Tuck, Middle lo stagnino e Arthur-a-Bland il conciatore, tutti in grado di tenere testa e sopravanzare Robin prima di essere arruolati nell’allegra brigata. Qui, potrebbe valere per ogni cultura popolare l’antico detto romanesco secondo il quale le mejo amicizie nascono dalle botte… ma, oltre a notare come, nelle ballate di Robin Hood, la gagliardia (e la goliardia) sia considerata una virtù morale, questo carattere a metà strada tra lo sbruffone e lo scaltro ha spinto molti studiosi di mitologia a interpretare l’arciere più abile d’Inghilterra alla luce della categoria del trickster, un termine inglese traducibile non a caso con la parola “ingannatore”, che, nella fenomenologia delle religioni, indica un attore mitico spesso dipinto come ladro o folle, in grado, con il suo comportamento imprevedibile, di sferrare formidabili scossoni all’ordine costituito e di apportare innovazioni altrimenti impensabili nel vivere comune.
La strada che porta verso una simile interpretazione è lastricata di buone intenzioni. Il ruolo assunto dal ladro in calzamaglia nelle feste precristiane di calendimaggio, prima di tutto. Quando per celebrare l’arrivo della stagione fertile andava in scena una sorta di capodanno carnevalesco in cui un attore travestito da Robin Hood inseguiva il Re del Malgoverno per bruciare poi la sua effige. Una teoria, sostenuta tra gli altri dagli antropologi Margaret Alice Murray e Robert Graves, che trasforma Robin Hood nella versione antropomorfa di una divinità dei boschi. Un’idea suffragata anche dalla poesia di William Shakespeare quando, nel suo Sogno di una notte di mezza estate (1595), Robin Godfellow diventa un’altro dei nomi assunti dal celebre folletto Puck:

Tu, se dalle maniere e dal sembiante io non m’inganno, sei
quel discolaccio, quel folletto bugiardo e malizioso che tutti
chiamano Robin Bravomo. Non sei tu quel bizzoso spiritello
che al villaggio spaventa le ragazze, che fa cagliare il latte
dentro i secchi, che armeggia tra le pale del mulino, e si rende
molesto alle massaie vanificando la loro fatica a sbattere la crema nella zangola?
Ed altre volte a far schiumar la birra,
o a far smarrire il cammino ai viandanti di notte, e ridere
del loro disagio? E t’adoperi, invece, premuroso, ad aiutare
nel loro lavoro, ed a portar fortuna a quelli che ti chiaman
vezzeggiandoti, «mio caro diavoletto» e «dolce Puck»?

Al di là della nobiltà shakespeariana della spiegazione fenomenologico-religiosa dell’origine del mito di Robin Hood, ricondurre il principe dei ladri al folklore celtico può spiegare alcune forme assunte dal suo carattere, ma non soddisfa l’esigenza di specificità che il clamoroso e plurisecolare successo del personaggio reclama.
Da questo punto di vista, allora, potrà essere più utile, ancora restando sui testi che lo descrivono, accostarsi a Robin Hood sottolineando quella che, a ben vedere, è la caratteristica davvero più clamorosa delle popolari ballate a lui dedicate: gli incredibili poteri attribuiti alla capacità di travestimento di Robin Hood e dei suoi uomini. Succede moltissime volte all’interno delle storie di Robin Hood: mascherandosi da mendicante o da macellaio il capo dell’allegra brigata riesce a beffare personaggi come lo sceriffo di Sherwood, che pure conosce davvero bene il suo acerrimo nemico. Come è possibile una cosa del genere?
Che cosa doveva rendere credibili alle orecchie dei primi ascoltatori dei cantastorie di Robin Hood il fatto che un po’ di cenere sul volto o un mantellaccio gettato sulle spalle facesse passare completamente inosservato il loro eroe? Come si spiega il fatto che, trovandoselo di fronte vestito come un elegante paggio, lo stesso Robin Hood non riesca a riconoscere neppure suo cugino Will Gamewell alias Will Scarlet? E come accettare il fatto che, quando è Lady Marian a travestirsi da uomo, nessuno metta in dubbio la sua identità, neppure il suo futuro e devoto marito?
Se ci trovassimo in un corso di scrittura creativa o di improvvisazione teatrale si potrebbe descrivere la tecnica, antica ma efficace, del mettere in scena una serie di personaggi che si comportano senza conoscere tutte le cose che i lettori o il pubblico sanno di loro: uno stratagemma esilarante, tipico, per esempio, del teatro delle marionette. Ma Robin Hood non è soltanto una storia che ha affascinato, nei secoli, oceani di persone. Robin Hood è anche e soprattutto la testimonianza di un mondo in cui i ruoli sociali apparivano come immutabili e in cui i vari status attribuiti alle persone in virtù del proprio sesso e della propria professione erano limitati e, nell’opinione comune, suscettibili di ben poche trasformazioni. È per questa ragione che, al semplice cambiamento di abito, corrisponde una piccola rivoluzione, in grado di togliere a chi osserva qualunque riferimento in merito all’identità del proprio interlocutore.
Perché, nella quasi totalità dei casi, si nasceva e si moriva contadini, macellai, stagnini, cavalieri o monaci, con ben poche possibilità di cambiamento. Inutile specificare che, in una simile situazione, la sola idea di scrollarsi di dosso il ruolo sociale acquisito per nascita appariva, più che utopico, semplicemente pazzesco.
Di più, una simile possibilità, in virtù di un sistema custodito con l’aiuto di un’ideologia che rimandava l’ordine delle cose al volere di Dio, in genere non si dava proprio. Questo almeno fino all’arrivo di Robin Hood. Che non a caso, nelle ballate più antiche, non è né un semplice contadino né un nobile, bensì uno yeomen: particolare categoria di coltivatori liberi dai gravami feudali e/o legati direttamente alla corona da uno specifico incarico e relativo reddito. Furono proprio gli yeomen, detti anche freeholders, ad adottare come arma il long bow: il celebre arco lungo costruito in legno di tasso, pensato per conferire all’arciere grande rapidità di tiro e una gittata che poteva superare i duecento metri. Sarà con quest’arma che le truppe inglesi di Edoardo I, nel 1298, sbaragliarono i temibili shiltrons capitanati dal ribelle scozzese William Wallace: contingenti di uomini armati di picche pesanti che, fino a quel momento, si erano dimostrati un ostacolo insuperabile per la cavalleria. Ma l’arco lungo di Robin Hood, non a caso – come narrato da Walter Scott in Ivanhoe (1860) – diventato presto uno dei simboli dell’orgoglio sassone contro la nobiltà normanna, testimonia anche e sopratutto istanze di cambiamento che il rigido sistema feudale allora in voga tentava in tutti i modi di asfissiare.
Le ballate di Robin Hood stanno alla poesia polare come il ciclo di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda sta all’epica di corte. Non è un caso, infatti, che così come si ricorda e si esalta l’amore romantico, puro e impossibile, tra la bella Ginevra e il prode Lancillotto, Robin Hood non sarebbe Robin Hood senza la presenza della tanto desiderata Lady Marian: eroina della volontà di scegliere l’uomo della propria vita sulla base di un sentimento e senza nessuna implicazione di carattere economico o tradizionale. È possibile cogliere scene di sesso, dunque, nella foresta di Sherwood, ma non solo. Come il cavaliere senza macchia e senza paura esaltato dall’epopea di Camelot era in grado di superare il recinto stereotipato delle vite dei santi in cui l’etica della filosofia scolastica rinchiudeva l’espressione vitale e letteraria, anche il Principe dei ladri riesce a indicare ai suoi pari la possibilità di un riscatto dalla subalternità. È questo, in effetti, il vero motivo per cui Robin Hood diventa un fuorilegge: la sua principale colpa, infatti, è quella di aver reagito all’ingiustizia, pagando con la messa al bando l’incapacità di «restarsene al suo posto» insita nel suo particolare senso dell’onore. Quella di Robin Hood, come ha mostrato il grande storico Eric J. Hobsbawm, non è nient’altro che una «forma primitiva di rivolta sociale». E Robin, alla luce di questa considerazione, è il prototipo di una categoria rintracciabile in epoche storiche diverse alle latitudini più disparate: la categoria del «bandito sociale».
Come argomenta Hobsbawm nel suo I banditi (Einaudi, 1969), i banditi sociali sono:

