Lì dove tutto è cominciato, dove una storia, forse, non si è mai interrotta, nei luoghi e nelle vene di una periferia che ha incarnato più e più generazioni, tornano Claudio Caligari e il suo film culto ‘Amore Tossico’. Amici, attori, sceneggiatori s’incontreranno venerdì 10 luglio per raccontare la storia e le storie del regista scomparso a maggio.
Ore 20.30 INTRO con Emanuel Bevilacqua, Valerio Mastandrea, Giordano Meacci, Michela Mioni, Francesca Serafini.
Ore 21.00 PROIEZIONE DEL FILM
Ore 23.00 LIVE Jukebox all’Idroscalo con Marco De Annuntiis e Alessio Righi
LETTERE DALLA STRADA in “Nel paese dei ragazzi magri”, reading per voci sole e chitarra combat rock di e con Cristiano Armati, Angelo “Sigaro” Conti (Banda Bassotti) e Yari Selvetella
Un applauso a “Panorama” perché, spezzando la tradizionale ipocrisia della stampa italiana, ha finalmente detto come davvero stanno le cose, e già questo è un evento: quando è stata l’ultima volta che un magazine berlusconiano ha detto la verità?
“Panorama”, invece, ha finalmente detto la verità. E la verità è questa: quando si parla di “crisi”, la fame non cade dal cielo, ma è connaturata a un sistema che consentirà a pochi ricchi di consolidare il loro capitale alle spalle di tutti gli altri.
Dunque venghino, signori, venghino. C’è la crisi, la Grecia è in bancarotta, la vita umana lì non costa più un cazzo, due spicci e vi diamo qualunque cosa.
Venghino signori, venghino: c’è la crisi. Le isole dell’Egeo ve le portate a casa al prezzo di un Box a Sesto San Giovanni, le statue del Partenone (quelle che ci sono rimaste) costano la metà di una borsetta di Prada, gli oliveti li sbrachiamo così ci fate i campi da golf e la carne umana (visto la ragazza messa in copertina sotto l’ombrellone? non mangia da dieci giorni, per un euro fa qualunque cosa), quella, la battiamo un centesimo al chilo.
Tanto ne abbiamo un sacco: dieci milioni di pezzi in Grecia e, a seguire, quaranta in Spagna e sessanta in Italia.
Venghino signori, venghino…
(Sullo sfondo si sentono risate uguali a quelle degli imprenditori a cui sono andati gli appalti dopo il terremoto dell’Aquila. Ve le ricordate?)
Si è detto e si continua a dire NO in Val di Susa, per opporsi alla devastazione dell’Alta Velocità. E il risultato è stata la costruzione di un movimento di massa protagonista di una moltitudine di assalti ai cantieri della speculazione, episodi contraddistinti da generosità e coraggio, ma anche severamente puniti dall’apparato repressivo, attraverso leggi speciali e condanne esemplari. Per non parlare della violenza brutale della polizia.
Anche agli sfratti e agli sgomberi si dice NO. E si dice NO da tanto tempo, tutte le mattine, all’alba, formando picchetti che si oppongono all’abominio di famiglie con bambini piccoli buttati in mezzo alla strada a calci in culo dalla polizia. C’è un intero movimento che, in tutta Italia, si organizza per affermare concretamente il diritto all’abitare e per riprendersi ciò che affaristi senza scrupoli rubano in tutti i modi possibili e immaginabili. Anche, tra l’altro, concedendo alla polizia la licenza di manganellare senza pietà e di esplodere lacrimogeni ad alzo zero. I giudici vengono dopo le botte, ma non sono meno generosi dei poliziotti quando si tratta di dispensare misure restrittive e anni di galera.
Ancora, si è sempre detto NO allo sfruttamento sul lavoro, ed esiste la ferma intenzione di continuare a farlo. Insieme ai lavoratori della logistica, per esempio. Buttandosi sotto le ruote dei TIR quando si tratta di scioperare e ottenere il blocco delle merci. Resistendo ora e sempre alle feroci cariche della polizia…
Ecco: RESISTERE. Questa parola viene pronunciata raramente, eppure è di RESISTENZA che stiamo parlando quando si afferma la necessità di dire NO. Un NO senza RESISTENZA, infatti, non è una presa di posizione. Può essere un vezzo intellettuale, un modo per tenere buona la propria coscienza, un’opportunità per essere alla moda rispetto a idee di volta in volta assorbite dalla marea del politicamente corretto. Può essere tante cose un NO senza RESISTENZA. Perfino qualcosa di utile rispetto alla residua possibilità che ha l’opinione pubblica di influenzare scelte che vengono prese altrove… ma conta ancora qualcosa l’opinione pubblica?
