BITT Festival: la “Piazza Letteraria” bolognese

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BOLOGNA, giovedì 4 giugno: Il BITT-Batti il tuo tempo festival e Agenxia X presentano la prima edizione della Piazza Letteraria, un evento libero e gratuito dove prenderanno parola più di 50 tra scrittori e scrittrici, musicist*, teatranti, studenti e studentesse, poeti, attori e attrici, dj’s, rapper in performance/reading di 10-15 minuti.

a.bittLo Slam-x in salsa bolognese si svolgerà in due vicine e diverse location della zona universitaria bolognese: dalle 19:00 alle 00:30 in Piazza Verdi, dove si accavallano ogni giorno lingue e dialetti differenti, si alterneranno readings, voci, incursioni teatrali/poetiche, in un unico flow meticcio che compone la Bologna di ieri e di oggi. Dalle 23.30 lo spettacolo si trasferisce nella facoltà di Lettere al civico 38 di via Zamboni, per continuare con i reading e poi dare spazio alla musica con tanti/e dj’s “Bolo All Stars”, dove ci saranno i banchetti delle case editrici indipendenti come Agenzia X, Red Star Press e Bebert e quelli delle librerie bolognesi Modo Infoshop e Trame.

In caso di maltempo il tutto si svolgerà in via Zamboni 38.

> Letture/performance/voci/suoni con:

Pino Cacucci (scrittore) + Wu ming contingent (musicisti) & Marco Philopat (scrittore) – Manlio Benigni (giornalista) – Sante Notarnicola (poeta) – Giorgio Canali (cantante) – Angela Baraldi (cantante) – Suz – (cantante) – Duka (scrittore) – Sigaro (cantante “Banda Bassotti”) – Yari Salvatella (scrittore) – Alberto Masala (poeta) – Moreno Spirogi (cantante de “Gli Avvoltoi”) – Gianluca Morozzi (scrittore) – Enrico Palandri (scrittore) – Riccardo Balli (dj e scrittore) – Dies (rapper) – Alessandra Mostacci (musicista “Freak Antoni Band”) – Loriano Macchiavelli (scrittore) – Sergio Rotino (fine dicitore) – Simona Sparago (scrittrice) – Andrea Topot (precario) – Bifo (scrittore) – Helena Velena (scrittrice) – Cristiano Armati (scrittore) – Gianpiero Rigosi (scrittore) – Andrea Di Carlo (scrittore) -Massimo Vitali (scrittore) – Alberto Sebastiani (giornalista/scrittore) – Massimo Vaggi (scrittore) – Dimore in Movimento (gruppo teatrale indipendente) – Alessandro Berselli (scrittore) – Mimmo Crudo (musicista Parto nuvole Pesanti e OndAnomala) – Marco Martucci (scrittore) – Enzo Minarelli (poeta) – Alberto Bertoni (scrittore) – Gennaro Suano (cantante degli Smania Uagliuns) – Marcello Fois (scrittore) – Matteo Iammarrone (cantautore) – Moder (rapper) – Mc Nill (rapper) – Willy Peyote (rapper) – Giovanna Bandini (scrittrice)… e tanti altri!

> A seguire (IL)LETTERATO PARTY @ via Zamboni 38
• 1 Stage: Sor Braciola & Arsenale Diggei (Internazionale Trash Ribelle), Rebecca Wilson (electro), Big Mojo (Electro Blues) and more…
• 2 Stage: Bandolero Movement & Friends (reggae/jungle/dub)

Pugni e Socialismo a Padova

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a.pugni.10995383_682760251829243_2686875613243488258_nRiflettori accesi sullo sport popolare a Padova. Il 29 maggio, nell’ambito della tre giorni “Chinatown Calling”, piazzetta Caduti della Resistenza ospiterà, alle 17, un allenamento collettivo e una dimostrazione di boxe mentre, dalle 18, Chiara Gregoris e Giuni Ligabue presenteranno con Cristiano Armati della Red Star Press il libro “Pugni e socialismo. Storia popolare della boxe a Cuba”, insieme al documentario “Gancho Swing”, dedicato alla pratica del pugilato cubano. A seguire, la serata proseguirà con il concerto di Black Stuff e Skufitza Roshi.