Fuorilegge rurali, ritenuti criminali dal signore e dall’autorità statale, ma che pure restano all’interno della società contadina e sono considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio. […] Il fenomeno […] si verifica, a quanto pare, in tutti i tipi di società umane che si trovano tra la fase evolutiva dell’organizzazione tribale e familiare e la società moderna, capitalista e industriale, comprendendo però le fasi di disgregazione della società a base familiare e quella di transizione al capitalismo.

E il ragionamento dello storico inglese è talmente calzante che, leggendo Le avventure di Robin Hood, non si potrà certo dimenticare come, quando l’eroe si precipita a Nottingham per salvare Little John dall’impiccagione, ingaggia con gli uomini dello Sceriffo una battaglia che, complice il supporto di gran parte della popolazione, sfocia in una vera e propria prova generale di rivoluzione.
Si potrebbe dire, parafrasando Mao Tse-Tung, che come il rivoluzionario, anche il bandito sociale «deve stare sommerso nel popolo come il pesce nell’acqua».
A differenza del rivoluzionario, però, il bandito sociale raramente si uniforma a una teoria in grado di dare un senso politicamente coerente alla sua azione. In primo luogo perché il suo scopo non è quello di abbattere il sistema di potere vigente, ma ricondurre tale sistema a rispettare diritti e prerogative misconosciuti o calpestati. Questo è vero, per Robin Hood, soprattutto in rapporto al comportamento narrativo di Riccardo Cuor di Leone: per gran parte del libro autentico «convitato di pietra», ma, improvvisamente, epifania risolutrice, portatore di una verità e di una giustizia che soltanto la temporanea affermazione di personaggi indegni aveva messo in discussione. Leggendo tra le righe di questa storia, soltanto apparentemente semplice, si possono ascoltare gli echi dei Re taumaturghi mirabilmente spiegati da Marc Bloch (I Re taumaturghi, Einaudi, 1991): gli unti dal Signore che, tra Francia e Inghilterra, in un periodo compreso tra il Decimo e il Diciottesimo secolo, esercitavano le prerogative reali dando prova di miracolosi poteri di guarigione, doti che attraevano alle loro corti folle di malati postulanti. Sottotraccia, scorreva una convinzione blasfema, ma di grande impatto popolare: gli uomini che sedevano sul trono, in un’epoca in cui i sovrani inglesi e francesi si contestavano a vicenda la legittimità dei reciproci possedimenti, avrebbero ereditato le virtù taumaturgiche dalla più scandalosa e santa delle parentele, quella che sarebbe discesa loro addirittura da Cristo attraverso Maria Maddalena, esule in Provenza dopo la crocifissione del Nazzareno.
Il recupero di questa ipotesi, antichissima, ma solo di recente divenuta popolare grazie al successo galattico de Il Codice Da Vinci di Dan Brown (2003), ci rende ancora più facile apprezzare il valore di Robin Hood nel momento in cui, mostrandosi un degno di un discendente di Maria, associa l’intero popolo che ha inventato le sue ballate all’impresa di migliorare le proprie condizioni grazie alla restaurazione di un ordine giusto. Quando Robin Hood «ruba ai ricchi per dare ai poveri», dunque, è proprio questo quello che fa. Non si limita, come sosterrebbero le spiegazioni meccanicistiche, a irrorare di ricchezze acquisite all’esterno le economie stagnanti a cui erano costrette le popolazioni di Nottingham e dintorni, ma introduce un’idea dall’enorme potenziale sovversivo: «ribellarsi è giusto», sembra dire l’eroe con il suo esempio, quando è la stessa giustizia divina ad essere messa in discussione. Tanto è importante questo grido, che gli anonimi cantastorie in grado di dare vita a Robin Hood scelsero di farlo sentire ancora più forte conferendogli una compagna eccezionale: Lady Marian, appunto; un formidabile sincretismo – data la facilità con la quale si può sovrapporre la figura di Lady Marian con quella della Madonna – grazie al quale il popolo si appropria di un diritto inalienabile e sempre foriero di nuove rivendicazioni: il diritto di essere considerati figli di Dio.
Arrivati a questo punto non ci si potrà stupire se, insieme alla diffusione delle ballate di Robin Hood, nell’antica Inghilterra si diffuse anche un modello comportamentale interpretato di volta in volta da tutti coloro che si ritrovarono nella condizione di «banditi sociali». Un processo di mimesi che spiega come mai, nel tempo, si siano sprecate le segnalazioni di Robin Hood in tutta l’Inghilterra, e che dimostra una volta di più come, se non si può parlare di «un» Robin Hood, parlare di tanti Robin Hood consente di avvicinarci alla realtà di un mito potente come poche altre invenzioni umane. Sembrerebbe quasi che la leggenda di Robin Hood contenga in se stessa gli anticorpi necessari alla sua sopravvivenza. E che, addirittura, questa strana forma di non-esistenza di cui gode il Pricipe dei ladri sia fondamentalmente necessaria. Perché soltanto in mancanza di un unico Robin Hood, chiunque può impugnare l’arco lungo e, armandosi di furbizia e coraggio, calzare i panni del bandito in calzamaglia, già salutato da Karl Marx come«il nostro buon amico Robin Hood, la vecchia talpa che sa lavorare così veloce sottoterra, la rivoluzione».

