La Scintilla, una recensione

Recensione di Francesco Fanesi per Arvultura.it

Questo di Cristiano Armati è un buon libro. Ed è un buon libro perché ha diversi meriti. Uno è senz’altro quello di descrivere un argomento ”militante” come è il movimento di lotta per la casa in maniera comprensibile e intelligibile anche a chi militante non è.

La Scintilla di Cristiano ArmatiTrattare delle occupazioni a scopo abitativo può voler dire infilarsi in un terreno scivoloso. Infatti questo è un argomento quasi totalmente schiacciato dalla narrazione tossica del mainstream. La nostra stampa, ed i media in generale, fanno a gara a chi più riesce a soddisfare le esigenze dei poteri forti e, dietro l’emergenza abitativa nelle nostre metropoli, i poteri forti ci sono eccome. Così l’occupazione di spazi vuoti lasciati volutamente e scandalosamente marcire dalla lobby dei palazzinari per i media diventa racket; gli alloggi pubblici strappati al degrado e l’incuria diventano case popolari tolte ai legittimi proprietari: praticamente, per dirla come l’autore, a sentire i talk show una vecchietta non può uscire di casa a prendere un caffè che i movimenti gli occupano la casa!

Quindi dobbiamo riconoscere a Cristiano anche il merito di aver scritto una contro narrazione chiara e scorrevole della storia del network Abitare nella Crisi e soprattutto della sua espressione romana autodefinitasi come Movimenti per il Diritto all’Abitare, di cui egli stesso è protagonista di primo piano.

La narrazione si snoda su due livelli che si intersecano: quello teorico-politico e quello della descrizione vera e propria della azione diretta che coglie con nitidezza quella che è stata una grande stagione di lotte per la casa nel biennio 2013-14. D’un fiato si leggono le pagine che raccontano lo Tzunami Tour, l’ondata di occupazioni contemporanee a scopo abitativo che i movimenti romani lanciano il 6 dicembre ’12 e che proseguirà per tutto il biennio successivo. Occupazioni che daranno il via a ad un eccezionale periodo di lotte dal basso che, coagulandosi attorno al diritto all’abitare, si salderà in una piattaforma di rivendicazioni socialmente avanzata: reddito, lavoro, istruzione, salute sintetizzati in un celebre slogan: “una sola grande opera, casa e reddito per tutti”.

La critica al “sistema crisi” elaborata dagli ambienti romani trova la sua corrispondenza anche nel resto del paese ed in particolare nella valle che resiste al TAV. Da questo, e dalla constatazione che solo attraverso l’unione delle lotte dal basso di precari, migranti, movimenti contro le devastazioni ambientali, disoccupati e senza casa sarà possibile agire il cambiamento nella società, nasce quella spinta che porterà alla grande manifestazione del 19 ottobre 2013 ed alla successiva accampada dei movimenti di lotta per la casa a Porta Pia. Sotto la parola d’ordine di “assediamoli” sfilano centinaia di migliaia di corpi che chiedono a gran voce un cambiamento radicale del paradigma di sviluppo. Per dire basta ad un capitalismo che favorisce pochi e si accanisce ferocemente sugli ultimi della catena sociale. Dalla tenacia di chi ha resistito per giorni accampato a Porta Pia ne scaturisce un incontro con l’allora ministro Lupi che, davanti alla rabbia sociale, come sempre sortisce solo promesse vuote e solite arroganti frasi di circostanza. Tra l’altro di lì a breve sarà ancora una volta chiaro da che parte sta la politica: lo stesso ministro Lupi (che poi si dimetterà sotto il peso delle inchieste giudiziarie) darà il nome ad un famigerato decreto del renziano “piano casa” che all’articolo 5, come per prendersi beffe dei movimenti per la casa, sancisce la guerra ai poveri: “Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi”. Quindi si staccano le utenze a chi per sopravvivere ha recuperato qualche palazzina fatiscente e gli si nega ogni diritto civile (ad esempio la possibilità di mandare i figli a scuola) privandoli della residenza anagrafica. Chapeau!