 

La Scintilla: dalla Valle alla metropoli, una storia antagonista della lotta per la casa

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SABATO 23 MAGGIO, ORE 19 – 770 OCCUPATO (Via Tiburtina 770) – Cristiano Armati presenta “La scintilla” con le compagne e i compagni che hanno dato vita alle mobilitazioni raccontate nel libro 
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Negli ultimi anni, con l’acuirsi della crisi economica che si è fatta ormai sistemica, e il susseguirsi dei vari governi tecnici che hanno tracciato la strada per la “guerra ai poveri”, incarnata da Renzi e i suoi ministri in misure legislative che vanno dal Piano casa al Jobs Act, dalla Buona Scuola allo Sblocca Italia, abbiamo assistito ad un sostanziale impoverimento della società italiana. Attraverso le riforme neoliberiste e la distruzione del welfare, e in una sostanziale emergenza sociale, il governo e gli enti locali hanno tracciato una linea netta fra solvibili e insolventi, fra chi a costo di sacrifici riesce a pagare indebitandosi e chi invece proprio non ce la fa.
In un contesto del genere i movimenti sociali si sono attivati per provare a costruire reti di solidarietà e di lotta nei territori. In questo senso la lotta per l’abitare di Roma, ma anche nel resto d’Italia, ha avuto e mantiene un ruolo fondamentale. La capacità di uscire dalla dinamica vertenziale per allargare a diversi ambiti il campo di intervento è stata fondamentale nella costruzione di importanti mobilitazioni, di cicli di lotta che ancora durano, di scommesse politiche e tentativi ricompositivi. Non a caso, infatti, il sottotitolo de “La scintilla” fa riferimento a “dalla Valle alla metropoli”, ovvero quell’intuizione politica sull’uso, anch’esso tutto politico, delle risorse da parte di chi governa questo paese sempre a favore dei grandi costruttori e delle lobby economiche e mai delle classi subalterne, che ha portato alle due importanti giornate del 18 e del 19 ottobre 2013, ma soprattutto a un tentativo “altro”, ovvero la scommessa di una possibilità ricompositiva all’interno dei movimenti sociali, che ci facesse percepire come un’unica classe di sfruttati/e e che l’unione delle lotte, delle vertenze, delle insorgenze e dei saperi sia l’unica strada perseguibile per costruire un movimento effettivamente radicale a questo sistema. 
Con la presentazione del libro * La Scintilla: dalla valle alla metropoli, una storia antagonista della lotta per la casa * di Cristiano Armati (scrittore, ma soprattutto compagno ed attivista dei movimenti per il diritto all’abitare e sociali di questa città, con l’importante merito di mettere la sua scrittura e il suo sapere a favore di un background collettivo), vogliamo provare a ragionare sulle possibilità ricompositive di un movimento, per confrontarci con chi in altre città e a Roma sta portando avanti le lotte per il diritto all’abitare ma anche quelle assieme ai facchini della logistica, chi costruisce reti di solidarietà nel proprio territorio contro le devastazioni ambientali e chi combatte la buona scuola di Renzi e le politiche studentesche nel suo insieme. 
Un momento, dunque, di dibattito collettivo aperto a partire dalle esperienze che il libro racconta (dalla rivolta di San Basilio alle lotte di oggi), per valutare le strade finora percorse e trovare quelle percorribili, perché si continui a ragionare come tenere viva quella scintilla che vediamo accendersi nel Bronx di Torrevecchia, nelle fabbriche SDA, nei boschi della Val di Susa, nelle periferie e nei centri delle nostre città e far sì che si propaghi e diventi un incendio.
Un’occasione per sviluppare, insieme, un dibattito politico per comprendere l’attualità del conflitto immaginando nuove traiettorie di autorganizzazione, lotta, radicale trasformazione dell’esistente.
Saranno presenti i compagni del Social Log di Bologna.La presentazione del libro si terrà all’interno dell’occupazione abitativa di via Tiburtina 770 (Roma), che festeggia 2 anni di lotte!