a.robin_castelvecchiPostfazione al volume Le avventure di Robin Hood di J. Walker McSpadden, a cura di Cristiano Armati, Castelvecchi, 2010.

La prima pietra. Appunti su “La vera storia di Jesse James” e la guerra civile americana

Un’immagine si nasconde tra i fotogrammi ufficiali della breve storia degli Stati Uniti d’America. Non si tratta del solenne George Washington che fissa il volto dei cittadini dai biglietti verdi, né dell’aggressivo ma giocoso Zio Sam che invita la meglio gioventù alla guerra. Non è la grande scritta sulle colline di Hollywood e neppure la fiaccola che, sorretta da una donna di pietra, sorveglia il porto di New York nel nome della libertà. L’immagine dimenticata è quello di un uomo di appena trent’anni – «un uomo alto, con un portamento solenne e la barba scura color sabbia» (così è descritto da suo figlio, Jesse Jr.) – che nella sua casa di St. Joseph ospita due amici pericolosi. Il signore – camicia stirata di fresco, pantaloni con la piega e cinturone di cuoio con due pistole appese ai fianchi – non è tranquillo. Nessuno lo sarebbe nelle sue condizioni, con una taglia di diecimila dollari appesa sopra la testa e gli sceriffi della contea alle costole, disposti anche a giocare sporco pur di togliersi qualche dente avvelenato.

Corre l’anno 1882. E la guerra civile americana, stando ai patti firmati ad Appomatax nel 1865, dovrebbe essere finita da quasi vent’anni. Un periodo durante il quale, in uno stato come il Missouri, i vicini di casa si sono divisi tra la fedeltà all’Unione nordista del generale Grant e la militanza nella Confederazione degli stati del sud guidata dal generale Lee, dando vita a un regno del terrore fatto di stupri di massa, mutilazioni di cadaveri, impiccagioni sommarie, uccisione indiscriminata di donne, vecchi e bambini. Una guerra detta “civile” perché, rompendo ogni differenza tra luoghi abitati e campo di battaglia, trasforma chiunque in un potenziale assassino, arrivando ai limiti della lotta di tutti contro tutti, senza esclusione di colpi ma, al contrario, con la precisa volontà di infierire sul nemico.

Non c’era mai stato sulla faccia della Terra, fino a quel momento, una guerra capace di generare un numero così mostruoso di morti e uno stato di aberrazione perenne della dignità umana, un’ecatombe che, per una dote tipicamente americana, anticipa tutto e tutti, battendo di almeno mezzo secolo gli orrori delle guerre mondiali – bomba atomica esclusa, tendenza al genocidio compresa – e le atrocità che (basti pensare all’ex Jugoslavia, al Kurdistan, al Ruanda…) hanno caratterizzato i conflitti etnici più attuali.

Si tratta di un punto estremamente importante e bisogna tener conto del fatto che il 3 agosto del 1892 quell’uomo con la camicia candida e la barba color sabbia, nella sua casa di St. Joseph, abbia deciso di slacciarsi il cinturone – qualcuno, vedendolo dalla strada girare armato per casa, potrebbe insospettirsi e avvisare la polizia – e poi, agitato com’era (praticamente è da sempre che vive come un cane randagio), ha dato le spalle agli amici per mettersi –lui! – a togliere la polvere da sopra la cornice di un quadro. Quell’attimo di distrazione – il primo dopo le innumerevoli fughe disperate – gli è fatale, perché Charles e Robert “Bob” Ford hanno già la mano sulla pistola e quando il padrone di casa sente il “click” del cane è troppo tardi, una pallottola alla nuca dimostra che per il piombo non fa nessuna differenza: un comune mortale morirebbe esattamente come ha fatto il mitologico Jesse Wodson James, il fuorilegge più pericoloso del West.