Prendiamo una battaglia “democratica” come il referendum per l’acqua pubblica. La vittoria, teoricamente, ha arriso al NO alla privatizzazione, ma sono forse cambiate le cose? Oppure quel NO, spogliato dalla concretezza di una RESISTENZA, è stato bellamente ignorato da un processo di svendita dei beni pubblici che continua senza alcuna remora a violentare la volontà popolare?
E non è esattamente questo processo di svendita preteso dalle autorità economiche europee ciò che si sta mangiando la Grecia sempre più velocemente e che anche alle nostre latitudini non lascia alcuno spazio all’ottimismo?
La stessa situazione in cui è scivolato il governo Tsipras dopo aver acceso le speranze di molti, non sta dimostrando con la catastrofe economica scatenata dalle banche in Grecia come una reale alternativa vada organizzata prima di tutto sul piano materiale? Che non è una riforma o un accordo con i lupi della Troika ciò che risparmierà a interi popoli di sprofondare in quella barbarie così familiare alle bramosie del capitalismo?
Ma in ogni caso, se foste voi, qui o altrove, quei territori violentati dalle grandi opere inutili, dalle discariche e dalle trivellazioni; se foste voi quelle famiglie sfrattate o quei lavoratori ridotti alla fame, vi affidereste all’opinione pubblica? Sperereste in una riforma? Dareste importanza a qualche concessione padronale? E se oggi, in Grecia, fosse vostra la famiglia ridotta al prelievo massimo di 60 euro (i più fortunati!), quale credito sareste disposti a dare a un NO pronunciato altrove, con tanta indignazione, magari, eppure incapace di mettere in gioco alcunché?
La verità è che non è semplice sapere dove effettivamente inizi la Grecia. La Grecia è una metafora. E in molte case basterà alzare gli occhi verso lo scaffale dei libri e allungare una mano verso Omero o Platone per sprofondare in una cultura che è già nostra. Fuori da ogni metafora, però, la Grecia è ancora più vicina. Piange le lacrime dei bambini sfrattati ogni giorno e dei figli di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, vive le tensioni dei territori deturpati dalle grandi opere inutili e dannose o di un sistema-scuola ridotto al lumicino, manifesta lo scandalo del commercio di carne umana con i migranti accampati sugli scogli di Ventimiglia o, con i lavoratori della logistica, lotta senza tregua per rendere accettabile la propria condizione.
Non serve aspettare l’esito del referendum per schierarsi con la Grecia. Per strada, nelle piazze, le decisioni sono già state prese. La parola NO le riassume tutte.
Ma come sempre è stato sarà la RESISTENZA ad affermarle davvero mentre è nella RIAPPROPRIAZIONE che si nasconde il segreto di un’esistenza finalmente liberata dal ricatto della fame.
Tutto il resto sono chiacchiere che lasciano il tempo che trovano nel momento in cui, a servire davvero, sono parole finalmente degne di essere chiamate pietre.
La notte del 22 giugno, a Torino, un gruppo di ignoti si rende protagonista di un gesto infame e vigliacco. Con il classico favore delle tenebre viene stampato e affisso un volantino con il solo scopo di diffamare la memoria di Dante Di Nanni, eroe della Resistenza caduto a soli diciannove anni al culmine di un’azione antifascista in cui, cuore e fucile alla mano, sebbene gravemente ferito, seppe tenere in scacco per ore un nutrito corpo di camice brune e nere decise ad arrestarlo.