#RomaSiBarrica

Milano pulisce ancora

Tanti discorsi sulla libertà di espressione e il diritto alla critica sono improvvisamente svaniti nel nulla. “Colpevole” della grande amnesia collettiva seguita al delirio securitario andato in scena a Milano dopo il primo maggio, un po’ di sana street art e un pugno di artisti concordi nel definire Expo per quello che è: una truffa in grande stile, rappresentabile attraverso le centinaia di sfumature di cazzo prescelte dagli autori chiamati a raccolta da Guerrilla Spam & Hogre per demistificare la retorica renziana del grande evento.

I politici che credevano di potersela cavare con due spicci per parlare di riqualificazione urbana, scoprono l’acqua calda. E cioè che l’arte non è nata per arredare la tavola dei potenti. E che la street art appartiene ai vandali: gli eternamente infamati, spesso arrestati, a volte oggetto di colpi di pistola esplosi dalle guardie contro di loro… sono sui muri alla stessa maniera in cui i “teppisti” sono per le strade. Anche la circostanza è la stessa: parliamo sempre del primo maggio; e il comune di Milano, mentre patrocinava la rimozione delle scritte “Carlo Vive”, comparse dopo il passaggio della manifestazione, provvedeva anche a “ripulire” la città dalle opere su cui troneggiava forte e chiaro il motto “No Expo”.

Se mai ce ne fosse stato bisogno, ecco dimostrata tutta la pretestuosità dei discorsi contro la “violenza” del corteo del primo maggio. E così come non esistono manifestanti buoni e manifestanti cattivi, non è neppure vero che esiste un modo “civile” di esprimere il proprio dissenso. Tutto ciò che colpisce nel segno, infatti, viene ridotto al silenzio e censurato.

D’altronde, se non viene diffamata e oscurata, che protesta è?

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Milano: una parte della street art No Expo rimossa dal Comune

EXPO non è finito: un orizzonte dopo la rivolta del primo maggio

Era il 3 maggio del 1886 quando, a Chicago, negli Stati Uniti, una folla di lavoratori in sciopero si assembrava davanti ai cancelli della fabbrica di macchinari agricoli McCormick. Il presidio, nato sulla scia di uno sciopero indetto il primo maggio per rivendicare la giornata lavorativa di otto ore, viene brutalmente attaccato dalla polizia che, aprendo il fuoco sulla folla, uccide due operai, ferendone molti altri. Sulla scia dell’indignazione,il giorno seguente, cioè il 4 maggio, la stessa folla si riversò in piazza Haymarket, dove dopo l’esplosione di un ordigno la polizia inizia a sparare all’impazzata, uccidendo altre undici persone e colpendo con il “fuoco amico”anche un gran numero di agenti. Come se non bastasse, al termine di un processo-farsa, la corte chiamata a giudicare i fatti di Haymarket condannò a morte sette sindacalisti. Uno di loro, August Spies, prima di salire sul patibolo ammonì i suoi boia: «Verrà il giorno», disse loro, «in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che strangolate».

E furono quelle voci, in effetti, a trovare eco in tutto il mondo, seminando tra chiunque si trovasse dalla parte degli sfruttati la coscienza del sacrificio dei “martiri di Chicago”. Anche in Italia la notizia dell’esecuzione di Spies e dei suoi compagni non passò inosservata e a Livorno,addirittura, il popolo inferocito attaccò le navi statunitensi ancorate al porto e, in seguito, la questura, dove si diceva che il console americano si fosse rifugiato.

Da quel momento in poi la tragedia di Haymarket sarebbe stata parte di una storia collettiva di portata globale. Tant’è che non solo il primo maggio diventò pressoché ovunque la data in cui celebrare i lavoratori e le loro conquiste, ma anche gli eventi del 1886 finirono per essere considerati come il frutto sanguinoso di una conquista, parte di un processo grazie al quale una civiltà più giusta riusciva a guadagnare terreno sulla barbarie.Tant’è che nessuno storico, fino a oggi, si sarebbe mai sognato di disconoscere il valore dei sindacalisti di Chicago né, a maggior ragione, l’importanza sacrosanta di una causa che ha portato a battersi e a morire  una moltitudine di lavoratori: avanguardia del progresso civile o, seguendo le complicate torsioni di senso con cui si è arrivati a descrivere il presente per modificarlo in chiave conservatrice e neocorporativista, banda di pericolosi black bloc, branco di spaccavetrine,bestie assetate di violenza, cretini e – tanto per colmare la misura – se non infiltrati addirittura fascisti.