*

La morte di Jesse James è un fatto strano. Sulle orme del maggiore John Newman Edwards, sudista irriducibile, firma giornalistica di culto e addirittura «poeta» della causa della Confederazione, tanti epigoni del soldato-scrittore descrissero minuto per minuto gli ultimi istanti del bandito e, negli gli empori, nei saloon, nelle case di piacere, trovarono un folto pubblico persino tra la maggioranza di contadini; magari in lotta contro terre colonizzate a stento eppure già avidi consumatori di giornali. Fu proprio Edwards a coniare, per la gente come Jesse James, il soprannome di “cavalleria del crimine” e il successo clamoroso – a livello di immaginario prima di tutto – del suo Noted Guerrillas induce a un’osservazione forse irriguardosa: a livello economico, esiste uno strano nesso tra il progresso del “capitalismo a stampa” e la diffusione del banditismo – non c’è duello tra pistoleri o linciaggio di neri o impiccagione pubblica di ladri di cavalli che non si tramuti in titoli cubitali, cronaca rovente, grande richiesta di libri, opuscoli illustrati, giornali. L’informazione – ed è stata questa, probabilmente, la più grande innovazione della guerra civile americana – si può far valere su un “campo di battaglia” come e più di una batteria di cannoni; quale arma, in fondo, può funzionare meglio della carta stampata quando la guerra, in quanto “civile”, non è fatta soltanto di scontri tra eserciti ma stana le sue vittime casa per casa?

L’assoluto protagonista dei fiumi d’inchiostro (e di sangue) che inondano il West – il famigerato Jesse James – è un uomo assolutamente in grado di muoversi, con le parole e con le azioni, tra le strette maglie dell’informazione e della propaganda. Per affermare l’irriducibilità delle autentiche ragioni della guerra civile americana visto che, lungi dall’essere un atto dovuto, la causa della liberazione dei neri – con il tempo utilizzata per conferire dignità allo scontro – finisce con il rappresentare l’aggressione del capitale industriale e commerciale del nord, pronto a tutto pur di schiacciare la concorrenza dell’economia sudista, legata all’agricoltura ma facilitata dalla possibilità di impiegare nel lavoro a titolo gratuito migliaia e migliaia di vite umane.

Tra il Nord e il Sud degli Stati Uniti, il Missouri di Jesse Woodson James è il classico stato cuscinetto e forma la cosiddetta “frontiera occidentale”: un territorio geograficamente più vicino al nord ma con una popolazione pronta a spaccarsi a metà tra unionisti e confederati quando gli eventi offriranno il pretesto di imbracciare la bandiera della Confederazione per difendere i privilegi di un sistema sociale fondato sulla schiavitù.

Figlio di un pastore protestante, Jesse Woodson James, nato nella contea di Clay il 5 settembre del 1847, cresce tra gli schiavi delle piantagioni di famiglia, tirato su dalla madre, Zerelda, e dal dottor Reuben Samuel (descritto dai contemporanei come completamente succube della moglie), l’uomo sposato dalla donna in seconde nozze dopo la morte del primo marito, Robert Sallee James: emigrato in California per seguire il miraggio dei cercatori d’oro e mai più ritornato.

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Nella vita degli “eroi” c’è sempre un momento in cui l’aria spesseggia e, all’incrinatura di un’offesa profonda nel proprio senso dell’onore, si reagisce con conseguenze fatali. Questo è ciò che succede quando la storia del secondogenito del “predicatore James”, nel 1863, abbandona i panni del ragazzo serio e timorato di Dio. Jesse James, intento ad arare il suo terreno con il patrigno, viene prelevato da una squadriglia di soldati unionisti che lo picchiano selvaggiamente e lo costringono ad assistere alle violenze su sua madre, sua sorella e, soprattutto, sul dottor Samuel: appeso al cappio più di una volta dai soldati, ansiosi di estorcergli qualche confessione.

In tutta la zona, la famiglia di Zerelda James, originaria del Kentucky, è nota per le accese simpatie sudiste, per l’aperto appoggio fornito alle squadriglie di ribelli che si costituiscono per scagliarsi contro l’Unione, e per la fede incondizionata in un Dio “bianco”, custode di un sistema che prevede la schiavitù dell’uomo sull’uomo. Dopo l’aggressione, Jesse James, appena quindicenne, decide di scagliarsi contro chi l’ha oltraggiato indossando l’abbondante camicia bianca con le tasche larghe: la divisa utilizzata dai guerriglieri sudisti del Missouri, formazioni irregolari di supporto al generale Lee, che, con quel tipo di abbigliamento, soddisfacevano l’esigenza di avere sempre a portata di mano – rigorosamente cariche – un buon numero di pistole.

Le armi a disposizione dei combattenti, sul momento, sono piuttosto rudimentali. Le pistole automatiche non sono state ancora inventate e caricare un’arma è un procedimento lungo e laborioso, non si può certo fare in campo aperto. E se, per un confronto con le condizioni tecnologiche del 1865, può essere utile fare riferimento a località più familiari degli sterminati territori del “selvaggio West”, basti pensare che solo qualche anno prima i Mille di Giuseppe Garibaldi sbarcarono in Sicilia armati con delle pistole in tutto e per tutto simili a quelle dei guerriglieri suddisti: gentile omaggio all’“eroe dei due mondi” da parte del famoso signor Colt.

Tornando a Jesse James, l’educazione militare del ragazzo avviene nel commando più celebre di tutta la frontiera dell’Ovest, quello guidato da William Clarke Quantrill, protagonista, tra le tante stragi, del terrificante eccidio di Lawrence: tra le centocinquanta e le duecento vittime, massacrate in un solo giorno, il 21 agosto del 1863. Una strage pianificata e realizzata piombando sulla cittadina con il ferro e con il fuoco, ammazzando con la pistola ma anche con il coltello e con il bastone: una carneficina indiscriminata e anche un modo per ornare i propri cavalli, spesso addobbati con gli scalpi che molti guerriglieri strappavano ai propri nemici.

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L’eccidio di Lawrence, nella realtà della guerra civile americana, è soltanto una delle innumerevoli stragi che resero spietato e disgustoso il conflitto. I massacri dei civili, infatti, si susseguirono indiscriminati sovrapponendo all’odio razziale dei bianchi sui neri anche l’odio politico dei bianchi sui bianchi. A combattere sul “confine della pelle” ci pensano squadriglie di cristiani intransigenti e armati – come il Ku Klux Klan – talvolta respinti da piccoli eserciti spontanei di neri liberati, organizzati per opporre resistenza; a portare la guerra contro la milizia nordista e spesso direttamente nelle città del Missouri accusate di essere fedeli all’Unione, ci pensano i partigiani sudisti, spietati come William Clarke Quantrill o come Jesse James.