Nel volantino non ci si permette soltanto di chiamare Di Nanni “Er Monnezza” ma, con un operazione di revisionismo di bassa lega, viene spacciata una versione alternativa della storia del gappista piemontese, ovviamente con l’intento di sminuire la statura di Dante e di colpire chi, nel suo nome, continua a portare avanti i valori che furono alla base della vittorioso insurrezione popolare del ’45, data a partire dalla quale l’Italia diventa quella repubblica nata dalla Resistenza e, contemporaneamente, il paese in cui il sogno di una reale giustizia sociale diventa un’eredità scomoda, da eliminare dal consesso civile con ogni mezzo necessario.
Tra i mezzi utilizzati per infangare il nome dei partigiani, infatti, il vergognoso volantino torinese è in buona compagnia: eserciti di storici revisionisti, da moltissimi anni, lavorano con l’unico intento di: 1) ridurre l’epopea partigiana alle imprese di una banda criminale (cfr. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, 2005); o, in subordine, di: 2) annacquare il nerbo garibaldino della Resistenza con storie di suore, preti e madri che fanno scudo con il proprio corpo ai loro figli per dare l’idea che il movimento partigiano fosse un affare di tipo nazional-patriottico e non un progetto di matrice social-comunista intenzionato a cambiare l’esistente (cfr. Aldo Cazzullo, Possa il mio sangue servire, 2015).
Tornando al volantino torinese, la mano che merita di ricevere qualunque punizione per aver osato riprodurre le fattezze di Dante con un naso da pagliaccio, si basa su una polemica vecchia e, in modo particolare, su un articolo di Nicola Adduci per “Studi Storici” ripreso nel 2012 da “La Stampa”. Secondo Adduci, Di Nanni non sarebbe stato ucciso al culmine di una sparatoria, ma colpito mentre cercava di nascondersi da una pattuglia di nazifascisti. Notizie storiche in contraddizione con quella che, per eccellenza, è la testimonianza sulla morte di Dante Di Nanni, resa dal comandante Visone, al secolo Giovanni Pesce, nei libri Soldati senza uniforme e Senza tregua. Come afferma il Comandante:
“Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l’ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola; da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L’ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c’è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio”.
A partire da queste parole, l’operazione di cui si fa portavoce il diffamatorio volantino torinese, non attacca soltanto Dante Di Nanni, ma lo stesso comandante Visone, venuto a mancare nel 2007 ma a lungo depositario, nonché difensore infaticabile, della memoria viva dei GAP piemontesi.
Al confronto con la levatura morale dei personaggi citati è evidente che le parole di chi ha bisogno di nascondersi nel buio per blaterare le sue diffamazioni hanno un valore pari alla dignità dei loro autori, quindi zero. Eppure, da tutta la vicenda, emerge una situazione che non tira in ballo soltanto il discorso sul trionfante revisionismo foraggiato dal mainstream italiano ai danni della Resistenza ma che, più modestamente, aiuta anche a fare i conti rispetto a cosa significa fare editoria oggi, almeno per conoscere meglio i soggetti a cui una parte importante della memoria del Paese viene affidata. Perché due importanti libri di Giovanni Pesce, vale a dire il citato Senza tregua insieme a Quando cessarono gli spari, fanno parte del catalogo Feltrinelli: una scelta editoriale che, evidentemente, è frutto di tempi molto diversi da quelli attuali. Infatti, rispetto a quanto accaduto a Torino, quale è stata la reazione della casa editrice di Milano?
Difficile dirlo con esattezza, eppure visitando la pagina FB di Giangiacomo Feltrinelli Editore, l’unica notizia reputata degna di nota il 23 giugno riguarda la visita del ministro Dario Franceschini alla sede dell’azienda di Inge Feltrinelli… strana coincidenza, ma considerando il ruolo del “Partito della Nazione” a cui appartiene lo stesso ministro nel percorso di revisionismo storico appena descritto, la domanda non è più “perché dalla Feltrinelli nessuno prende parola per denunciare la vergogna del volantino torinese?” ma “cosa ci fanno i libri del comandante Visone in quella casa editrice?”.
Ci sarà modo senz’altro di tornare sull’argomento, che non riguarda la Feltrinelli, ma che ha a che fare con l’importanza di costruire approdi utili all’autonomia di classe per fare in modo che lo stesso patrimonio del movimento operaio sia ciò che è: memoria viva e non certo merce da catalogo; la semplice occasione di vendere qualche copia, utilizzare la Resistenza come una foglia di fico di fronte alla residuale opinione pubblica (di lettori forti!) indisponibile a liquidare le vicende della guerra di Liberazione e poi non avere né le risorse culturali né gli interessi necessari a difendere autori e opere pubblicate.