Tutto questo accade nel 2015, mentre a Milano si inaugura la contemporanea edizione dell’Esposizione Universale e, per farlo, si sceglie proprio la data del primo maggio, costringendo il mondo del lavoro a concedere deroghe definitive rispetto a una giornata ancora teoricamente considerata festa nazionale. La cosa, di per sé, non è certo strana: Expo, infatti,vorrebbe essere per i suoi mandanti – il Partito della Nazione e il suo duceMatteo Renzi – l’arco sotto il quale far passare il trionfo di un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla speculazione edilizia, la distrazione d’ingenti somme di denaro pubblico, la santificazione delle multinazionali dello sfruttamento selvaggio delle persone e dell’ambiente e, quindi, l’annullamento definitivo di quel patto a cui, per il tramite della contrattazione, si era dato mandato di regolare il faticoso ed eternamente conflittuale rapporto tra capitale e lavoro.

Dall’inaugurazione di Expo in poi – tutto ciò è estremamente chiaro – il lavoro sarà soltanto una sorta di elargizione demandata nei modi e dei tempi all’iniziativa padronale, alle sue esigenze e alle sue necessità.Mentre per tutto il resto, di fronte alle residue alzate di testa dei lavoratori, ci sarà il licenziamento selvaggio o, spesso e volentieri, la forza brutale della polizia.

Fuori dal mondo del lavoro il discorso non cambia. La rapina che inizia in “fabbrica” (che si tratti dei call center o delle reception diExpo non fa nessuna differenza) prosegue nei territori, sia con lo strumento della devastazione e della privatizzazione delle risorse naturali (a cominciare dall’acqua), sia con l’imposizione di prelievi pesantissimi ai danni delle magre finanze dei lavoratori, grazie al monopolio delle pigioni, all’azzeramento dei programmi di edilizia popolare pubblica e, di conseguenza, attraverso l’arma degli sfratti.

È sulle macerie di un simile laboratorio di macelleria sociale che Expo sta edificando le sue fortune, affilando le armi di una propaganda senza precedenti, a sostegno della quale tutti i mezzi d’informazione parlano come in passato è stato fatto solo per descrivere le gesta delle truppe imperiali lanciate alla conquista dell’Abissinia. Ed è sulle stesse macerie che l’opposizione sociale è chiamata a raccogliere le sue forze e a costruire una resistenza né semplice né di breve durata. Se è vero come èv ero che Expo ha voluto mistificare le reali necessità di un corpo sociale stremato dalla povertà (cioè dalla prima arma che il padronato rivolge contro le classi subalterne per piegarle ai suoi scopi), rinchiudendo le legittime aspirazioni al cambiamento dentro le esigenze di una vetrina scintillante,allora spaccare quella vetrina è stato giusto, sia in termini metaforici che in termini reali. Eppure non è ancora questa la cosa più importante, né il campo in cui è necessario concentrare i propri sforzi. La cosa più importante,infatti, è sottolineare come Expo non è finito. E non è finito non solo perché il tributo preteso dal governo Renzi si estenderà sul Paese per ulteriori sei mesi, ma perché è lo stesso modello che Expo impone ad aver costruito una nuova cornice di “normalità” con la quale confrontarsi e che è necessario spezzare. Basti dire che, annunciando l’organizzazione del prossimo giubileo romano, è  già stata ventilata da parte del governo la possibilità di porre un blocco degli scioperi nel nome di un superiore interesse nazionale…