Questo e molto altro c’è ne “La Scintilla”, edito dalla Fandango Libri, ora sta a voi leggere e diffondere…

Via chissenefrega numero qualchecosa

Sono gli ultimi giorni d’agosto e se non sono le vacanze (c’è la crisi, chi è che va più in vacanza?) è il caldo che ci pensa. In ogni caso per Roma è una tregua. O almeno sembra…
Cammino per i marciapiedi vuoti cercando un punto di riferimento diverso dalle cicche spiaccicate, uniche testimoni di qualcosa che pure deve esserci stato, qualcosa che abbiamo sempre chiamato “vita”.
Faccio il giro dell’isolato – i bar sono chiusi, i parcheggi vuoti – e lo penso sul serio: “E se fossero tutti morti?”.
Il tempo di svoltare l’angolo. Poi, con le gambe larghe, la bocca spalancata e un paio di occhiali con le lenti scure, un vecchio se ne sta immobile in mezzo alla strada. Forse vuole attraversare e il silenzio assoluto che si respira nel quartiere gli ha portato via qualunque punto di riferimento, rendendolo incapace di agire e di pensare. Sui pantaloni marroni, una chiazza scura gli si arrampica sulle gambe per andare a formare un lago all’altezza dell’inguine. Non saprei come aiutarlo e vado avanti: “No, non sono tutti morti. Non ancora…”.
In realtà, proprio come il vecchio, neppure io so bene cosa fare: l’edicola – dice un cartello giallo – riaprirà il primo di settembre; inutile pensare di arrivare al parco per leggere il giornale: “Nel mare di Sicilia”, ci avrei trovato scritto, “quattromila persone stipate su tre barconi alla deriva sono state tratte in salvo dalla guardia costiera. Mentre i profughi saranno ospitati in strutture di prima accoglienza, si procede con la schedatura…”.
Immagino l’inchiostro sui polpastrelli di uomini, donne, bambini. Gli stessi che alla frontiera con la Macedonia, intanto, vengono manganellati a sangue, inseguiti per i campi, respinti a forza di gas lacrimogeni…
Con le mani in tasca, assorto in simili pensieri, torno alla realtà per colpa di un cicalino: un suono inconfondibile che mi allerta e mi scuote, nemmeno fossi una cazzo di gazzella che nella savana sente la puzza del leone sottovento.
Il cicalino suona ancora, mi volto e la vedo. La volante della polizia che procede a passo d’uomo, i finestrini aperti e la radio sintonizzata sulle frequenze riservate. Dentro, come è d’uso, ci sono due agenti, impegnati a scrutare i muri in cerca evidentemente di qualche indizio. Ma certo. La targa con il nome della via: impressa nero su marmo ed esposta in bella vista. Via chissenefrega numero qualchecosa. Gli uomini in divisa la vedono, quindi accostano, parcheggiano e scendono. Evidentemente sono arrivati dove volevano essere: in via chissenefrega, appunto. Dove ci sarà chi hanno ricevuto l’ordine di controllare mentre, con le mani distese lungo i fianchi, molto vicino al posto in cui portano appesa la pistola, ancheggiano nel caldo che, rimbombando sull’asfalto, alle guardie non deve fargli per niente bene dentro la testa.
Le caserme, gli ospedali, i tribunali e tutti quelli che ci girano intorno, si sa, non hanno mai promesso niente di buono… ma sperando sempre di averci a che fare il meno possibile nella vita, per quale motivo simili individui hanno pure il mio indirizzo?
Via chissenefrega numero qualchecosa… ma io già lo so dove abito, perché allora dovrebbe essere così facile rintracciarmi?
Nervoso, aumento l’andatura. Incerto se tornare a casa o continuare a camminare finché la strada non sia costretta a lasciare un po’ di spazio ai campi. Come accade sul confine tra Grecia e Macedonia, dove il potere di lasciare vivere o fare morire è affidato a uomini in divisa uguali a quelli che ho appena incontrato. Certamente rispetto alla città in cui vivo da quelle parti le cose sono molto più pericolose e quindi giù botte. La polizia è sempre più nervosa se ha a che fare con gente che non è stata ancora costretta a subire la pratica della schedatura di massa. Per tutti gli altri c’è sempre un indirizzo e magari persino un nome sulla cassetta delle lettere, quindi perché preoccuparsi? Non abitate anche voi in via chissenefrega numero qualchecosa?
Quando lo vorranno sapranno benissimo dove venirvi a cercare.

Teatro di Paglia: Lettere dalla Strada a Guglionesi (Campobasso)

Teatro di Paglia

GUGLIONESI (Campobasso), 14 e 15 agosto 2015: il Teatro di Paglia sbarca per il terzo anno consecutivo nel comune molisano e, fedele al mandato di questo network artistico-culturale, auspicando l’avvento di “un teatro di grano, un teatro come pane quotidiano”, Contrada Castellana sarà occupata da tanta passione e da grandi spalti, ovviamente costruiti utilizzando unicamente balle di fieno come materia prima.