Da questo punto di vista non c’è molto altro dire. Meno male, però, che Soldati senza uniforme non è un libro della Feltrinelli, essendo stato pubblicato proprio quest’anno dalla Red Star Press.
Dibattito pubblico sulla casa e sul diritto all’abitare a cura del Circolo PRC “Valerio Panzironi”: lunedì 29 luglio, alle 18, presso l’osteria “da Pietro”, in via Pietro Gasparri 32 (Primavalle – Roma), Cristiano Armati presenta “La Scintilla. Una storia antagonista della lotta per la casa“. Intervengono: Paolo Di Vetta, Luca Fagiano, Claudio Ortale, Massimo Pasquini, Giulia Pezzella, Tiziana Ulerio, Claudio Ursella e gli occupanti di via Battistini e dell’ex clinica “Valle Fiorita”. In memoria del compagno Valerio Panzironi.
CAMPOBASSO – domenica 28 GIUGNO 2015: Al Blow-Up Café di via Guerrino D’Amico, a cura dell’Osservatorio sulla Repressione, si ricorda la gloriosa figura del partigiano comunista Paolo Morettini, gappista, eroe della resistenza e terrore dei nazifascisti della Certosa, di Tor Pignattara e del Quadraro. Perseguitato a lungo per le sue idee politiche, si era trasferito in Molise dopo la guerra di Liberazione.
Alle 17 e 30, intervento dei Lettere dalla Strada con il loro reading per voce sola e chitarra combat rock.
Quando tutto sembrava perduto. Mentre il segno dirompente della street art appariva sul punto di soccombere di fronte al duplice attacco scatenato sui ribelli dell’arte dall’apparato repressivo e dalle logiche dei benpensanti, da Desenzano sul Garda i teppisti dimostrano di avere ancora molte frecce nel loro arco e, con il favore delle tenebre, realizzano questo capolavoro, ficcando la colonnina dell’autovelox sopra la testa di un milite di bronzo, posato tra le strade della cittadina lombarda dallo zelo dell’Associazione Nazionale Carabinieri.
Gli storici dell’arte e i critici più attenti ammirano basiti il lavoro degli ignoti artisti. C’è chi sottolinea, soffermandosi sulla cappa di metallo calata sul volto bronzeo del militare, l’efficacia della rappresentazione dell’eterna lotta tra la “legalità” istituzionale e la “giustizia” popolare. Altri si spingono ancora oltre e affermano, analizzando l’opera, di come attraverso l’istallazione si sia voluto condensare un “non vedo – non sento – non parlo” a cui, come le celebri tre scimmiette con le mani sulla bocca, gli occhi e le orecchie, le forze dell’ordine si sarebbero votate, evitando di prendere qualunque posizione diversa da una presunta necessità di obbedire agli ordini a prescindere da ogni logica di umanità o buon senso.
Tutti, in ogni caso, sono concordi nell’affermare come da Desenzano sul Garda arrivi la necessità di affermare il senso autentico dell’arte di strada: quello di spezzare il monopolio dei significati detenuto dalle classi dominanti per imprimere sui muri e sugli arredi urbani un senso alternativo che, instancabilmente, ricorda come un altro mondo sia non solo possibile ma necessario.
Non ho mai avuto familiarità né simpatia per quel mondo in divisa che, organizzato gerarchicamente, affronta in prima persona gli affari definiti «militari». Eppure ho cercato sempre di interessarmene, convinto che non sia affatto il caso che, a sinistra, si rinunci a costruire un punto di vista anche in tema di armamenti, esercito e ordine pubblico: a partire dalla fine della seconda guerra mondiale il fronte – rigorosamente interno – su cui le forze armate e le loro articolazioni vengono impegnate con maggior rigore.