Le contraddizioni di Expo, insomma, non possono essere denunciate né tantomeno superate nel corso di una sola giornata: le multinazionali che sponsorizzano l’evento resteranno ai loro posti, lo stesso faranno le condizioni imposte ai lavoratori e anche la volontà di sottoporre a un feroce revisionismo la storia della lotta di classe è determinata a compiere nuovi passi avanti. Da questo punto di vista, mentre ogni occasione sarà buona per denunciare gli abomini targati Expo organizzando momenti di confronto pubblico sempre più importanti, è anche necessario iniziare a muoversi immediatamente verso un orizzonte preciso, all’interno dei sei mesi di durata che si è data l’esposizione milanese. Alla chiusura del carrozzone, infatti, il simbolo diExpo, la scultura nota con il nome di “Albero della Vita”, vorrebbe essere ricollocata in un luogo-simbolo della storia italiana. Con una mossa tutt’altro che innocente, i leader renziani hanno annunciato di voler trasferire l’istallazione direttamente a piazzale Loreto, vale a dire nel luogo in cui la repubblica nata dalla Resistenza celebrò nel 1945 il trionfo dell’insurrezione popolare e la distruzione del fascismo. Impedire, a cominciare da adesso, che tutto ciò possa accadere non significa soltanto lottare per la permanenza di un simbolo nella storia di domani. Significa anche riappropriarsi della sovranità popolare che, salendo sulle montagne o combattendo nelle città, offrì la migliore dimostrazione di come un altro mondo sia davvero possibile.

In questo modo diventa più semplice rispondere alla domanda che tutti si sono fatti dopo il primo maggio No Expo andato in scena a Milano,considerando che al di là delle vetrine rotte, della manifestazione moltitudinaria e dei contenuti anticapitalisti portati in piazza, contro il progetto politico renziano che, sul modello del corporativismo fascista,continua a pretendere di subordinare i diritti sociali agli interessi della nazione (cioè dei padroni), l’unica cosa giusta resta quella di non fare neppure un passo indietro.

Il diritto di critica secondo Matteo Renzi

Chi dice che ogni protesta è legittima purché “si esprima civilmente” intende dire che per conservare i propri privilegi è disposto a tutto, anche a spaccare la testa a manganellate a una ragazzina.

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Bologna, 3 maggio 2015: dopo le polemiche sulle “violenze” nel corso della manifestazione No Expo di Milano, la polizia carica violentemente un gruppo di manifestanti, decisi, in occasione della visita di Matteo Renzi, ad esprimere tutto il proprio dissenso contro la guerra ai poveri promossa dal governo del Partito Democratico e, in modo particolare, contro la terrificante riforma chiamata “Buona Scuola” dagli esperti del marketing assoldati dal PD.

Teppismo, ultima bandiera

Scrivi degli ultrà
la vita da teppista
non dici verità
bastardo giornalista

Non mi ricordo più come sono diventato ultrà. A me, allo stadio, non mi ci ha mai portato mio padre: non è per onorare la sua memoria che seguo il calcio. Il calcio, per me, non è nemmeno tanto un fatto di cori o di bandiere e, se penso al campo da gioco, di colori e di profumi è l’ultima cosa di cui parlo. Ho una fede, certo. E questa è salda. Credo in dei principi ben precisi, ma non ho voglia di dire esattamente quali. Perché ci sono cose di cui si può parlare e altre per cui le parole non servono a nulla: per capirle occorre esserci. Ma,sopratutto, occorre fare.

È a questo ultimo genere di cose che appartengo. Domenica dopo domenica le ritrovo negli occhi del compagno che ho accanto ma anche nello sguardo del nemico che ho davanti. Una scintilla che illumina il buio del calcio moderno con gli echi di un principio inderogabile: «Preferisco essere sconfitto nudo addosso a un muro che festeggiare la vittoria protetto da uno scudo».

È questo il terreno sul quale io gioco la mia partita. Ed è sempre da questo terreno che io, domenica dopo domenica, torno a casa vincitore.

Su questo terreno gli arbitri non si possono corrompere, i vestiti che hai addosso non hanno nessuna importanza e nemmeno i soldi significano niente. Il coraggio, al contrario, qui non ha prezzo. E la lealtà è la merce più ricercata.

Su questo terreno nessuno è tenuto ad abbassare la testa e non esiste né sì né sissignore; basta un cenno di intesa per rinnovare un accordo mai scritto: «Non un passo indietro»; sono questi i termini del patto.

Grazie alla fede, domenica dopo domenica, prima e dopo la partita, diventa possibile sostenere uno scontro impari. Da una parte la legge, con le armi, i cani, le macchine blindate, i lacrimogeni e i manganelli. Dall’altra il cuore: forte anche quando non ha niente.

Non mi vergogno di dirlo perché è vero. Chi indossa una divisa non lo accetto e neppure lo rispetto. Troppe volte ho visto gli uomini della legge caricare i miei fratelli a tradimento. Troppe volte li ho visti, in dieci contro uno,tirare calci fino a spaccare le facce, rompere le costole, spezzare i denti.