Lettere dalla StradaTra gli ospiti della rassegna, i LETTERE DALLA STRADA, che approfitteranno della due giorni di Guglionesi per presentare alcuni pezzi inediti e aggiungere così nuove storie di vita vissuta al loro reading per voci sole e chitarra combat rock.

Dicono che era un sorriso

Dicono che era campagna
quella terra bassa
dove ti portavano con un furgone
pieno di braccia,
nessuno ha mai visto la tua faccia
neppure adesso
che su quella terra sei morta.

Dicono che era mare
quella distesa immensa di acqua
che ti ha mangiato vivo
che ti ha strappato il respiro,
i tuoi sogni, adesso, non hanno più colore
perché nel posto dove sei
la gente non ha nome.

Dicono che era legge
anche quella divisa
dicono che l’hai derisa
e che non ti devi lamentare,
la pallottola che hai preso nella schiena
sei stato tu
che te la sei andata a cercare.

Dicono che era uno sfratto
perché così si è deciso
c’è la forza pubblica che aspetta
perché giustizia sia fatta,
ma la vergogna era troppa
così in quella corda
hai infilato la testa.

Dicono che era lavoro
quella fabbrica e quel cantiere
con le ciminiere
alte fino al cielo
che volevi assaltare
quando hai capito
che servono le ali per provare a volare.

Dicono che era un sorriso
quello che vi ha seppellito
ma che appartiene al padrone,
a cui non è mai stato reso
il vostro coraggio
a cui non è mai stato reso
il nostro dolore.

*

TARANTO: Bracciante 49enne morta sotto l’afa come Mohamed

RAPPORTO OIM: Già oltre 2000 morti in mare nel 2015

NAPOLI: Un ragazzo di 16 anni è stato ucciso da un colpo sparato da un carabiniere

CASALECCHIO DI RENO: 53enne si impicca alla vigilia dello sfratto

INCIDENTE SUL LAVORO: Operaio 65enne muore a Gela

Quando i poeti

Quando insegneremo
alle pietre a volare
tra le mani dei bambini
ai bordi delle strade,
quando le canzoni
cacceranno la fame
dalla bocca di tutti
con le rose e con il pane,
quando il sangue
tornerà a essere nuovo
come il desiderio
che ci fa chiamare uguali,
quando la storia
andrà come deve andare
cancellando la colpa
del peccato originale,
verrà finalmente il mondo
e il tempo della gioia
quando anche i poeti
impareranno a lottare.

Buttati giù, Zingaro: la storia di Johann Trollmann, Tull Harder e della mancata epurazione dei nazisti in Germania

Buttati giù, zingaroS’intitola Buttati giù, zingaro, eppure il libro di Roger Repplinger (Edizioni Upre Roma, 292pp, 12 euro) è molto di più di una biografia dedicata a uno dei più forti mediomassimi della storia del pugilato tedesco. La ricerca di Repplinger, infatti: riesce a mettere in parallelo quella che è stata la nascita e la diffusione sia della boxe che del calcio in Germania; analizza il modo in cui, partendo dal basso il pugilato e allargando il novero dei suoi praticanti da ciò che fu un’originaria élite borghese il calcio, questi sport divennero un fenomeno di massa, rappresentando il terreno ideale per la propaganda nazionalista e, presto, nazista; offre un contributo importante alla storia del “porrajmos”, l’olocausto sinto e rom, e costruisce un discorso in cui l’abominio hitleriano conosce un nuovo – e quanto mai necessario – atto di accusa a partire dalle vite sia del pugile sinto Johann Trollman che del calciatore “ariano” Tull Harder: esistenze a proposito delle quali il punto di contatto offerto dalla pratica sportiva non può che rafforzare quella differenza insanabile che separa le vittime dai loro carnefici.

Cercando di procedere con ordine, le prime pagine di Buttati giù, zingaro hanno a che fare proprio con un campo di calcio. O meglio, con un piazzale sul quale, in quel di Braunschweig, in Bassa Sassonia, un pugno di adolescenti di buona famiglia si dannano a rincorrere un pallone di cuoio, l’ingrediente principale dell’Association, come ancora ai primi del Novecento veniva chiamato in Germania il gioco del calcio. Il debito linguistico, evidentemente, è nei confronti dell’Inghilterra e della sua «Football Association», patria di un pallone che, in terra tedesca, trova proprio a Braunschweig uno dei territori più fertili, considerando che qui una prima squadra cittadina gioca partite di pallone già nel 1874.