La supremazia commerciale dei nordisti sarà un fattore determinante per le sorti della guerra civile americana ma quando il generale Lee sancisce la resa del Sud firmando i patti di Appomattox (9 aprile 1865), le numerose bande di guerriglieri che la stessa politica sudista ha contribuito a formare non smobilitano ma continuano a lottare.

Jesse James, insieme a suo fratello Frank e ai fratelli Younger, sono i frutti più avvelenati di questa generazione di irriducibili: i desperados del Wild West, protagonisti di un mito che li trasforma in moderni cavalieri senza macchia e senza paura proprio nel momento in cui, nelle loro azioni, il confine tra guerriglia e criminalità si fa sempre più sfumato.

In realtà, la particolarità di Jesse James – la ragione ultima per cui la cronaca lo ha selezionato tra centinaia e centinaia di guerriglieri sudisti conferendogli un’aurea leggendaria – sta nel modo in cui nel corso delle sue azioni, imboscate alle colonne nordiste o furti con destrezza, il ragazzo del Missouri abbia saputo dare un significato politico alle sue gesta, richiamando l’intera opinione pubblica della frontiera dell’Ovest a spaccarsi su ciò che comunque restava una ferita insanabile: il ricordo delle immani violenze perpetrate da uomini reputati almeno compatrioti se non amici e fratelli. Come moltissimi biografi di Jesse James hanno osservato, l’azione dei partigiani sudisti continuò ad andare avanti anche nella consapevolezza di non avere nessuna prospettiva. I guerriglieri del Missouri si votarono a ciò che loro stessi definivano “la causa persa” e continuarono a combattere. Sospinti da una letale miscela di vendetta, enorme disponibilità di armi e incapacità di rientrare nei ranghi della vita “civile”, i ribelli cambiarono i loro obbiettivi: non più le colonne dell’esercito nordista – ormai ridotti al lumicino, non avrebbero la forza per sostenere un simile scontro – ma i simboli del sistema che li ha sconfitti: le banche e, soprattutto, la ferrovia.

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Il luogo comune non ha dubbi. È senza incertezze attribuisce la paternità della prima rapina a mano armata in una banca proprio a Jesse James. Il record si sarebbe registrato nella cittadina di Liberty il 13 febbraio del 1866 e fruttò ai banditi quindicimila dollari in oro ma anche il primo morto sulla coscienza: il diciannovenne George Wynmore, ammazzato in mezzo alla strada, forse per aver gridato «al ladro» alla vista dei rapinatori.

Reduci dalle brigate di Quantrill, Jesse James con suo fratello Frank e un accolita di altri complici tra cui spiccano i fratelli Younger e Arthur McCoy, ha messo insieme una banda che, dei tempi della guerriglia, ha ereditato l’enorme abilità di spuntare dal nulla, colpire duro e dileguarsi «come nebbia al sole del mattino». Al mentore del gruppo, il maggiore John Newman Edwards, non sfugge la valenza simbolica del numero e, a loro, dedica una definizione – “un quintetto terribile” – destinata a sopravvivere sia allo scrittore che ai banditi.

Il primato della banda James-Younger è, rispetto ai tempi che corrono dall’altra parte del mondo, è eccezionale. Basti pensare che per assistere alla prima rapina in banca con il morto in Italia bisogna aspettare quasi un secolo: è il 1950, infatti, quando il bolognese Paolo Casaroli, insieme ai suoi complici irrompe in una filiale romana del Banco di Sicilia uccidendo Gabriele Angelucci, il direttore. Una tragedia favorita dal riproporsi di una situazione simile a quella americana: l’avvento del capitalismo diffuso e un’insolita disponibilità di armi e di odio a partire dalla fine di una guerra – quella di Liberazione – che anche per l’Italia è stata “civile”.

Animati da un senso dell’azione più esistenziale che politico, i membri della banda Casaroli non cercarono né trovarono il consenso popolare. L’ardimento del loro leader e l’originalità delle sue esternazioni filosofiche furono in grado di dispensare fascino e suscitare sentimenti di emulazione ma non servirono a trovare protezione tra le gente e, non a caso, i responsabili della rapina al Banco di Sicilia vennero velocemente individuati e sgominati dalla polizia. Lo stesso non accadde a Jesse James per la ragione opposta: non si contano neppure le persone disposte a fornire ai guerriglieri rifugio e sostegno morale – gran parte della gente del Missouri, infatti, continua a identificarsi con “la causa persa” e a coprire i suoi migliori interpreti. Una popolarità senz’altro difficile da interpretare, anche grazie agli obbiettivi scelti dal bandito. Le banche erano nate da pochissimo, infatti, ma avevano già fatto in tempo a rendersi assolutamente impopolari: ritenute responsabili delle spinte inflazionistiche e delle speculazione, danneggiavano specialmente gli agrari del Sud, già privati degli schiavi e ora costretti anche a risentire in maniera più sensibile delle fluttuazioni del mercato. Grazie al colpo di Liberty, Jesse James arriva persino a essere descritto come un nuovo Robin Hood anche se con la sua rapina, Jesse toglie ai ricchi, questo sì, ma da sostentamento più a se stesso e ai suoi seguaci che ai poveri. Più che essere un “bandito sociale”, in fondo, Jesse James è un “bandito politico”. E per questa ragione il vero primato nella sua Banda, più che con le rapine in banca, ha a che fare con gli assalti ai treni. In questo caso non sono le date a fare testo ma le modalità prescelte dai banditi. Perché quando la gang James-Younger si presenta alla stazioncina di Gads Hill l’impresa di fermare un treno per rapinarlo è già stata tentata con successo da altri outlaws americani. Quello che non era mai successo, prima del 2 febbraio del 1874, è che dei banditi firmassero le loro azioni con una rivendicazione: «La rapina più audace mai compiuta – scrive Jesse James in un telegramma inviato al «St. Louis Dispatch» dall’impianto di Gads Hill – il treno diretto a sud sulla linea ferroviaria Iron Mountain è stato fermato stamattina da cinque uomini bene armati e rapinato di ___ dollari. […] C’è una grandissima eccitazione in questa parte del Paese» (lo spazio bianco è stato lasciato dal bandito per permettere ai contabili di verificare l’entità dell’ammanco).