La mia lotta, in fondo, è simile a quella delle minoranze oppresse o a quella dei partigiani che combattono nelle zone occupate dagli eserciti: «10, 100, 1000 Nassiriya» ero io che lo cantavo. E non avevo certo paura di diventare l’unico a essere considerato delinquente.

Domenica dopo domenica, insieme ai miei fratelli, ho combattuto per l’Iraq, per l’Irlanda del Nord, per il Kurdistan, per il Libano, per la Serbia, per il Delta del Niger e per la Palestina. E nessuno di noi, nel corso della lotta, ha mai preso in considerazione l’opportunità di potersi arrendere.

D’altronde è normale. La principale differenza tra noi e chi indossa una divisa è solo questa: loro agiscono nel nome di un posto fisso e dei soldi; noi lo facciamo per continuare a guardarci in faccia senza vergognarci.

Chi indossa una divisa lo capisce e ci teme. Sa che per partire non abbiamo bisogno di ricevere istruzioni: conosciamo perfettamente la città e i piani che seguiamo non vengono dall’alto, ma sono già nella nostra testa. Come avremmo fatto,altrimenti, a ritrovarci tutti nello stesso posto – allo stadio Olimpico – tre ore prima della partita Roma-Cagliari, prevista per le ore venti e trenta?

La notizia,data nella mattinata, parlava di uno scontro tra tifosi dalle parti di Arezzo. Raccontava di una macchina di laziali che incrocia un gruppo di juventini e di un ragazzo ucciso da un colpo di pistola. Cercavano di confondere le acque e di farci credere che i tifosi si fossero uccisi tra di loro… in realtà, quello che era successo, ci era stato chiaro immediatamente: a sparare e ad uccidere era stato un agente.

C’è solo una categoria di persone che rispetto ancora meno di chi porta una divisa. Ed è la categoria di chi, per professione, mente. Li chiamano giornalisti, ma per noi sono tutti pennivendoli. E come correvano! Correvano gettando sull’asfalto le loro telecamere maledette e le loro macchine fotografiche bugiarde. Correvano malgrado le pance cascanti, piene di notizie false e brutti sentimenti. Pensavano di accanirsi su di noi anche in una giornata come questa:di rinchiuderci come le scimmie nelle gabbie dei loro giornaletti, di chiamarci beceri e violenti, di infamarci e insultarci a loro piacimento. In una giornata come questa no, non glielo abbiamo concesso: abbiamo corso più forte di loro,li abbiamo raggiunti e a più di qualcuno abbiamo rotto la macchina fotografica e la telecamera insieme alla testa.

Un nostro fratello era stato ucciso dalla polizia e la nostra rabbia, radunati fuori dai cancelli dello stadio, stava crescendo come il mare in tempesta. Quando a Catania, poco tempo prima, era morto uno di loro, un ispettore, il calcio era stato fermato completamente. Mentre adesso che a uccidere un tifoso era stato un poliziotto che fine avevano fatto i discorsi sul rispetto della vita umana?

Chi comanda non ha ritenuto opportuno sospendere le partite in programma perché per loro i tifosi non sono nient’altro che merce.

Si sbagliano. E lo abbiamo scritto sugli striscioni: «La nostra coscienza non si lava con dieci minuti di ritardo».

Alla pattuglia dei carabinieri fermi a Ponte Milvio glielo abbiamo fatto capire bene. Abbiamo gridato «assassini! assassini!» e li abbiamo fatti fuggire con un fitto lancio di pietre.

In queste circostanze non conviene muoversi tutti insieme. Il grosso del gruppo è restato compatto a presidiare la zona dello stadio mentre, a turno, drappelli più piccoli sono scattati per la caccia al poliziotto. Sul Lungotevere abbiamo usato delle transenne di ferro per bloccare il traffico e, per armarci, abbiamo sradicato dall’asfalto i segnali stradali. In pochi minuti abbiamo distrutto vetrine e rovesciato cassonetti. È servito per guadagnare tempo, seminare il panico e spingerci verso l’interno: «Non ne possiamo più delle divise blu – no al governo – no alla pay tv».