Mentre la Federcalcio tedesca (DFB) vedrà la luce nel gennaio del 1900, è proprio l’origine inglese dello sport a rappresentare uno dei maggiori ostacoli alla sua diffusione. In tempi di montante nazionalismo, infatti, tutto ciò che proviene da Oltremanica viene guardato in modo a dir poco con sospetto. E il calcio, in modo particolare, con la sua connessa violenza di calci e colpi di testa da esibire di fronte a un pubblico incline a rumoreggiare selvaggiamente, viene visto come l’antitesi della ginnastica, cioè l’unica pratica sportiva, rigorosamente non competitiva, atta a esaltare gli ideali di sobria compostezza reputati connaturati ai valori del patriota tedesco.

Insieme al discorso ideologico, il calcio è ostacolato da problemi di ordine materiale. Per comprarsi maglia, calzoni, calze e scarpini, un operaio specializzato ha bisogno di investire una settimana di stipendio e non avrebbe ancora comprato il prezioso pallone di cuoio con la camera d’aria interna, da ungere di grasso a lungo se si vuole sperare di ottenere qualche rimbalzo.

Il giovane Tull Harder, da questo punto di vista, potrebbe permettersi ben più di un pallone. Eppure il benestante signor Fritz, suo padre, punisce severamente le partite clandestine giocate dal figlio attaccante, dispensando con generosità frustate su frustate e vedendo nella pratica dell’Association una sorta di tradimento al buon nome del Kaiser e a quello della Germania.

Sempre in Bassa Sassonia, un altro ragazzino inizia ad alternare le scorribande per le strade dei quartieri popolari alla fascinazione sportiva. Si chiama Johann Trollmann, ma genitori e fratelli usano per lui il nome «Rukeli» che, in romanes, potrebbe essere tradotto come «alberello». Merito della folta chioma nera e, soprattutto, di una struttura fisica forte e slanciata, una qualità che il giovane Trollmann non mancherà di mettere a frutto iniziando a frequentare una delle prime palestre di pugilato. Uno sport che, a differenza del calcio, non richiede agli atleti investimenti iniziali, essendo che i pugni ognuno se li porta da casa, anche se, come il football, sconta di fronte all’opinione pubblica conservatrice la stessa «colpa» di non poter essere considerato di origine tedesca. Anzi, quantomeno a causa di una pratica che richiede di mettere allo scoperto il corpo molto di più di quanto già non facciano le braghe dei giocatori di pallone, la boxe finisce nello stesso calderone razzista in cui i buoni borghesi di puro ceppo germanico infilano i marinai statunitensi e la loro musica jazz, come la boxe considerata foriera d’istinti bestiali e passionalità di bassa lega.

Presto, in ogni caso, le cose sarebbero cambiate tanto per il calcio quanto per la boxe. Il gioco del pallone, a caccia di popolarità, si mette a disposizione dell’incipiente militarizzazione e, in breve tempo, si «germanizza». Mentre s’inizia a parlare di fussball, e non più di football, le origini del gioco vengono rintracciate in certe vetuste pratiche degli antichi abitanti delle terre teutoniche e le reminiscenze inglesi spariscono. Quando, nel 1911, la DFB diventa una branca dell’ultranazionalista Lega della Gioventù Tedesca, per dire goal si usa il termine rete, il corner è diventato angolo e, il giudice di gara, si chiama arbitro, non più referee. Persino i ruoli dei giocatori non sono più gli stessi. Ora c’è il difensore, non il centre back, l’attaccante, non il centre forward, l’ala e non il wing forward: non semplici traduzioni, ma la resa linguistica di uno sport che trova nella similitudine con la guerra la sua ragion d’essere in Germania. E non certo a caso, nell’annuario della Federcalcio tedesca del 1913 si arriva a leggere: «Il tempo avanza con fragore di armi, con pugno d’acciaio distrugge tutto ciò che è diventato marcio e vecchio e concima con sangue e ossa la nostra terra per una nuova semina. Fanfare di guerra salutano il progresso che spinge in avanti la ruota del mondo. E tuttavia anche nel nostro Paese gli stupidi gridano: guerra alla guerra. Sarebbe pericoloso se il loro messaggio avesse successo tra il popolo. Rinunciamo al duro giudizio delle armi e di conseguenza saremo distrutti. Rallegriamoci se nella terra tedesca cresce nuovamente la voglia della lotta e diamo il benvenuto al più grande profeta di questa nuova epoca, lo sport».