La “parte del Paese” di cui parla Jesse James è la stessa a cui lui stesso si rivolge: quell’America bianca e cristiana che, sulla scia delle tensioni razziali, ha dato vita a organizzazioni paramilitari come il Ku Klux Klan, un gruppo a cui lo stesso bandito-guerrigliero fa riferimento visto che, nel corso di un’altra rapina, arriverà ad approfittare del cappuccio bianco degli “ariani” per non essere riconosciuto ma anche per imprimere un significato preciso all’azione. Il significato è che, finita la guerra, la guerra continua: una guerra diversa, “non ortodossa”, un “conflitto a bassa densità” che, come obbiettivo, si scaglia contro le istituzioni più rappresentative del “sistema”.

Jesse James, insomma, è dentro una vera e propria “strategia della tensione” che anticipa non soltanto uno dei modi di «portare avanti la politica con altri mezzi» tipici dell’Occidente del XX e, ormai, anche del XXI secolo. Ma svela la genesi e le origini storiche del terrorismo, dando un volto inaspettato a una tecnica militare destinata a incarnare uno dei tratti più caratteristici della contemporaneità.

Sarebbe curioso osservare come l’appellativo politico usato per i partigiani sudisti – “bravi ragazzi” – sia potuto finire a designare i rappresentanti della criminalità mafiosa di New York e, anche pensando all’Italia, è interessante notare come la stessa espressione, ormai appannaggio di rapinatori e boss di quartiere, sia stata importata originariamente – il merito va a Franco Di Bella de «Il Corriere della Sera» – per stigmatizzare l’operato della Volante Rossa di Lambrate. Il punto della vicenda resterebbe comunque un altro: messa a confronto con le proprie paure, l’America – e con lei tutta l’ecumene a cui funge da riferimento – è costretta a scoprire se stessa.

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Poche immagini sono così caratteristiche di un genere, sia esso letterario, cinematografico o fumettistico, come quella dell’indiano sanguinario e primitivo. Una specie di belva avida di sangue umano, abituata a scuoiare i suoi nemici e magari chissà, anche a cibarsi della loro carne. Fuori dalle rappresentazioni collettive, a tagliare le orecchie ai caduti, a mozzare il naso dei nemici morti e a fare lo scalpo ai loro contendenti ci sono proprio i bianchi americani. Il tutto all’interno di un contesto di violenza diffusa e intestina e non solo per reagire con crudeltà a tensioni di tipo etnico.

La diffusione delle armi non basta da sola a spiegare la velocità con cui si propagò il conflitto, se non altro perché la diffusione dei revolver – icona del cowboy – non fu dovuta agli stereotipati attributi di virilità e spregiudicatezza caratteristici degli eroi del cinema hollywoodiano ma fu un processo innescato dal governo, desideroso di armare i coloni contro gli indiani. Dopo aver sterminato gli indigeni nord-americani, i nuovi nativi rivolsero le pistole contro loro stessi iniziando una carneficina apparentemente impossibile da fermare: un disegno favorito dalla collisione di interessi antitetici all’interno del quale Jesse James trova la sua ragion d’essere principale. È per questo, forse, che in nazioni, come il Canada, dotate di una legislazione altrettanto liberale nei confronti della vendita e del possesso delle armi, si registra ancora oggi un numero infinitamente inferiore di omicidi e/o “incidenti”. È come se, a partire dalla guerra civile, si fosse innescata una paranoia diffusa e una cultura del sospetto che ha esaltato e addirittura reso necessaria l’etica del “grilletto facile”, una specie di maledizione ancestrale che gli Stati Uniti nascondono tra le pieghe del proprio codice genetico, conseguenza di una mattanza originaria nel corso della quale furono proprio i padri fondatori a scagliare “la prima pietra”.

Trascorsi gli anni della guerra civile, i danni di quel bagno di sangue comprendono anche la paternità della banda di Jesse James e, nel tentativo di rimuovere quell’evento, anche la necessità di trasfigurarlo e infondergli un senso di nobiltà.

Ecco, allora, che su diversi giornali del West si leggerà che Jesse James uccide, questo sì, ma sempre rispettando un suo codice d’onore e, spesso, soltanto per difendersi dai provvedimenti presi contro di lui in un Paese incapace di trovare una soluzione politica al problema dei desperados. La leggenda dei vendicatori della causa del Sud, infatti, continua a produrre violenza nei confronti dei “diversi” – sono centinaia i neri uccisi dalle formazioni paramilitari di Lee – ma finisce con il soccombere di fronte a una realtà in rapido mutamento: una società che si “normalizza” ha bisogno di stabilità e vede nelle ferrovie e nelle banche delle opportunità di investimento e non gli avamposti del male.

Il nuovo corso dei tempi si materializza davanti agli occhi di Jesse James quando, dopo aver ucciso il cassiere della First National Bank di Northfield, a sparare contro lui e la sua banda ci pensano i comuni passanti: una reazione inaspettata che costa l’arresto ai fratelli Younger. Nondimeno una parte dell’opinione pubblica si muove ancora per difendere i “guerriglieri” quando i cacciatori di taglie dell’agenzia Pinkerton, il 25 gennaio del 1875, assaltano la casa dove vive la madre del ricercato a colpi di bombe, provocando vittime innocenti e alimentando le ragioni di chi è disposto a risolvere l’affaire James con un’amnistia.