In via Flaminia vecchia abbiamo preso a sassate una stazione dei carabinieri e dato fuoco alle vetture parcheggiate all’esterno. «Non c’è niente di più bello di una caserma che brucia»: basta una bottiglia piena di benzina per scatenare l’inferno.

In via Guido Reni, all’Accademia di polizia, abbiamo distrutto l’insegna e infranto i vetri antiproiettile e, bruciando ciò che potevamo, abbiamo urlato: «Merde! Merde!».

Veloci come il vento ci siamo dileguati. E abbiamo portato via lo stendardo del corpo: dato alle fiamme insieme a un’altra macchina della polizia, in piazza dei Giochi Delfici.

La città era nostra. Ma noi siamo diversi, il potere non ci interessa. Noi siamo i lupi che si nascondo tra le pecore: possono braccarci, catturarci, diffidarci o ucciderci… domenica dopo domenica torneremo comunque branco, lo facciamo sempre. Gente come noi oggi ha colpito a Roma, ma lo ha fatto anche a Milano, a Taranto, a Bergamo… ovunque con la stessa gioia di riscoprirsi ultrà: padroni di niente – chiaro – ma servi di nessuno. Liberi, seppur in fuga, tra i tornanti della panoramica che si arrampica su Monte Mario. Arditi quanto basta per accostare la macchina e, con la vernice azzurra della bomboletta, sfidare chi non crede in niente con uno slogan destinato a durare: «Teppismo ultima bandiera».

a.romanoir2.0983279Tratto dal volume Roma noir di Cristiano Armati

Primo Maggio: quello che si dice

Si dice che grazie alle “violenze” al primo maggio di Milano, le ragioni del No Expo siano state completamente oscurate. Infatti, prima di ieri, queste ragioni erano all’ordine del giorno, venivano affrontate con correttezza dalla stampa ed esposte con chiarezza dalla televisione generalista, che invitava gli esponenti dell’opposizione sociale a dibattiti e ad approfondimenti, talmente ascoltati da essere quasi riusciti ad annullare l’evento.
Si dice anche che grazie alle “violenze” al primo maggio di Milano, ora l’intero Movimento si trovi sotto attacco, esposto alle sevizie della polizia e della magistratura, pronta a usare come un ariete l’arma più micidiale del codice (fascista) di procedura penale: il reato di devastazione e saccheggio. Infatti, prima di ieri, questo stesso reato non era mai stato usato, né per colpire i partecipanti al vertice contro il G8 di Genova e neppure, più recentemente, per processare i partecipanti alla manifestazione del 15 ottobre utilizzando un imputazione che prevede pene fino a quindici anni. Alla stessa maniera, per colpire il movimento No Tav, la magistratura non si era certo sognata di trattare quattro ragazzi accusati di aver danneggiato un compressore alla stregua di pericolosi mafiosi, imponendo loro un isolamento degno di quanto previsto dal famigerato 41bis.
Si dice persino che da questo momento in poi, considerate le “violenze” al primo maggio di Milano, nessuno vorrà più scendere in piazza. Infatti prima di ieri le piazze erano traboccanti di folle decise a riconquistare i propri diritti, né si stava cercando, visto il surplus di partecipazione, di giocare la delicatissima partita con la quale – magari passando per errori e sbandamenti – tentare di rompere la stagione del reflusso e riconquistare una necessaria ricomposizione di classe. E poi basta guardare quanto accaduto a Cuba con il Movimento 26 Luglio, in Russia con i Soviet o a Parigi con la Comune: quando si registrano episodi di violenza popolare le piazze si svuotano, è la storia che lo insegna.
Insomma, si dicono tante cose. Una in più non farà la differenza, è tanto semplice battere i tasti di un computer, pare che anche molte scimmie siano in grado di farlo… intanto Expo non è ancora finito. Mentre fino a prova contraria solo la lotta paga.