Per il calcio, insomma, il dado della militarizzazione è tratto in fretta. E in fondo, già del 1909, ci aveva pensato Heinrich di Prussia, ammiraglio nonché fratello di Guglielmo II, a istituire il Deutschlandschild, campionato di calcio riservato alla marina imperiale. Con simili credenziali, per Tull Harder diventa molto più semplice inseguire la propria passione sportiva e, vinta l’opposizione paterna, il rampollo sassone può indossare la casacca dell’FC Hohenzollern e, già nel 1909, quella dell’Eintracht, prima di passare all’Amburgo, compagine di cui il centravanti sarà presto il giocatore più rappresentativo e la bandiera.

Nel 1914 Harder vede riconosciuto il proprio talento debuttando in nazionale e, grazie alle sue doti di decatleta, in un momento in cui lo specialismo non è la prima caratteristica della pratica sportiva, avrebbe persino potuto partecipare alle Olimpiadi se lo scoppio della prima guerra mondiale non avesse fatto saltare i giochi del 1916. Harder, allora, parte volontario per il fronte, rispondendo oltre che agli ideali con cui è stato educato anche alla chiamata proveniente dalla sua Federazione: «Addosso al nemico!», scrivono i funzionari del calcio tedesco rendendo esplicita l’equazione sport-nazionalismo-guerra. «In questa lotta infuocata dimostrate di essere veri sportivi, animati da coraggio, ardimento e ardente amore per la Patria. Attraverso lo sport siete stati allevati per la guerra, perciò addosso al nemico senza tremare».

Da parte sua, nato solo nel 1907, il pugile Johann Trollmann non avrebbe potuto cogliere il senso di simili parole. E se anche il piccolo Rukeli ha appena otto anni quando gli capita di affacciarsi in una palestra (semi-clandestina) di pugilato, in quel momento la boxe non potrebbe certo essere sventolata come un vessillo patriottico considerando che la sua pratica, fino al 1919, è addirittura vietata dalla polizia. Con la caduta del divieto, la prima palestra di Trollmann può trasformarsi in una vera squadra: la BC Heros Hannover. Era il 1922, due anni dopo la fondazione della “Federazione del Reich tedesco per la boxe amatoriale” ma con appena un anno di anticipo rispetto al tentato, e famigerato, putsch di Hitler, datato 9 novembre 1923. Il particolare è determinante non solo in senso generale, considerato che nel breve periodo di detenzione scontato dopo il fallimento del colpo di stato, l’ex caporale austriaco scriverà “Mein Kampf” esprimendo la sua incondizionata approvazione nei confronti del pugilato: «Se tutta la nostra spirituale alta società non fosse stata educata esclusivamente a raffinate regole di buone maniere, e avesse invece imparato a fare a pugni», sostiene Hitler, «non sarebbe mai stata possibile una rivoluzione tedesca di protettori, disertori e furfanti del genere».

Il vento che spirava sulla boxe, insomma, stava cambiando. Ma mentre Trollmann metteva a punto un approccio personale a questo sport, rivoluzionando uno stile pugilistico fino a quel momento rigido e legnoso con tecniche che in futuro si sarebbero potute ammirare nuovamente nel repertorio di un Muhammad Alì, il pugile capace di «danzare come una farfalla e colpire come un ape», il nazionalismo si impossessava anche nel ring, arrivando a parlare di un “pugilato tedesco” che, naturalmente, non è certo ben disposto ad accettare i trionfi di Rukeli, non più un grande campione, ma soltanto uno «zingaro» agli occhi dei nuovi fanatici della purezza della razza.

«Se una disciplina sportiva deve servire all’addestramento militare, all’educazione paramilitare, non può in nessun modo essere “giocosa”, “piacevole”, o soltanto “divertente”», si tuona nel volume La boxe fondamento dello spirito di lotta (1935). Perché: «Lo Stato popolare non ha il compito di allevare una colonia di esteti pacifici e di degenerati fisici. Non ritrova il suo ideale di umanità in piccoli borghesi per bene o in vecchie vergini virtuose, ma nella pugnace incarnazione della forza virile».

Grazie a questa nuova impostazione, il pugilato, da disciplina negletta, diventerà obbligatorio nella scuola di Hitler, mentre a Trollmann servirà a poco vincere incontri su incontri, né, a salvarlo, potrà essere la sua scelta di entrare – alla ricerca di una maggiore tutela – nel Boxclub Sparta Linden, affiliato alla “Lega degli atleti lavoratori tedesca” (AABD), la federazione dello sport popolare che, in quegli anni, rifiutava qualunque contatto con la controparte borghese anche se, proprio come la Federazione imperiale, si opponeva al professionismo.