Sulla testa del fuorilegge, però, continuano a essere in palio diecimila dollari e tanto basta per spingere Bob Ford, con la complicità del fratello Charles, tutti e due arruolati da Jesse nell’ultimo periodo della sua carriera, a tradire il capo. E per una vita come quella di Jesse James, agente della guerriglia terroristica, l’unica morte possibile sembra essere quella dovuta a “un omicidio di Stato”. Appurato che nessuno dei fratelli Ford – e meno che mai Bob, da allora detto “il codardo” – avrebbe mai potuto avere la meglio su “la pistola più veloce del West” in un duello faccia a faccia, molti “complottisti”, appurata la notizia che Jesse James era stato veramente assassinato, puntarono il dito contro i presunti accordi presi dai traditori con il governatore democratico Thomas Crittenden.

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Le memorie scritte dal figlio di Jesse James sembrano escludere la possibilità di un coinvolgimento diretto di Crittenden nella “soluzione” del caso James. Ciononostante nel suo racconto, addentrandosi nella vicenda processuale che lo ha visto protagonista, la cosa che emerge con più chiarezza è proprio la «lunga durata» della guerra civile americana: sintomo di una rimozione collettiva di un evento tragico davvero molto difficile da affrontare.

Che il giovane James, come già suo padre, sia colpevole per gli agenti di Allan Pinkerton e i nordisti e innocente per la giuria del tribunale che l’ha assolto dall’accusa di rapina al treno e per l’opinione pubblica confederata non risolve i termini dell’opposizione radicale agli organi centrali dello Stato americano e dell’estremismo politico e religioso di una parte importante della popolazione, dal Ku Klux Klan alle varie associazioni paramilitari ancora oggi operanti in vaste zone degli Stati Uniti, a reagire al cambiamento sociale attraverso la pratica delle armi.

L’attentato subito da Oklahoma City il 19 aprile del 1995 – 2300 chili di esplosivo fatto in casa con agenti chimici impiegati nell’agricoltura e collocato nei pressi del palazzo federale: il bilancio è di 168 vittime, il boato dell’esplosione venne ascoltato a più di sessanta chilometri – è un altro dei massacri che si iscrivono a questa particolare “strategia della tensione”. Anche in questo caso, come ai tempi dell’eccidio di Lawrence, le parole d’ordine degli attentatori erano slogan lanciati contro «il cuore dello Stato»: il loro leader Timothy McVeigh, ventisette anni, è un ex militare, reduce dalla guerra del Golfo, che rivolge armi di distruzione di massa contro i propri concittadini e contro le strutture-simbolo degli apparati del governo centrale. Arrestato dall’Fbi, Timothy McVeigh risultò provenire da un gruppo neonazista armato di ispirazione cristiano-autonomista, la Michigan Militia: prima della carneficina dell’11 settembre del 2001 e il crollo delle Torri Gemelle, la strage di Oklahoma City è il più cruento atto di guerra verificatosi in territorio americano dai tempi di Pearl Harbor. Secondo diversi analisti, i mandanti dei terroristi vanno ricercati nei servizi segreti, interessati a imprimere una svolta autoritaria e imporre a tutto il Paese la legge marziale. Senza considerare che, ancora una volta, non è un agente esterno a colpire anzi, a “scagliare la prima pietra”, è proprio un soldato americano.

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Con il rientro sulla scena della “strategia della tensione” e del terrorismo, la dimensione politica del banditismo di Jesse James può essere recuperata. Ai bordi della rimozione collettiva del disastro della guerra civile fioriscono gruppi su cui il messaggio di James funziona a livello di immaginario su scala globale. L’eco delle gesta di Jesse James giunge in Italia tra le note di alcune fortunate ballate americane e, ancora più massicciamente, grazie alla cinematografia. Nel corso degli anni Settanta sono molte le immagini che descrivono, a livello metaforico, il retroterra immaginifico dei terroristi di estrema destra. I reduci della “brigata di ferro” di William Quantrill sono fatti dello stesso metallo della “guardia” del rumeno Cornelius Codreanu: icone sacrileghe da opporre a un Malcom X o a un Ernesto “Che” Guevara. A monte, le stesse definizioni di “guerrieri senza sonno” e di “cavalieri dalle lunghe ombre” (lo stesso titolo del film su Jesse James di Walter Hill) e la stessa “bandiera nera”; come progetto politico, la stessa assenza di prospettive e la paranoia di sentirsi minoranza oppressa; a livello sociale, spesso, la stessa provenienza da famiglie borghesi e da quartieri-bene; a livello pratico, un’inclinazione ambigua nello stringere rapporti con quelli della Mala, i “bravi ragazzi” di oggi; in tribunale, presenza abbastanza abituale nelle indagini relative ai vari “misteri di Stato”; a livello di militanza l’adesione compatta di gruppi di fratelli: i James o gli Younger negli Stati Uniti, i Fioravanti o i Bracci in Italia, se si va a scorrere l’elenco delle persone indagate a vario titolo per la militanza nei Nar.

Jesse e Frank James come Giuseppe Valerio e Cristiano Fioravanti?

I camperos e le cinte con la fibbia, insieme a un “impermeabile bianco” uguale allo spolverino di Jesse James sono tra i pochi indizi che restano tra l’irrisolutezza di omicidi come quello di Fausto e Iaio a Milano (18 marzo 1978) o di Valerio Verbano a Roma (22 febbraio 1980) ma, soprattutto, sono il segno dell’impermanenza dell’immaginario e il frutto di un rapporto di lunga data con i mezzi di comunicazione.