Sgomberiamo EXPO! Come, quando e soprattutto perché

Venerdì 8 maggio. Perché no. Anche questa poteva essere una data buona per inaugurare Expo. Che cosa sarebbe cambiato in fondo? Gli speculatori si sarebbero messi in tasca comunque la loro bella fetta di soldi pubblici, il residuo verde lombardo avrebbe in ogni caso smesso di vedere un domani, e il lavoro gratuito, sancito dal Jobs Act, diventava lo stesso una cosa “normale” grazie all’impiego di una moltitudinaria avanguardia di forzati dello stage. Neppure la burinaggine della neolingua imposta da Renzi e dal suo Partito della Nazione avrebbe risentito di un’inaugurazione spostata appena di qualche giorno. Milano, in ogni caso, (ma quel che è peggio anche i nostri cervelli) si sarebbe riempita di portaborse e leccaculi tutti casa & conference call, chiesa & best practies, mazzette & spendig review…

Per quale motivo, dunque, insistere sulla data del primo maggio, arrivando anche allo scontro aperto con la residua fetta di lavoratori che si ricorda – incredibile! – come quella del primo maggio non sia proprio una data come le altre?

La risposta, purtroppo, è tristemente semplice. Cioè: il primo maggio non è una data come le altre! Il primo maggio è lo sbiadito ricordo di un tempo in cui le lotte degli sfruttati di tutto il mondo riuscirono a imporre il primato politico e morale dei lavoratori sulla scena pubblica, cristallizzando il loro protagonismo in una “festa”, che tutto dovrebbe essere tranne una semplice celebrazione, rappresentando piuttosto un’occasione di rilancio, un modo per restare all’attacco sul fronte dei diritti e del progresso. Ebbene, malgrado il primo maggio dei nostri tempi sia una ricorrenza dove il senso originario sopravvive in forme alquanto appannate, è come se nella memoria ancestrale del regime oggi incarnato da Renzi si sia conservata la memoria di altre stagioni; il ricordo indelebile di incubi davvero vissuti dai padroni di ogni tempo e ogni paese, dal giorno in cui Spartaco, capeggiando una ribellione di schiavi, osò sfidare le legioni dell’Impero Romano, per arrivare all’assalto al Palazzo d’Inverno o, facendo un passo indietro nella cronologia, ai giorni in cui sulla Comune di Parigi sventolò uno straccio rosso scelto come bandiera.

L’oligarchia renziana, evidentemente, sente ancora il potenziale dell’ostilità popolare alla maniera delle bestie selvatiche braccate nel bosco: perché si può dire tutto, ma è proprio la gente come Renzi e i suoi mandanti europei a sapere bene come in realtà loro sono e restano semplici “tigri di carta”; a essere davvero potente, si sarebbe detto in altri momenti, è il popolo. E allora perché non frustrare la consapevolezza di ciò che si può ottenere costruendo dal basso il proprio futuro sovrapponendo alla festa dei lavoratori una “bella” celebrazione dell’affermazione planetaria del grande capitale come l’inaugurazione di Expo? D’altro canto, come hanno già fatto sapere al volgo, quando Expo chiuderà la baracca e i burattini andranno a compiere i loro saccheggi altrove (a Roma, per esempio, ci sarà il Giubileo…), il grottesco “albero della vita”, vale a dire la scultura-simbolo del grande evento milanese, non verrà installata in un posto qualunque, ma addirittura a piazzale Loreto. Sì, proprio lì, esattamente nel luogo in cui settanta anni fa un’insurrezione popolare fece giustizia del corporativismo fascista, aprendo nuovi scorci di cielo al sole dell’avvenire. Renzi, evidentemente, sa bene che non spegni il sole se gli spari addosso. Per questo preferisce soffocare il senso stesso della storia del passato imponendo un’altra costruzione di senso a ciò che determinati luoghi e determinati giorni possono continuare a rappresentare in futuro. Oggi, questo evidentemente va riconosciuto, le forze che si oppongono al revisionismo integrale non solo della storia ma del destino dell’umanità su questa terra, vale a dire le forze del fronte anticapitalista, possono apparire deboli e stanche rispetto a ciò che pure sono state. Ma proprio per questo vale davvero la pena opporsi con tutto il cuore a Expo e alla sua inaugurazione. In fondo – anche in questa epoca oscura – abbiamo il dovere di fare il modo che il futuro continui a non essere mai scritto, dopo di che, se non toccherà a noi vedere “sbocciare mille fiori”, sappiamo come dentro una semplice scintilla continua comunque a conservarsi tutto il fuoco del mondo.

E che solo la lotta paga.

SGOMBRIAMO EXPO!