Trollmann, in realtà, diventa professionista nel 1929, radunando un folto pubblico di ammiratori, incantati, in un periodo in cui gli incontri di boxe tendevano a ridursi a un testa contro testa condito da un diluvio di pugni ai fianchi, dal suo modo di combattere imprevedibile, pirotecnico e, al tempo stesso, terribilmente efficace. Sarebbe stato proprio grazie a questo stile che, il 9 giugno del 1933, Trollmann, insieme ai suoi 71,3 chili di peso, riesce a surclassare il beniamino dei sostenitori del “pugilato tedesco”, Adolf Witt, ammesso a combattere per il titolo dei pesi medi malgrado un peso di 77,9, di molto superiore ai 72,574 fissati come limite della categoria. Trollmann è incontenibile, ma il razzismo non conosce neppure il limite della decenza, malgrado tutti i cartellini dei giudici assegnassero la vittoria al suo avversario è Witt a essere proclamato vincitore. Accade nella Bockbierbrauerei di Berlino, dove si sfiora il tumulto: i sostenitori di Trollmann minacciano di linciare i responsabili dello scandalo, così l’incontro, a posteriori, sarebbe stato annullato. A nessun costo, insomma, uno «gipsy», questo recitava la scritta che provocatoriamente lo stesso Trollmann recava stampata sui suoi pantaloncini, doveva poter vantare la vittoria del titolo di campione tedesco. Per Trollmann, già capace di sfidare i suoi detrattori nazisti comparendo completamente ricoperto di farina bianca nel corso di un incontro, è l’inizio della fine. Per sopravvivere deve accettare combattimenti improvvisati in luoghi sordidi, poi è la sua stessa vita a essere ogni giorno più a rischio. Il dramma incombe su Trollman come sui 130.000 sinti e sui 1585 rom che vivono in Germania durante l’ascesa di Hitler, giudicati egualmente «Zigeuner» dall’apposito “Istituto di ricerca sull’igiene razziale e sull’eredità biologica”. Ognuno di loro, è a malapena un numero. E il numero 9841 sarà quello che lo stesso Trollman riceverà nel 1942, quando viene arrestato e deportato nel lager di Neuengamme. È qui che succede un episodio che ha dello straordinario. Mentre le SS, infatti, riconoscono nell’internato il campione di pugilato, iniziandolo a usare come un fantoccio per i loro «allenamenti», all’interno del lager si muove un comitato clandestino: «Trollman», pensa André Mandryxcs, capo della resistenza interna, «deve essere strappato al divertimento dei nazisti». Il suo esempio è troppo importante per chi, anche nelle condizioni disumane del campo, si organizza per rispondere alla barbarie hitleriana. Grazie al coraggio degli uomini della resistenza, dunque, Trollmann è fatto passare per morto, scambiato con un altro prigioniero effettivamente deceduto e quindi trasferito in un altro campo, quello di Wittenberge. Ad aspettarlo, ancora una volta, ci sarà la maledizione di sapere usare i pugni. Perché sarà la colpa di mettere KO un feroce kapò ciò che, nel corso del 1944, costerà la vita al grande campione. Responsabile del suo omicidio, avvenuto a randellate, un individuo di nome Emil Cornelius: criminale di guerra responsabile di molte atrocità all’interno del campo, se la caverà con qualche anno di galera, tornando in libertà nel 1961. Una sorte non troppo diversa da quella a cui, nel dopoguerra, andarono incontro gli innumerevoli nazisti con le mani sporche del sangue versato da milioni di ebrei, sinti, rom, omosessuali, oppositori politici.

Tra i criminali graziati a vario titolo dal tribunale di Norimberga e, quindi, dalla mancata denazificazione della Germania, anche il centravanti Tull Harder: perché è proprio nel campo di Neuengamme che le sorti opposte del pugile e del calciatore s’incrociano nell’indifferenza del massacro in corso. Mentre Trollmann, infatti, è solo un prigioniero tra i tanti, Harder, di professione assicuratore dopo una lunghissima carriera e la consolidata nomea di «gloria del calcio tedesco», fa parte di quella generazione convinta di dover addossare a un “nemico interno” la responsabilità della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale. Ed è, in effetti, un simile sentimento a spingere Harder ad arruolarsi nelle SS e, quindi, con il grado di Untersturmführer, a diventare comandante del lager in cui Trollmann si trova recluso.