L’epilogo dell’esistenza di Jesse James, alla resa dei conti, è di natura assolutamente cinematografica. Lo stesso Jesse James Jr., oltre che scrivendo La vera storia di Jesse James, ha contribuito alla causa della memoria del padre interpretando il personaggio di Jesse in Jesse James Under the Black Flag e in Jesse James as the Outlaw, due rari film-documentari del 1921. Ma i capitoli della filmografia relativi al fuorilegge per antonomasia sono ormai sterminati e hanno visto cimentarsi con il re degli outlaws attori come Brad Pitt e Tyrone Power e registi come Walter Hill. Una tensione alla spettacolarizzazione della storia comprensibile anche alla luce dei destini dei desperados di Jesse James: la morte violenta per il “codardo” Bob Ford, assassinato in Colorado; il carcere per Frank James e Cole Younger. Dopo aver scontato la galera, gli ex “cavalieri dalle lunghe ombre” sono costretti a subire l’ironia della sorte. Ma alla fine approfittano della stessa opportunità che gli Stati Uniti hanno concesso agli indiani che hanno smesso di combattere l’uomo bianco. L’opportunità di girare l’America per esibire i fantasmi di loro stessi in uno spettacolo in grado di richiamare un folto pubblico: una carovana errante cui andò il nome di James-Younger Wild West Show.

L’applauso del pubblico è sempre liberatorio. Anche se fino a oggi non è mai stato sufficiente per affrontare una volta per tutte il fantasma di Jesse James e risolvere le contraddizioni che l’hanno generato.

a.pcxKcristiano-armati-la-vera-storia-di-jesse-james-newtonPostfazione al volume La vera storia di Jesse James, di Jesse James Jr., a cura di Cristiano Armati, Newton Compton, 2007

Prometeo in love (la rivolta è una parola…)

Con quegli occhi che sono biglie / lucidate nell’asfalto / mi divori di scintille / trafugate nel palazzo / dove il fuoco è di signori / messi a guardia di un bivacco / a cui chi non prende parte / è ribelle oppure pazzo.

La rivolta è come un fiore / sbocciata nel catrame / salta addosso allo stupore / che ha il padrone per il cane / maledice quella stella / che ha deciso la sua sorte / e se sfida il suo destino / lo fa a prezzo della morte.

Ma la morte non si invoca / non si invoca e non si canta / è la vita che decide / e non dà tregua a chi comanda, / così successe in giorno / di rifiutare una condanna / resa dura dall’amore / e non certo dalla rabbia.

Senza lancia e senza spada / il giorno che scoppiò la guerra / trovai nel tuo ricordo / l’arma mia più bella / e se tutto questo ha un nome / di certo non lo tace / chi scelse di essere libero / per lo sguardo tuo di brace.

Era quello il vero fuoco / il fuoco che non brucia / ma che illumina la strada / di una notte sempre grigia / il sole all’improvviso / entrò nella caverna / trasformando in giorno / la realtà che ci governa.

A gridare forte / bastò un tizzone ardente / gettato nella piazza / di un cuore già dolente / da quel momento in poi / niente fu più uguale, / il palazzo si svegliò / ma non riuscì a ingannare il male.

Al mostro quella volta / tornò la faccia sua di bestia / e alla schiena dei miei passi / lanciò un grido di tempesta / però non furono tuoni / e nemmeno temporali / ma uomini in divisa / a rinchiudere i miei mali.

Crocifisso a un palo / sconto ancora la mia pena / con i chiodi nella carne / sera dopo sera, / la conoscenza ha un prezzo / che pago volentieri / e della condanna rido / perché ascolto i miei pensieri.

Nella mente libero / ma con il corpo incatenato / non mi piego al mio tormento finché resto innamorato / e non mi do per vinto / neppure carcerato / perché la vittoria è una parola…

tu dilla

e io sarò salvato.

“Cuori rossi” di Cristiano Armati

Recensione di Giovanna Canzi, da Il Sole 24 Ore del 3 aprile 2009

a.cuoriDavide Cesare – «Dax» per gli amici e per il resto del mondo – ha ventisei anni, quando il 16 marzo 2003 viene assassinato sui Navigli a Milano. Lascia una donna, una figlia piccola, un lavoro faticoso consumato sulle strade. A ucciderlo due fratelli: Federico e Mattia Morbi di 28 e 17 anni. Nonostante Dax fosse un militante dell’Orso (Officina di Resistenza Sociale) e i due giovani Morbi fossero soliti scorrazzare per le strade con il loro rottweiler di nome «Rommel», un tributo all’omonimo generale nazista, la stampa e le istituzioni hanno sempre cercato di liquidare l’omicidio come «una rissa tra punk».
A questa storia – una delle tante, a cui è stata negata la matrice politica – Cristiano Armati è particolarmente legato. Così nel suo recente volume «Cuori rossi» (Newton Compton Editori, 504 pagine, 16.90 euro) per farci capire chi era Dax parte «dalle sue spalle larghe, dal suo fisico robusto e da un volto che ispira amicizia e simpatia, lasciando trasparire la sua passione…». Ma la vicenda di questo ragazzo milanese, che per vivere guida un camion e che per passione si batte per evitare gli sgombri o le privatizzazioni delle case popolari è solo una delle tante espressioni di violenza e di sopraffazione che si annida fra le viscere della nostra Italia.
Storie di assassini fatti passare per «tragici incidenti o fatalità», rimozioni collettive, morti della non memoria. A tutte queste vittime Armati, nato a Roma nel 1974, dedica pagine e pagine di accurata ricostruzione storica, per «tentare di restituire le lacrime e il sangue a un’asettica lista di contadini, operai, studenti, sindacalisti e militanti che, dopo aver pagato con la vita il prezzo delle proprie idee, sono stati troppo spesso ridotti a un nome che affiora nei verbali degli addetti all’ordine pubblico». Spinto da un criterio di natura emozionale, l’autore parte dagli eccidi di contadini e operai nel dopoguerra come la strage di Portella della Ginestra, ripercorre i sanguinosi anni del ’68, con i quei casi che hanno segnato profondamente la storia del nostro Paese, giunge ai giorni nostri, dove per essere picchiati o ammazzati basta veramente poco: partecipare a un concerto a Villa Ada, o presentarsi al mondo con un qualunque segno di apparente diversità (un abbigliamento trasandato, dei capelli lunghi…) rispetto a un modello codificato di feroce ed efferata «normalità».