Malgrado non siano mancati, infatti, i territori sui quali dislocare truppe con le scuse più fantasiose (una su tutte: la «missione di pace»), è proprio pensando alla popolazione civile, al suo contenimento e alla sua repressione che, oggi, tendono a essere organizzati gli uomini e i mezzi a disposizione tanto del ministero della Difesa quanto di quello degli Interni. Uomini e mezzi che, al di là delle loro classificazione, e quindi che si parli di esercito, polizia, carabinieri o guardia di finanza, rispondono in ogni caso a una logica di tipo militare, ereditando da questa sia il potenziale offensivo che un certo sistema di valori, a cominciare dal modo in cui considerare, e quindi affrontare, il proprio nemico.
I vecchi soldati, per esempio, utilizzavano l’espressione «il campo dell’onore» per definire il servizio nelle forze armate. E se l’onore poteva essere tirato in ballo anche al cospetto della bassa macelleria delle passate guerre «tradizionali», ciò riusciva in virtù di un’idea di nemico inteso come soggetto da abbattere ma, al tempo stesso, da rispettare. Una controparte speculare alla propria, all’interno della quale poteva anche succedere di identificare se stessi. A rendere «onorevole» lo scontro subentrava l’idea di un avversario in grado di nuocere e con il quale il confronto si giocava disponendo di una capacità offensiva perlomeno paragonabile: dove i rapporti di forza risultano sproporzionatamente a favore di una delle due parti in causa, infatti, non può esserci nessun onore.
Da quando il principale nemico dei militari viene pensato non più in divisa ma in abiti civili, il discorso sull’onore si è fatto complesso. Quando un poliziotto sgombera una casa occupata, per esempio, picchia selvaggiamente donne, vecchi e bambini; come può pensare a se stesso in termini di onore?
E in questi giorni, mentre le nostre forze dell’ordine, alla stazione Tiburtina o a Ventimiglia, si lanciano all’inseguimento di mamme con i lattanti tra le braccia e prendono a schiaffi uomini inermi, come si riesce a instillare tra la truppa quel discorso sull’onore che ha sempre avvallato le atrocità connesse all’attività militare?
Sono domande come queste, in fondo, che stimolano lo studio e l’osservazione di chi porta la divisa, dei suoi codici, dei suoi comportamenti. Perché nella realtà non esiste un confine a partire dal quale ciò che è di pertinenza civile diventa invece una competenza militare. Al contrario, i militari stanno iniziando a mettere in pratica quello che viene costruito da ormai molto tempo nella vita di tutti i giorni: un processo di despecificazione morale e fisica di categorie di «nemici» in realtà molto antiche, ma mai come ora oggetto di un simile odio. Non passa giorno, infatti, in cui su tutti i giornali e in televisione non vi sia una serrata propaganda riservata ai migranti: Rom, rifugiati politici, persone in fuga, non si fa alcuna differenza. Ciò che viene seminato ha a che fare con l’ordine pubblico e con l’invocazione di misure sempre più draconiane per far fronte all’«emergenza» o, come dicono molti usando non a caso un termine militare, con l’«invasione». Allo scopo si mettono in circolazione notizie false (una fra tutte: la bufala degli 80 euro al giorno incassate dai migranti) e gli episodi di cronaca nera vengono ingigantiti a dismisura (come è stato fatto con i pirati della strada di Primavalle): sullo sfondo c’è una gravissima crisi economica, e anche questa viene strumentalizzata per sostenere come la via d’uscita consista nel limitare i diritti di chi viene da fuori, senza considerare come simili provvedimenti finiranno per abbattersi sulla vita di chiunque. Ecco, intanto, un «nemico interno» pronto per l’uso: talmente demonizzato da aver perso le sue prerogative umane agli occhi di chi lo guarda; così pericoloso da far apparire come «bravi ragazzi» le truppe di squadristi che si muovono ai suoi danni con il beneplacito dei regolari corpi di polizia (è accaduto anche a Ventimiglia!). Un soggetto talmente pervasivo e ramificato da chiamare in causa immediatamente altri «demoni» da abbattere: dai migranti agli occupanti di case e da questi agli attivisti dell’opposizione sociale il passo è breve. Non più lungo, a ben vedere, da quanto ancora impedisce alla coscienza di una pericolosa maggioranza silenziosa di sfociare in un movimento reazionario di massa di tipo fascista. Quello stesso movimento reazionario di massa che, per gli sbirri bravi a spaccare la testa di persone disarmate, ha già in serbo il nome di «eroi».