Come tutti i nazisti, interrogato sulle sue responsabilità dai giudici di Norimberga, Harder si limiterà a balbettare di avere soltanto «obbedito agli ordini»… avessero avuto, simili individui, un briciolo della dignità e del coraggio dimostrato da un André Mandryxcs! Ma anche solo pensare di paragonare il sangue degli eroi alla squallida subumanità degli aguzzini è un insulto. Mandryxcs avrebbe trovato la morte nel corso di un bombardamento alleato quando la guerra era prossima a concludersi, Harder sarebbe stato invece arrestato nel 1945. Nel corso del processo tenterà di far valere il suo curriculum sportivo, le sue quindici presenze in nazionale e anche l’aiuto prestato durante la guerra a un ex arbitro ebreo. Condannato a quindici anni, sarà liberato già nel 1951, e, come scrive l’autore di “Buttati giù, zingaro”, Harder: «In occasione della sua presenza alle partite dell’HSV viene festeggiato dallo speaker e festeggiato dagli spettatori. (…) Riprende il suo lavoro con le assicurazioni e vive a Bendestorf. Il suo reddito è buono, riceve anche una pensione dallo Stato come ex Untersturmführer delle SS, a differenza dei sinti e dei rom che sono stati internati nei campi di concentramento. I tribunali tedeschi hanno stabilito che gli “zingari” non sono stati perseguitati dai nazionalsocialisti per ragioni razziali ma venivano deportati come criminali».

Un’amarezza sconfinata. Mitigata appena da un atto dovuto. Nel dicembre del 2003, infatti, i discendenti di Trollmann ricevono dalla Federazione una cintura da campione, mentre Rukeli si vede ufficialmente assegnare il titolo dei mediomassimi che gli era stato sottratto nel 1933. Ma se il combattimento di Trollmann, alla resa dei conti, può essere considerato un match lungo settant’anni, quello che oppone la verità e la giustizia alla volontà di cancellare con un colpo di spugna la storia nera del nazismo e del fascismo è ancora in corso. E troppi, ancora oggi, restano i debiti che non sono mai stati saldati.

Abusi in divisa e fascismo: due facce della stessa medaglia

Abusi in divisa e fascismo

LARI (Pisa), domenica 16 agosto: Alle 18, nell’ambito della Festa Rossa (Parco Sandro Pertini), Cristiano Armati, Emilio Quadrelli e Checchino Antonino, insieme all’associazione ACAD, si confrontano sul tema “Abusi in divisa e fascismo: due facce della stessa medaglia”.
Al centro del dibattito, la repressione, considerata come strumento principale delle politiche contemporanee di controllo sociale.

Bevi troppi caffè, fumi troppe sigarette, scrivi troppe lettere

Bevi troppi caffè
fumi troppe sigarette
scrivi troppe lettere
e non ricevi mai risposte,
se chiudi gli occhi è peggio
perché poi ti svegli
tutto sudato
su un letto bagnato
da quel bambino
che non sei mai stato.

Ti chiedi come fare
a cancellare la colpa
per tutto quel male,
non capisci che è uguale
perché tanto non torna
il tempo presente
la libertà della mente
di chi gioca al presagio
battendo la sventura.

Ora,
ti resta la paura
di guardare nel vuoto
e non è l’ignoto
ma la certezza
che la mattina ti aspetta
una giornata
come minimo storta,
conosci la risposta

la tua bocca si apre
ma non dice basta,
consuma l’amore
insieme al terrore
che la morte non valga
questa fatica,
tu la chiami vita
però non credi all’inganno
e ripari quel danno
dove sempre ritorni.

Bevi troppi caffè
fumi troppe sigarette
scrivi troppe lettere
che neppure spedisci,
se non urli sparisci
e a fatica intuisci
come nulla vale
benedire le braccia
strette sui fianchi
delle piccole cose,

lasci agli altri le canzoni
che parlano di rose,
preferisci i lamenti
appena ascoltati
combatti una guerra
che non conosce alleati,
il tuo lavoro è sporco
puzza di inchiostro
imbevuto nel sangue
di troppe domande.

Non accetti la resa
preferisci lottare
e provare di nuovo
con la sigaretta in bocca
il caffè nella brocca
e una matita affilata
a tracciare su un foglio
alla luce del giorno
una strada diversa
dall’eterno ritorno.

Brescia: La Scintilla alla Festa di Radio Onda d’Urto

La Scintilla di Cristiano ArmatiBRESCIA, mercoledì 12 agosto: la XXIV edizione della Festa di Radio Onda D’Urto dedica alla casa e alle lotte dei movimenti per il diritto all’abitare la giornata di inaugurazione. Alle 20, presso lo spazio dibattiti “Patchanka”, Cristiano Armati presenta “La scintilla. Dalla valle alle metropoli una  storia antagonista della lotta per la casa”.

A seguire, dibattito sulle prospettive della mobilitazione contro gli sfratti, l’art.5 e in difesa delle occupazioni abitative. Interverranno: Rete nazionale Abitare nella crisi, Roma si Barrica, Social Log Bologna, Assemblea sociale per la casa di Venezia-Mestre-Marghera, Comitato abitanti di San Siro – Cantiere di Milano, Assemblea anti-sfratti “Diritti per tutti”, Magazzino 47, Collettivo gardesano autonomo.

L’accumulazione del Capitale e il mancato trionfo degli ebook: una riflessione

Ormai è ufficiale, avrebbero dovuto fare ai libri di carta quello che il motore a scoppio ha fatto ai cavalli, eppure persino nel florido mercato statunitense gli ebook sono costretti a registrare una crisi di vendite (- 2,5%) rimandando a tempi incerti il loro trionfo. Ma potrà mai davvero arrivare questo trionfo?
La risposta è dubbia, perché se si riflette sulle modalità storiche di affermazione dei vari supporti atti a diffondere immagini e parole si resta colpiti da un’insospettabile costanza. Prendiamo la fotografia, quando venne inventata l’arte di scrivere con la luce non ci fu neppure il tempo di mettere a punto il sistema di sviluppo che iniziarono immediatamente a circolare le prime immagini pornografiche. Con il cinema successe la stessa cosa; e se il primo film venne girato dai fratelli Lumière nessuno dice mai chi girò il secondo, anche vista la necessità giuridica di mantenere l’anonimato. Arrivando ad anni più vicino a noi, dal Super8 fino alla diffusione delle videocasette con l’avvento del VHS, per ogni filmino di compleanno realizzato in famiglia, presso quelle stesse famiglie di pellicole hard ne venivano guardate molte, moltissime di più (da lì le numerose gag della serie “ora guardiamo la videocassetta della comunione di ciccino”, e invece una volta premuto play venivano fuori le scene di “Biancaneve e i sette metri” e altri classici). Vogliamo parlare dei cellulari? Persino quando avevano a malapena un display era possibile accedere a fotografie hot, mentre le linee erotiche si sprecavano realizzando fatturati incredibili. A meno che non si desideri citare le PayTv, immediatamente pronte ad offrire canali di sesso esplicito sin dai primordi della loro apparizione. Del computer inutile dire, tutto il circo di Internet è stato costruito e tuttora si fonda sui fatturati dell’industria del porno. In realtà si può tranquillamente sostenere che o c’è il sesso dietro l’accumulo di capitale necessario per varare una nuova tecnologia o quella tecnologia avrà grossi problemi ad affermarsi. E per sesso intendo quello vero: tette, culi e cazzi in tutte le combinazioni possibili e immaginabili; pornografia dura e pura, non le pippette erotiche dei romanzetti pseudorosa che ogni tanto sfondano la barriera dei milioni di copie vendute, ma una sistematica produzione pornografica che, nel suo insieme, surclassa le performance di qualunque prodotto culturale, costruendo le basi affinché anche questi ultimi possano essere fruiti da quella manciata di pervertiti che vogliono, non so, guardarsi “L’Aida” in streaming anziché approfittare h24 della copiosa abbondanza di Youporn. Ora, se pensiamo agli stessi libri, non si può certo sostenere che la carta stampata non abbia dato il suo bel contributo alla diffusione della pornografia. Al contrario, nelle edicole vendono ancora i “romanzi proibiti” nelle collane degli anni Settanta, tempo in cui si affermava anche in Italia un’industria culturale di massa. Poi sono arrivati gli ebook e… dove hanno lasciato la possibilità di un lato oscuro che la massa pratica con costanza anche se raramente questa stessa massa porta i suoi gusti alla luce del sole? Perché gli ebook titillano le glorie effimere dell’autopubblicazione, offrono la possibilità di aprire canali per la letteratura scientifica e specialistica, danno l’opportunità di creare opere letterarie multimediali o di ammortizzare le produzioni mainstream utilizzando un nuovo canale ma non alludono mai, come hanno fatto tutti i media culturali dai papiri fino al web, alla possibilità di aprire una porticina rossa e luccicante dove, dietro la scritta “vietato ai minori”, si cela il mondo degli oggetti pornografici. Si potrebbe affermare di avere a che fare con la natura del capitalismo… ma anche che è per questo che la possibilità per gli ebook di conquistare quote di mercato a doppia cifra sia, in realtà, tutt’altro che scontata.